Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2016
IL DNA DEGLI ITALIANI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
QUELLO CHE NON SI DICE
LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Vittorio Emanuele sul 2 giugno: "Il referendum 1946 fu incompleto". Il figlio di Re Umberto II attacca: "Molti italiani non poterono votare, ma mio padre dimostrò responsabilità nonostante De Gasperi si proclamò Capo dello Stato con un colpo di mano", scrive Ivan Francese, Giovedì 02/06/2016, su "Il Giornale". Secondo Vittorio Emanuele di Savoia il referendum del 2 giugno 1946, con cui l'Italia divenne una repubblica, non sarebbe stato "completo". Perché - e questa è verità storica - in alcuni territori dell'allora Regno d'Italia non fu possibile votare e perché a molti connazionali prigionieri all'estero non venne permesso l'accesso alle urne. Il primogenito di Re Umberto affida ad un messaggio rivolto "a tutti gli italiani" la sua amarezza in occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana. Non si votò, ricorda il principe, "in alcuni territori italiani ancora non del tutto liberi ed al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora in campi di prigionia all'estero." Inoltre Vittorio Emanuele elogia il senso di responsabilità del padre, quando "il consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, con un colpo di mano, nominò lo stesso Capo Provvisorio dello Stato". Il Re, "dopo un mese di regno, desiderando una piena legittimazione che gli permettesse di traghettare la Nazione in una rinascita al termine delle dolorose esperienze della guerra, prima della consultazione dichiarò che se la Monarchia non avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, avrebbe indetto un nuovo Referendum. In quei giorni ed in quelle ore di tensione Egli mantenne un alto senso di responsabilità per le sorti del Paese ed una terzietà che il mondo gli ha riconosciuto." Vittorio Emanuele, infine, vuole celebrare l'abnegazione del Re alla causa d'Italia, che lo portò a rinunciare alla Corona pur di salvare l'indipendenza della Patria: "Pur in assenza di alcuna imposizione, partì di propria volontà per un temporaneo esilio, al fine di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito, schierate sul confine orientale, decise ad intervenire in caso di vittoria monarchica. Un esilio durato, poi, per Lui tutta la vita, per me 56 anni e per mio figlio - nato 26 anni dopo il referendum - ben 30 anni".
«Sul Re Soldato c'è un pregiudizio antistorico», scrive Francesca Angeli, Venerdì 17/07/2015, su "Il Giornale". «Un divieto privo di senso». Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa si era impegnato personalmente per favorire il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III in Italia, in occasione del 150 anniversario dell'Unità d'Italia che cadeva nel 2011. Ma il tentativo si impantanò.
La Russa ritiene fondati i timori di Maria Gabriella di Savoia per la salma del Re Soldato?
«Si tratta di un rischio reale che forse finalmente riuscirà a smuovere le coscienze di chi ancora si oppone al ritorno delle salme dei Savoia, un veto antistorico che non ha più nessuna ragione di esistere».
Chi allora ebbe paura della sua proposta per il rientro delle spoglie?
«Prevalse la tipica pavidità italiana. La preoccupazione per eventuali polemiche da parte di chi non riesce a superare antichi pregiudizi ideologici che oggi suonano assurdi e ridicoli».
Perché ritiene sia doveroso riportare Vittorio Emanuele III in Italia?
«Vittorio Emanuele III è stato Re d'Italia, è una figura che appartiene alla nostra Storia, nella buona e nella cattiva sorte. Le disposizioni transitorie avevano allora un senso che oggi ovviamente non hanno più. Si temevano colpi di coda dopo le polemiche sull'esito del referendum. Ma ora non vedo ragioni plausibili per un simile veto. Certo non è criminalizzabile in sè l'istituto della monarchia e oggi tutti i risentimenti e le tensioni allora comprensibili dovrebbero essersi finalmente placati».
Sono molti i protagonisti del passato con i quali il nostro Paese fatica a chiudere i conti.
«Senza dubbio. A 70 anni dalla sua fine il fascismo è ancora un elemento centrale del dibattito politico. Io me ne stupisco sempre. C'è chi non perde l'occasione per paragonare il Pd attuale al partito fascista e il premier Renzi a Mussolini. Quando si apre questa polemica in Parlamento io intervengo e da “esperto della materia” tranquillizzò i timorosi: il Pd e Renzi non hanno nulla a che fare con Mussolini e il fascismo».
Quindi il nodo è quello? Il legame dei Savoia col fascismo?
«No. Lo stesso Benito Mussolini è stato seppellito in Italia. Posso capire si continui a a dibattere su un'ideologia ma francamente non capisco come si possa ancora dibattere una questione come il rientro di un uomo che fu Re d'Italia».
Se la salma fosse riportata in Italia pensa sarebbe giusto tumularla al Pantheon?
«Assolutamente sì. È quella la tomba della famiglia Savoia dove si trovano Vittorio Emanuele II e Umberto. Quando ero al ministero della Difesa feci questa promessa alla famiglia. Incontrai proprio davanti al Pantheon Vittorio Emanuele con la moglie, Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto e mi attivai per il ritorno della salma e la sua sepoltura. Mi sembrava giusto farla coincidere con i 150 anni ma purtroppo l'occasione andò persa».
Lancerebbe un nuovo appello?
«Potrei farlo soltanto se raccogliessi un consenso trasversale. Sono consapevole che una mia iniziativa in questa direzione altrimenti verrebbe subito strumentalizzata».
Sapevate che da noi ci fu un genocidio? La tesi di Pino Aprile nel nuovo libro «Carnefici» Viaggio in un Risorgimento crudele e feroce tra idee e commenti, scrive Lino Patruno il 2 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ora la conferma: fu genocidio. Sappiamo cosa avvenne qualche anno fa, quando Pino Aprile lo scrisse per la prima volta nel suo libro bestseller Terroni sull’unità d’Italia. Una sollevazione della casta accademica che tentò di ridicolizzarlo perché addirittura parlò di metodi nazisti ai danni del Sud. Ma che dice, come osa. Ora non solo lo ripete. Non solo titola esplicitamente il suo nuovo libro Carnefici (Piemme, pag. 465, euro 19,50). Ma ci aggiunge tutte le prove. Aggiunge cioè quanto nessuno storico di professione si è finora degnato di cercare ma che c’era. E che getta una luce ancòra più cupa e inquietante su quel Risorgimento accompagnato da tante trombe ma da poca verità. Un lavoro improbo, come era prevedibile e come dimostrano le pagine sofferte anche per il lettore tra una mole immane di documenti. Perché non è che tu vai alla caccia di qualcosa di molto compromettente e indegno per i vincitori e lo trovi così. Fra archivi reticenti allora e più inaccessibili di Fort Knox ora. Fra manomissioni, cancellazioni, alterazioni, reticenze per camuffare quella che fu fatta passare per una liberazione del Sud quando fu invece una feroce occupazione militare. Con sprezzo di ogni rispetto dei diritti umani. E l’aggravante che avveniva non contro un nemico ma contro un popolo altrettanto formalmente italiano. Bisognava fare l’Italia, è vero. Ma per farla, secondo Aprile, l’odio e l’arbitrio andarono ben al di là di ogni raffronto tranne quello, appunto, del nazismo. Perché centinaia di migliaia di italiani del Sud furono fucilati, uccisi, incarcerati, deportati, torturati oltre che derubati. E le cifre dicono che non fu solo lotta al brigantaggio. Ma un metodo applicato sempre e ovunque. Una unità nata in un dolore che non risparmiò nessuna famiglia meridionale. Che è rimasto nella loro vita come un sottofondo che le segna ancòra oggi. E che svela un segreto terribile per un Paese che non ha voluto finora aprire la porta della sua stanza della vergogna. Dal 1765 alla sua caduta, nel Regno delle Due Sicilie la popolazione era sempre cresciuta. Negli ultimi cinquant’anni, di 50mila l’anno. In sei anni fra il 1862 e il 68, invece, i morti superarono i nati. Ma il dato più impressionante è che mancano all’appello di qualsiasi censimento e di qualsiasi conto incrociato non meno di 600mila persone (un milione secondo la rivista Civiltà cattolica): che fine hanno fatto? Una su dieci. Come se fossero scomparse le attuali città di Bari, Taranto e Brindisi. E, fatte le proporzioni, come se oggi sparissero dal Sud 2 milioni di abitanti. Non c’era ancòra in quegli anni l’emigrazione che fu l’unica alternativa alla miseria un paio di decenni dopo. Non erano morti di brigantaggio né di scontri militari conosciuti. Quei 600mila furono fatti sparire. Non può essere altro, scrive Aprile, che la somma di ciò che non si è mai saputo: arbitrarie stragi segrete, fucilazioni non registrate, finiti di stenti in carcere senza che se ne seppe più nulla, svaniti in campi di concentramento senza lasciare tracce, volatilizzati in sconosciuti luoghi di deportazione. O scomparsi per suicidi indotti dalla disperazione. Compresi quei 5mila militari all’anno dichiarati morti per misteriose cause indipendenti dal servizio, poco meno di tutti gli italiani vittime nelle guerre di indipendenza. E’ stato questo il prezzo della cosiddetta liberazione. Del «supremo bene» della nuova patria senza neanche il coraggio della verità. Desaparecidos come nelle più atroci dittature contemporanee. Ma senza una plaza nella quale le madri li potessero invocare. E senza una sanzione per i responsabili anzi onorificenze per il buon lavoro fatto. Un genocidio, insiste Aprile, se genocidio è lo sterminio di massa pianificato da uno Stato. Se genocidio è la cancellazione di una economia, di una cultura, di una gente e della sua colpa di appartenere a un gruppo nazionale diverso. Quando ci si poteva arrivare senza il «necessario dolore» se non fosse stata anche una non necessaria umiliazione di sangue e di disprezzo per i vinti. Ai quali poi si è inferta l’ulteriore condanna del silenzio. Così le tombe di chi vinse sono archi di trionfo. E per gli sconfitti neanche un ceppo di ricordo. Ma si può fare la pace soltanto facendo la pace con la storia, la vera storia, come ha scritto lo scrittore turco Hasan Cemal memore del negato sterminio degli armeni da parte del suo Paese. La pace fondata sulla giustizia che ancòra manca in Italia. Anche perché prima o poi la storia racconta. E se non è la storia, come dicevano i nostri vecchi, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla. Un giorno, conclude Aprile, in uno o l’altro luogo del martirio, arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra o un fiore. E li lasceranno lì da soli, se gli italiani non volessero farlo insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto, e ogni fiore per ogni giovane vita andata. Per diventare poi nomi di strade e piazze, per avere una data sul calendario. Unico modo per rifare davvero l’Italia, per riparare al «supremo sacrificio» con cui non fu fatta allora.
Il Sud è una colonia interna: 32 domande per chi non ci crede, scrive Francesco Pipitone il 15 settembre 2014 su "Vesuvio On line". Questo non è articolo, non è un testo tradizionale in cui cerco di spiegare la mia visione di uno o più fatti, un insieme di parole atte a dimostrare una tesi. Leggerete una serie di domande rivolte a chi non ci ascolta, a chi ci liquida come raccontatori di frottole, di nostalgici di un tempo che è andato e non c’è più, un tempo dove il Mezzogiorno d’Italia era indipendente ed era fautore della propria sorte. L’Unità d’Italia era un passo da compiere, o forse no, non è questa la cosa essenziale: essa è avvenuta, inutile pensare a quale sarebbe la situazione odierna senza le azioni militari nell’allora Regno delle Due Sicilie, tuttavia dopo oltre 150 anni è innegabile che un’identità nazionale non ci sia, che non ci sia un popolo italiano veramente unito. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, è questa una delle frasi dove si scorge maggiormente il supremo errore, quello di voler manipolare alcuni milioni di persone e renderli un corpo unico, quello di aver fatto una nazione senza i propri abitanti – dovevano essere gli italiani a fare l’Italia, non il sangue. A prescindere dalle trame della storia, dal 1861 ad oggi l’operato delle classi dirigenti italiane via via susseguitesi hanno fatto scelte che hanno portato alla prosperità di una parte della penisola a scapito dell’altra e, come da titolo, ecco 32 domande (ma sarebbero potute tranquillamente essere di più) per chi non crede che il Sud sia una colonia interna:
1) Qual è l’area più ricca del Paese?
2) Dove sono più aeroporti?
3) Dove sono più treni?
4) Dove arriva l’Alta Velocità?
5) Dove sono più autostrade?
6) Dove funzionano meglio i trasporti pubblici?
7) Dove sono più scuole?
8) Dove vengono offerti più servizi ai cittadini?
9) Dove si trovano più asili nido?
10) Dove c’è meno disoccupazione?
11) Il Sud ha i due terzi delle coste italiane, perché non vengono costruite infrastrutture?
12) Emigrano di più i Meridionali o i Settentrionali?
13) Sapevi che prima dell’Unità il Sud non aveva mai conosciuto l’emigrazione come fenomeno?
14) In quale parte del Paese c’è una migliore copertura ADSL?
15) Dove hanno sede legale le maggiori imprese italiane?
16) Lo sai che il 94% di quello che spendi va al Nord?
17) Lo sai che più del 90% dei fondi della cassa per il Mezzogiorno è stato dirottato alle grandi aziende del Nord?
18) Quando si parla del Sud in giornali e TG nazionali, quali sono i temi affrontati?
19) Lo sai che prima dell’Unità Napoli era principale città italiana?
20) Lo sai che Garibaldi si pentì di aver conquistato le Due Sicilie?
21) Lo sai che secondo dati ufficiali, Milano, Roma, Torino, Bologna e Firenze sono più pericolose di Napoli? In questa classifica Napoli è 36esima, le altre città elencate sono tra le prime sette posizioni.
22) Lo sai che al Nord, secondo dati ufficiali, vengono fatti più incidenti stradali? Perché al Sud si paga molto di più per l’assicurazione?
23) Lo sai che la spazzatura della Terra dei Fuochi proviene quasi tutta dal Nord?
24) Lo sai che la Pianura Padana è la zona più inquinata d’Europa? Perché i Media non ne parlano come per la Terra dei Fuochi?
25) Lo sai che in Basilicata c’è il petrolio, viene estratto, e l’unica cosa di cui “beneficiano” i Lucani sono inquinamento e tumori?
26) Lo sai che vogliono trivellare l’Irpinia nonostante sia una zona altamente sismica, oltre a essere un punto cruciale dove scorre l’acqua che arriva nelle case di milioni di persone che abitano tre regioni?
27) Lo sai che anche in Calabria sono stati sotterrati rifiuti, e il disastro potrebbe essere maggiore rispetto alla Terra dei Fuochi?
28) Lo sai che in Basilicata si sono verificati dodici incidenti nucleari, e sono stati riscontrati livelli di radioattività simili a quelli di Fukushima?
29) Lo sai che a Gela, in Sicilia, la percentuale di neonati nati con malformazioni è almeno sei volte superiore alla media nazionale? È una zona di raffinerie come tutta la Sicilia, ma, guarda un po’, la benzina costa più che al Nord.
30) Hai mai sentito i media nazionali parlare dell’Ilva di Taranto e del gruppo Riva? Se sì, quanto approfonditamente?
31) Perché lo Stato Italiano ha posto il segreto, negli anni Novanta, sul disastro nella Terra dei Fuochi?
32) Ti bastano queste domande a farti riflettere, o sei ancora convinto che dire che il Sud è una colonia interna non abbia fondamento alcuno?
I Bersaglieri in festa a Palermo. E le centinaia di palermitani scannati nel 1866? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 29 maggio 2016. Certo che le autorità cittadine di Palermo non hanno molta memoria storica. Hanno invitato i Bersaglieri a festeggiare in città – non si capisce bene che cosa – proprio nell’anno in cui noi ricordiamo i 150 anni della ‘Rivolta del Sette e mezzo’, quando le truppe dei Bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna, per conto dei Savoia, repressero nel sangue una giusta rivolta contro i predoni piemontesi che stavano affamando la Sicilia. Dei bersaglieri ricordiamo anche le stragi di Genova e, soprattutto, la strage di Pontelandolfo e Casalduni. Dal 23 al 29 Maggio Palermo – oggi è l’ultimo giorno di questa ‘festa’ – con il coinvolgimento delle istituzioni locali, sindaco in testa ed autorità militari, tra sfilate, manifestazioni, esibizioni di fanfare, annulli postali, inaugurazioni di monumenti commemorativi e corse a passo di carica che hanno assordato la città, si è svolto il 64° Raduno Nazionale dei bersaglieri. Si tratta quegli stessi bersaglieri eredi e discendenti di quei militari che, nel 1866, esattamente 150 anni fa, in occasione della "Rivolta del Sette e Mezzo" (una rivolta puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale), uccisero centinaia di palermitani per conto di casa Savoia! Insomma, un bel modo per ricordare, a Palermo, la "Rivolta del Sette e mezzo!". Le cronache raccontano che, nel reprimere la rivolta, i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna – che nel nome del re galantuomo mise in stato d’assedio Palermo – attraversando a passo di carica la città e, con le baionette innestate, misero a ferro e a fuoco la capitale della Sicilia, massacrando ed uccidendo centinaia e centinaia di rivoltosi e quanti capitavano loro a tiro. Del resto, i nostri “eroi” bersaglieri non si comportarono meglio – anzi si comportarono peggio – quando, ancor prima dei fatti di Palermo del 1866, nell’Aprile del 1849, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, fondatore qualche anno prima del corpo, furono mandati dal re “galantuomo” a reprimere la rivolta di Genova che voleva rendersi indipendente dal Regno di Sardegna. In quell’occasione il corpo speciale dei bersaglieri fece di tutto e di più. “In quei drammatici giorni la soldataglia sabauda si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido: Denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni. Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. Così scriveva l’allora re di Sardegna, Vittorio Emanuele, per ringraziarlo, al comandante dei bersaglieri La Marmora: “Mio caro generale vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio”. I genovesi, che “i piemontesi non potevano fare di meglio”, se lo ricordarono e non dimenticarono per lungo tempo le barbarie, i saccheggi e le ruberie commesse dai fanti piumati a danno della loro città e avendo memoria di tutto questo fu per lungo tempo consuetudine che le famiglie genovesi non inviassero i figli a prestare servizio militare nei bersaglieri. Solo qualche anno fa i genovesi hanno consentito al corpo dei bersaglieri di potere mettere piede nella loro città. Ma quello che superò tutti in barbarie ed atrocità si verificò il 4 agosto del 1861, quando il generale Enrico Cialdini, sempre in nome del re galantuomo, si rese protagonista – insieme con il corpo speciale di Bersaglieri agli ordini del Maggiore Negri – della strage di Pontelandolfo e Casalduni, di due paesi della provincia di Benevento. Saprete certo quello che fecero i nazisti per rappresaglia nell’estate del 1944 a Marzabotto e Sant’anna di Stazzena definito dal mondo civile un crimine contro l’umanità. Ebbene, i bersaglieri di Cialdini a Pontelandolfo e Casalduni, per rappresaglia, fecero anche di peggio di quello che fecero i nazisti 83 anni dopo. I nazisti, in quel lontano Agosto del 1944, uccisero e massacrano gli abitanti di Marzabotto e di Sant’Anna lasciando però in piedi le abitazioni dei due paesi. I bersaglieri, a Pontelandolfo e Casalduni, dopo avere ucciso e massacrato tutti gli abitanti – uomini, vecchi, donne e bambini – non lasciarono alcuna abitazione in piedi bruciando tutte le case dei due paesi. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di risparmiarle) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate appunto come avevano fatto 12 anni prima a Genova i bersaglieri di Alfonso La Marmora. “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Così scriveva il maggiore Negri per rendicontare a Enrico Cialdini la conclusione dell’eccidio. E saranno poi i bersaglieri di Emilio Pallavicini a ferire sull’Aspromonte il “disubbidiente” Giuseppe Garibaldi nell’agosto del 1862 e a rendersi protagonisti, a loro volta, dell’eccidio di Fantina (un paesino della provincia di Messina) in cui furono trucidati senza pietà alcuni volontari in fuga dall’Aspromonte che avevano avuto la sventura di seguire il nizzardo. Non va dimenticata, in questo lungo corollario di orrori, la repressione della rivolta che va sotto il nome della “Rivolta dei Cutrara” effettuata a Castellammare del Golfo il 1 gennaio del 1862 dai bersaglieri del generale Quintino che, oltre a trucidare vecchi e donne, misero al muro e fucilarono una bambina di solo nove anni, Angelina Romano. E poi ancora che dire di un’altra strage dimenticata, compiuta dal corpo dei bersaglieri ad Auletta, un paese in provincia di Salerno, nel luglio del 1861, dove furono uccisi ed imprigionati centinaia e centinaia di cittadini. L’elenco delle stragi dimenticate in cui furono tristemente protagonisti i fanti piumati è molto lungo e potrebbe continuare. Per una maggiore e più puntuale informazione al riguardo vi rimando alla lettura del libro di recentissima pubblicazione di Pino Aprile che, nel descrivere e documentare gli eccidi che furono compiuti nel Sud del paese agli albori dell’Unità d’Italia e in cui i bersaglieri furono tristemente protagonisti primari, non poteva scegliere titolo migliore Carnefici – Ecco le prove. Ecco perché, alla luce di tutti questi eccidi e massacri perpetrati agli albori dell’Unità d’Italia e nel nome del re galantuomo, ai bersaglieri di oggi che ritualmente celebrano i loro i raduni, come in questi giorni a Palermo, mi sento di dare il mio sommesso consiglio: ossia quello di ritrovare la memoria dei crimini contro l’umanità commessi nel Sud e in Sicilia dai loro antesignani. Sarebbe a questo punto opportuno che, tra feste, celebrazioni, sfilate e commemorazioni trovassero pure il tempo di chiedere scusa per i tanti eccidi e crimini commessi in passato dal “glorioso” corpo dei bersaglieri. Iniziando a chiedere scusa alla città di Palermo che, come già ricordato, fu teatro, nel Settembre del 1866 della "Rivolta del sette e mezzo" dove furono commessi, al pari di altri paesi del Mezzogiorno, eccidi e massacri e dove in questi giorni di Maggio si svolge il 64° raduno dei Bersaglieri. Palermo aspetta ancora queste scuse.
Carnefici di Pino Aprile. Pino Aprile, giornalista, già vicedirettore di Oggi, e pugliese d’origine, ritorna ad un tema già affrontato in precedenza, quello del conflitto tra Nord e Sud. Con Carnefici, ritorna all’ultima pagina di Terroni in cui aveva spiegato ai lettori come centocinquant’anni non fossero stati sufficienti a risolvere il problema di un divario tra regioni del Nord e del Sud Italia. Ma se così è stato, è accaduto perché non si è voluto risolvere l’eterna questione meridionale: troppi interessi la caratterizzano da sempre. Le Due Germanie, pur divise da un muro, in vent’anni sono tornate ad essere una sola Germania. Perché in Italia questo non è accaduto? Partendo da questo grande interrogativo, Pino Aprile continua una fredda analisi della situazione. Carnefici è un’analisi di una sorta di rapporto di dipendenza che si è creato tra Nord e Sud, rendendo il meridione assolutamente succube del settentrione. Si diventa dipendenti dei propri carnefici e così è accaduto ad una parte d’Italia che non può far altro che fare la parte della vittima, mentre il Nord si diverte a prendere il ruolo di chi comanda, di chi lavora meglio e in modo più efficace. La verità non è questa, sono solo maschere che ci si abitua a portare. Questo ce lo ricorda Pino Aprile in Carnefici.
«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera. Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie. Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici. Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata. È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. "Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove". È il cuore di un celeberrimo atto d'accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul "Corriere della Sera". Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali". Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, "Terroni", che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un'incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l'ordine di grandezza che emerge dall'incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l'Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L'Italia "liberata" è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l'organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.
“Carnefici”: l’indicibile genocidio dei meridionali. Il nuovo libro di Pino Aprile, scrive Raffaele Vescera il 7 maggio 2016. Se le parole sono pietre, il termine genocidio è un macigno. Pesante da scagliare per chi lo lancia, difficile da digerire per chi lo riceve. Ancora più greve se la parola genocidio, come fa Pino Aprile nel suo nuovo libro “Carnefici”, viene usata per definire l’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Annessione, tale è stata, non unità, visto che gli stessi re sabaudi, conquistando il Sud con inenarrabili atrocità, si vantavano di aver allargato il Regno del Piemonte, piuttosto che aver fatto l’Italia. Allora, se di macigno si tratta, proviamo a dargli una misura, un peso: che cos’è un genocidio, e quando è consentito l’uso di questa parola? Perché lo sterminio degli Ebrei è stato immediatamente definito come un genocidio nella stessa Germania che l’ha compiuto, mentre quello degli Armeni, a distanza di un secolo, è ancora negato dallo Stato turco, che processa chi ne parla? La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori, se in Europa avesse vinto la follia di Hitler, lo sterminio di sei milioni di esseri umani, sarebbe stato sminuito, negato e rimosso dalla storiografia ufficiale, e i partigiani sarebbero ancora oggi chiamati “banditen”, come i resistenti all’occupazione del Sud, prima ai francesi e poi ai piemontesi, sono chiamati briganti, lazzari, sanfedisti, straccioni. Hitler ha perso, e per gli ebrei c’è giustizia storica. Gli Armeni hanno perso, e per il milione di Armeni sterminati in Turchia, non c’è verità. Pino Aprile c’informa che la definizione di “genocidio” si deve all’avvocato polacco Raphael Lemkin, la cui famiglia fu coinvolta nell’Olocausto, dai nazisti: si intende per genocidio un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». Il Mezzogiorno d’Italia in seguito all’occupazione violenta dell’esercito piemontese, subì tutto questo? Lo stesso Antonio Gramsci, un secolo fa, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Tuttavia, nonostante le significative dichiarazioni di alcuni tra i maggiori uomini di cultura, di ieri e di oggi, quali Paolo Mieli e altri, la storiografia ufficiale, gestita dai baroni universitari di scuola liberal-massonica, negano, seppure al loro interno molte crepe si siano aperte. La loro critica al cosiddetto revisionismo del Risorgimento, nel migliore dei casi, è quella dell’insufficienza di prove documentali sull’enorme numero dei morti di parte meridionale, da noi quantificato in centinaia di migliaia, nei peggiori dei casi parlano di “pura invenzione”, poiché, pur ammettendo un piccolo numero di morti in campo meridionale, le atrocità sarebbero state commesse da parte dei briganti, piuttosto che da quella piemontese. Come mettere sullo stesso piano chi difende la propria terra e un invasore straniero? Analizziamo le condizioni del genocidio definite da Lemkim. Il libero Stato delle Due Sicilie fu privato delle sue istituzioni politiche e sociali, sostituite non da nuove ma da quelle già in uso in Piemonte, lo stesso accadde per la sua economia, fu distrutto il tessuto industriale e mercantile del Mezzogiorno per favorire la crescita di quella del Nord. Altresì distrutta la cultura e la dignità dei Meridionali, che pur appartenendo ad un popolo faro di civiltà da tre millenni, si videro bollati dai conquistatori come selvaggi e incivili, letteralmente “peggio degli affricani”, con due effe, come gentilmente ci descrivevano gli arroganti e vieppiù incolti ufficiali piemontesi nei loro grossolani rapporti, e come tuttora siamo classificati con epiteti insultanti. Stesso disprezzo ha subito la nostra lingua e il nostro sentimento di appartenenza ad uno Stato, quello del Regno di Napoli, in auge da sette secoli, dagli svevi di Federico II alla dinastia dei Borbone, riconosciuto nel mondo come civilissimo, tenendo conto dei canoni del tempo, si capisce. Tutto questo è stato ampiamente indagato e dimostrato mediante vasta documentazione da storici ed economisti, lo stesso Pino Aprile ce ne dà conto nel suo best seller Terroni, un saggio che, nelle sue sconvolgenti rivelazioni sulle atrocità compiute dall’esercito piemontese in dieci anni di guerra di conquista del Sud, mascherata da guerra al brigantaggio, ha cambiato la stessa percezione identitaria dei Meridionali, favorendo un processo di autostima. Ma tutto ciò viene giustificato dai risorgimentalisti come il prezzo da pagare al “progresso” al nuovo mondo che avanzava. Chissà se la raccontano allo stesso modo agli indiani d’America sopravvissuti allo sterminio operato dai nostri “civilissimi” bianchi. Manca però l’ultimo passo, quello decisivo per giustificare l’uso della definizione genocidio, ovvero quello della privazione della salute e della vita degli individui, non in quanto colpevoli di qualcosa, ma perché appartenenti ad un gruppo nazionale. Al di là dei singoli episodi di atrocità compiuti contro i cosiddetti briganti e contro l’inerme popolazione, va dunque dimostrato che da parte sabauda vi fu un piano preordinato di sterminio. Il nuovo saggio di Pino Aprile “Carnefici” colma la lacuna con una poderosa mole documentale, rintracciata attraverso minuziose ricerche archivistiche, sui singoli episodi di sterminio ma soprattutto sugli scompensi demografici, risultanti dalla comparazione dei censimenti di prima e dopo l’unità d’Italia. Su una popolazione di poco più di sette milioni di persone, a distanza di pochi anni mancava all’appello quasi mezzo milione di abitanti, in tempi in cui nessuno emigrava dal Sud, cui va aggiunta la mancata crescita demografica, in una terra la cui popolazione cresceva regolarmente da sempre. Con i “nati mancati” Il numero dei “desaparecidos” sale a circa il dieci per cento della popolazione meridionale. E’ come se di colpo oggi sparissero dal Sud due milioni di abitanti. La seconda volta che vi fu decrescita della popolazione al Sud accadde a causa della prima guerra mondiale, combattuta più di tutto dai meridionali usati come carne da macello, combinata con l’epidemia spagnola. La terza volta è oggi, in virtù dell’avanzato stato di impoverimento e disoccupazione del Mezzogiorno. Certo, se si sommano i morti delle fucilazioni immediate “sul campo” ai paesi distrutti per rappresaglia con lo sterminio dei loro abitanti, anche donne, bambini e anziani, alla carcerazione di un numero enorme di uomini, detenuti senza accusa e senza processo e lasciati morire di stenti e malattie nelle patrie galere, come lo stesso Crispi dovette ammettere, e alle deportazioni dei militari dell’esercito borbonico, per i quali, riempiti i lager subalpini come Fenestrelle, si cercava “una landa desolata in Patagonia”, i conti dello sterminio tornano. Non ci fu famiglia meridionale che non fu coinvolta dal massacro, anche quella mia, e quella vostra. Senza contare i milioni di uomini successivamente emigrati nelle Americhe per sfuggire alla miseria e alle vessazioni provocate dal nuovo Stato italiano. Il nuovo lavoro di Pino Aprile, di 468 pagine, edito da Piemme, è dunque un libro “necessario” affinché nessuno possa più negare o possa dire “io non sapevo”. Fu genocidio, ora ci sono le prove, e tanto basti affinché il popolo meridionale presenti il conto dei misfatti allo Stato italiano. I morti non si possono certo restituire alla vita, ma la loro dignità sì. C’è un solo modo per farlo: lo stato italiano riconosca il genocidio e chieda scusa ai Meridionali, come lo stato americano ha fatto con i suoi abitanti originari. Senza verità non ci può essere Unità, un paese civile non si può fondare sulla menzogna. Si cambino i testi scolastici e si formino i giovani sul rispetto della Storia e dei loro padri.
Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.” Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.
Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.
L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) - "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) - "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)
(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) - "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) - "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240)
(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) - "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)
(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) - "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)
(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) - "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)
(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) - "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)
ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?
Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.
Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.
«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».
Sarebbe a dire?
«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».
Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.
«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».
Cosa abbiamo fatto di male?
«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».
Quale differenza?
«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».
Da noi invece...
«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».
Beh, non fa una piega.
«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».
Forse di niente.
«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».
Il trionfo del pauperismo.
«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».
«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.
«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».
È andato a vivere all’estero.
«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».
Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?
«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».
Addirittura.
«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».
L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezzanotte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertanti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permetterci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei voluto discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro Elsa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appunto di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a causa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte sopra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scientifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valutazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non contano. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane donna in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di simpatici demagoghi, attaccare indiscriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo decalogo dell’invidioso cronico.
1. Chi ha successo ha certamente inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?
2. In Italia nulla è metodico, salvo il sospetto.
3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimenticare che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.
4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.
5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.
6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?
7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.
8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!
9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si permettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Cosa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chiamano come una casa cinematografica e una serratura?
1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.
Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici». Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».
Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.
Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.
Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.
Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.
Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.
Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.
Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.
Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.
Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.
Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.
Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.
E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.
Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.
Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.
E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.
Grazie della seduta, professore.
“Prego”.
Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!
Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.
Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue. Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.
Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.
Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?
«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».
Gli animi di chi?
«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»
Addirittura?
«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»
Oggi suona come roba dell’altro mondo…
«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».
Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?
«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».
Quando?
«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».
Che successe?
«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».
Eravamo arrivati a questo punto?
«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».
Le più significative?
«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».
Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?
«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».
Faccia un esempio.
«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»
Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?
«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».
Ci ricordi perché.
«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».
Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…
«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».
È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?
«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».
Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?
«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».
Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Davigo, presidente della Anm, ai politici?
«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.
Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.
Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.
Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.
In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.
Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.
Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".
La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:
può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;
può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;
può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;
non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.
Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''
Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.
Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.
L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi
Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.
Se il diritto all’oblio non cancella la storia. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti sul suo passato, scrive Marta Serafini il 21 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. Risvolto della questione, la lotta tra il diritto alla privacy e il diritto all’informazione. Già nel leggere le prime righe del provvedimento pubblicato ieri nella newsletter del Garante ci si scontra con la complessità del tema. «XY ha finito di scontare la pena nel 2009 per gravi di fatti di cronaca di cui è stato protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80», recita il testo. Si parla degli Anni di Piombo, di vicende che ci hanno segnato. Il Garante ha deciso di difendere la storia. Eppure non può divulgare il nome del protagonista. Secondo passaggio: XY ha chiesto la rimozione da Google di articoli e di suggerimenti di ricerca che lo associano alla parola terrorista. Ma sia Big G che il Garante gli hanno risposto picche. «Le informazioni di cui si chiede la “deindicizzazione” fanno riferimento a reati particolarmente gravi», recitano le motivazioni. Non importa dunque che dagli Anni di Piombo a oggi sia passato molto tempo. E non importa nemmeno che nel 2013 la Corte di Cassazione abbia dato ragione a un ex Prima linea che faceva una richiesta del tutto simile. Dal maggio 2014 alle richieste «tradizionali» si sono aggiunte quelle che riguardano Internet. Google, adeguandosi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, consente l’esercizio del diritto all’oblio anche in Rete. Da allora 33.633 sono le richieste arrivate solo dall’Italia. E se nel 32,2 per cento dei casi Google le ha soddisfatte, in questo ultimo frangente ha deciso di rifiutare, supportato dal Garante. Però non è sempre andata così. Quando si aprì il contenzioso su Renato Vallanzasca, venne fuori che Wikipedia rischiava di dover far sparire centinaia di voci. Allora Jimmy Wales, cofondatore dell’enciclopedia digitale, tuonò: «La storia è un diritto umano. Nascondere la verità è profondamente immorale». Parole che viene difficile non condividere, soprattutto se si parla di terrorismo. Ma che nell’era di Internet hanno implicazioni da non sottovalutare.
DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!
Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.
Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.
Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?
«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».
Cosa dice la legge sulla Privacy?
«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:
può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;
può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;
può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;
non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».
Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?
«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».
Con la novella di cosa si sta parlano?
«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»
Cosa dice la sentenza Google Spain?
«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».
Quali sono stati gli effetti?
«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».
Allora sembra essere tutto risolto!
«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»
Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?
«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»
Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?
«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».
Diritto all'oblio e libertà, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, scrive Vincenzo Tiani, Law & Digital Communication l'1 luglio 2016. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio le maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. Il caso. La Cassazione, come riportato dalle parole del convenuto Giornale Online PrimaDaNoi.it, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. La sentenza ricalca l’analoga n. 3/2013 del Tribunale di Ortona. In quel precedente caso, due coniugi erano stati arrestati e poi giudicati innocenti. Il giornale aveva riportato legittimamente la vicenda e, dopo il decreto d’archiviazione per i coniugi, aveva proceduto ad aggiornare l’articolo. Nonostante questo, i coniugi ritenevano lesa la propria immagine in quanto da una ricerca su Google comparivano gli articoli del giornale con la notizia del loro arresto, ma anche quelli della loro innocenza. Anche dopo il parere del Garante della Privacy, favorevole per PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy dei coniugi predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Anche in quel caso, un diritto di cronaca collegato ad un timer. Ma se ai tempi di quella sentenza il tema del diritto all’oblio era sorto da poco, in seguito al caso Google Spain ancora in corso, in quest’ultima occasione c’erano tutti gli elementi per discostarsi da quella prima sentenza, stando anche il fatto che la materia è delicatissima e in Italia non vige un sistema giuridico dove il precedente è vincolante. Da ultimo, fattore importante anche per la sola richiesta a Google per la de-indicizzazione dal motore di ricerca, in questo caso il processo era ancora in corso e non c’era stata archiviazione come nel precedente. Quali i diritti in gioco. I diritti che ogni giudice in questi casi è chiamato a bilanciare sono due diritti di pari rango come il diritto di cronaca e quello alla privacy. Due diritti riconosciuti anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR). Ciò che stupisce è come gli Ermellini non abbiano tenuto conto della Giurisprudenza, se non italiana almeno europea, che mai in passato ha chiesto la rimozione dei contenuti dall’archivio del giornale, ben sapendo come ciò avrebbe indebolito fortemente la libertà di stampa, fondamentale in una società democratica. Tale scelta della Corte Europea è stata confermata anche in quei casi, come quelli di diffamazione a mezzo stampa, in cui i fatti raccontati nell’articolo erano stati poi smentiti, pur se l’autore aveva sufficienti ragioni e fonti per procedere alla pubblicazione. Perché non appare condivisibile il principio usato dalla Cassazione. La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile. Il diritto all’oblio e Google. Come dicevamo, di diritto all’oblio si è parlato molto negli ultimi 2 anni, da quando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. Così Google, nella pagina dedicata alle richieste spiega come queste saranno vagliate per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Questo è quanto avrebbe dovuto fare la parte attrice invece di chiedere al giornale e al giudice la rimozione dell’articolo al giornale. Sarebbe bastata una richiesta gratuita a Google. In caso di risposta negativa si sarebbe potuta rivolgere al Garante della Privacy. E invece, nulla di tutto questo. La conferma nelle eccezioni del nuovo Regolamento Europeo. Con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;
La lesione del diritto di difesa. Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook? Ci auguriamo di no e che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere un ribaltamento della sentenza e ristabilire l’importanza del diritto di cronaca.
Diritto all’oblio. La Cassazione conferma: «cancellare sempre articoli anche se attuali». Le testate on line che rendono fruibile l’archivio violano la legge sulla privacy. L’interesse pubblico? Per un articolo finisce dopo due anni, scrive Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 “Prima Da Noi”. Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perchè detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che per la seconda volta in Italia sanciva l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line. La sentenza si rifaceva integralmente ad una precedente emessa nel 2011 sempre dal tribunale di Ortona che può essere considerata la prima in assoluto in Italia di quel genere. Entrambe le sentenze hanno visto soccombere PrimaDaNoi.it mentre da allora il dibattito su questo controverso diritto è montato fino ad invadere l’Europa e poi gli Stati Uniti. La stessa Cassazione più volte si è espressa in maniera non sempre univoca decidendo caso per caso ma mai si era arrivato ad una decisione tanto drastica. Ancora una volta questo quotidiano è il soggetto soccombente di una sentenza che entrerà nella storia e che apre uno squarcio inimmaginabile sulla fruizione delle notizie e dell’informazione sul web, che taglia di netto la libertà dei giornalisti, limita incredibilmente il diritto di cronaca ma soprattutto dà una mazzata al diritto ad essere informati dei cittadini e a ricercare informazioni.
CHE COSA DICE LA SENTENZA?
La sentenza della Cassazione 13161/16 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) conferma di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perchè pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria. A nulla era valsa l’eccezione relativa al diritto di cronaca per cui un fatto se è vero non può produrre un danno nè al fatto che la notizia di due anni prima era ancora attuale perchè il processo relativo non era nemmeno iniziato. In quell’occasione scattò una sanzione di 10mila euro e la parte già in primo grado azionò il pignoramento dell’unico mezzo di trasporto del direttore Alessandro Biancardi. Il fatto di cronaca era accaduto nel 2008 ma già il 6 settembre 2010 i titolari del ristorante chiedevano al giornale la cancellazione dell’articolo perchè ledeva l’immagine della loro attività commerciale. Cancellazione rifiutata. Nel frattempo il tribunale di Ortona emette la prima sentenza sull’oblio e ci condanna per un articolo non cancellato ed ancora presente nell’archivio. Il fatto ci induce a cancellare anche l’articolo oggetto del secondo contenzioso ancora in corso a scopo transattivo e per limitare i danni paventati. Il giudice di fatto non ne tiene conto e calcola comunque che il danno è stato procurato dalla data di pubblicazione (2008) a quella di cancellazione (2011) perchè il trattamento dei dati si era protratto oltre lo scopo necessario anche se con finalità giornalistiche. PrimaDaNoi.it, difesa dall’avvocato Massimo Franceschelli, ha proposto ricorso in Cassazione invocando la falsa applicazione della legge sulla privacy e chiedendo la nullità della sentenza perchè i dati sono stati trattati unicamente per finalità giornalistiche e per questo non c’è bisogno di alcuna autorizzazione. Inoltre il fatto del 2008 non poteva beneficiare dell’oblio perchè l’ultima udienza del processo penale sull’accoltellamento si è tenuta il mese scorso (maggio 2016). Si legge nella sentenza della Cassazione: «l’illecito trattamento dei dati personali è stato dal tribunale specificatamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto nel 2008 nè nella conservazione e archiviazione informatica di esso ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico del 29 marzo 2008 e della sua diffusione sul web quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida in data 6 settembre 2010 per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio)». Dunque sarebbe corretto pubblicare e mantenere in archivio ma solo per un determinato periodo che nessuna legge prevede e che questa sentenza stabilisce “congruo” in due anni e mezzo. Trascorso questo tempo l’articolo non solo dovrebbe essere deindicizzato (sempre a carico della testata on line a differenza di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Europea nel 2014) ma sparire dal web completamente. «La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». «Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale». «La Corte di Cassazione», ha puntualizzato l’avvocato Massimo Franceschelli, «ha deciso in senso contrario rispetto al procuratore generale il quale aveva chiesto l’accoglimento del nostro ricorso giudicandolo fondato e spiegando che non potesse applicarsi il diritto all’oblio perchè il processo penale era ancora in corso». In conclusione la Cassazione stabilisce che:
1) Dopo la pubblicazione dell’articolo l’interesse pubblico alla lettura di quella notizia viene meno (qui si dice che bastano due anni e mezzo).
2) Alla richiesta di cancellazione si doveva ottemperare subito perchè trascorso il tempo.
3) Il diritto di cronaca vale all’istante ma non si possono trattare dati sensibili e renderli fruibili al pubblico per sempre perchè dopo un pò prevale la privacy (per mantenerli ci vuole il consenso).
4) Si cancellano anche articoli recenti ed attuali.
Un articolo corretto produce un danno risarcibile per il solo fatto di essere fruibile
IL GOLPE OLTRE IL BAVAGLIO
Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati.
Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non avere problemi nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…. Una cosa la voglio dire chiara e forte: siamo fieri di quello che abbiamo fatto e ci stupiamo ancora oggi, dopo anni di sofferenze e umiliazioni, di come sia ancora forte il nostro senso per la libertà e la legalità. Che non cambia. Siamo fieri di combattere alla stregua dei partigiani di un tempo contro uno strapotere subculturale fascista e totalitario che avvantaggia dittature di ogni tipo e umilia il cittadino qualunque e lo svuota dei diritti fondamentali. Oggi anche il diritto alla conoscenza. Siamo fieri di essere migliori di tantissime persone che rappresentano le istituzioni e che avrebbero l’obbligo di far prosperare questo Paese, far rispettare le leggi, spiegare cosa sia la legalità e la libertà e colpire chi delinque. Tutti dovrebbero avere immenso rispetto per la Costituzione italiana, l’ultimo baluardo per le nostre libertà e diritti, e sulla attività giornalistica è chiara: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Questa sentenza invece dice che dopo un pò bisogna essere autorizzati per trattare i dati sensibili e di fatto con la deindicizzazione e la cancellazione degli articoli dal web si applica una censura. Postuma ma sempre censura è. Alessandro Biancardi
SOMMARIO PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE. IN QUESTO MONDO DI LADRI.
ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
L’ITALIA DEI PAZZI.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONI NEI CONCORSI PUBBLICI E NELLE ABILITAZIONI DI STATO.
I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.
PARLIAMO DELL’ISTRUZIONE E DEGLI IGNORANTI LAUREATI.
PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".
TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!
IL WATERGATE GRILLINO, OSSIA IL M5SGATE.
LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.
LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.
TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.
A PROPOSITO DI MAFIA E DI TERRORISMO ISLAMICO.
PARLIAMO DEI RISCATTI DEGLI ITALIANI RAPITI ALL'ESTERO E IL FINANZIAMENTO AI TERRORISTI.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
25 APRILE: LA DATA DI UNA SCONFITTA.
PARLIAMO DI CULTURA, MEDIA, SPETTACOLO ED INFORMAZIONE.
L’ITALIA DEGLI ONESTI. SANITA’ E VOLONTARIATO. AMBULANZE 118. LAVORO NERO CON SOLDI PUBBLICI.
PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA ED ANTIMAFIA.
E PARLIAMO PURE DI ANTIUSURA.
PARLIAMO DI DISUGUAGLIANZE.
PARLIAMO DEL CALO DEMOGRAFICO.
SOMMARIO SECONDA PARTE
PARLIAMO DI SANITA’.
PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.
PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.
PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
ONESTA’ E DISONESTA’.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?
PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.
PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.
PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.
PARLIAMO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES IMPUNITE.
PARLIAMO DELLA MAFIA MILITARE.
PARLIAMO DI SPECULAZIONI.
INGIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO.
PARLIAMO DELLA QUESTIONE MORALE DEI GIUDICI TRIBUTARI.
SCIENZA E GIUSTIZIA.
PROFUGOPOLI.
LADRI DI BAMBINI.
PARLIAMO DI ABUSI SUI DEBOLI E SUGLI INCAPACI.
PARLIAMO DI AMBIENTE, FRODI ALIMENTARI ED ANIMALI.
PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.
PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.
PARLIAMO DELLA BASILICATA.
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
PARLIAMO DELLA CAMPANIA.
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
PARLIAMO DEL LAZIO.
PARLIAMO DELLA LIGURIA.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
PARLIAMO DEL MOLISE.
PARLIAMO DELLA PUGLIA.
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
PARLIAMO DELLA SICILIA.
PARLIAMO DELLA TOSCANA.
PARLIAMO DEL TRENTINO ALTO ADIGE.
PARLIAMO DEL VENETO.
PARLIAMO DELL’EUROPA DEGLI ONESTI.
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
SECONDA PARTE
PARLIAMO DI SANITA’.
QUELLO CHE NON SI DICE SUI TUMORI. «Attacchi ingiustificati alla chemioterapia, come ai vaccini. Serve solo più informazione». Il presidente degli oncologi, Carmine Pinto: «Oggi, grazie a cure sempre più efficaci, il 68% degli italiani cui viene diagnosticato un tumore sconfigge la malattia. La chemio non è più quella di 30 anni fa, non deve fare paura e controlliamo meglio gli effetti tossici», scrive Carmine Pinto, Presidente Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), il 6 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Nel corso degli anni abbiamo assistito alla pericolosa diffusione di teorie pseudoscientifiche sulle cure miracolose del cancro: dal siero Bonifacio che prese il nome dal veterinario di Agropoli che usava le capre, allo squalene dei nostri giorni per cui la cartilagine di squalo funzionerebbe come una sorta di antidoto, al veleno dello scorpione cubano fino al metodo “Di Bella”. Nulla di nuovo quindi. L’attrazione per le cosiddette terapie “non convenzionali” è alimentata dal dolore e dalla disperazione causati dalla diagnosi di malattia e chi promuove queste teorie sfrutta la speranza dei malati e dei loro familiari. È inaccettabile che due giovani donne di 18 e 34 anni, come evidenziato negli episodi di cronaca di questi giorni, siano morte per aver scelto teorie prive totalmente di basi scientifiche. Oggi in Italia viviamo un’epoca di oscurantismo, di debolezza culturale, un “nuovo Medioevo” che non tocca solo l’Oncologia ma anche altre branche della Medicina. Basta pensare alla violenta campagna contro le vaccinazioni che trova nel web e nei social network i canali preferenziali. Si tratta di una tendenza molto grave, se pensiamo che queste misure di profilassi hanno consentito di debellare completamente malattie un tempo mortali come il morbillo. Internet non è controllabile, non filtra le notizie e troppo spesso attribuisce credito a messaggi fuorvianti. È compito di una società scientifica come AIOM sensibilizzare tutti i cittadini: la chemioterapia non è più quella di 30 anni fa, non deve più fare paura, sono disponibili farmaci efficaci e controlliamo meglio gli effetti tossici delle cure. Inoltre l’introduzione delle terapie target e dei nuovi farmaci immuno-oncologici ha cambiato in maniera importante le prospettive di cura e di sopravvivenza. Oggi non possiamo più parlare di male incurabile. Negli ultimi 15 anni le guarigioni degli italiani colpiti dal cancro sono aumentate in maniera significativa, oggi il 68% dei cittadini a cui vengono diagnosticati tumori frequenti sconfigge la malattia. Percentuali che raggiungono il 91% nella prostata e l’87% nel seno, le due neoplasie più diffuse fra gli uomini e le donne. Terapie innovative sempre più efficaci consentono ai pazienti di vivere a lungo, in alcuni casi più di 5 anni con una buona qualità di vita, anche se colpiti da patologie particolarmente aggressive come il melanoma avanzato che fino a pochi anni fa era caratterizzato da una sopravvivenza di 6-9 mesi. Più di 3 milioni di cittadini (il 4,9% della popolazione) vivono con una diagnosi di tumore. E circa due milioni persone possono affermare di avere sconfitto la malattia. Nel rispetto della scelte del paziente i clinici devono lavorare per fornire corrette informazioni, sapendo ascoltare i bisogni, le speranze e le paure del malato. È necessario anche disporre degli strumenti per leggere correttamente le notizie. Uno studio pubblicato in questo mese sulla rivista Lancet Oncology ha lanciato l’allarme sulla nocività della chemioterapia che in alcuni ospedali inglesi avrebbe provocato la morte anche del 50% dei pazienti dopo 30 giorni. Questi risultati in realtà non mettono sotto accusa e demonizzano la chemioterapia, ma se da una parte confermano le criticità dell’assistenza oncologica in Gran Bretagna che presenta i tassi di sopravvivenza per tumore più bassi dell’Europa Occidentale, dall’altra dimostrano ancora una volta che un’adeguata scelta e gestione delle terapie oncologiche ed in particolare della chemioterapia può avvenire in Oncologia Medica, con operatori formati e costantemente aggiornati che conoscono strategie di cura, efficacia e tossicità dei farmaci e soprattutto il malato oncologico nella sua globalità.
Quanti stecchiti dalla chemio. E dai giornalisti ignoranti, scrive Maurizio Blondet il 7 settembre 2016. Il Lancet, una delle più stimate riviste mediche, “Giorni fa ha pubblicato un lavoro firmato dal Public Health England e Cancer Research Uk, condotto su 23,000 donne con cancro al seno e circa 10.000 uomini con carcinoma polmonare non a piccole cellule: 9.634 sono stati sottoposti a chemioterapia nel 2014 e 1.383 sono morti entro 30 giorni. «L’indagine ha rilevato che in Inghilterra circa l’8,4% dei pazienti con cancro del polmone e il 2,4% di quelli affetti da tumore del seno sono deceduti entro un mese dall’avvio del trattamento. Ma in alcuni ospedali la percentuale è di molto superiore alla media riscontrata. «Ad esempio, in quello di Milton Keynes il tasso di mortalità per chemioterapia contro il carcinoma polmonare è risultata addirittura del 50,9%. …. Al Lancashire Teaching Hospitals il tasso di mortalità a 30 giorni è risultato del 28%». «Per la prima volta i ricercatori hanno esaminato il numero di malati deceduti entro 30 giorni dall’inizio della chemioterapia, cosa che indica che i medicinali hanno provocato la loro morte, piuttosto che il cancro».
Ho copiato e incollato da “Senza Nubi”, sito del professor Sandro Carlo Mela. Che è stato docente di medicina interna all’Università di Genova, ha avuto diversi incarichi scientifici al CNR, è co-autore di 583 pubblicazioni scientifiche, delle quali 212 su riviste internazionali, con 1823 citazioni da riviste internazionali. Suo anche il commento che segue: “È notevole che siano stati proprio il Public Health England ed il Cancer Research Uk a sentire il bisogno di rivedere criticamente il proprio operato, raccogliendo una casistica imponente e traendone infine le conseguenze. Ci si pensi bene. Questa è l’essenza della metodologia scientifica. Fare ipotesi. Verificarle. Accettarle se i fatti le corroborino e rigettarle se i fatti le contraddicano. Quanto è duro accettare che i fatti smentiscano le teorie!”. Poiché il professor Mela è scienziato e scrittore elegante, penso questo sia stato il suo modo di intervenire nella canea giornalistica innescata da un caso di cronaca. Regolarmente riportato dai media in questi termini: “I genitori rifiutano la chemio, lei muore a 18 anni di leucemia”. Naturalmente accusando i genitori di aver ammazzato la figlia perché credono a ciarlatani (“il dottor Hamer”), ché se invece avessero portato la figlia dal celebre professor Veronesi, che l’avrebbe sottoposta alla chemio, la fanciulla sarebbe ancora viva. A Veronesi nessun giornalista ha mai chiesto conto di quanti, nella sua lunga carriera, ne ha ammazzati con la chemio. I lavori dei due importanti istituti sanitari pubblici inglesi, riportati da Mela, dimostrano che c’è una percentuale da alta a ragguardevole di pazienti che viene addirittura stecchita dalla chemio. Nei primi trenta giorni dal trattamento. I giornalisti soprattutto, hanno colto il caso o i due casi di cronaca per lanciarsi in una battaglia morale: non solo contro di due genitori che hanno accusato di aver ucciso la figlia, ma in genere contro la diffidenza della “gente” contro tutto ciò che è scientifico, o anche solo ufficiale: c’è chi ha messo la diffidenza generale del pubblico per la chemio sullo stesso piano del “il rigetto dei partiti”; il rifiuto delle vaccinazioni alla stessa stregua del di un rigetto anarchico e cieco verso ogni autorità; il discredito verso “il celebre oncologo Veronesi” alla stessa stregua del “populismo” che “abbiamo visto emergere anche nelle elezioni in Germania”. Insomma vedono, i giornalisti, un rigurgito di passatismo, oscurantismo e pensiero magico, un ritorno al Medioevo, che si sentono in dovere di combattere con l’ironia dei loro Lumi. Invocando anche i giudici, se occorre, perché sottraggano la patria potestà dei genitori anti-chemio e affidino i figli malati per forza pubblica a Veronesi e alla sua terapia citotossica con metalli pesanti ed iprite; la libertà dei pazienti non è accettabile, se essa sfocia in superstizione e cure con vitamina C o veleno di scorpione. Il problema è la quantità di Lumi in possesso di detto giornalisti. Nell’ascoltare Radio 24, mi è capitato di ascoltare – per esempio – che per alcuni di qui valorosi redattori, la funzione di insetti impollinatori era una scoperta recentissima, dovuta alla lettura di qualche articolo sulla sparizione delle api che mette in pericolosa produzione di frutta. Alcuni erano persino increduli del processo, “finalmente anche i più testoni di noi l’hanno capito”, ha detto giulivo un giornalista. Sentito con le mie orecchie. Ora, la meravigliosa simbiosi fra le api e gli alberi da frutta è una nozione che dovrebbe essere nota già dalle elementari. Anche giornalisti radiofonici (che si ammette siano di qualche tacca sotto i colleghi “della carta stampata”) dovrebbero saperlo. A cosa serve, sapere la funzione impollinatrice, se si è giornalisti economici o dello spettacolo? Serve: è un elemento di quella che si chiama “cultura generale”, senza la quale, sfuggono le complessità del discorso scientifico. Infatti costoro, nella missione che si era dati di condannare la famigli che aveva sottratto la figlia alla chemio, e per estensione- – la loro battaglia contro “il populismo”, han rimbeccato i lettori con argomenti di mera fede: bisogna credere a Veronesi, perché egli è famoso, e rappresenta la Scienza. Nel caso, essi non sono in grado di informarsi. Ignorano che su questi temi, è utile consultare come fonte il sito del National Cancer Institute (fondato da Nixon nel ’71 per ‘sconfiggere il cancro’, e che il cancro ha sconfitto – reca onestamente tutti i dati, lo stato dell’arte della ricerca, e avverte che nessuno dei trattamenti che indica uno per uno può essere definito “cura del cancro”). Invece i media italiani hanno dato spazio al Veronesi che ha detto e ripetuto: “Il cancro non è più una malattia incurabile, e le moderne terapie possono salvare la vita”. Affermazione, così come espressa, menzognera. Gli oncologi parlano di “sopravvivenza a cinque anni” del malato trattato con la chemio, che è cosa molto meno ambiziosa che guarigione. A proposito del caso dei genitori che hanno evitato alla ragazza la chemio, qualche giornalista ha tirato fuori che la cosa era particolarmente colpevole, perché con la chemio c’è, nel caso, una sopravvivenza del 63 per cento. E’ già un miglioramento rispetto al 50% (di sopravvivenza a 5 ani) vantato fino ad alcuni anni fa. Ma come e dove si ottengono queste percentuali? L’ha spiegato il dottor Francesco Bottaccioni membro dell’Accademia delle scienze di New York, docente di psico-oncologia alla Sapienza (cito da Cancro SpA di Marcello Pamio): “Il 50% di cui parlano gli oncologi non è effettivamente la metà del numero dei malati, come si è indotti a credere, ma la media delle varie percentuali di guarigione dei diversi tipi di cancro. Per capirci: si somma, ad esempio, l’87% di guarigione del cancro del testicolo con il 10-12 di quella del polmone e si fa la media delle percentuali di guarigione, senza calcolare che i malati di carcinoma al testicolo sono 2 mila l’anno, mentre le persone che si ammalano di tumore al polmone sono attorno alle 40 mila”. Ora, chiunque vede che questo è un metodo di conteggio disonesto, indegno di un settore che si dichiara “scientifico” e di una pretesa “scienza” chiamata oncologia; un metodo truffaldino che giustifica ad abbondanza la diffidenza crescente dei pazienti, e autorizza i peggiori sospetti sui veri motivi per cui si continua ad imporre la “cura” chemioterapica. La triste verità è che la sopravvivenza a cinque anni nel caso, poniamo, di carcinoma del pancreas è il 2 percento. I l che significa che il 98 per cento dei pazienti sono morti. A cinque anni, sono trapassati il 90% dei malati di glioma cerebrale, l’80 per cento dei colpiti da melanoma maligno, il 92,5 per cento dei cancri polmonari; è scomparso il 98 per cento dei colpiti dal carcinoma del fegato, e il 100 per cento degli affetti da carcinoma della pleura. Si può dire che “il cancro oggi non è più una malattia incurabile”? E che i malati devono affidarsi ad occhi chiusi a Veronesi invece che ai “ciarlatani”? Non esistono statistiche sui pazienti di ciarlatani: c’è il fondato sospetto che i loro dati di sopravvivenza cinque anni sarebbero se non migliori, pari a quelle vantate dalle false statistiche degli oncologi. Infatti. E la prova è nella monumentale indagine clinica condotta da Dal Dipartimento di Oncologia Radiologica del Northern Sidney Cancer Center e pubblicato sul Journal of Clinical Oncology il dicembre 2004. E’ intitolato: “The Contribution of Cytotoxic Chemotherapy to 5-year Survival in Adult Malignancies”, ossia: Il contributo della terapia citotossica alla sopravvivenza nei cinque anni nei tumori maligni di adulti”. Uno studio colossale. Sono stati seguiti per 14 anni 155 mila pazienti americani ed australiani colpiti da tumore. Alla fin fine i ricercatori concludono che 3.306 di questi sopravvissuti a cinque anni possono ragionevolmente essere attribuiti alla chemio. 3,303 su 154.971 pazienti, significa un tasso di ‘guarigioni’ del 2,3 per cento in Australia e del 2,1 in Usa. A che scopo prescrivere – e obbligatoriamente – un medicinale che mette l’inferno nel corpo del paziente (come disse il professor Staudacher), per un tasso di guarigioni del 2 per cento? Qualunque cura di ciarlatano può vantare un 2%, se tenesse le statistiche dei suoi pazienti. La conclusione degli studiosi di Sidney infatti è questa: “…E’ chiaro che la chemioterapia citotossica dà solo un contributo minore alla sopravvivenza da cancro. Per continuare la prescrizione [gratuita nel servizio sanitario nazionale] di farmaci chemioterapici, si richiede con urgenza una rigorosa valutazione del rapporto fra costo ed efficacia e dell’impatto sulla qualità della vita”. Di fatto, sconsigliano il servizio sanitario nazionale di continuare a pagare per questi costosissimi “farmaci” che rendono miserabile la vita del paziente, e non fanno guarire. Chi ha pazienza di guardare le tabelle contenute nelle prime pagine dello studio, vedrà che anche la percentuale del 2.3 per cento di guarigioni a 5 anni con la chemio deve essere fortemente ridimensionata: dipende dal tipo di tumore. Vi sono tumori, al pancreas, alla milza, il melanoma – in cui la sopravvivenza è segnata da una lineetta orizzontale: significa zero. Nessun sopravvissuto, chemio o non chemio. La miglior efficacia della chemio viene attribuita per il cancro al testicolo, che come abbiamo visto è uno dei pochi di cui gli oncologi vantano una sopravvivenza dell’87% per cento. Il che significa che guarisce quasi sempre da sé. Lo studio australiano dà qui un tasso di sopravvivenza del 47%: si può dunque addirittura temere che la chemio peggiori il decorso di un tumore tutto sommato modestamente pericoloso. Ma naturalmente, bisogna consultare le fonti, saper cercare nella letteratura scientifica: cosa che evidentemente i genitori della ragazza morta hanno fatto – hanno rifiutato a ragion veduta la terapia letale – e che non hanno fatto i giornalisti illuministi senza cultura generale, che hanno accusato quella famiglia di omicidio, di irresponsabilità superstiziosa, e lanciato intimidazioni a tutti coloro (medici e pazienti) che tentato le terapie alternative, incitando i giudici ad incriminarli. Cosa che alcuni procuratori hanno pure fatto. I giornalisti non sanno e non vogliono consultare le fonti – primo dovere del giornalista. Si sono accontentati, nella loro battaglia contro l’Oscurantismo sanitario, a riportare come vangelo un articolo commissionato al professor Veronesi. Senza nemmeno rendersi conto che costui fa’ una confessione incriminante: “Bisogna liberare la chemioterapia dallo stigma di cura devastante, che fa paura più del cancro stesso. (…) Va detto che in passato è stata utilizzata in modo improprio e per molti anni è stata effettivamente prescritta a dosi altissime, senza alcuna considerazione per gli effetti che avrebbero avuto sul malato. “Allora vigeva in oncologia il principio del massimo trattamento tollerabile: si applicava in chirurgia, in radioterapia e in chemioterapia la dose (o l’amputazione) maggiore che il paziente potesse tollerare. […] Ma negli ultimi decenni è avvenuta una rivoluzione di pensiero per cui nella cura dei tumori si applica il principio del minimo trattamento efficace: si ricerca la dose più bassa o l’intervento più limitato in grado di assicurare l’efficacia oncologica. Così è sparita la chirurgia mutilante, la radioterapia ustionante e anche la chemio che devasta inutilmente l’organismo”. Veronesi dunque ammette: per decenni abbiamo dato dosi letali di sostanze velenose, alchilanti, metalli pesanti, radiazioni – ammazzando migliaia di pazienti, e devastandoli inutilmente. Adesso abbiamo imparato: quindi, cancerosi, venite a noi con fiducia. La ricerca citata dal professor Mela vi dice che ne ammazziamo solo l’8 per cento nei primi trenta giorni. In alcuni ospedali anche il 50%…Quanti ne ammazza il giornalismo presuntuosamente incompetente? Che scambia per razionalità la propria ignoranza, per progressismo il proprio superstizioso scientismo, basato sul “principio di autorità” più sbagliato? Urgono studi clinici e statistici. L’articolo Quanti stecchiti dalla chemio. E dai giornalisti ignoranti. È tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.
PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.
"Le aziende scappano: l'Italia è una giungla di tasse e burocrazia". Il giuslavorista Fava: "Imprenditori in fuga nei Paesi in cui lo Stato non li perseguita", scrive Giacomo Susca, Lunedì 05/09/2016, su "Il Giornale". Mentre gli Agnelli portano la cassaforte Exor in Olanda, al riparo dal fisco vorace di mamma Italia, migliaia di imprenditori con cognomi magari meno ingombranti si chiedono ogni giorno se è arrivato il momento di fare le valigie. E alla fine optano per un biglietto di sola andata. Gabriele Fava, giuslavorista e legal advisor, di capitani d'azienda al bivio della delocalizzazione ne ha conosciuti molti. «Sia chiaro, nessuno decide di lasciare il nostro Paese a cuor leggero. Spesso è una scelta dolorosa, ma inevitabile. L'alternativa è chiudere e ritrovarsi col piattino in mano. D'altronde cosa si può argomentare di fronte a chi reclama più redditività e meno oppressione fiscale?».
Avvocato Fava, su chi fanno più presa le sirene d'oltreconfine?
«Parliamo di realtà medio-grandi, dai 100-200 dipendenti fino ai 10mila. Imprese in salute del settore metalmeccanico, dell'energia o dei servizi, che possono permettersi di spostarsi all'estero senza maggiori rischi».
Perché dicono addio al Belpaese?
«Ha ragione Nicola Porro quando scrive che gli imprenditori non sono i responsabili di una onlus. Hanno lo scopo di realizzare profitti, e operano laddove le condizioni consentono di essere competitivi e di crescere. Assumono solo se le prospettive sono positive. Ci sono Paesi che ti accompagnano nel business passo per passo, ti coccolano, fanno di tutto per averti. L'Italia ormai non è certo tra questi».
Dove conviene scappare, allora?
«Mica tanto lontano, altrimenti la logistica sarebbe un problema. I nuovi paradisi delle imprese si trovano a un'ora, un'ora e mezza al massimo di aereo da Roma: Olanda, Paesi scandinavi, Polonia, Portogallo. E nell'ultimo periodo il vero boom è verso la Tunisia, l'Albania, la Serbia, ... posti in cui la manodopera parla anche italiano».
Quali attrazioni i nostri imprenditori scoprono a Tirana o a Tunisi?
«Una fiscalità eccezionale, costo del lavoro ai minimi (mentre da noi è la gabbia più odiosa), burocrazia inesistente, finanziamenti statali, dialogo trasparente con le istituzioni... devo continuare?».
Continui.
«Per capirci: in Tunisia il governo ha previsto per chi avvia un'attività 10 anni di esenzione fiscale totale, più 10 anni di esenzione dagli oneri previdenziali. Il costo del lavoro è pari a 2,5 euro all'ora per 40 ore settimanali. Il costo dell'energia è inferiore del 70% rispetto all'Italia. A Tirana, l'affitto di un locale commerciale di 1.500 mq costa non più di 1.500 euro al mese. E ancora in Albania, ci vogliono 48 ore per costituire una S.r.l. con capitale sociale minimo di 5mila euro. Altro che la giungla delle scartoffie a cui siamo abituati dalle nostre parti».
Messa così, c'è poco da difendere l'italianità delle produzioni.
«Infatti sono sempre di più quelli che partono. E non si tratta solo delle delocalizzazioni, bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulle start-up dei talenti italiani che emigrano all'estero. Negli ultimi due anni il fenomeno è addirittura aumentato».
E la famosa ripresa? Il premier continua a ripetere che le cose vanno meglio adesso che in passato.
«Questa crisi dura da 8 anni. Anzi, non è più una crisi: la situazione sembra patologica».
Si può guarire solo portando i capannoni all'estero?
«Tutt'altro. Gli imprenditori chiedevano riforme organiche nel nostro Paese, ma non sono state fatte. Il governo Renzi si è limitato a una caterva di pannicelli caldi per tamponare qua e là».
Compreso il Jobs Act?
«Ha funzionato fin tanto che ci sono stati gli indennizzi, poi man mano che sono andati a ridursi anche i risultati si sono sgonfiati. Il mercato del lavoro non si crea con iniezioni di danari estemporanee, servono interventi strutturali».
Come fermare l'emorragia?
«Agli imprenditori, più che il numero dei futuri senatori di Palazzo Madama, interessano le misure che hanno un impatto concreto sui bilanci. Per convincerli a restare ci vorrebbe un mercato del lavoro dinamico, flessibile, fiscalmente equo, a burocrazia ridotta, in cui si dia più valore alla contrattazione aziendale. E dove il pubblico sia al fianco dei privati per creare ricchezza, non per tormentarli con vincoli ottusi e stangarli con tasse insostenibili».
Troppe tasse, fuggono pure i call center. Dati preoccupanti: un'assunzione su due fuori confine. Il 20% del giro d'affari è all'estero. Operatori stritolati: "Anche se il settore è in crescita i margini di guadagno sono minimi", scrive Antonio Signorini, Lunedì 14/04/2014, su "Il Giornale". Un branco di ragazze, giovani e avvenenti, va al lavoro. Saltellano verso le rispettive postazioni al ritmo di musica da discoteca, intonando canzoni motivazionali improbabili, prima di inforcare cuffia e microfono. Il messaggio è chiaro: i dipendenti dei call center sono carne da cannone per imprenditori corsari. Sono passati sei anni dal film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, ma l'immagine dei call (e ora contact) center è ancora quella. Stereotipo coccolato da sindacati e politici a caccia di nuove classi sociali da salvare. Nel frattempo molto è cambiato. Intanto una selezione tra le imprese. Gli avventurieri ci sono, ma sono molti meno. C'è un contratto nazionale di lavoro. Su 80mila addetti nelle società che gestiscono servizi in outsourcing, il 60% ha un contratto tipico. Se il film si dovesse fare oggi, ambiente e attori sarebbero trenta-quarantenni, tante donne del Sud. Intere famiglie che lavorano per gli stessi centri, un po' come succedeva con le fabbriche degli anni Cinquanta. Lavoratori qualificati e formati; ci sono persino i primi pensionati, racconta un imprenditore del settore che si è ritrovato dopo un ventennio di servizio con l'età media dei suoi dipendenti cresciuta di una decina di anni. Il problema è che, a breve, la location di un film sui centri di contatto potrebbe cambiare, di nuovo, radicalmente. E non in bene. Crisi economica, burocrazia e tasse stanno riuscendo dove i vari movimenti e la sinistra radicale avevano fallito all'inizio degli anni 2000, cioè cancellare il lavoro atipico per eccellenza. Nel senso che i call center stanno fuggendo. Il prossimo film di Virzì potrebbe essere ambientato in Albania o in Romania, tra capannoni affittati a un euro, dove lavorano ragazzi che hanno imparato un'ottimo italiano grazie a mamma tv. Se ne sono accorti gli italiani che chiamano l'assistenza di grandi gruppi e dall'altra parte del telefono sentono accenti dell'est. E se ne sono accorti anche i giovani italiani a caccia di un lavoro: sempre più rare le offerte. L'offshoring è iniziato da tempo, ma è sempre più diffuso. Lo fanno le grandi aziende che gestiscono autonomamente i call center, ma anche le società che gestiscono il servizio per altri. Secondo i dati dell'associazione di categoria, Assocontact, il fatturato prodotto da queste società all'estero è di 60 milioni di euro. Il 20 per cento del giro di affari dell'outbound (le chiamate ai clienti) viene dai centri che si trovano all'estero. Principalmente Romania (che comunque è Unione europea), ma anche Albania. Numeri per difetto. Nel complesso, stima un sindacalista, ormai un'assunzione ogni due è all'estero. «La crisi l'abbiamo sentita anche noi - spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact - i nostri committenti cominciano a chiedere sconti. Il settore continua a crescere, ma il margine è al minimo». Pesa l'alto costo del lavoro: circa l'80% del totale, contro il 20% medio dell'industria. Poi le tasse «l'Irap che penalizza chi assume», spiega Costamagna. Di fronte a questa situazione «qualcuno ha deciso di lavorare sul costo del personale e andare in offshoring. È una scelta non ci piace - aggiunge - perché non è strategica, ma è una necessita imposta dalla committenza nei costi». Una «ultima spiaggia» che rischia di fare diventare gli anni dei call center corsari, un ricordo felice. Almaviva Contact ha oltre 10mila dipendenti, segue clienti italiani esclusivamente con operatori che lavorano in Italia. «Questo ha garantito fino a oggi i livelli occupazionali». Però «è innegabile che rispetto a scelte alternative abbiamo avuto pesanti penalizzazioni economiche, oggi non più sostenibili. Ancor più in una situazione di gare al ribasso», spiega Andrea Antonelli, amministratore delegato del gruppo. Il riferimento è alla famosa gara indetta dal comune di Milano per la gestione del servizio 020202. La base d'asta decisa dalla giunta di Palazzo Marino non copre nemmeno il costo del lavoro. Dopo questo caso il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano ha deciso di avviare un'indagine conoscitiva. E dire che il sindaco Giuliano Pisapia appartiene a quella sinistra che, a parole, era contro lo sfruttamento da call center.
E poi ci sono loro...
Poteri invisibili: evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto, scrive Stefano Vergine il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Non solo Apple e l'Irlanda. Anche l'Italia ha concesso dei tax ruling. Si tratta di particolari accordi fiscali fra uno Stato e una multinazionale. Accordi simili a quelli di Luxleaks, uno dei più grandi scandali fiscali europei. O a quelli che hanno portato nei giorni scorsi la Commissione europea a condannare il colosso di Cupertino per aver evaso imposte per 13 miliardi di euro. Insomma, lo Stato concede a una grande azienda un regime fiscale di favore, con tasse sul reddito pari all'1 per cento o anche meno, mentre tutte le altre imprese sono tenute a pagare venti o trenta volte di più. Il tutto nel totale segreto di Stato. Nel numero in edicola domenica 4 settembre, attraverso due documenti finora inediti, “l'Espresso” racconta che anche il nostro Paese ha concesso dei tax ruling. Erano 47, alla fine del 2013. E nel frattempo le cose non sembrano essere cambiate. Lo scorso settembre, infatti, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il governo di Matteo Renzi non ha negato l'esistenza di tax ruling in vigore. Ha però evitato di fornire i nomi delle fortunate multinazionali. «Ragioni di riservatezza», è stata la giustificazione. Va precisato che non per forza tax ruling fa rima con elusione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. In pratica possono però essere usati per dribblare il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di Luxleaks. Dopo lo scandalo del 2014, sono stati tanti i politici europei a promettere un cambiamento. E una riforma dei tax ruling è stata in effetti approvata nel dicembre scorso proprio dalla Commissione europea. Dall'anno prossimo gli Stati dell'Ue avranno l’obbligo di scambiarsi tra loro le informazioni su questi contratti, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Chi può dunque garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale?
Poteri invisibili: gli evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto. Luxleaks? Storia vecchia. Sorpassata. Solo in teoria, però. Perché in pratica non è mai finita. E qualcosa di molto simile - dimostrano alcuni documenti finora inediti - potrebbe riguardare anche l’Italia. A leggere le dichiarazioni dei politici e le riforme presentate dalle istituzioni internazionali, lo scandalo che due anni fa fece tremare le multinazionali di mezzo mondo può essere catalogato nell’album dei ricordi. Stiamo parlando degli accordi fiscali fra il Lussemburgo e centinaia di società private. Colossi come Amazon, Ikea, Pepsi: 340 in tutto - comprese alcune italiane tra le quali Unicredit, Intesa Sanpaolo, Finmeccanica - che nel corso degli anni hanno ottenuto il lasciapassare dal Granducato per spostare lì buona parte dei profitti pagando tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. Era il novembre del 2014. «Mai più elusione fiscale, in nessuno Stato membro», gridò il rappresentante del Pd al Parlamento comunitario, il renziano Gianni Pittella, capo dei socialisti europei. Partì un’inchiesta a Bruxelles e un piano di riforma dell’Ocse. «Aumenterà la trasparenza delle imprese multinazionali», fu la promessa del segretario generale, Ángel Gurría. Com’è andata a finire? Secondo quanto può ricostruire “l’Espresso”, il trattamento di favore riservato alle multinazionali non si è mai interrotto. I documenti che lo raccontano sono due, entrambi mai pubblicati finora. Il primo è una tabella di tre pagine. Un file in cui compaiono i nomi di tutte le nazioni dell’Unione europea: al fianco di ognuna c’è il numero dei tax ruling concessi. Tax ruling, per chi non lo sa, è il nome tecnico dei contratti alla base dei LuxLeaks. Quelli accordati dal Lussemburgo alle multinazionali. Gli stessi contenuti nella tabella in questione. Firmato della direzione generale della Commissione, sezione Fiscalità e Unione doganale, il documento certifica che in totale, all’interno dell’Ue, alla fine del 2013 erano attivi 545 di questi accordi. Significa oltre mezzo migliaio di patti fra imprese e Stati. Fra cui spicca il Lussemburgo, con 119, ma anche tante altre nazioni insospettabili. Regno Unito, Ungheria, Spagna. Tutte sopra quota 50. Poco sotto - in quinta posizione con 47 ruling operativi – c’è l’Italia. Manca solo un’informazione: i nomi delle società che hanno firmato questi accordi. Un dettaglio. La tabella, come detto, è aggiornata alla fine del 2013, quindi prima dello scoppio di LuxLeaks. Nel frattempo sono successe cose che dovrebbero aver messo la parola fine al gran valzer dell’elusione fiscale. Prima fra tutte le multe comminate dalla Commissione a Fiat e Starbucks. E - ultima in ordine di tempo - ad Apple, accusata di aver evitato di versare imposte per 13 miliardi di euro. «Spero che le decisioni facciano passare questo concetto: tutte le imprese, grandi o piccole, multinazionali o non, devono pagare la loro giusta quota di tasse», è stato il messaggio della responsabile delle condanne, la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Le parole fanno pensare che oggi sia tutto finito. Niente più vantaggi fiscali. Finalmente trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali. Un altro documento ottenuto da “l’Espresso” dice che le cose non stanno esattamente così. Porta la data del 16 settembre 2015, meno di un anno fa, e la firma di Stefano Sannino, ambasciatore italiano presso l’Unione europea. Il diplomatico scrive per conto del ministero dell’Economia, guidato da Pier Carlo Padoan, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il francese Alain Lamassoure. Che chiede al governo guidato da Matteo Renzi una «panoramica, compresa la data e il nome delle società, di tutti i tax ruling concessi a partire dal 1991». Sannino non nega l’esistenza dei tax ruling ancora in vigore. Risponde però che «queste informazioni non possono essere rivelate per ragioni di riservatezza». Insomma, almeno fino al settembre scorso anche l’Italia aveva stretto con alcune grandi imprese degli accordi fiscali. Riservati. Va detto che non per forza tax ruling fa rima con evasione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa di provincia. E così diverse nazioni offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi fiscalmente. Il vantaggio è duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa, appunto, è la teoria. La pratica indica però che questi strumenti possono essere usati anche per eludere il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di LuxLeaks. In cui alcune imprese, grandi e potenti, sono risultate più uguali di altre. Come evitare un nuovo scandalo? Con la riforma dei tax ruling approvata di recente, è la tesi della Commissione. Pierre Moscovici, numero uno dell’economia a Bruxelles, l’ha definita «una rivoluzione per la trasparenza fiscale». Approvata nel dicembre scorso dall’Ecofin, la riforma entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo e prevede per gli Stati l’obbligo di scambiarsi le informazioni sui tax ruling rispettivamente concessi, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Non proprio il massimo della sbandierata trasparenza. Ma tant’è. Il potente dimostra di essere tale quando è in difficoltà. Due anni fa le multinazionali sembravano alle corde. «Mai più LuxLeaks», appunto. Invece alla fine è cambiato poco. I tax ruling restano validi. E soprattutto segreti. Chi può garantire dunque che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? Un dubbio che s’insidia con una forza proporzionale a quella delle multinazionali. Le quali, nell’ultimo anno, hanno annunciato grandi investimenti proprio in Italia, uno degli Stati con le finanze pubbliche più sgangherate dell’Ue. Apple realizzerà a Napoli il primo centro di sviluppo app d’Europa. Cisco investirà 100 milioni di euro in tre anni. Amazon ne metterà sul piatto ancora di più (si dice 500 milioni) per assumere 1.200 persone. Ryanair ha appena promesso di voler spendere un miliardo di dollari nel Belpaese. Che siano proprio queste alcune delle aziende beneficiare dei tax ruling tricolori? Impossibile saperlo. È un segreto di Stato.
C'è chi paga le tasse e chi invece le ruba. Un fiume di denaro pubblico sottratto da società private di riscossione. Ottocento comuni che perdono entrate per centinaia di milioni. Tra spese pazze, finti bond, ranch in Botswana, consulenze d’oro. E soldi a politici, scrive Paolo Biondani e Gloria Riva su "L'Espresso" il 19 maggio 2016. Nell'Italia dei record dell'evasione si apre un nuovo scandalo fiscale: le tasse rubate. Tributi regolarmente pagati dai cittadini, ma spariti dalla casse degli esattori. Che non sono funzionari dello stato, ma imprese private autorizzate alla riscossione. Società con forti agganci politici e bancari, che ora sono sotto accusa a Milano. E' quanto rivela l'Espresso nell'inchiesta in edicola venerdì 20 maggio, che anticipa i primi risultati di un'inchiesta della Procura di Milano e della Guardia di Finanza di Lecco. La prima certezza giudiziaria è che sono scomparsi almeno 150 milioni di euro. Le indagini riguardano tre aziende private di riscossione delle tasse entrate in grave crisi tra il 2014 e i primi mesi del 2016. Le tre società, Aipa, Gruppo Kgs e Mazal, gestiscono soprattutto le entrate fiscali locali, dalle imposte sulle affissioni alle tasse sui rifiuti. L'inchiesta ha verificato che molti tributi pagati dagli italiani sono poi spariti in un vortice di spese pazze, consulenze d'oro, intrighi finanziari con obbligazioni-fantasma e perfino acquisti di ville, scuderie di cavalli e ranch all'estero, tra Botswana, California e Wyoming. A contare i danni per le entrate perdute ora sono circa 800 comuni italiani, da Trieste a Foggia, da Genova a Trapani, Agrigento, Milano, Roma, Cagliari e molti altri centri sparsi per tutta Italia. Tra gli indagati già interrogati o perquisiti, scrive sempre l'Espresso, compaiono i principali manager delle tre società sotto accusa, in particolare Daniele Santucci, Luigi Virgilio e Fabio Massimo Ceccarelli, insieme all'ex sindaco di Forza Italia a Como, il commercialista Stefano Bruni, e al patron del Lecco Calcio, l'imprenditore Daniele Bizzozero. Le indagini riguardano anche un traffico internazionale di obbligazioni americane, che risultano di valore nullo, ma sono state utilizzate per nascondere le perdite delle società di riscossione: i bond-fantasma erano custoditi, in particolare, in una filiale di Banca Etruria. Gli inquirenti stanno ricostruendo molti altri casi di aziende italiane di vari settori che sono state ricapitalizzate, sulla carta, con questi titoli-spazzatura.
Rapporto annuale GdF: 4 mld di danni allo Stato nel 2015, tra sprechi e truffe. I numeri dell'attività della Finanza: aumentano gli evasori totali, oltre 13mila le denunce, scrive Corrado Zunino il 10 marzo 2016 su "La Repubblica". Tra sprechi nella Pubblica amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza presentato oggi. Nell'ambito di 2.644 accertamenti svolti su delega della Corte dei Conti, sono state 8.021 le persone per le quali si ipotizza responsabilità erariale.
Appalti pubblici assegnati per oltre 3,5 miliardi: quasi un terzo del totale è stato dato in maniera illegale nel corso del 2015. I finanzieri hanno inoltre denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate.
Aumentano gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi ottomila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 l'anno scorso. Dal rapporto, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi.
Sono stati scoperti casi di illegittima appropriazione o illegittime richieste di finanziamenti pubblici, comunitari e nazionali, per oltre un miliardo di euro: 4.084 denunciati, 38 gli arresti. Le truffe nel settore previdenziale e al Sistema sanitario nazionale sono state pari a 300 milioni di euro, ventisette gli arrestati. Ben il 69 per cento dei controlli (11.669) sui requisiti di legge previsti per l'erogazione di prestazioni sociali agevolate e per l'esenzione del ticket sanitario ha rivelato irregolarità per un danno complessivo, anche qui, di 4,2 milioni di euro.
Contro l'evasione e le frodi fiscali 104 arresti. Sono stati 2.466 i casi di "frodi carosello", ovvero la creazione di società cartiere o fantasma per la costituzione di crediti Iva fittizi e indebita compensazione. I casi di evasione internazionale sono stati 444, per la maggior parte riconducibili a fenomeni di fittizio trasferimento all'estero della residenza di persone fisiche e di società. Sono stati 5.184 i datori di lavoro che hanno impiegato 11.290 persone in nero e 12.428 i lavoratori irregolari accertati. Per tutelarsi dalle frodi fiscali, la Finanza ha sequestrato disponibilità patrimoniali per 1,1 miliardi di euro e proposto sequestri per altri 4,4 miliardi. Su 2.813 pompe di benzina controllate, 2.077 sono risultate irregolari: il 74 per cento.
Accertamenti economico-patrimoniali per indagini di mafia su 9.180 persone e 2.182 tra aziende e società. Sequestrati 4.261 beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore di 2,9 miliardi di euro. La confisca ha riguardato 93 aziende, nonché quote societarie e disponibilità finanziarie per altri 747 milioni di euro. Settanta gli arrestati per associazione mafiosa, 111 per riciclaggio, 17 per autoriciclaggio, 53 per usura.
Nelle indagini svolte nei settori dei reati societari, fallimentari, bancari, finanziari e di Borsa sono state denunciate 6.253 persone di cui 267 tratte in arresto. Accertate distrazioni patrimoniali in danno di società fallite per due miliardi di euro. I controlli svolti ai valichi di confine, ai porti e agli aeroporti hanno accertato valuta in eccesso per 104 milioni di euro.
Sequestrati più di 390 milioni di prodotti illegali, perché contraffatti, piratati, pericolosi o recanti falsa o fallace indicazione di origine o provenienza: tre miliardi di euro il valore stimato.
Tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione alla normativa sul Made in Italy.
Sequestrati o oscurati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti o opere audio-video riprodotte illecitamente. Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi.
Sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. Sono oltre 36 milioni le giocate nascoste al fisco. Nell'attività di contrasto al falso monetario sono state sequestrate 1.402.945 banconote false per un valore complessivo di 57 milioni di euro. Scoperte, ancora, tre stamperie clandestine.
Sequestrate 69,7 tonnellate di droga, 52 delle quali in operazioni svolte in mare. Cinque i cargo sequestrati. In tutto, 1.709 gli arresti per traffico di stupefacenti. Altre trenta imbarcazioni sono state sequestrate perché utilizzate per l'immigrazione clandestina.
Il rapporto si riferisce a questo?
Scontrino di 0,10 euro in meno: il Fisco vuole togliergli il bar. All'imprenditore è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. E ora rischia di perdere il bar, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 21/03/2016 su “Il Giornale”. L'ennesima, tremenda ingiustizia del Fisco. Che colpisce piccoli e grandi imprenditori senza alcuna intransigenza. Senza ascoltare l'urlo della crisi. La direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, aveva detto che "chi non collabora conoscerà il lato oscuro degli accertamenti". E il lato oscuro è proprio quello che ha colpito il Bar Gianni di Trieste e il suo titolare, Stefano Karis. Una vicenda che ha i contorni dell'assurdo. All'imprenditore, infatti, è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. Insomma, per errore ha scritto sullo scontrino appena 10 centesimi di caffè in meno. E così è arrivata la mannaia del Fisco. Forse l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza pensavano che per colpa di quei 10 centesimi dichiarati i conti dello Stato sarebbero andati in malora. Karis, da parte sua, prova a instaurare una battaglia contro i mulini a vento. Si è difeso, spiegando di aver premuto per errore il tasto “caffè” (1 euro) della cassa al posto di “decaffeinato” (1,10 euro). Niente da fare. I finanzieri hanno scritto il verbale, facendo scattare la multa contro il commerciante. Infatti, se l’Agenzia delle Entrate deciderà di punire fino in fondo, il titolare del bar rischia la sospensione della licenza, sanzione amministrativa di 516 euro e l'obbligo di chiusura del negozio. Su Facebook il titolare del bar ha pubblicato la foto del verbale, corredata da un commento amaro in dialetto veneto: "Verbale della finanza perché go battudo un scontrin de 1€ invece che 1,10 € perché el caffè iera deca. Ma con quel che succedi in sto Paese, vendo bar per due euro e vado via da questo Paese di merda". Una comprensibile reazione alla follia fiscale.
Fisco. Rapine in corso ed estorsione legalizzata. Inchiesta sulla mafia di Stato di Riccardo Trombetta su “Striscia la Notizia” di Canale 5 su Mediaset del 12 febbraio e 8,9,11,14,16,17 marzo 2016 e l’Inchiesta di Nicola Porro su Virus di Rai 2 del 17 marzo 2016.
Art. 416 bis c.p.: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.” INTIMIDAZIONE ED ASSOGGETTAMENTO. L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti".
IN UN PAESE NORMALE CON QUESTA INCHIESTA SAREBBE NATA UNA RIVOLUZIONE. IN ITALIA NULLA. PERCHE’ UN POPOLO DI COGLIONI SARA’ SEMPRE GOVERNATO, AMMINISTRATO, GIUDICATO DA COGLIONI.
A Striscia la notizia parla un funzionario dell'Agenzia delle Entrate sugli avvisi illegittimi. "La sera del 17 marzo 2016 a Striscia la notizia va in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia", scrive in una nota Mediaset. "Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40) andrà in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia" annuncia con un comunicato Mediaset. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto il funzionario ai microfoni dell'inviato Riccardo Trombetta, e ha aggiunto: «Voglio spiegarvi come funziona questo sistema, che è un sistema a discapito del cittadino. Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita. Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell'interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno. Pensano alle loro tasche, non a quelle dei cittadini». Inoltre, il testimone conferma che il mercanteggiare fa parte del sistema: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta»" rivela ancora la fonte di Striscia la notizia.
L'uomo del fisco si sputtana in diretta tv: se comprate una casa siete rovinati, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2016. A Rossella Orlandi, direttrice della Agenzia delle Entrate, piace il cinema. Tutti abbiamo potuto ammirarla mentre si calava nei panni del malvagio Darth Vader e si esibiva in una minacciosa citazione di Star Wars: «Chi non ha risposto ad un approccio collaborativo, conoscerà il lato oscuro dell'accertamento». Però a Rosella Orlandi piace un po' meno la televisione. Specie quando trasmette programmi che raccontano il «lato oscuro» del Fisco. E infatti, pochi giorni fa, l'Agenzia delle entrate ha emesso un comunicato in cui spiegava di stare «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali» nei confronti di Striscia la notizia. Da qualche settimana, il tg satirico di Antonio Ricci manda in onda servizi che raccontano le vicende di alcuni malcapitati a cui l'Agenzia ha indirizzato multe e sanzioni per migliaia di euro. Guardandoli con attenzione, se ne deduce che il Fisco non mostra il suo «lato oscuro» soltanto con chi fa il furbo, ma pure con chi segue le regole e, sulla carta, non avrebbe nulla da temere. L' aspetto più odioso della faccenda consiste nel fatto che, molto spesso, ci sono di mezzo immobili, dunque case o uffici acquistati dai cittadini a prezzo di sacrifici. L' inviato di Striscia Riccardo Trombetta ha intervistato varie persone a cui è capitata la stessa cosa: dopo l'acquisto di un terreno o di un locale, i poveretti si sono visti recapitare dall' Agenzia delle entrate un avviso con annessa sanzione, piuttosto salata per giunta. Facciamo un esempio. Uno degli intervistati ha spiegato di aver comprato un locale, pagandolo 210 mila euro, per farne una piccola palestra di yoga. Non passa molto tempo, ed ecco che arriva la comunicazione del Fisco, in cui si dice che - in base alle valutazioni dell'Agenzia delle entrate - il valore dell'immobile è in realtà di 313 mila euro e rotti. Segue multa di circa 20 mila euro. Stessa cosa per il proprietario di un terreno: lo ha pagato 35 mila euro, ma l'Agenzia gli ha attribuito un valore undici volte superiore: multa di 84 mila euro. Il problema, però, è proprio la valutazione del Fisco. Tutti gli intervistati spiegano che l'Agenzia delle entrate non ha effettuato sopralluoghi, dunque i funzionari hanno valutato case e terreni senza vederli. In alcuni casi, sui documenti ufficiali, hanno persino sbagliato gli indirizzi. Come hanno fatto a stabilirne il prezzo, allora? Semplice, hanno paragonato i terreni e gli immobili ad altri con un valore di mercato più alto. La sensazione, espressa da alcuni degli intervistati da Striscia, è che il Fisco abbia volutamente sopravvalutato locali e terreni per poter emettere una sanzione, contando sul fatto che - per non avere guai - i cittadini avrebbero pagato. «Poiché ho protestato», ha spiegato uno dei poveretti, «ho avuto la sensazione che mi facessero uno sconto». Di fronte a tutte queste testimonianze raccolte da Striscia, il «Fisco amico» della Orlandi che fa? Manda un comunicato in cui ventila azioni legali. Alla faccia della collaborazione. Peccato che, ieri sera, il tg satirico abbia mandato in onda una testimonianza eloquente. Un funzionario dell'Agenzia delle entrate, a volto coperto, ha rilasciato un'intervista all' inviato Trombetta. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto. Poi ha spiegato come funziona il sistema: «Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita», ha raccontato. «Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell' interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno». Inoltre, il funzionario ha confermato il mercanteggiamento sulle multe da pagare: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta». Capito? Il Fisco sovrastima le case e i terreni acquistati dagli italiani, e propone una sanzione pesante. Poi, quando il cittadino si presenta, la abbassa, mostrandosi «collaborativo», e convincendo i più ad aprire il portafogli e a pagare una multa che non si meritano. A questo punto, dopo il pagamento dell'ingiusta sanzione, l'Agenzia potrebbe consegnare ai cittadini una bella ricevuta con scritto: «Benvenuti nel lato oscuro». Se proprio bisogna prendere in giro la gente, lo si faccia fino in fondo.
Le Entrate attaccano «Striscia la notizia»: minacciati dipendenti, scrive Libero il 16 Mar 2016. Striscia la notizia denuncia l’approssimazione con la quale Agenzia dell’Entrate consegna ai contribuenti accertamenti fiscali, e l’anagrafe tributaria se la prende con la banda di Antonio Ricci. L’Agenzia delle Entrate ha infatti condannato «con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori» del servizio “Rapine in corso”, andato in onda lunedì 14 sera su Canale 5. Non solo l’Agenzia delle Entrate ha anche annunciato che sta «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti». L’anagrafe tributaria punta il dito non tanto sui contenuti, gli eventuali errori nell’erogare cartelle, quanto sui toni di Striscia. In particolare, sottolineano in una nota, «le espressioni utilizzate durante il servizio (...)sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale».
L’Agenzia delle Entrate condanna fortemente Striscia la Notizia. Pubblicato un comunicato in cui l'Agenzia condanna i toni utilizzati dal programma di Canale 5 nella puntata del 14 marzo di "Rapine in corso", scrive Marco Napoletano il 15 marzo 2016. Una cosa è certa, Striscia la Notizia ha infastidito e non poco, l’Agenzia delle Entrate. L’ha infastidita al punto da far diramare un comunicato stampa di ferma condanna nei confronti della trasmissione di Canale 5 diretta da Antonio Ricci rea, secondo il comunicato, di aver utilizzato espressioni lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate ma soprattutto intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Tutto nasce dai servizi di Striscia realizzati da Riccardo Trombetta e denominati “Rapine in corso” nei quali, il conduttore, si sofferma su presunte pratiche dell’Agenzia delle Entrate, non cristalline nella valutazione di immobili acquistati dai contribuenti definendole addirittura “estorsioni legalizzate”. Il comunicato è stato diramato oggi 15 marzo in relazione, nello specifico, alla puntata del 14 marzo di Striscia la Notizia. Nel servizio, l’Agenzia delle Entrate viene accusata di effettuare valutazioni sul valore di un terreno senza fare i dovuti sopralluoghi e quindi, incrementare il suddetto valore di circa 11 volte il valore di acquisto imponendo quindi una sanzione all’acquirente. Nel comunicato l’Agenzia precisa che il programma televisivo non ha mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate rendendo quindi impossibile riscontrare se vi siano errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale. A far infuriare ulteriormente le Entrate è stato l’accostamento dei propri funzionari al personaggio di Marlon Brando interpretato ne “Il Padrino” facendo quindi alludere ad un atteggiamento mafioso della stessa Agenzia superando, secondo il comunicato, il limite del buon gusto e del rispetto delle istituzioni. L’Agenzia delle Entrate si riserva quindi la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti.
Roma, 15 mar. (AdnKronos) - L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda ieri sera all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti". In particolare, sottolinea in una nota, "le espressioni utilizzate durante il servizio, come ad esempio “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”, sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Riteniamo, altresì, che l’accostamento del comportamento dei nostri funzionari alla condotta mafiosa del personaggio del film 'Il Padrino', del quale viene trasmesso un estratto modificato, per alludere ad un atteggiamento vessatorio dell’Agenzia, abbia superato il limite del buon gusto e del rispetto delle Istituzioni". Nel merito dei casi trattati, sottolinea l'Agenzia delle Entrate, "va sottolineato che la redazione di Striscia la Notizia non ha mai chiesto all’Agenzia delle Entrate di poter verificare la correttezza e la genuinità delle affermazioni riportate nel citato servizio, rendendo impossibile a questa Amministrazione poter riscontrare se vi sono errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale". "Riaffermare nel sistema Paese, tempestivamente e con ogni lecito mezzo, la mission e il ruolo di migliaia di funzionari, che altro non chiedono che di lavorare con serenità, soddisfazione, adeguata remunerazione, prestigio e, quindi, legittimazione sociale". Questo l'auspicio di Sebastiano Callipo, segretario generale del Confsal Salfi, sindacato autonomo dei lavoratori finanziari, in una lettera inviata al direttore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Il leader sindacale prende atto, con soddisfazione, "del comunicato stampa, diramato dall'Agenzia, sul merito del servizio 'Rapine in corso', in quanto esistevano ed esistono, da un lato, sufficienti motivazioni per stigmatizzare apertamente il comportamento dei responsabili del servizio televisivo in narrativa e, dall’altro, ampie quanto diffuse ragioni per sostenere, anche con siffatta tipologia comunicativa, l’onorabilità delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Agenzia delle Entrate".
Dall'altra parte c'è il grande fallimento di Riscossione Sicilia. Spese esagerate, lussi incomprensibili, contrasti politici e casse vuote: il crac dell'ente siciliano preposto alla riscossione delle tasse, scrive "Panorama" il 18 gennaio 2016. Un aereo da 12 milioni di euro è rimasto fermo per quattro anni all'interno di un hangar dell’aeroporto di Catania. Apparteneva a una signora che gestiva un bar a Maletto, un paesino della provincia etnea. È stato pignorato pochi mesi fa. La proprietaria aveva eluso il fisco per centinaia di migliaia di euro. La storia della riscossione in Sicilia è anche questa. È storia pirandelliana di paradossi e abusi. Di follie e mafia. Di patrimoni ed evasioni allo stesso modo enormi. Oggi, a riscuotere le tasse nell’Isola è un'azienda che ha come socio al 99,9 per cento la Regione siciliana. Si chiama Riscossione Sicilia. Ma l’ironia è già nel nome. Perché questa agenzia di riscossione non riscuote granché. Anzi. I numeri sono deprimenti. Nel 2014, a fronte di 5,7 miliardi da incassare, la Sicilia ha portato nelle sue casse appena 481 milioni. L’otto per cento. Per i redditi più alti, quelli superiori a 500 mila euro, la quota era ancora più bassa: il 3,66 per cento. Cifre un poco migliorate nell’ultimo anno. Ma ancora imbarazzanti. Eppure per il presidente della Regione Rosario Crocetta quell’azienda è un fiore all’occhiello. È uno degli ultimi baluardi di un autonomismo che oggi, dati alla mano, pare quantomeno anacronistico. «La Lega Nord pagherebbe per avere un gabelliere tutto suo» ripete il governatore. Nella maggior parte delle Regioni d’Italia, in effetti, a svolgere quelle funzioni è Equitalia: una società certamente non amata dai contribuenti ma che, quantomeno, grazie anche ai contributi statali riesce a stare in piedi senza denunciare perdite. E verso la quale in tanti, anche nell’isola, iniziano a guardare, in vista di un possibile trasferimento delle funzioni dell'agente di riscossione siciliano. In Riscossione Sicilia lavorano 702 persone, in bilico da quando l’assemblea regionale siciliana ha negato la ricapitalizzazione dell’azienda: 2,5 milioni, questa la richiesta giunta a Natale dal governo Crocetta ai deputati siciliani, per mantenere in piedi una società che ha eroso ormai completamente il capitale. Ma che nonostante ciò si appresta a erogare premi ai dipendenti per un totale di 7 milioni di euro. Somme frutto di un accordo sindacale di un paio d’anni fa e mai rispettato. Parte del consiglio d’amministrazione, però, si è messo di traverso, bloccando per il momento quei bonus. Oggi, infatti, nelle casse della società non c'è un euro, malgrado nel 2014 a Riscossione fosse stato assicurato un altro contributo pubblico di 40 milioni. L’agente di riscossione siciliano, insomma, è praticamente fallito. «Non mi resta che portare i libri in tribunale» ha tuonato infatti a fine dicembre il presidente dell’azienda, l’avvocato catanese Antonio Fiumefreddo, dopo il no alla ricapitalizzazione del consiglio regionale. L'amministratore ha poi accusato gli stessi deputati siciliani che avevano bocciato il contributo: «Sono mascalzoni travestiti da esponenti delle istituzioni» ha detto Fiumefreddo, che a sua volta ha un passato politico assai variopinto, prima a fianco del sindaco berlusconiano Raffaele Stancanelli, poi del governatore Raffaele Lombardo condannato in primo grado per associazione mafiosa. Fiumefreddo è entrato da tempo nelle grazie di Crocetta. Il presidente della Regione ha provato più volte a nominare Fiumefreddo assessore della sua giunta. Ma si è sempre dovuto scontrare col veto dei partiti della sua coalizione, Pd in testa. E il presidente di Riscossione, a dire il vero, non ha fatto nulla per farsi amare dai politici siciliani. Anzi, si è beccato anche una querela per diffamazione dall’assemblea regionale proprio per le sue parole. Non solo «mascalzoni», ma anche «pirati». Fiumefreddo, che ha anche chiesto di essere ascoltato in Procura a Palermo, ha denunciato: «Non mi meraviglierei se tra i pirati, che si sono nascosti dietro il voto segreto (per negare la ricapitalizzazione i Riscossione Sicilia, ndr), ci siano parte dei 61 parlamentari ai quali per la prima volta nella storia abbiamo notificato i pignoramenti delle loro laute indennità». Insomma, su 90 consiglieri regionali, secondo Fiumefreddo 61 sarebbero stati pignorarti per inadempienze fiscali. Pochi giorni dopo, ecco saltare fuori una lista dei politici «morosi». Tra questi, anche il presidente Crocetta che aveva chiesto la rateizzazione del suo debito. Mentre molti deputati replicavano: «Da Fiumefreddo solo slogan e offese al parlamento. Pensi a far funzionare la società: non si può pensare di regalare all'azienda ogni anno milioni di euro». Così la guerra tra Riscossione e consiglio regionale è finita in tribunale. Un destino già scritto, in un certo senso, per una società che fino a pochi mesi fa poteva contare sulla bellezza di 887 avvocati, il triplo di quelli a disposizione della Casa bianca. Legali «scelti clientelarmente» ha denunciato Fiumefreddo. Quegli incarichi sono poi stati azzerati. Ma sono il segno di un’azienda azzoppata da sprechi e inefficienze. Come quelle relative alle spese per le sedi sparse per tutta l’isola. La società, per esempio, ha pagato fino a pochi mesi fa un contratto d’affitto da quasi mezzo milione l’anno in uno dei più piccoli capoluoghi dell’Isola, cioè Ragusa. Spese esagerate, lussi incomprensibili e strumenti tecnologici obsoleti. Ingredienti che hanno portato al dissesto. Che eppure nell’ultimo anno ha dato segnali di risveglio con una crescita del riscosso del 31 per cento e anche con alcune azioni clamorose. Come le decine di pignorare d’auto di lusso in possesso a grandi evasori fiscali. «In Sicilia» ha spiegato Fiumefreddo «a causa di elusioni fiscali o mancato versamento di imposte andrebbero pignorate 230 mila automobili». Riscossione si è limitata a sequestrarne un migliaio. Tra cui 116 Porsche, 46 Jaguar, 33 Ferrari e tre Cadillac. In quell’occasione, è stato pignorato anche l’aereo da turismo della barista di Maletto. Ma non basta. Anche perché l’impotenza della società di Riscossione si traduce nei dati sull’evasione fiscale nell’Isola, di gran lunga più elevati rispetto alla media nazionale. È questo il risultato di anni in cui la riscossione in Sicilia è stata terra di abusi e sprechi, di ingenti e repentine ricchezze ma anche di ombre e malaffare. A cominciare dagli anni in cui a gestire l’esattoria a Palermo e in 75 Comuni siciliani erano i cugini Nino e Ignazio Salvo, imprenditori di Salemi, paesino del Trapanese, legati a Cosa nostra. Non a caso entrambi finirono sul banco degli imputati del Maxiprocesso: Nino morì prima della sentenza, mentre Ignazio fu condannato a tre anni di reclusione. Negli anni novanta, arriva la Montepaschi-Serit, società che fa capo all’Istituto di credito. Nel 2010 la Regione siciliana acquista le quote in possesso a Monte dei Paschi di Siena con un’operazione su cui restano molti dubbi, soprattutto per il valore attribuito alle quote dei privati: la Regione siciliana pagò circa 400 milioni di euro, un prezzo «assolutamente esoso» denuncia Fiumefreddo: «Ma la cosa più grave» aggiunge «è che non l’ha deciso nessuno, anzi l’ha deciso chi vendeva». Ombre del passato su una società che oggi affonda. Eppure, nonostante le difficoltà, il riscossore fa sempre paura. Ne sa qualcosa il deputato regionale Michele Cimino, che in un’audizione in Commissione bilancio all’Ars, dopo la diffusione dei primi nomi di parlamentari morosi è intervenuto per precisare che «c’è anche un Cimino Michele nato a Trento. Io» ha spiegato «sono nato a Porto Empedocle e non ho 70 anni». È di Porto Empedocle, precisa il deputato: un paese a due passi dalla casa di Luigi Pirandello. Dalla sua penna sembra uscita la storia di Riscossione Sicilia, che non riscuote mai.
"L'Agenzia delle Entrate fa estorsioni": la confessione choc dell'ex dirigente, scrive “Libero Quotidiano” il 31 marzo 2016. A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40 30 marzo 2016) la testimonianza di Luciano Dissegna che, per 30 anni, è stato dirigente e funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Dissegna si è detto “sbalordito” per i servizi mandati in onda da Striscia nelle scorse settimane: "Finalmente un organo di informazione che dice la verità", ha dichiarato all’inviato Riccardo Trombetta. "I dirigenti hanno sempre fatto carriera in base al cosiddetto obiettivo monetario", racconta l'uomo, "più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80mila euro in più". I cittadini più colpiti dagli accertamenti, ha spiegato l’ex dirigente, sono i piccoli imprenditori: "Arriva un avviso d’accertamento da 100mila euro e, davanti alla proposta di pagarne metà, ci si trova costretti a pagare. Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi. È una situazione di potere provocata da accertamenti presuntivi e discrezionali: dietro la discrezionalità c’è la corruzione. Sono andato via perché non potevo accettare questa situazione e anche perché rischiavo molto grosso. Mettersi contro l’amministrazione è pericoloso".
CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO. Saggio di Manlio Tummolo. Il presente lavoro è dedicato a tutti i cittadini, lavoratori, contribuenti e consumatori, europei e italiani. Molti studiosi di economia e di scienza delle finanze, di fronte alla disastrosa situazione europea e italiana degli ultimi decenni si arrampicano su scivolosissimi specchi nel tentativo di spiegarla con le solite tradizionali dottrine d’impronta liberista che hanno dimostrato il loro insignificante vuoto almeno dal 1929. Viceversa, è ben più utile cercar di capire la crisi nelle sue reali ragioni in un libro di Mario Giordano, “L’Unione fa la truffa”, pubblicato da Mondadori già nel 2001 col sottotitolo “Tutto quello che vi hanno nascosto sull’Europa”. Eppure le radici di tutto questo sono ben lontane, almeno fin dal 1972, quando fu inventata l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e creato il nuovo sistema fiscale col relativo Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), di cui noi italiani abbiamo ben due versioni: una “previgente” (ma non del tutto abrogata) e l’altra vigente... pur significando in lingua italiana “unico” come ciò che è solo ed esclusivo (nondimeno questo aggettivo viene usato per imposte - cfr. IMU - tutt’altro che uniche). Allora si passò dalla vecchia Dichiarazione Vanoni, piuttosto semplice, all'attuale IRPEF - sempre più complicata allo scopo di spennare il popolo in modo crescentemente feroce.
Un sano sistema fiscale deve essere fondato:
1) sulle reali esigenze di uno Stato, correlate alle effettive risorse della popolazione di quello stesso Stato;
2) sulla proporzione diretta o crescente tra i beni dei singoli e la serie di tributi, diretti e indiretti, che su di essi grava;
3) sulla semplicità e chiarezza delle procedure necessarie a pagare quei tributi;
4) sul buon uso che lo Stato dovrebbe fare della massa di introiti ricevuti dalla popolazione soggetta al fisco.
Viceversa, non occorre essere un esperto in materia finanziaria e fiscale per verificare che il nostro sistema fiscale è esattamente all'opposto perché non corrisponde alle esigenze dello Stato, non tiene conto delle reali risorse della popolazione, non è né direttamente né in modo progressivo proporzionato ai beni dei singoli, non utilizza procedure chiare e limpide, ma semmai estremamente contorte fin dai termini stessi adoperati (l’aggettivo “unico” ne è un manifesto esempio), non utilizza i propri introiti per il bene della popolazione ma li spreca nell'alimentare ogni genere di parassitismo, premiando il crimine piuttosto che l’onestà. Si parla e si straparla assai spesso di “paradisi fiscali” e di “evasione fiscale”, ma assai poco di “inferni fiscali” e di “invasione fiscale”, come - ahi, ahi, ahi noi !!! - si verificano nella UE (che vorrebbe dire Unione Europea”, ma va specificato che non è un’unione di cittadini bensì un’aggregazione di affaristi e imbroglioni capaci solo di sfruttare parassitariamente la pazienza dei cittadini sotto lo scudo di ideali pretestuosi). Troppo spesso si sente parlare della necessità di “più Europa”, mentre non si tratta di accrescere né i già troppi poteri affidati a chi non è neppure eletto (commissari e consiglieri europei), ma nominato dagli sgoverni degli Stati, né aumentare il numero degli Stati aderenti sulla base poi solo del cosiddetto PIL. Viceversa, si tratta di creare un’Europa vera, autentica, migliore, nella quale non si cede la sovranità ad un’accozzaglia di nullafacenti e complici di trafficanti, ma di condividere pienamente ed egualitariamente una sovranità europea. E cominciamo pure dalla stessa “imposta sul valore aggiunto”, nata nel 1972, che è ben un’imposta aggiunta alle altre indirette, ma il “valore aggiunto” qual è? Dove si trova? Di che si tratta? Durante le lezioni universitarie di Diritto Tributario, docenti e ricercatori ben si sforzano di chiarire agli attoniti studenti che non è un’imposta a “cascata”, come la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate), ovvero che si ripercuote su tutti i livelli di esazione, e credono di aver detto una cosa intelligente, dimenticando però che la vecchia IGE era piuttosto bassa (il 3 %, suppergiù) e che per la sua piccolezza si risentiva relativamente, ma che anche l’IVA è a cascata, con questa differenza che, dal produttore all’ultimo consumatore, si paga un’IVA crescente man mano che il prodotto nei vari gradi di vendita aumenta di prezzo, e che chi la paga è l’ultimo fesso della scala economica, che non avendo partita IVA, non può scaricarla su nessuno, nemmeno, come sarebbe equo, sulla propria dichiarazione dei redditi. Non solo: ma l’aliquota IVA è ben più alta di quella IGE. Che si fa poi di questi introiti? Una bella parte di essi serve a mantenere i capricci della Commissione UE e dei Consigli associati, i suoi lussi e, quando essa vuole, ridistribuita su canali fissi, preventivi, arbitrari, tanto nessuno ha il reale potere di farli modificare: altro che il famoso principio anglosassone del “senza rappresentanza, nessuna tassazione”, che fu causa delle due Rivoluzioni Inglesi, di quella Americana e, in parte, della Rivoluzione Francese. Ma torniamo al “valore aggiunto”: dov’è, dove si trova, chi lo determina? In che cosa consiste? Nessuno ve lo sa dire, perché il valore di un prodotto o servizio risulta solo quello che viene ceduto a chi lo acquista, lo consuma o lo utilizza, o se preferite quello di chi lo paga di passaggio in passaggio. L’uso poi di questi introiti è assolutamente negativo ed incontrollabile, e lo verifichiamo, perché largamente e spropositatamente dato agli Stati che aderiscono per ultimi alla UE, mentre quelli che pagano da decenni (dal 1957, per intenderci) ricevono molto meno di quanto dato, e larga parte è persa in strani meandri (vedi la nostra beata Italia). Altra questione: dal linguaggio economico, che non brilla mai per chiarezza, si parla tanto del Prodotto Interno Lordo (PIL), come base di calcolo a cui riferire il debito pubblico di uno Stato: ma anche questo che diavolo significa? Un lordo presuppone altresì un netto ed una tara: or dove sono il prodotto interno netto e il prodotto interno tarato? Mah, misteri e giochetti su termini che non hanno alcun significato esatto, tanto è vero che oggi - su indicazione della UE e della sua impareggiabile Commissione - vengono calcolati ad libitum o ad oculum anche i prodotti del tutto incalcolabili della criminalità, così come ad oculum si calcola l’evasione fiscale (lo Stato si aspetta, del tutto fantasiosamente, di guadagnare dalle imposte 100; ne riceve 50. Ecco che si mette a gridare: abbiamo il 50 % di evasione fiscale. Che ciò sia soltanto una disinvolta approssimazione è dimostrato quando, in conclusione di un contenzioso tributario, deve accontentarsi - specie con i ricconi che possono difendersi - del solo 30 % del preventivato, e allora canta vittoria). A parte il fatto indecente di considerare la criminalità una fonte di reddito per lo Stato (invece di combatterla per annientarla o almeno per ridurla ad un termine minimo), nell’economia in versione UE, la morale non vale, ma evidentemente neppure il Diritto: per definizione introiti illeciti e non denunciati sono incalcolabili, e quindi non vanno calcolati neppure per approssimazione, senza creare l’illusione di essere più ricchi del reale (è pur vero che le attività criminali generano, per chi le pratica, ricchezza, ma questa non circola nello Stato in generale, bensì nell’ambito criminale, come in un cerchio quasi interamente chiuso. Lo Stato ne viene danneggiato, non favorito: di qui l’esigenza, non solo etico-giuridica, ma economica, di combattere la criminalità con ogni mezzo). Ora, il punto è questo: uno Stato o Unione, che “legalizzi o formalizzi” l’attività criminale come PIL, non fa altro che manifestare la propria affinità e simpatia col crimine stesso, considerandolo un fenomeno fisiologico, invece che patologico, qualcosa di benefico anziché, come dovrebbe, di venefico e maledetto. Quanto all’Italia, il discorso è ben lungo e meriterebbe un’enciclopedia, a molti volumi, e non certo un singolo libro: data dall’intera storia italiana e potremmo risalire alla Repubblica Romana e ai suoi pubblicani. Leggendo la “Vita di Lucullo” in Plutarco ed altri testi del tempo, scopriremmo i metodi di esazione feroci utilizzati da quel regime, e poi imitati in forme più o meno attenuate anche ai nostri tempi. Del resto, dalle XII Tavole si sa che i creditori avevano anticamente il diritto di fare a pezzi letteralmente il loro debitore moroso, doloso o colposo che fosse. Poi ci si accorse che era più conveniente spogliarlo d’ogni bene, renderlo schiavo con l’intera famiglia, e considerarlo un oggetto. Non è che oggi la mentalità sia molto diversa, malgrado conclamate garanzie. Ma di ciò più avanti. E’ dunque almeno da duemila anni che si preferisce, per avidità, ricevere alla fine poco, non facilitando al debitore la possibilità di pagare decentemente il suo debito. E come, vi domanderete? Semplicemente non calcolando in modo assurdo e sproporzionato gli interessi attribuiti al debito (ben superiori a quelli sul credito, detto di passaggio), bensì dando all’interesse una diretta proporzione col costo della vita effettivo. Chiunque legga studiosi italiani di politica fiscale, almeno dal XIX secolo e particolarmente dall’unità d’Italia vede che tali autori segnalarono fin da allora la costante esosità delle imposte, sia per volume complessivo e individuale delle stesse, sia per le procedure di esazione, sia infine per il pessimo uso delle stesse. Per tutte queste ragioni, il cittadino italiano sente atavicamente, geneticamente, come odioso ed inaccettabile il sistema fiscale che grava su di lui. La propaganda di regime e giornalistica (serva della prima) giustifica l’enorme cumulo fiscale col pretesto del debito pubblico, ma per nulla cerca di spiegarne l’origine, anzi, per soprammercato, usa la frase tipica “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”, senza per nulla dire chi realmente “viva al di sopra delle sue possibilità”. Di certo, non il normale cittadino, lavoratore, pensionato, contribuente e consumatore, semmai oberato da questo peso insostenibile. Ma che cos’è il debito pubblico, donde nasce storicamente? Secoli fa, ancora nel Medioevo, il reuccio, il feudatario, il signorotto, ecc. ecc., non avendo cognizione alcuna di un’economia e di una finanza ben regolate, di un sistema fiscale adeguato alle risorse esistenti, si facevano prestare dalle prime banche (italiane e tedesche soprattutto) ingenti somme per i loro rispettivi capricci: una vita di corte sfarzosa, mantenimento di cortigiane e cortigiani, guerre e guerricciole, crociate, ecc. ecc. Quando il sistema di gabelle imposto ai sudditi non bastava a pagare i banchieri creditori, i vari sovrani (Francia ed Inghilterra soprattutto) finivano per non pagarli affatto: da qui, le prime crisi bancarie della storia (specie delle banche fiorentine nel XV secolo). In caso “positivo” di solvibilità, erano i sudditi a dover pagare con sistemi forzosi, che però non consentivano l’attivazione di servizi per il pubblico interesse. Malgrado la Rivoluzione Francese avesse cercato di impostare la questione fiscale nei termini razionalisti dell’Illuminismo, il debito pubblico continuò, perché i vari malgoverni e sgoverni d’Europa, invece di creare un sistema fiscale chiaro e facilmente verificabile dai cittadini da utilizzare secondo le esigenze di uno Stato moderno (servizi pubblici), preferivano avere un sistema d’entrate incontrollato ed incontrollabile, ma più comodo o “soft” (per dirla all’inglese), fondato su un atto volontario, distribuendo carta straccia come titolo ad interesse, così l’affarista versava volontariamente denaro allo Stato, in cambio di un interesse significativo nell’anno. Lo Stato a sua volta, senza dover rendere conto di quanto entrava volontariamente al resto dei cittadini (facendone un uso voluttuario come gli antichi signorotti), pagava e paga gli interessi agli affaristi facendoli incidere sul sistema di imposte. Così, per non essere “impopolari” con un sistema fiscale diretto, severo ma equo, facevano e fanno pagare al popolo questi onerosi interessi, come se il Debito pubblico fosse a vantaggio non di pochi, ma di tutti (basti pensare al buon Mario Monti quando asseriva non pagabili le pensioni con la storia dello spread: oggi sappiamo che tutta quella vergognosa manfrina serviva solo a spremere i contribuenti italiani che già dal 1973/74 hanno visto ridurre sempre più le proprie condizioni economiche per dover pagare i frutti delle speculazioni finanziarie o gli abusi del malgoverno). Il popolo è costretto a pagare, ma non sa né quanto paga, né esattamente perché paga: si pensi ad es., all’automobilista quando si reca a caricare di carburante il proprio serbatoio. In realtà, quando crede di compiere questo fatto privato, egli versa allo Stato da 2/3 a 3/4 di imposte al benzinaio, che così diventa un esattore d’imposta. Non sono i normali cittadini, lavoratori e pensionati, a vivere al di sopra delle loro possibilità, ma esclusivamente i dirigenti politici ed amministrativi dello Stato, i grandi managers delle varie aziende private o semi-pubbliche, certi signori dello sport e delle canzonette, gli acquirenti di titoli pubblici o privati. Generalmente si riconosce l’enorme divario tra i pochi ricchi e i molti poveri, ma la cosa, in regime capitalistico, viene considerata normale e lodevole, anzi si fa di tutto per incrementare (alla faccia della Costituzione e di varie leggi) tali abissali differenze, sicché 10 mangiano per 1000 e 990 devono mangiare quel che resta, come nella celebre favola della guerra del leone con i suoi “alleati” (il non meno celebre patto leonino, pur vietato dal Codice Civile). Biancaneve, nella fiaba, si fa un piattino portando via un cucchiaio dal piatto di ciascuno dei sette nani. Costoro, invece, prendono l’intero piatto, lasciando a tutti gli altri solo un cucchiaio. Pure hanno il coraggio, o meglio l’impudenza, di chiamare tutto ciò “democrazia”… La cosa tristissima è che i normali cittadini si fanno incantare dalla pubblicità del regime e accettano pure essi questo andazzo, ritenendolo fisiologico, corretto e “democratico”. Fino agli inizi del ‘900, quando venivano imposti nuovi tributi sulle farine o altro genere necessario, la gente si ribellava (pensiamo ai Fasci Siciliani), scatenava vere insurrezioni, e, pur riconoscendo che allora i poveri vivevano solo di pane o poco più mentre oggi ancora non siamo a tal punto (ma non ne siamo chissà che distanti), la popolazione contribuente lascia fare, non c’è neppure una rilevante protesta elettorale che richiederebbe agli elettori di evitare il voto, come solenne protesta; non si organizzano forti manifestazioni di piazza, ecc. ecc. . Il quietismo domina sovrano, provocato quasi sempre dal rincitrullimento collettivo (si protesta con violenza per una partita di calcio ma su cose essenziali ci si rassegna pecorescamente). L’ira si accumula ugualmente, ma si sfoga come tra i quattro capponi di Renzo, beccandosi a vicenda o uccidendosi, mentre i responsabili dei mali collettivi si divertono allegramente. Fino a quando questo gioco durerà? E’ difficile prevederlo: anche domani mattina potrebbe scoppiare qualcosa, oppure di qui a mille anni. Di certo, come la storia insegna, più tardi esploderà la situazione, e più violenta sarà. Finora ho parlato della cleptomania dello Stato, ovvero di quanto i vari regimi, per tradizione derubano i cittadini comuni. Ora si tratta di esaminare, viceversa, la cleptofilia dei regimi oggi dominanti. Tutti sanno che il furto, ovvero l’indebita appropriazione aperta o subdola di un bene al suo legittimo proprietario da parte d’un altro, è pratica vietata dal Codice Penale con determinate sanzioni, più o meno gravi, secondo le circostanze e la metodologia, ma forse non tutti sanno che lo Stato e pure organismi privati ritengono il furto, specie quello con destrezza e subdolo, un vero merito, mentre viene considerato demerito per il cittadino che sia derubato in quanto poco furbo o poco attento ai suoi beni. E’ una tradizione molto antica che risale almeno alle norme di Licurgo, a Sparta: infatti, come testimoniano gli storici greci, nell’antica Sparta non era punito il furto in sé, ma il fatto che il ladro si fosse fatto scoprire, poco importa se dal derubato stesso oppure da qualcun altro per conto del derubato. Chiunque di voi lettori sia stato derubato, sa quale sia l’aria di compatimento che ricevete quando denunciate un furto, il cui autore, come nei vecchi films di Totò, è sempre il “solito ignoto”. Poiché giustamente non posso denunciare un nome qualsiasi, rischiando per soprammercato di essere controdenunciato per calunnia o simulazione di reato, devo denunciare un ignoto. Ora, come mi sono sentito dire (ma lo sapevo già) in cancelleria del Tribunale di Trieste, è difficile trovare un ignoto per questo semplice paralogisma: chi è ignoto è sconosciuto, quindi non è perseguibile (si può perseguire, indagare il signore ignoto? Ovviamente no). Pertanto, la denuncia contro ignoti è automaticamente destinata ad essere archiviata in breve tempo. Ovviamente si tratta di paralogisma, soprattutto oggi, quando si sa ogni cosa che viene fatta da qualcuno. Esemplifico: vi viene rubata una tessera bancomat. Il ladro vi spoglia di ogni vostro versamento sempre allo stesso impianto per una serie di volte, finché il vostro deposito si dissolve. Ogni bancomat dovrebbe essere tutelato da una telecamera, che si accorge che lo stesso individuo a quelle ore, mentre voi siete da tutt’altra parte e lo potete dimostrare, fa come il birraio che versa le birre nei boccali. Ora, malgrado questa garanzia, il ladro può presentarsi col casco o celato da un cappuccio, non si fa scorgere il viso, quindi non è individuabile. Oppure, più semplicemente la telecamera non funziona o è mal orientata. Il furto tramite bancomat, specialmente se accompagnato da quello del codice, potrebbe essere evitato se, oltre al PIN, avesse registrato le impronte digitali o una fotografia del titolare, in modo che, se non è egli stesso ad utilizzarlo, il PIN non basterebbe ad estrarre il denaro. Così il ladro di bancomat (a proposito, qualcuno sa dirmi se, per caso, vengano venduti a privati rilevatori di bancomat nei portafogli, considerata la presenza di un elemento elettromagnetico nella tessera, peraltro di sola plastica?), non avendo quelle impronte o quella fisionomia, o non mostrando il viso, non potrebbe rubare assolutamente nulla: ma aspettiamo ulteriori progressi della tecnologia a scopo di antifurto, anche per combattere la clonazione di tali tessere, che io certo, ed altri cittadini, non sappiamo come realizzare... ma c’è viceversa un certo numero di persone che ha le cognizioni tecniche per realizzarla. Che il regime poi abbia un occhio di riguardo per i ladri, lo si nota pure dal comportamento delle banche di fronte al derubato: la banca si proclama proprietaria della carta, ma, quando uno è derubato della stessa, se ne lava le mani, punendo anzi il derubato con ulteriori costi (sostituzione della carta e nuovo PIN). Per fatto giuridico, la banca potrebbe farsi parte lesa e parte civile (a processo iniziato), ma se ne guarda bene, malgrado il furto riguardi sì il denaro del cliente ma in quanto avviene per mezzo di un uso illegittimo della carta stessa, la banca compartecipa delle conseguenze del reato. Invece, si limita a promettere di rendere al proprio cliente la somma derubata, se denunciata, ma poi non riconosce come furto quello che è un furto (o lo fa solo a certe condizioni, decise dalla banca stessa). Ora, vediamo: il derubato è costretto ovviamente a denunciare il furto subito sia nei confronti della legge in generale, sia nei confronti della banca stessa. Nel contempo, per quantificare il furto subito (nell’eventualità di un futuro risarcimento in seguito a processo), è anche costretto a disconoscere come proprio il prelievo di una certa somma in quel o quei giorni e a quelle ore: perché un furto può ben avere un autore ignoto, ma l’oggetto derubato deve essere chiaramente specificato, si tratti di denaro o di cose, sempre in funzione di un futuro e possibile processo. Questo disconoscimento deve avvenire sia davanti alle Forze dell’Ordine, sia alla banca stessa, che però se ne lava le mani, pur facendo riempire moduli con quello scopo e, quindi, facendo perdere tempo agli impiegati e al derubato, visto che, con un pretesto o l’altro, non accetta il disconoscimento, anzi ti infligge costi aggiuntivi. Eppure, alla banca quel pezzo di plastica magnetizzato non costa nulla, anzi ti viene dato per poter ridurre, con procedure automatiche, la quantità di personale necessario. Non so altrove, ma a Trieste la società locale dei trasporti urbani e la stessa amministrazione comunale, per ridurre l’inquinamento, ti consigliano o ti impongono di utilizzare il mezzo pubblico. Poi aggiungono, con avvisi, di far attenzione ai borseggiatori che, vedi caso, non vengono mai presi o, se presi, restano in carcere giusto il tempo minimo, per poi tornare a rubare subito dopo. Da un lato ti incoraggiano a salire sull’autobus, dall’altro ti invitano a stare attento ai borseggiatori come se questi avessero un qualche distintivo o segno di riconoscimento. Se vieni derubato in autobus la colpa non è attribuita al borseggiatore, ovviamente, e nemmeno alla società di trasporti che ha eliminato da decenni il vecchio caro bigliettaio e ridotto al minimo i controllori... è colpa del borseggiato che non stava attento ai suoi beni come se mettesse i soldi appesi al berretto con su scritto “prendetemi”, oppure il portafoglio in bella evidenza con la stessa scritta. E’ evidente che il borseggiatore sa bene il proprio mestiere e, riguardo ai bancomat, penso che abbia qualche apparecchietto rilevatore (ovviamente di invenzione americana) che segnala la presenza di una tessera magnetica tanto da andare a colpo sicuro nella tasca o nel/la borsetto/a di un passeggero, senza farsene minimamente accorgere (è il mio caso sull’autobus numero 29 della Trieste Trasporti, non particolarmente affollato, in data 8 luglio 2015 circa alle ore 11.30, mentre candidamente e del tutto serenamente parlavo con una mia ex-collega d’Università). Quando ci si accorge del furto, perché si cerca il portafoglio, può essere tardi e il ladro, tutto felice della sua pesca di beneficenza, va ad incassare il meritato guadagno. Ma, se qualcuno denunciasse la società di pubblico trasporto per connivenza con i borseggiatori o per mancata sorveglianza, o altra forma di favoreggiamento colposo o doloso, rischierebbe probabilmente di essere perseguito per calunnia. Del resto, chiunque abbia avuto esperienza di un furto in casa, sa come la legge sia molto severa con chi affronta il ladro, o violatore di domicilio, e lo malmena, per non parlare poi del caso che lo ferisca con arma da fuoco, lo insegua o che altro. Il ladro è, nell’attuale regime, una professione molto onorata, rispettata e tutelata. D’altronde che il sistema bancario abbia molte affinità, somiglianze e parentele con gli autori ignoti di furto, lo si nota bene negli ultimi decenni: ad esempio, confrontando gli interessi di credito del cliente con gli interessi di debito del cliente stesso, malgrado le deflazioni tanto declamate dal capo supremo della Banca Centrale Europea. Oppure, quando si tratta degli interessi su un debito qualunque (mutuo o fido che sia): logica vorrebbe che si calcolassero prima le rate da versare sul debito iniziale, poi i relativi interessi, anche perché l’inflazione, il costo della vita, ecc., non si possono calcolare con approssimazione a distanza di dieci, venti o trent’anni. Chi ha una certa età, sa bene come dal 1973/ 74, l’anno della grande crisi petrolifera, ad oggi, le mutazioni finanziarie sono state enormi, addirittura inimmaginabili: come dunque calcolare preventivamente gli interessi oltre i cinque anni? E nondimeno le banche fanno pagare prima del tutto o prevalentemente gli interessi, poi il debito originario. Così per pura avidità rischiano di perdere o perdono somme rilevanti. Inoltre il sistema è tale che non facilita l’assolvimento dei doveri di un debitore: come già ai tempi dei pubblicani di Roma antica, il debito si accumula in modo tale da rendere impossibile il pagarlo, e oggi - fortunatamente - non esiste la schiavitù, né il “diritto” di far a pezzi il debitore, tuttavia esiste il diritto di rovinarlo per il resto dei suoi anni, talvolta anche per cifre relativamente basse, che però - non pagate – provocano interessi di mora e sanzioni varie. Le carte di credito, ad es, sono un caso di questo genere: si parte da cifre non alte, ma, dati gli interessi notevoli (il 14 % e più in questi anni!!), si finisce per rendere quasi impossibile senza ulteriori traffici o penosi sacrifici il saldare completamente. Ne consegue che per una somma ricevuta di 7.000 euro si finisce per vederla raddoppiata o triplicata. Si può anche constatare come il cliente della banca sia penalizzato come creditore, visto che riceve pochi interessi e vede sfumare i suoi depositi da imposte fisse dello Stato o da strani e poco precisati servizi bancari, solo perché si tratta di conti correnti, tanto “correnti” che spariscono. Il sistema telematico, inoltre, consente, almeno dal 1993 (sgoverno Amato), di depredare i risparmiatori senza nemmeno farlo sapere o facendolo sapere in ritardo. Un altro caso più recente, dello sgoverno Berlusconi, è quello di far sparire i libretti cosiddetti dormienti (nel caso di persone molto anziane o di deceduti, i cui eredi non sappiano dell’esistenza di questi depositi, si vedono poi depredati senza pietà). Se il cliente di banca è debitore, è sempre danneggiato sia che paghi in anticipo, sia che paghi puntualmente o che paghi in ritardo. Tutto ciò è provocato essenzialmente dalla brama di lucro senza freni né proporzioni: il Codice Civile non fa distinzioni proporzionali, una scala gerarchica nell’attivo di una determinata attività economica. Tale indeterminatezza favorisce appunto ogni forma di avidità. A solo titolo esemplificativo propongo, viceversa, questa scala di valore quantitativo, tenendo conto tuttavia delle diverse attività economiche e della situazione inflattiva o deflattiva:
1) pareggio: quando i ricavi pareggiano i costi complessivi di una certa attività economica;
2) attivo o utile: quando tali ricavi sono superiori, di poco o tanto, ai costi complessivi;
3) profitto: quando l’attivo giunge al 30 - 40 % dei costi complessivi;
4) lucro: quando l’attivo supera il 30 – 40 % dei costi complessivi.
Ora, mentre il profitto è necessario per l’esistenza del produttore o conduttore di attività economiche consentendogli una vita agiata e, al tempo stesso, di reinvestire una parte dell’attivo nel progresso della propria attività, il lucro finisce per essere adoperato in cose superflue, se non per la corruzione di altri, limitando la circolazione della ricchezza in un ambito ben limitato. Uno Stato non è ricco quando al suo interno esistono pochi grandi ricchi, ma quando e perché la ricchezza è distribuita il più ampiamente e proporzionalmente possibile. Una moneta da un euro non vale di più perché investita in un certo ambito ristretto, ma perché circola in più mani e consente a più persone di acquistare più beni in un tempo più rapido: se essa giace in un cassetto o in una cassaforte, o se viene investita nell’illusione di averne due in un dato tempo, essa è meno utile alla collettività rispetto al suo inserimento in una veloce circolazione. Ci si chiederà: ma il risparmio? Il piccolo risparmio (quello di un bambino, ad es.) ha un significato educativo, che gli consente di accumulare un certo numero di monete per comprarsi ciò che gli piace e non per sentir tintinnare il suo salvadanaio personale; il risparmio di un adulto è depositato in una banca che lo utilizza appunto per farlo circolare, e non per accumularlo nelle proprie casseforti utilizzando somme più o meno rilevanti per determinati investimenti. Viceversa, sappiamo bene che così non è, e la finanza diventa un sistema ladresco più o meno scoperto che finisce per danneggiare il normale risparmiatore (volontario o forzato che sia, come il lavoratore a cui vengono tolti i contributi per proteggere la sua vecchiaia o periodo post-lavorativo... che però si vede defraudato sia del capitale versato, sia degli interessi accumulati in decenni di lavoro e di deposito: perché questa è ciò che, con termine ambiguo e vago, ma prevalente, viene chiamato “pensione”, mentre si dovrebbe chiamare “rendita da capitale di lavoro a scopo previdenziale”). Un altro sistema di furto sui cittadini è dato da certi servizi pubblici, privatizzati in tutto o in parte, e non più fondati sul principio del semplice attivo e del limitato e ragionevole profitto, bensì sul lucro più sfrenato. Ma che vuol dire “servizio pubblico”? Un ente che svolge una certa attività economica nell’interesse della collettività nel suo complesso: ad esempio i trasporti, l’energia elettrica, la distribuzione del gas, la scuola. Nel 1962 e fino a tutti gli anni ’80, il servizio pubblico aveva lo scopo, almeno dichiarato, di servire (essere utile, beneficiare) alla cittadinanza con tariffe tali da consentire pareggio o lieve attivo, sufficienti a mantenere il servizio stesso. Già con la crisi petrolifera, ma ancor più con gli anni ’90, il servizio pubblico viene inteso come un’organizzazione atta a far sì che il pubblico serva (sia schiavo del…) il servizio, onde procurargli non più modesti profitti, ma forti lucri da distribuire agli azionisti della società semiprivatizzata. Per quanto poi si parli di pluralità di erogatori di servizi che, per concorrenza, dovrebbero far diminuire i costi, essendo la fonte di tutto sempre unica, tale concorrenza è puramente dichiarata, non effettiva. Quello che è certo è che, a qualunque società erogatrice ci si rivolga, il costo è sempre molto elevato, a cui si aggiunge l’occhiuta e adunca zampa dello Stato e degli enti locali con le loro svariate imposte che si accumulano una sull’altra (tipici l’IVA, di cui si è detto sopra, e il cumulo di imposte). Esistono enti che dovrebbero tutelare il cittadino e contribuente (garanti, autorità, ecc.), tutta gente che aggiunge costi su costi al cittadino, ma che, se vi rivolgete ad essi, danno sempre ragione al più forte e quasi mai al singolo cittadino (vecchio principio giuridico: il forte ha sempre più ragione del debole). Farò un altro esempio personale recente che, per carità di patria, nasconderò sotto falsi nomi. Fin dal 1962 esisteva un ente chiamato MAGNETEL che, per conto dello Stato, distribuiva a prezzi decenti l’energia magnetica. Esso, negli anni ’90, venne “privatizzato” su ordini della finanza internazionale e della sopra apprezzata UE. Più recentemente, sempre per mimetizzare il debito pubblico, si è scorporata dalla vecchia società una MAGNETEL DISTRIBUTION, una società MAGNETEL MAGNETICS SERVICES, e infine una MAGNETEL FORCE. Quest’ultima ha scatenato una grossa campagna promotrice, giocando sul vecchio marchio MAGNETEL, sicché alcune persone, tra cui lo scrivente, hanno aderito. La proposta telefonica era allettante, perché si prometteva che a parità di condizioni le tariffe sarebbero di molto calate per un certo numero d’anni. Le prime due bollette della MAGNETEL FORCE sembravano realizzare questa promessa, ma la terza fu un disastro perché – per il medesimo periodo d’anno e di fronte ad uso pressoché identico (vivo solo e quindi so quanto consumo e come) - il costo complessivo era più che doppio rispetto a quello dell’anno precedente e di tutti gli anni precedenti… Questo in tempi di tanto decantata deflazione e di fronte alle flautate promesse della sirena telefonica (sirena nel senso omerico: ma si sa che, a seguirle, si impazzisce e si annega), non poteva non suscitare la mia legittima reazione di protesta e di ulteriore controllo (faccio presente che da anni controllo i miei consumi giorno per giorno e li annoto su un quaderno). Verificando i consumi da me registrati e quelli segnalati sulla bolletta, la cosa non faceva una grinza, ma controllando poi nelle varie fasce orarie, risultavano consumi di energia magnetica non corrispondenti all’uso effettivo, sempre uguale da anni (da quando vivo a Bertiolo, maggio 2007), mentre quelli risultanti sul contatore erano variabili. Tanto per dire, pur utilizzando il sistema biorario e pur magari in mia assenza, alla domenica vengono aggiunti, non in omaggio ovviamente, kw/h in più (almeno 5) per recuperare quanto si dovrebbe spendere di meno a causa dell’ora di utilizzo più “conveniente”. Lo stesso, in misura minore, nei giorni feriali. Ma confrontando a parità d’uso il giorno feriale con quello festivo, nel consumo di energia magnetica si notava un salto da 7 a 12 o più kw/h. In un primo tempo pensai a un guasto, ma ben presto pareva ovvio che il guasto non avrebbe distinto così bene i giorni festivi (numerosi in dicembre e gennaio) dai giorni feriali, a scapito di quella che doveva essere una tariffa più bassa. In sostanza, si fanno risultare kw/h in più di energia magnetica per recuperare quanto la giornata dovrebbe far pagare di meno. Come, vi chiederete? Guardate i vostri contatori: sono dei piccoli cervellini elettronici. Essi dovrebbero comunicare ad una centrale di raccolta-dati quanto avete consumato, senza che sia necessario mandare casa per casa un controllore, come si faceva circa dieci anni fa. Un risparmio di tempo e di stipendi che dovrebbe far felici e contenti gli azionisti della MAGNETEL FORCE. Ma ciò non basta; quando si è avidi si desidera guadagnare sempre di più e pagare sempre di meno: l’ideale dell’affarista è un diagramma in cui i lucri crescono a velocità uniformemente accelerata, anche se ciò è ben lontano dal realizzarsi. Quello è il desiderio, il sogno, e si utilizza ogni strumento per approssimarsi ad esso. Pare dunque ovvio che il contatore, tanto moderno, dialoga con la centrale: più che trasmettere, riceve i dati o aggiunge dati ulteriori a quelli che vengono trasmessi. Naturalmente i tecnici della MAGNETEL DISTRIBUTION lo negano con energia (ovvio), ma è facile capire che è così solo se si ha la pazienza di registrare sistematicamente i dati durante il giorno, in quelli feriali, come festivi. Così ho pagato due esose bollette bimestrali (totale 478 euro più centesimi, mentre ne pagavo per quattro mesi sotto i 250), ma ho già provveduto a rompere il contratto passando ad altra società (che ha anche il vantaggio di avere uffici con personale umano e non flautate voci telefoniche) e, in secondo momento, al deposito di una querela corredata dalle mie registrazioni dei consumi e da altra documentazione alla Procura presso il Tribunale Ordinario di Udine (non mi illudo, per diretta e pregressa esperienza, che indaghino a fondo, ma che almeno stiano in guardia e, in futuro, non possano dire “non sapevamo”). In conclusione, il cittadino contribuente e consumatore vede costantemente smentita non solo la finalità tanto proclamata dell’Unione Europea (che non è “unione”, ma aggregazione d’affari, che non è Europa, in quanto in greco il prefisso “eu” significa “bello e buono”, bensì Caco-ropa, ovvero “Ropa brutta e cattiva”, come in cacofonia) del benessere diffuso, in quanto i vantaggi spettano solo ai grandi speculatori internazionali, ma anche le norme costituzionali a partire dall’art.1 (lavoro come fondamento della Repubblica), agli artt. 3 (uguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 14 (inviolabilità del domicilio), 23 (prestazioni economiche in base alla legge), 28 (responsabilità civile dello Stato, enti pubblici, e dirigenti), 31 (agevolazioni per la famiglia), 32 (tutela della salute), 35 (tutela del lavoro), 36 (retribuzione proporzionata), 38 (diritti degli inabili e diritti previdenziali), 41 (II comma, divieto di danneggiare la sicurezza, la dignità, la libertà), 45 (funzione economico-sociale della cooperazione nel lavoro), e soprattutto l’art. 47 (sulla tutela del risparmio, mai tanto poco tutelato come in questi ultimi due decenni, tanto da diventare qualcosa di derisorio). Il popolo italiano se ne renda conto, soprattutto nelle prossime occasioni elettorali, punendo col voto i responsabili di tutto ciò.
Altro che evasione fiscale elevata: Lo Stato è un approfittatore sanguisuga e bugiardo. Le tasse che gravano sulle famiglie dei lavoratori dipendenti nel 96% dei casi vengono prelevate alla fonte dalla busta paga o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Solo il 4% è versato al fisco attraverso una operazione di pagamento presso uno sportello bancario o postale. Lo rivela l'Ufficio studi della Cgia il 12 marzo 2016 che per il 2016 ha calcolato in 17 mila euro il carico fiscale complessivo che graverà su una famiglia tipo composta da due lavoratori dipendenti (marito e moglie) con un figlio a carico.
Il premier vampiro tutto tasse e polizia fiscale. Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale". Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. Da fine mese l'Agenzia delle entrate potrà accedere in tempo reale a tutte, dico tutte, le nostre transazioni: versamenti, prelievi, assegni, accessi alla cassetta di sicurezza, bancomat. Le banche, in sostanza, da imprese di diritto privato diventeranno agenzie pubbliche. Il denaro, il nostro denaro, esce di fatto dalla proprietà privata per passare sotto il diretto controllo dello Stato. Che fino a ieri poteva, giustamente, contestarci presunte evasioni o elusioni in base a documenti che, per legge, siamo tenuti a compilare, custodire ed eventualmente esibire. E che dal primo aprile mai data fu più significativa potrà invece curiosare nelle nostre vite, chiedere spiegazioni di una spesa, del perché in un dato periodo abbiamo aperto per ben tre volte la cassetta di sicurezza.Detto che non stiamo dalla parte degli evasori, stiamo comunque con chi crede che lo Stato non abbia il diritto di spiarci. E le due cose sono compatibili. La Apple immagino sia contro i terroristi, ma, giustamente, si rifiuta di svelare l'algoritmo che custodisce la memoria più segreta dei suoi telefonini. La libertà è un bene assoluto, e ha un prezzo sia nel campo della sicurezza che in quello fiscale. Ci sono poi altri due problemi. Il primo. È vero che in quanto ad evasione, in Inghilterra e negli Stati Uniti non scherzano. Faccio però notare che i sudditi di sua Maestà hanno una pressione fiscale del 32 per cento e gli americani del 26. Cioè l'11 e il 17 per cento in meno della nostra, attestata sul 43,6. Il secondo. I contratti vanno rispettati da tutti i contraenti. E non mi sembra che il governo rispetti i patti che sono alla base della richiesta, per di più esosa, di tasse: oltre ad essere il primo a non pagare, non garantisce certezza delle leggi, tempi della giustizia equi, asili per i nostri figli, edifici scolastici a norma, i risparmiatori non sono tutelati da banche disoneste che, se non erro, dovevano essere controllate da Bankitalia, cioè dallo Stato. Intere zone di molte città sono ghetti di immigrati fuori controllo, la gestione delle case popolari è spesso in mano al racket, i debiti pubblici non vengono saldati e gli sprechi si moltiplicano. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite. Ma sai che c'è di nuovo? Vedi un po' di andare a...
Le troppe tasse (nascoste) degli italiani. Dalla scuola alle sigarette. Dalla sanità agli alberghi. Dalle targhe alle caldaie. Ti dicono che la pressione fiscale cala: in realtà aumenta, grazie a mille balzelli. Con vicende che sembrano fatte apposta per scatenare una protesta: come il sedicente «contributo volontario» per le scuole medie superiori (da 40 a 200 euro annui a seconda degli istituti, formalmente destinati a coprire le spese per laboratori e altro) che in realtà è un’imposta obbligatoria e serve a finanziare la manutenzione degli istituti. Panorama dedica alle troppe tasse nascoste degli italiani la storia di copertina del numero in edicola da giovedì 11 febbraio 2016.
Il Fisco sbaglia un po' troppo. Ora lo ammette pure Equitalia. Il Fisco invia cartelle Equitalia per debiti non dovuti. In quindici anni 217 miliardi di cartelle Equitalia "non dovute", scrive Sergio Rame, Martedì 09/02/2016, su "Il Giornale". Il Fisco ci perseguita. E lo fa con un margine di errore altissimo. Per sua stessa ammissione, infatti, sbaglia una volta su cinque. Tanto che, tra il 2000 e il 2015, il 20,5% delle cartelle in carico a Equitalia sono state emesse per un errore dell’ente creditore. Una "rapina" che, come riporta l'Huffington Post, vale circa 217 miliardi di euro. Durante l'audizione a Palazzo Madama, l'ad di Equitalia Ernesto Maria Ruffini ha spiegato che dal 2006 a oggi "le riscossioni sono sensibilmente aumentate" arrivando ad una media annua di 7,7 miliardi di euro e che il 53% delle cartelle riscosse nel 2015 riguarda debiti sopra i 100mila euro. "Su un carico totale lordo affidato a Equitalia nel periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015 che ammonta a 1.058 miliardi di euro - ha continuato - il 20,5% è stato annullato dagli stessi enti creditori, in quanto ritenuto indebito (cioè non dovuto dai contribuenti) a seguito di provvedimenti di autotutela da parte dei suddetti enticreditori o di decisioni dell'autorità giudiziaria". In quindici anni ci sono stati "errori" per 217 miliardi di euro. Si tratta di cartelle poi annullate perché un giudice le ha giudicate illegittime o perché lo stesso ente creditore si è accorto per tempo di aver commesso un errore e ha rimediato annullando la cartella senza attendere la decisione di un giudice. "Del totale di circa 217 miliardi di cartelle non dovute, e quindi annullate - spiega l'Huffington Post - 175 miliardi sono stati chiesti dall’Agenzia delle Entrate, 23,3 miliardi dall'Inps, circa 10 miliardi dall'Inail, 7,4 miliardi da altre amministrazioni".
Lo scandalo Equitalia: 15 anni di cartelle false per 217 miliardi di euro. Sconcertante audizione dell'ad Ruffini in commissione Bilancio: una richiesta su cinque non era dovuta. Esigibili solo 51 miliardi, scrive "Il Giornale" Mercoledì 10/02/2016. Più che «cartelle pazze», cartelle inventate. L'ad di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini, parlando in commissione Bilancio al Senato chiama «patologia estrema» il nodo delle quote inesigibili assegnate negli ultimi tre lustri al riscossore dei tributi, ricordando che solo il cinque per cento dei 1.058 miliardi di euro di crediti sono «effettivamente lavorabili». Ma sembra patologico anche il più vistoso dei dati snocciolati da Ruffini ieri. Ossia che il 20,5 per cento di quei mille e passa miliardi di euro - pari a quasi 217 miliardi - sono inesigibili semplicemente perché i destinatari delle cartelle non li dovevano pagare. Tanto che quei crediti sono stati «annullati dagli stessi enti creditori in quanto ritenuti indebiti a seguito di provvedimenti di autotutela da parte degli stessi enti o di decisioni dell'autorità giudiziaria». Insomma, una volta su cinque il fisco bussa alla porta dei contribuenti senza alcun motivo, e alza le mani solo quando i tartassati loro malgrado riescono a farsi giustizia passando per le carte bollate, costringendo l'amministrazione pubblica a innestare la retromarcia. Una percentuale da brividi, una pioggia di errori che hanno attentato ingiustamente alle finanze dei contribuenti. E se le statistiche ci dicono che più del venti per cento delle cartelle sono farlocche, non dicono quanti contribuenti invece, ricevuta la cartella «creativa», hanno pagato senza contestare o fare ricorso, non accorgendosi, o non potendo controllare, se quella richiesta del fisco fosse o meno motivata. Un punto che fa pensare che l'«errore» tutto sommato possa spesso finire per far fare cassa al fisco, sfilando comunque soldi - non dovuti - alle tasche dei cittadini. Quanto alle amministrazioni «distratte», quelle richieste indebite per 216,89 miliardi di euro, ha spiegato ancora l'amministratore delegato di Equitalia, provengono in gran parte dall'Agenzia delle entrate (175 miliardi di euro), mentre il resto si divide tra Inps (23,3 miliardi), Inail (10 miliardi) e altre amministrazioni pubbliche (7,4).D'altra parte, se solo una cinquantina di miliardi su oltre mille di quei crediti sono «effettivamente lavorabili», sembra chiaro che anche il restante delle cartelle esattoriali spedite da Equitalia ha qualche problema. Oltre 300 miliardi di euro, per esempio, secondo Ruffini sono «difficilmente recuperabili» perché i debitori sono passati a miglior vita, falliti o nullatenenti, o perché le imprese destinatarie della cartella hanno già chiuso i battenti. E dell'ultima metà di quel monte di soldi che il fisco ha chiesto a Equitalia di recuperare, un gruzzolo pari a 500 miliardi di euro? Il 60 per cento riguarda posizioni «per cui si sono tentate invano azioni esecutive», un centinaio di miliardi sono quelli effettivamente riscossi (in parte a rate) e, appunto, i crediti realmente esigibili che restano sono solo 51 miliardi, il 5 per cento del totale. Quanto alla rateizzazione delle cartelle esattoriali, l'ad di Equitalia Ruffini ha ricordato come ormai la metà degli incassi arrivi proprio dalle pratiche dilazionate (sono state 1,2 milioni le richieste presentate dai contribuenti nel solo 2015). E sul punto, c'è anche una notizia positiva per chi ha scelto di saldare un po' alla volta il suo debito con il fisco. Fino a oggi, chi era stato indotto a pagare con il fermo amministrativo di un mezzo, prima di poterlo utilizzare di nuovo doveva aspettare di aver versato l'ultima rata. Ora invece le «ganasce fiscali» potrebbero diventare più morbide perché, ha spiegato ancora Ruffini, Equitalia si riserverà la «possibilità di sospendere» il fermo amministrativo (anche se «non la possibilità di toglierlo») per i «soggetti che fanno richiesta delle rate e che le pagano».
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE. L’eterno equivoco sull’evasione scrive Carlo Lottieri il 2 gennaio 2016. La classe politica è determinata a difendere lo status quo e tenere in vita un disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo. Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella conferma quanto sia difficile, per la classe politica italiana, capire le reali condizioni della società. Non è sorprendente che gli uomini politici difendano in tutti i modi le prerogative del potere sovrano, ma certo stupisce il constatare quanto essi poco comprendano le sofferenze dei produttori e le devastazioni causate dalla regolazione, dalla tassazione e dai monopoli pubblici (si pensi, in particolare, al crollo del sistema pensionistico). Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. L’Italia non è in crisi perché gli italiani versano poche tasse, ma semmai perché lo Stato sottrae troppa ricchezza a quanti la producono. Alcuni decenni fa, quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese. È insomma falso sostenere che l’evasione danneggi la comunità nazionale, anche se certamente danneggia taluni privilegi di casta. Ma quanti sono nei palazzi romani al governo o in altre posizioni non intendono le ragioni di chi si ribella e ignorano le sofferenze all’origine di questa rivolta silenziosa e sotto traccia. Perché chi veramente ci sta negando la possibilità di avere un futuro è il ceto politico, che ha creato un terribile intreccio di ingiusti meccanismi redistributivi i quali sono l’esatta negazione di ogni ordinamento liberale. Continuare a ripetere che le tasse sarebbero più basse se tutti le pagassero significa non considerare la tendenza naturale degli uomini di potere ad allargare sempre più il proprio controllo della società. Significa fingere di non sapere che esistono uomini che comandano e altri che obbediscono, uomini che legiferano e altri che devono abbassare la testa. Nel discorso del presidente c’è insomma una visione angelicata della politica: l’idea che i professionisti del governo lavorino per noi. Essi ci tolgono ricchezza, ma per aiutare la società a farla crescere. Ed è di un certo rilievo anche l’accenno alla tesi del tutto falsa, affermata in questi anni da Thomas Piketty, secondo cui le diseguaglianze indebolirebbero l’economia. Per Mattarella i guai sono causati insomma dai ricchi, e non già dalla casta politica; e quindi bisogna far leva sull’invidia sociale, in modo tale che la gente confidi nel potere e si pieghi alla sua volontà. La classe politica italiana non è liberale e forse non lo è mai stata. Le parole del presidente ci dicono pure quanto essa sia determinata a difendere lo status quo e tenere in vita quel disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo che sta lanciandoci verso il precipizio. Carlo Lottieri. (Da istituto Bruno Leoni).
Presidente Mattarella, si fidi: azzerando l’evasione le tasse non sarebbero più basse, scrive Giovanni Masini il 4 gennaio 2016. Ci è cascato anche il Presidente della Repubblica: secondo il capo dello Stato estirpando la piaga del sommerso il Paese tornerà a crescere. Ma i dati su lotta all’evasione e pressione fiscale dicono esattamente il contrario. “Ad ostacolare la crescita è l’evasione. Secondo Confindustria l’evasione fiscale contributiva nel 2015 ammonta a 122 miliardi: 7,5 punti di Pil. Lo stesso studio calcola che dimezzando evasione si guadagnerebbero oltre trecentomila posti di lavoro. Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Le tasse sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero.” Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto, nel messaggio di fine anno, affrontare la questione dell’evasione fiscale. Parole che asseverano uno dei più consolidati luoghi comuni in materia: quello secondo cui tutti gli evasori sarebbero dei ladri e per cui riducendo il tasso di evasione calerebbe automaticamente anche il prelievo fiscale. Rincresce criticare il Capo dello Stato già al primo dei messaggi per Capodanno, ma il passaggio sull’evasione lascia scoraggiati anche i più speranzosi. Ai sensi dell’articolo 87 della Carta Costituzionale, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione – non dello Stato: sorprende quindi che Mattarella si limiti ad attaccare chi evade le tasse senza citare minimamente le pretese assurde di un Fisco esoso che è espressione, tra l’altro, di uno Stato spesso debitore nei confronti dei cittadini e promotore di bizantinismi legislativi e burocratici. L’argomentazione sottesa alle parole di Mattarella, evidentemente, non è economica ma etica. Se tutti facessero il proprio dovere, intendeva dire il Capo dello Stato, le cose andrebbero meglio. Peccato che abbia detto tutt’altro, azzardando peraltro teorie economiche che sono finite sotto attacco da più punti. Responsabile della mancata crescita del Paese, scrive Carlo Lottieri sul Giornale, non è solo e non è tanto l’evasione fiscale ma anzi l’ipertassazione di chi produce ricchezza e se la vede portare via dallo Stato. “Alcuni decenni fa – spiega Lottieri – quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese.” In un Paese in cui la spesa pubblica è fuori controllo, la difesa d’ufficio dello Stato nasconde una visione utopistica – la stessa che peraltro è implicita nello studio della Confindustria. Il giorno successivo al discorso di Mattarella, il vicepresidente degli industriali Andrea Bolla ammetteva che i calcoli su un eventuale incremento del Pil sono stati effettuati sulla base dell’ipotesi – tutta da verificare – “che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale”. Quante possibilità ci sono che questa ipotesi si realizzi i lettori possono facilmente immaginarlo. Se non vi riescono, possiamo provare ad aiutarli con alcuni dati. La predica del “se tutti pagassero tutte le tasse, tutti pagheremmo meno” non è un’esclusiva di Mattarella: la aveva già utilizzata a scopi propagandistici anche Matteo Renzi. Ebbene, già nei mesi scorsi gli osservatori più attenti avevano fatto notare al presidente del Consiglio che negli ultimi anni, a fronte di un aumento delle entrate derivanti dal contrasto all’evasione il tasso della pressione fiscale continua a crescere, mostrando poca o nessuna correlazione con la percentuale di evasione. Se nel 2006, quando è stato inaugurato il sistema di misurazione basato sugli incassi, erano stati riscossi 4,3 miliardi di euro, nel 2013 si poteva contare su un’evasione recuperata di 13,1. La domanda è quindi spontanea, scriveva già a settembre Federico Cartelli su Qelsi: dove sono finiti tutti quei soldi? Nel taglio della spesa pubblica, che sarebbe l’unica misura efficace per ridurre la pressione fiscale, non di certo, come Capire davvero la crisi vi ha già dimostrato. Nel frattempo, il taglio delle tasse (si veda quello in programma per la prima casa nella Legge di Stabilità 2016) viene fatto a deficit. Troppo spesso, infatti, la classe politica italiana (anche se non sarebbe giusto attribuire questa responsabilità a Mattarella in persona, che è anzitutto uomo di legge) preferisce gonfiare a dismisura la spesa pubblica pur di estendere la base del consenso, sia pure a spesa delle generazioni future che vengono oberate dal peso del debito. Questo non toglie, naturalmente, che l’evasione fiscale – come anche il preoccupante deficit di etica pubblica – costituisca un problema serio che merita ogni attenzione. Tuttavia, in quel messaggio di fine anno così conciso, gli italiani alle cui “speranze e preoccupazioni” il Presidente della Repubblica ha detto di volersi rivolgere, si sarebbero aspettati di sentire, da parte di Mattarella, anche una parola sui doveri e sugli impegni che quello Stato di cui è capo troppo spesso non riesce – o non vuole – mantenere.
MATTARELLA AMA LE VOSTRE TASSE, LUI E LA CASTA VIVONO DI QUELLE. “L’evasione viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà”. Pochi giorni fa è andato in onda, a reti unificate, il primo discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Matteo Orsini. Tra i temi di cui si è occupato, grande rilievo è stato dato all’evasione fiscale. Mattarella ha citato una recente pubblicazione del centro studi di Confindustria, secondo il quale l’evasione ammonterebbe a 122 miliardi, ossia 7.5 punti di Pil. Secondo il CsC, se l’evasione fosse dimezzata il Pil ne trarrebbe grande beneficio, così come l’occupazione. Quello che Mattarella non ha riportato è l’ipotesi su cui si basa la stima del CsC: che l’evasione recuperata si traduca in altrettante riduzioni di tasse. Non mi interessa approfondire la questione dei calcoli fatti dal CsC, anche se nei casi in cui l’evasione sia “di sopravvivenza” (ossia in quei casi nei quali se l’imprenditore pagasse tutto quanto richiesto dallo Stato dovrebbe chiudere i battenti), mi risulta difficile supporre che la sua eliminazione porterebbe benefici netti in termini di Pil e occupazione. Credo sia invece interessante sottolineare l’ipotesi da “Alice nel paese delle meraviglie” alla base delle stime del CsC: ossia che il gettito recuperato da evasione si tradurrebbe magicamente in una riduzione del carico fiscale. Capisco che queste storie le raccontino i governanti (lo stesso Mattarella lo ha detto nel corso del suo messaggio), ma la loro credibilità è pari a zero. D’altra parte, nel fondo per la riduzione delle tasse al quale destinare i denari recuperati dall’evasione fiscale, pur essendo previsto da anni, non è mai entrato neppure un euro. Serve una grande ingenuità per credere che si sia trattato solo di sfortunate circostanze. Ciò detto, secondo Mattarella l’evasione fiscale “viola il patto sociale”. Peccato che il patto sociale in questione sia una finzione giuridica e che nessun cittadino abbia avuto la possibilità di aderirvi volontariamente. Secondo Mattarella l’evasione “peggiora il rapporto tra cittadini e Stato”. Indubbiamente fornisce meno linfa allo Stato, ma mi permetto di supporre che i cittadini, per lo meno quelli che non campano di tasse altrui, non abbiano un rapporto così sereno con lo Stato per via delle tasse, non per via dell’evasione. Infine, secondo Mattarella l’evasione “riduce la solidarietà”. Niente affatto: l’evasione riduce semmai la solidarietà coatta, che non ha nulla a che vedere con la solidarietà autentica, la quale può derivare solo da azioni volontarie. Dal Quirinale, già nei giorni precedenti il messaggio di fine anno, era stato comunicato ai mezzi di informazione che il presidente si sarebbe occupato dei problemi più sentiti dalla gente. Ebbene: che l’evasione sia un problema per i parassiti che campano di tasse altrui è abbastanza credibile, ma che lo sia per tutti quanti direi proprio di no.
L'Evasione Fiscale e la cantonata del Presidente Mattarella sulle tasse, scrive Giuseppe Timpone il 5 Gennaio 2016 su “Investire Oggi”. L'evasione fiscale è realmente il male dell'Italia? Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella farebbe propendere per il sì, ma i dati dimostrerebbero altro. Nel suo discorso di fine anno, il presidente Sergio Mattarella ha citato l'evasione fiscale tra i mali, che frenerebbero la crescita dell'economia italiana, riferendosi a uno studio pubblicato da Confindustria, secondo cui l'economia sommersa sottrarrebbe alle casse dello stato 122 miliardi di euro all'anno, pari al 7,5% del pil. Nell'interpretazione del capo dello stato, se tutti pagassero le tasse, pagheremmo di meno. Non solo: sempre citando lo studio di Viale dell'Astronomia, ha affermato che l'evasione fiscale farebbe venire meno 300 mila posti di lavoro. Ora, fatto salvo che pagare le tasse è un obbligo previsto dalle leggi e, in quanto tale, deve essere rispettato e sanzionata la mancata osservanza, ci concentreremo qui su un piano diverso da quello giuridico, ossia economico. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era solito dire che quando a non pagare le tasse è un'ampia fetta della popolazione, il fenomeno non è più penale, bensì sociale. Il senso di questa affermazione ce la spiega forse meglio una battuta dell'economista Milton Friedman, padre del monetarismo, che negli anni Ottanta definì "giusta" l'evasione fiscale in Italia, in quanto reazione dei contribuenti all'inefficienza dei loro malgoverni. Ma già alcuni decenni prima era stato un italiano e, addirittura, un futuro capo dello stato, Luigi Einaudi, a "benedire" il mancato pagamento delle tasse da parte di molti italiani, considerandolo una reazione alla cattiva gestione della spesa pubblica.
Italiani pagano già troppe tasse. Diremmo che sull'evasione fiscale si giochi un dibattito a distanza di 70 anni tra Einaudi e Mattarella, il primo seguace del pensiero liberale, il secondo evidentemente no. L'impostazione dell'attuale capo dello stato è quella che va per la maggiore tra i media e il ceto politico italiano, che ci ripetono a ogni piè sospinto che gli italiani avrebbero il vizio di non pagare le tasse, caricando la pressione fiscale su quelli più onesti. Si tratta di un'affermazione, sconfessata dai dati. I contribuenti del Bel Paese sono da anni proprio i più tartassati d'Europa e al mondo. Secondo l'ultimo rapporto annuale della Banca Mondiale, realizzato in collaborazione con Pwc, l'Italia si colloca al 137-esimo posto su 189 paesi al mondo per convenienza fiscale riguardo alle imprese. La tassazione complessiva, gravante sui loro redditi, è pari al 64,8%, quando la media mondiale è del 40,8%, attestandosi al primo posto in Europa. E non solo il Fisco italiano è più sanguinario, ma anche più farraginoso. Servono 269 adempimenti all'anno per essere in regola in Italia, contro una media mondiale di 261 e di 173 in Europa. La pressione fiscale generale si attesta nel nostro paese sopra al 43% contro una media di circa il 40% nella UE. Ma le distanze con il resto d'Europa aumenterebbero vertiginosamente, se si considerasse solo l'economia ufficiale e non quella sommersa: a quel punto, l'incidenza delle tasse sui redditi schizzerebbe al 52,2%, 2 punti in più che in Danimarca.
Pagare tutti per pagare meno, ma è vero? Ora, i sostenitori del "pagare tutti per pagare meno" potrebbero ribattere che se almeno parte dei 122 miliardi sottratti ogni anno al Fisco fosse recuperata, si avrebbero maggiori risorse con le quali abbattere le tasse per tutti. Ma ci credete davvero? Un altro politico ed economista, Renato Brunetta, ha dichiarato in più di un'occasione che sarebbe un'evidenza in Italia che lo stato più incassa e più spende. Il problema non evidenziato dal presidente Mattarella e che pochi giornalisti, economisti e politici sottolineano nel nostro paese ruota tutto intorno a questo punto: sarebbe realmente in grado lo stato italiano di limitare la spesa pubblica, nel caso in cui aumentassero le entrate? Ovvero, immaginiamo che magicamente nessuno evadesse più le tasse. Il Tesoro registrerebbe a fine anno incassi per 122 miliardi in più. Ciò annullerebbe il deficit e porterebbe i conti pubblici in attivo di quasi il 5% del pil. Ebbene, credete per caso che il governo (quale che sia) sarà in grado di resistere alle sirene di quanti chiederanno più investimenti nelle infrastrutture, aumenti degli stipendi pubblici, crescita della spesa sanitaria, per la scuola, etc.? Alla fine, è probabile che al capitolo della riduzione delle tasse andrebbero spiccioli, mentre la gran parte del maggiore gettito sarebbe destinata a finanziare voci di spesa. Saremmo punto e a capo.
Evasione fiscale è voto di sfiducia degli italiani verso i politici. Non ultimo, resta da affrontare un argomento spinosissimo per i politici, ma centrale nel dibattito: l'evasione fiscale è un voto di sfiducia dei contribuenti verso i loro rappresentanti. Quando una larga fetta della popolazione non paga le tasse, non può il solo malcostume spiegare le ragioni di questo comportamento di massa. E' noto, ad esempio, come l'evasione sia più alta al Sud che al Nord, a conferma finanche del disgusto che i cittadini meridionali nutrono nei confronti delle classi politiche locali, non certo un baluardo dell'efficienza amministrativa. Ai contribuenti, in uno stato di diritto, non può essere chiesto di pagare le tasse, in quanto dovere in sé, ma in cambio dell'erogazione di servizi. E' proprio questo legame flebile tra tasse e servizi a rendere l'evasione fiscale in Italia così accettabile e non riprovevole per la stragrande maggioranza degli italiani, la quale è consapevole che un euro in più pagato allo stato non equivarrebbe automaticamente a un euro in più in servizi diretti o indiretti alla cittadinanza. Infine, siamo così sicuri che un tasso inferiore di evasione fiscale creerebbe nell'immediato più ricchezza? E' evidente che non tutta l'economia sommersa potrebbe emergere e tradursi in economia ufficiale. Un artigiano, magari pensionato, che trascorre ancora qualche ora al giorno presso la sua attività a costruire sedie per arrotondare a fine mese, se fosse costretto a pagare le tasse, quasi certamente rinuncerebbe anche solo ad alzarsi la mattina per andare a lavorare. Risultato: lo stato non incasserebbe ugualmente un euro in più, mentre in circolazione ci sarebbe un po' di reddito in meno, con il quale si alimentano i consumi, sui quali si pagano le imposte.
Meno evasione, più crescita? Altro che stimolo per l'economia. Se l'evasione fosse contrastata in maniera draconiana, si rischierebbe un tracollo dei consumi e della produzione. D'altronde, i dati ci segnalano negli ultimi anni che la "ferocia" mostrata dall'Agenzia delle Entrate con l'arrivo al governo dei tecnici nel 2012 si è accompagnata a una contrazione del pil, oltre che a un aumento paradossale della stessa evasione fiscale. Non è forse anche per questo che il limite all'uso del contante è stato alzato dal governo Renzi da 1.000 a 3.000 euro? Sarebbe meglio che il capitolo dell'evasione fiscale fosse affrontato con una visione più ampia di quella tipicamente ristretta e ipocrita del politico. Il presidente Mattarella voleva richiamare al vincolo di solidarietà, che lega o dovrebbe legare tutti gli italiani. E' stato un discorso alto, sincero, umano, diretto. Solo su questo tema, forse, non ineccepibile.
L'Inps ha i conti in rosso ma ai figli degli statali paga le vacanze all'estero. Mantenuto il privilegio previsto dall'Inpdap, anche se il buco è di 13 miliardi: campus e corsi di lingua estivi per 35mila ragazzi, scrive Antonio Signorini, Domenica 13/03/2016, su "Il Giornale". Vacanze pagate, parzialmente o totalmente, a beneficio di ben 35 mila ragazzi. Il tutto a spese dell'Inps. Per 22.520 studenti si apriranno le porte di corsi estivi di lingua all'estero, altri 12 mila e 730 si accontenteranno di vacanze in Italia. Detta così sembra una notizia fantastica visto che la maggioranza dei genitori, gravati da tasse e contributi, non possono permettersi di sostenere i costi di campus e corsi di lingua. Ma quella di «Estate InpSieme» è un'altra storia italiana, fatta di generosità selettive se non malriposte e di conti pagati da altri. La vacanza finanziata con i soldi della previdenza è infatti offerta esclusivamente ai figli di lavoratori pubblici, attivi o in pensione. Residuo di un'era in cui lo Stato sociale era generoso anche con le giovani generazioni. Salvo poi, una volta tirate le somme, pesare sulle stesse lasciandogli in eredità conti sballati. Prima si chiamava «Valore vacanza» ed era un bastione dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che nel 2012 è stato inglobato dall'Inps con il suo carico di bilanci in perdita e inefficienze. La fusione del mondo pubblico con quello privato non ha portato a una omologazione dei trattamenti e così le vecchie vacanze per i figli degli statali sono state confermate anche dalla gestione Inps, che non aveva e non ha niente di simile per i figli dei dipendenti privati. L'istituto si è perlomeno premurato di dare al «concorso» un nuovo nome. Qualche cambiamento c'è stato nei metodi di compilazione della graduatoria. Ora viene compilata sulla base di nuovi criteri di merito. Impossibile partecipare se lo studente è stato bocciato o se ha debiti. Quasi scontato, verrebbe da dire per chi pensa in termini privatistici. Ma non l'hanno pensata cosi centinaia di statali che tempo fa hanno presentato una class action contro questa novità introdotta dall'Inps e considerata «discriminatoria». Non è cambiato, invece, il numero di giovani che hanno accesso alle vacanze pagate, l'entità dell'aiuto Inps né il tipo di trattamento. L'offerta è rivolta a studenti della scuola secondaria superiore, per soggiorni da effettuare tra giugno e agosto in Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania e Spagna. L'Inps paga aereo, transfer dall'aeroporto, corso, college, vitto e assicurazione per un massimo di 2.400 euro per soggiorni di 15 giorni e di 4.000 euro per quelli di quattro settimane. Il programma italiano è meno generoso (il contributo è al massimo di 1.400 euro), ma l'impegno formativo è meno pressante (solo tre ore al giorno di corsi). Diritto acquisito, prestazione pagata con i contributi è l'obiezione che si potrebbe fare. Giusto, se non stessimo parlando di una gestione, quella dei pubblici dipendenti, che non sta in piedi da sola e che, seguendo una logica di equità, non potrebbe permettersi lussi. Il rosso dell'Inps sfiora i 13 miliardi di euro e la gestione delle pensioni pubbliche contribuisce a questo sbilancio per quasi sei miliardi di euro. La gestione dei parasubordinati, lavoratori con un futuro previdenziale più che incerto, contribuisce in positivo al bilancio Inps per sette miliardi di euro. Sono loro a tenere su la previdenza. E le vacanze dei figli se le pagano di tasca propria.
Le toghe spendono il 75% in più. E nascondono gli scontrini. Altro che spending review, il Csm passa da 39,3 a 69,4 milioni di spese per il 2016. E ricorre alla Consulta contro la Corte dei conti che vorrebbe verificare i bilanci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". Alla faccia della spending review il Consiglio superiore della magistratura aumenta del 75 per cento il bilancio delle spese previste per quest'anno. In tempi di crisi anche gli organi costituzionali, dal Quirinale alle Camere, sono costretti a tagliare i conti ma Palazzo de' Marescialli passa dai 39 milioni e 543 mila euro del 2015 ai 69 milioni e 450 mila del 2016. Pare che l'impennata si debba anche alla previsione di trasferirsi da piazza Indipendenza alla magnifica Villa Lubin, al centro del parco di Villa Borghese. Finora era sede di lusso del Cnel, abolito dal Parlamento. Evidentemente al Csm fa gola, non basta lo storico Palazzo de' Marescialli, con le due palazzine moderne accorpate ed è già stato commissionato uno studio di fattibilità. Sulla trasparenza delle sue spese l'organo di autogoverno della magistratura non sopporta intromissioni e si sottrae al controllo della Corte dei conti. Ha fatto ricorso alla Consulta per respingere le pressioni dei magistrati contabili che vorrebbero verificare il rendiconto dei soldi pubblici. Una volta il Csm lo presentava, ma dal 1997 non lo fa più. Una sentenza della Consulta del 1981 ha stabilito che gli organi costituzionali - Parlamento, presidenza della Repubblica e Alta corte stessa - non hanno questo obbligo. E Palazzo de' Marescialli rivendica lo stesso status. Solo che non si tratta di un organo costituzionale - quello è la magistratura - ma di un organo «di rilievo costituzionale», un gradino sotto. Distinzione che il Csm non accetta, respingendo come un attentato all'autonomia del potere giudiziario, in cui s'identifica, la pretesa della Corte dei conti di frugare tra le sue spese. Così, risponde no alla richiesta arrivata a giugno dai magistrati contabili. Un mese fa la sezione giurisdizionale del Lazio manda l'ultimatum di 120 giorni per mettersi in regola. Quello del Csm è un «peccato di superbia» verso il controllo di un altro organo dello Stato «di cui non riconosce l'autorità», dice il presidente della sezione Lazio. Per Palazzo de' Marescialli è un'«estemporanea iniziativa» e reagisce impugnando la decisione davanti alle Sezioni centrali contabili e sollevando davanti alla Corte costituzionale il conflitto tra poteri dello Stato. Il ricorso denuncia «una grave lesione dell'autonomia costituzionale della magistratura», un'interferenza nella «divisione dei poteri», per «un'interpretazione impropria, illegittima e incostituzionale» delle norme. Ieri il Csm precisava che «mai la Corte dei Conti aveva posto in dubbio l'autonomia contabile» del Csm, prevista dalla sua legge istitutiva. C'è già il controllo del Collegio dei Revisori e la trasmissione alla Corte dei conti del solo bilancio della gestione. Una terza verifica proprio no. Tanta insofferenza si spiega forse con il lievitare costante delle spese, in tempi di tagli e sacrifici. Per il bilancio di previsione 2016, quelle per l'acquisto di beni e servizi passano da 6 milioni e mezzo a oltre 26. A pesare sono appunto i 21 milioni e 291mila euro alla voce Fondo investimento per trasferimento sede, ristrutturazioni sedi in uso al Csm, interventi di sostegno ai consigli giudiziari. Ma spulciando qua e là ci sono anche 48 milioni (10 nel 2015) per divise degli autisti. D'altronde, l'aumento è costante. Nel bilancio 2015 erano previste spese superiori del 38 per cento a quelle effettive nell'esercizio contabile precedente. Nel 2014 l'aumento delle spese previsto era del 34 per cento rispetto al 2013.
SPENDING REVIEW? NO, SPENDING CUCU’. Niente risparmi, Perotti si dimette: la spending review non è una priorità. Il freno al lavoro sugli sgravi fiscali. Le dimissioni dopo quelle di Giarda, Bondi e Cottarelli, scrive Federico Fubini su “Il Corriere della Sera” il 10 novembre 2015. Dopo Piero Giarda nel 2012, Enrico Bondi nel 2013, Carlo Cottarelli nel 2014, è la volta di Roberto Perotti. La spending review non riesce mai a ridurre granché le dimensioni del bilancio pubblico, ma si conferma infallibile nel portare alle dimissioni i tecnici ai quali il governo si rivolge per riuscirci. Perotti, uno degli economisti italiani più riconosciuti all’estero, sabato ha fatto sapere a Matteo Renzi che rinuncia al suo incarico e uscirà dalla squadra di consiglieri di Palazzo Chigi. A suo avviso, il varo della legge di Stabilità e i segnali dati anche in seguito dal governo indicano che la riduzione della spesa pubblica non è una priorità. «In questa fase non mi sentivo molto utile», ha detto ieri a «L’erba dei vicini» di Beppe Severgnini su Rai3. Perotti, 57 anni, dottorato al Massachusetts Institute of Technology, docente prima alla Columbia University di New York e poi alla Bocconi, non dev’essere arrivato alla sua decisione facilmente. L’anno scorso aveva accettato di diventare consigliere di Palazzo Chigi solo a condizione che l’incarico fosse a titolo gratuito. Per evitare malintesi sul proprio ruolo, Perotti aveva anche rinunciato a qualunque forma di rimborso: per oltre un anno si è pagato da sé le trasferte ogni settimana da Lecco, dove vive, e l’affitto di un appartamento a Roma. Il suo obiettivo era realizzare il compito che Renzi aveva assegnato a lui e al commissario per la spending review Yoram Gutgeld: trovare dieci miliardi di tagli per il 2016, poi continuare negli anni successivi. In legge di Stabilità però gli interventi previsti valgono ufficialmente appena 5,8 miliardi (o meno, secondo molti analisti privati), e per metà sembrano di efficacia discutibile perché basati sulla compressione temporanea di alcune spese ministeriali. Negli ultimi nove mesi, Perotti aveva lavorato su alcuni fronti in particolare: la sfoltitura degli sgravi fiscali a categorie particolari, che oggi valgono 181 miliardi in tutto, e i costi di funzionamento dei ministeri e degli uffici dei dirigenti pubblici a livello decentrato. Su quasi tutti questi aspetti la legge di Stabilità registra passi avanti minimi o inesistenti. Nel presentare la legge di Stabilità il 15 ottobre, Renzi ha spiegato che dalla lista della spending review per il 2016 aveva rinunciato a quattro miliardi di tagli alle deduzioni e alle detrazioni (la materia di Perotti) perché l’addio agli sgravi avrebbe comportato un aumento della pressione fiscale e avrebbe colpito anche associazioni della società civile. Dunque il governo, secondo il premier, si è fermato per non colpire la fiducia all’interno del Paese. Non era questa la versione della spending review emersa fino a quel momento dalle indiscrezioni. L’operazione sugli sgravi progettata a Perotti sembrava impostata in modo diverso: il pacchetto degli interventi proposti valeva 1,5 miliardi (non quattro) e riguardava solo i trattamenti di favore per alcune specifiche categorie di imprese, per poter poi ridur re la pressione fiscale in modo più omogeneo su tutte. Difficile capire se Perotti si sia sentito preso di mira dalle parole del premier. O se abbia avuto l’impressione che il governo cercasse di scaricare su di lui la responsabilità di una spending review ancora una volta incompiuta. Sembra però probabile che, dopo il varo della manovra, l’economista abbia cercato un chiarimento con il premier sul futuro del piano di tagli ora che l’esecutivo deve realizzare nella pratica la riforma della pubblica amministrazione. Certo i due devono essersi trovati su posizioni diverse. Non pensa invece alle dimissioni l’altro uomo della spending review: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, continuerà a lavorare sulla spesa sanitaria e sugli acquisti dell’amministrazione. Ma anche lui resterà fuori dall’«unità di missione» in preparazione a Palazzo Chigi, composta da una decina di esperti e guidata dall’altro bocconiano Tommaso Nannicini (che sembra destinato a diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Si vedrà nei prossimi mesi come funziona il rapporto dell’ultimo «commissario alla spending review» con questo gruppo che, sempre di più, sembra destinato ad accentrare molte leve della politica economica.
La spending review diventa spending cucù. Un’altra figuraccia del governo: si dimette Perotti, prof della Bocconi chiamato a tagliare la spesa pubblica Dopo Bondi, Giarda e Cottarelli, è il quarto commissario che si deve arrendere alla burocrazia e alla politica. Su "Libero Quotidiano" l'11 Novembre 2015: GIANLUIGI PARAGONE VITTIME DELLA CASTA SCONFITTI DAI BUROCRATI IL MITO DELLE FORBICI. (...) un momento in cui le forbici si possano aprire e chiudere con utile efficacia. I muri di gomma non si possono tagliare, figurarsi squarciare. Ed è strano come la presunzione di questi professori non voglia ammettere che le forbici dei commissari per la spending siano come le ali di cera per Icaro. Per restare in tema di miti, qualcuno cita Sisifo e la sua impresa a compiere uno sforzo sovraumano per poi ricominciare daccapo tutte le volte. In questo caso però non ci sono sforzi da compiere: è tutto scritto da anni, ispirato al buon senso. Basterebbe applicarlo. Ma non si può perché questo è il paese delle furbizie, delle leggine tana-libera-tutti e soprattutto dei privilegi che diventano diritti e diritti che diventano favori. Ogni commissario arriva armato di ali di cera pensando che il suo volo possa arrivare a destinazione, che possa superare le nebbie dei palazzi dove tutto si nasconde. Non ce la fece il supercommissario dei miracoli, quel Bondi aggiusta tutto tipo «Sono mister Wolf e risolvo problemi». E poi Giarda. E poi ancora l’uomo del fondo monetario Cottarelli. Ora Perotti, precipitato per essersi avvicinato troppo al fuoco dei mandarini e delle feluche. Franato senza che alcuno nel governo aprisse una qualche rete di protezione: i commissari della spending cucù passano, i burocrati di palazzo restano. Eccome se restano. Morale: niente tagli alle strutture ministeriali. Hai voglia a parlare di sprechi, di spese folli, di controllo della spesa quando poi chi beneficia di questo spendere e spandere alza le barricate. «Prima di tagliare a noi, andate a tagliare dove si spreca di più». E così nessuno scende dalla giostra. Dal più piccolo al più grande c’è sempre qualcuno che spreca di più. Timbrano i cartellini e vanno a fare canottaggio? Embé? Che vuoi fare, li vuoi licenziare? Quarant’anni fa usciva nelle sale Fantozzi: era già tutto chiaro. Da allora, per effetto del moto accelerato uniforme, la spesa improduttiva è aumentata. Le baby pensioni non si possono toccare. I vitalizi men che meno. E potremmo andare oltre nel pieno adagio italico. Già, perché non è solo nel pubblico che i privilegi diventano diritti acquisiti. Nel privato qualche picconata arriva a bersaglio ma ciò che esce dalla porta rientra poi dalla finestra. Chiedetelo ai consumatori: nelle bollette (dalla luce al telefono) la furbizia è sempre in agguato. E che dire delle banche? Non sprecano soldi anche loro? Non fregano anche loro soldi dei risparmiatori? La filosofia del «freghi tu così frego anch’io» è nella filigrana di una costituzione materialissima. Le banche vanno in rosso? Poi paga pantalone. I professori che vorrebbero eliminare lo spreco dalla cosa pubblica comincino dalle università, fonte di spreco di denaro pubblico. Perotti ci scrisse un libro. Lo dico solo per rimarcare la mia rassegnazione, mica per dare consigli. Non credo alle spending review che io chiamo spending cucù. E soprattutto non credo al mito di queste forbici buone solo a contabilizzare somme da mettere sulla carta. Basterebbe il buon senso. Ci sono enti che sopravvivono nonostante siano gusci vuoti, eppure continuiamo a erogare gettoni e stipendi. Non c’è bisogno di Pico della Mirandola per smettere di pagare. La somma di tante piccole storie di ordinaria burocrazia farebbe un totale. Allora è un problema di volontà, nel senso che non si vuole fare perché non si può fare. Per farla breve, la piantassero di propagandare tagli e forbici al solo scopo di abbellire bilanci previsionali e guadagnare qualche titolo di giornale. Se non vogliamo che altri Icaro si schiantino a terra, voliamo basso. Facciamo piccole cose. Torniamo al buon senso dei nonni. Forse qualche gruzzoletto lo risparmieremmo sul serio.
Ecco perché in Italia la spending review è una missione impossibile. In otto anni sono cambiati 4 esperti incaricati di ridurre la spesa pubblica. Ma alla fine la politica si è sempre messa di traverso perché i tagli sono impopolari o costringono ad aumentare le tasse. Piero Giarda, allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individuò 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo», scrive Paolo Baroni su “La Stampa” l'11/11/2015. Arriva sempre un momento in cui anche il più esperto degli esperti finisce su un binario morto e alla fine lascia. Oppure viene congedato. E’ così negli ultimi 8 anni abbiamo cambiato ben 4 commissari alla spending review. «In questa fase non mi sento molto utile», ha spiegato l’altra sera Roberto Perotti, prof della Bocconi, entrato appena nemmeno sei mesi fa nello staff di Palazzo Chigi ed ultimo in ordine di tempo a gettare la spugna. Il suo «coming out» in tv è servito a mettere la parola fine ad un tira e molla che durava ormai da settimane. Il termine inglese «spending review», ovvero «revisione della spesa» introdotto nel gergo politico italiano nel 2006 da Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro del Tesoro nel governo Prodi, significa analisi delle spese e del funzionamento dei vari apparati allo scopo di migliorare la performance della macchina pubblica con la possibilità, anche, si risparmiare qualcosa. Da noi, invece, è sempre stata interpretata in maniera più brutale: tagli. Il primo tentativo di mettere ordine ai conti risale al 2012 quando il governo Monti, che in fatto di tagli veri mica scherzava (basti pensare cosa è successo alle pensioni), affida ufficialmente il dossier a Piero Giarda. Grande esperto di spesa pubblica, l’allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individua circa 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo» e ipotizza da subito circa 5 miliardi di risparmi. Non si fa in tempo a mettere in pratica il piano che Monti lo sostituisce con Bondi. «Monti aveva bisogno di qualcosa di più concreto da presentare a Bruxelles», raccontano le cronache di quei giorni. E così arriva l’ex commissario Parmalat, il tagliatore forse più famoso d’Italia. Al suoi fianco altri due pezzi da novanta: Giuliano Amato, al quale viene affidato il compito di analizzare i costi della politica, e Francesco Giavazzi, che invece deve cercare di sfrondare i sussidi alle imprese, impresa che si rileva impossibile. Bondi passa ai raggi «X» ministero per ministero, regione per regione, comune per comune, analizza spese e sprechi, e scodella un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente. A inizio 2013 però anche Bondi lascia: Monti, che si fidava ciecamente di lui, gli aveva infatti affidato anche il compito di selezionare i profili dei candidati del suo nascente partito e i due incarichi erano diventati oggettivamente incompatibili. Dopo un breve interregno affidato al Ragionerie generale Canzio, ad aprile si insedia il governo Letta che vuol prendere il toro per le corna e per questo richiama da Washington Carlo Cottarelli. Il supertecnico del Fondo monetario, incarico triennale a 250 mila euro l’anno (ovviamente subito oggetto di polemiche), si insedia a ottobre e a inizio 2014 scodella un piano monstre: subito 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e addirittura 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu. Dopo Letta arriva Renzi ed il lavoro di Cottarelli, appena abbozzato nei mesi precedenti, potrebbe finalmente decollare e invece si affloscia. Palazzo Chigi, che nel frattempo ha preso più potere rispetto al Tesoro, per prima cosa cassa i progetti sulle pensioni e stoppa il taglio di 85 mila dipendenti pubblici. E i risparmi? Si continua con la vecchia prassi dei tagli lineari (o semilineari) introdotti da Tremonti. Ma da 16 ci si deve fermare a quota 8,5 miliardi. Naturale che anche Cottarelli getti la spugna mentre dallo staff del premier lo accompagna l’accusa di «scarsa collaborazione». Da allora è passato un anno e siamo da capo. Adesso lascia anche Perotti, subentrato lo scorso marzo nell’ingrato compito in tandem con Yoram Gutgeld, uno degli strateghi della prima ora della Renzonomics. Perotti spinge per intervenire innanzitutto sulla montagna di spese fiscali (detrazioni, sconti e bonus vari) ma Renzi lo ferma perché non vuole aumentare in alcun modo le tasse. E così la spending review 2016 che puntava a al solito obiettivo ambizioso (16 miliardi) frana: prima scende a quota 10 e poi va addirittura sotto i 5. Per far quadrare i conti Renzi preferisce l’aumento del deficit. Profetico un tweet dell’economista Riccardo Puglisi del 19 agosto: «Ma Perotti - commissario alla spending review - mangerà il panettone?». Gutgeld resta, il Prof invece torna alla Bocconi e laconico spiega: «La spending review non è una priorità del governo». O forse, suggerisce qualcuno, questa non è la stagione adatta per vedere all’opera dei liberisti veri come lui e Cottarelli.
Fuga da Renzi: non taglia gli sprechi. Spending review a zero con l'addio di Perotti dopo Cottarelli. Il premier ha rinunciato a ridurre la spesa pubblica, scrive Antonio Signorini Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. Roma Matteo Renzi un primato lo ha già ottenuto. Ha bruciato due dei quattro commissari alla spending review che sono passati per Palazzo Chigi. Il primo, Massimo Cottarelli, di fatto messo alla porta perché aveva un piano di riduzione alla spesa pubblica troppo dettagliato per i suoi gusti. Stava stretto persino a Enrico Letta che lo nominò, figuriamoci al premier in carica. Il secondo, Roberto Perotti, si è fatto da parte da solo. «Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha spiegato. Decisione ufficializzata lunedì sera, ma nota almeno dalla fine di settembre. È durato un anno e tre mesi, a fianco di Yoram Gutgeld. Poco più di 400 giorni passati a studiare un aspetto specifico: la riduzione delle tax expenditure. Sono le agevolazioni fiscali che nascondono misure di spesa a favore delle categorie più diverse. Una giungla di 720 detrazioni che valgono 161,3 miliardi, frutto per lo più di micromisure che si sono stratificate negli anni. Il governo Renzi era sicuro di poterle sfoltire con interventi mirati. All'inizio dell'estate i primi ripensamenti. L'asticella dai due miliardi iniziali è calata a 1,5 e poi sotto il miliardo. Alla fine nella legge di Stabilità è scomparso ogni accenno alle tax expenditures. La spiegazione sa più di marketing che di economia. Le spese fiscali nella contabilità pubblica sono agevolazioni a tutti gli effetti e un loro taglio si traduce in un aumento della pressione fiscale. Renzi non voleva aggiungere nulla alla voce maggiori entrate della stabilità 2016. L'economista e professore alla Bocconi ne ha preso atto e, piuttosto che produrre altre carte destinate a restare nei cassetti di Palazzo Chigi, ha preferito tornare agli studi. Gutgeld, economista ed esponente del Pd, resta, ma dovrà mettere la firma su una spending review ridotta di cinque volte rispetto agli obiettivi originari. Dai 20 miliardi all'anno promessi all'insediamento di Renzi, ai 4 miliardi della Stabilità. Tagli lineari. Niente che assomigli alle spending review dei Paesi che l'hanno applicata, dal Canada al Regno unito passando per l'Olanda. Il disegno seguito da Renzi non è molto diverso da quello dei suoi predecessori. Si parte con le migliori intenzioni promettendo miliardi di tagli selettivi, non lineari e si finisce per raggranellare pochi euro proprio grazie ai tagli uguali per tutti, politicamente poco impegnativi. La situazione è più o meno la stessa dal 1986, da quando Pietro Giarda fu incaricato di guidare la prima commissione. Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, quelli «aggredibili» sono poco meno di 300. Nessuno ha aggredito nulla, se non, appunto, con tagli lineari. Risparmi che danno sollievo ai conti nell'anno in corso, ma hanno il difetto di trasformarsi in ulteriori costi negli anni successivi. Il governo Monti, pressato dall'Unione europea, nel 2012 nominò Enrico Bondi con l'intenzione di passare a una fase operativa. Ma nemmeno il manager che ha risollevato Parmalat riuscì a convincere politici e amministratori a tagliare. Il decreto sulla spending review del governo Monti diventò una manovra che servì a rinviare di qualche mese un aumento dell'Iva (poi arrivato) e comprendeva persino nuove tasse. Addizionali locali Irpef e il famoso supplemento di aliquota Tasi-Imu dello 0,5 per mille che doveva essere temporaneo ma che il governo Renzi ha reso permanente. Cottarelli, come Bondi, ha prodotto analisi, ma anche un piano dettagliato e ambizioso. Per l'anno in corso prevedeva 18,1 miliardi di risparmi per il prossimo 33,9. Tutto archiviato. L'unico risparmio in arrivo sarebbe quello dei compensi di Cottarelli e Perotti, se non fosse che a Palazzo Chigi si sta per insediare la nuova «unit economica» guidata da Tommaso Nannicini e altri nuovi esperti. Si occuperanno di tutto, come i dipartimenti della Casa Bianca. Ma non di spendig review.
BEATO IL PAESE CHE NON HA BISOGNO DI EROI PER TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA. Perotti è solo l’ultimo “zar” alla spending review a mollare. Ma a Londra e Madrid i governi sforbiciano in prima persona, scrive Renzo Rosati l'11 Novembre 2015 su "Il Foglio". “Siamo un paese in cui si detraggono dalle tasse le finestre e le palestre”: era il giugno 2011 e Giulio Tremonti se la prendeva con una spesa pubblica “che è come andare al bar e dire: da bere per tutti! E poi chi paga?”. Nella giungla di 470 regimi fiscali di favore pari a 150 miliardi l’allora ministro dell’Economia aveva nominato consulente al disboscamento Vieri Ceriani, già dirigente dell’area tributaria della Banca d’Italia. Ceriani produsse un immenso foglio Excel con tutte le voci detraibili e relativo costo, colorate per importanza, e oltre a finestre e palestre c’erano abbonamenti al bus, ospedali, teatri, musei, enti culturali. Le palestre saltarono, le finestre sono ancora lì; soprattutto ci lasciò le penne Tremonti assieme al Cav. Ceriani invece è sempre consigliere del ministero dell’Economia, ma per il rientro dei capitali dalla Svizzera. Esempio unico di tenacia nella lista dei caduti alla spending review, il cui ultimo esempio è Roberto Perotti, professore alla Bocconi, nominato commissario al taglio della spesa pubblica da Matteo Renzi dopo l’addio del più celebre e movimentista dei predecessori, Carlo Cottarelli, funzionario del Fondo monetario internazionale. “Mi sono dimesso, non mi sentivo più molto utile”, ha detto Perotti, e il motivo resta quello dei tempi delle finestre e delle palestre: il mancato taglio di sgravi fiscali che nella versione dell’interessato valevano 1,5 miliardi, e in quella di Renzi quattro, cifra che secondo il premier avrebbe attirato sul governo l’accusa di cancellare la Tasi con una mano per togliere soldi con l’altra. Chiunque abbia ragione, è evidente che non si trattava di brandire l’ascia né sulle agevolazioni salite intanto a 180 miliardi, né su una spesa pubblica che resta pressoché immobile intorno al 51 per cento del pil, 800 miliardi e passa. Terza in percentuale in Europa dopo Francia e Grecia, ben davanti alla Germania, per non parlare della Gran Bretagna. Graduatoria rimasta immutata durante la crisi, mentre la spesa aumentava in termini assoluti, e con lei il debito pubblico italiano, mentre altrove (Francia esclusa) diminuiva, con l’esempio su tutti di Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Olanda. Per questo, in quello che il Foglio del 15 ottobre definiva il “cimitero” dei commissari italiani alla spesa, troviamo una sfilza di lapidi: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Cottarelli. Ora Perotti. Anche una fugace apparizione di Francesco Giavazzi, chiamato da Mario Monti nel 2012. Resta in campo Yoram Gutgeld, che però è anche deputato Pd di osservanza renziana. Salvo eccezioni, tra le quali Cottarelli, quasi tutti hanno lavorato gratis, contribuendo così, se non a tagliare la spesa, a non aumentarla. Cottarelli è anche la loro star: designato da Enrico Letta, rimasto in bilico con Renzi, subito soprannominato “mister Forbici” dai giornalisti fan, ai tagli mancati ha dedicato un libro – “La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare” (Feltrinelli) – un blog, una notevole presenza mediatica. La sua tesi è che siano le burocrazie ministeriali, alte e basse, a fare catenaccio. Giavazzi sostiene infatti che debba essere il capo del governo in prima persona a metterci la faccia. E se ci guardiamo intorno come dargli torto? Lunedì 9 novembre, mentre Perotti si dimetteva, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne annunciava un nuovo taglio di spesa pubblica pari al 30 per cento dei fondi di quattro ministeri (Trasporti, Ambiente, Tesoro, Autonomie locali), e trattative in corso con altri, per azzerare in quattro anni il deficit di bilancio pari a 99 miliardi di euro. Anche in piena campagna per le elezioni dello scorso maggio Osborne non aveva esitato ad annunciare l’aumento della Vat (l’Iva inglese) e dei contributi previdenziali. Si è scontrato con il segretario del Lavoro Iain Duncan Smith, al quale chiede di risparmiare 12 miliardi di sterline. Il premier conservatore David Cameron, all’inizio del primo mandato nel 2010, era andato a Westminster e aveva fatto il giro delle televisioni per annunciare tagli alla Difesa, comprese portaerei e fregate simbolo della ex potenza imperiale, a welfare, immigrazione e trasporti pubblici. I primi ministri irlandesi Brian Cowen e Enda Kenny, succedutisi durante la crisi, hanno ridotto di cinque punti il peso della spesa pubblica, con l’obiettivo di scendere di altri due, cioè dieci sotto l’Italia. E così il premier spagnolo Mariano Rajoy, che ha tagliato la spesa dal 48 al 43 per cento del pil. All’uscita dalla recessione Dublino, Londra e Madrid hanno fatto segnare i maggiori aumenti della ricchezza nazionale e del reddito individuale. Nessuno ha delegato la pratica a zar né a mister Forbici.
Spending review, Renzi proprio non ce la fa. Anche l'ultimo, ennesimo commissario, Roberto Perotti, lascia l'incarico. E ancora una volta ha vinto lui, il Pachiderma. Il Carrozzone, scrive il 10 novembre 2015 Marco Ventura su “Panorama”. Una progressione impressionante. 2012-2013-2014-2015. Un anno dopo l’altro, dall’albero del governo cascano i commissari alla spending review, dimissionari o svaporati dopo essere stati presentati (e dati in pasto alla stampa e alla pubblica opinione) come i deus ex machina del taglio delle spese. O, meglio, degli sprechi, perché nessun presidente del Consiglio ha mai detto di voler tagliare le spese essenziali. Una dopo l’altra, quindi, si spaccano a terra le “teste d’uovo” della revisione di spesa (per dirla in italiano, che non è propriamente la lingua dei parsimoniosi). Nel 2012 Piero Giarda, che era considerato “l’uomo dei conti”, l’unico in grado di sforbiciare il viale del tramonto dei privilegi e delle prebende. Ma che silenziosamente, forse anche più dei successori, si mette da parte. Non per incapacità sua, ma per mancanza di volontà della politica di metter mano a quella cesoia. Nel 2013 Enrico Bondi, che a differenza di Giarda aveva un’immagine di autentico sforbiciatore, anche nel privato. Un uomo duro, determinato e infallibile. Ma niente. Neanche lui porta a termine il lavoro. Gli subentra, portato in palmo di mano dal governo direttamente dal Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. A lui, con Enrico Letta, l’onere e l’onore di realizzare la riforma delle riforme. Saranno tagliati gli sprechi, dunque, finalmente? Grandi aspettative, grandi promesse. Ottimismo, fiducia, persino un pizzico di furore rivoluzionario. E tanta propaganda. Ma l’elefante partorisce un topolino. Anzi, niente. La vulgata vuole che ogni volta i piani siano pronti a essere scodellati e messi in pratica. Pronti a alleggerire il bilancio dello Stato e consentire il taglio delle tasse. Perché la revisione della spesa va di pari passo con quella del fisco: tagli ciò che è in più, il grasso superfluo del baraccone di Stato in tutte le sue ben oliate e consolidate ramificazioni di voracità, immensa pianta carnivora che drena le risorse dai privati al pubblico; e quel che tagli ti consente di aver più risorse per ridare ossigeno all’economia reale. A parole sembra facile. I numeri ci sarebbero. E i premier, uno dopo l’altro, ci credono. O così pare. Peccato che nel 2014 anche Cottarelli cada (dal pero). Le promesse finiscono in un libro che racconta la telenovela dei tagli mancati, di quello che si sarebbe potuto fare. Volendo. È il 2015. Due, stavolta, i taglia-spese, a riprova di una volontà (a parole). Matteo Renzi sostiene i suoi personali “commissari”: il fiore all’occhiello Roberto Perotti, con un curriculum accademico lungo così e largo cotanto. E Yoram Gutgeld, il fido Yoram Gutgeld. Nel frattempo, tutti i capitoli di taglio della spesa sono stati citati e sviscerati, dalla razionalizzazione delle spese sanitarie all’intervento sulle detrazioni (ma solo per certe categorie privilegiate), dallo spegnimento dei lampioni nelle strade alla decurtazione dei vitalizi. Le proteste più eclatanti, non per i numeri della partecipazione ma per la qualità delle teste protestanti, le inscenano i dirigenti del Tesoro (che la spending review dovrebbero scriverla) e i consiglieri parlamentari che dovrebbero approvarla. Stato contro Stato. La tigre dell’alta burocrazia contro la tigre della politica. Matteo Renzi, perfino lui (ovviamente lui?), si arrende e ammette che sulla spending review avrebbe voluto far di più (ma non lo fa), ben sapendo che anche Perotti a questo punto si dimetterà. Resta, unico sopravvissuto, Gutgeld. Ma che ci sia o no, forse non conta. O non sconta. Morale della favola: ha vinto il Pachiderma. Il Carrozzone.
Spending review, sotto a chi tocca, scrive Roberto Santoro su “L’Occidentale” il 10 Novembre 2015. Dura la vita per commissari e consulenti alla spending review. Se ne va anche il bocconiano Perotti, il quale, dopo ponderati studi sugli sprechi e sulla spesa dello Stato, su cosa, come e dove tagliare, realizza che è meglio tagliare la corda, dimettendosi in diretta televisiva. Perché quelli della spending sono fili ad alta tensione, chi accetta una carica del genere realizza presto quant’è mortale: Giarda che voleva 80 mld di tagli subito e altri 300 sul lungo periodo, le stagioni di Bondi e di Canzio, fino al caso Cottarelli, da funzionario dell’FMI a guru di Palazzo Chigi che prima critica la maggioranza sulle coperture di spesa e poi se ne torna a Washington “per motivi personali”. Del resto non ci riuscì Monti ad aggredire la spesa, che pure non aveva problemi di consenso (almeno finché il Senatore non decise di seguire le sue ambizioni politiche), non ci riesce Renzi, che nella trincea della spending ha ancora al suo fianco l’ex McKinsey Gutgeld, anche se quest’ultimo, eletto nel Pd, risponde a delle logiche più interne alla politica e ai partiti. Le stesse che evidentemente spingono i “tecnici” a fare le valigie. Sia chiaro, non siamo iscritti al partito gufo. Dai tempi di Monti, passando per Letta fino ad arrivare a Renzi, la spesa pubblica è rallentata. Gli spread non sono più motivo di angoscia per la nostra giornata e il ministro Padoan oggi in Europa può rivendicare margini di flessibilità, usando qualche parola di conforto anche per il vero mattonazzo della nostra finanza pubblica, il debito in termini assoluti. Ma detto questo, senza la spending, senza tagli nelle PA dove snidare sprechi e inefficienze, senza uno scatto di reni sulla riforma delle partecipate di Comuni e Regioni, e più in generale una riflessione profonda sulla presenza, ingombrante, dello Stato nella società italiana, per non dire del fallimento del Titolo V, probabilmente continueremo a vedere una sfilata di tecnici, consulenti e commissari che marciano sicuri di sé in passerella e poi se ne vanno o si dimettono sul più bello. Il presidente del consiglio Renzi sa che stiamo parlando di misure impopolari, che non portano consenso prima delle elezioni, per questo nicchia o non affonda come dovrebbe, pensando al suo stile. Puntare alla riduzione delle tasse, in particolare quelle sulla casa, va bene, siamo tutti d'accordo, ma ridurre le tasse senza ridurre la spesa, il rischio di una manovra in espansione, il trovare coperture “a sbalzi” rimandando i pagherò al domani, è la vera ragione della depressione dei suoi consulenti. Forse il Governo farà qualcosa dopo i prossimi e importanti appuntamenti elettorali a livello locale, forse qualcuno dopo Renzi alzerà di nuovo le tasse o sarà Renzi stesso a trovare altre ricette, ma una cosa è certa, i conti devono tornare, a Roma come a Bruxelles. Intanto aspettiamo un nuovo asso nella manica, l’ennesimo curriculum di platino, il tecnico dei tecnici che ci venga a dire secondo lui come si fa ad avere uno Stato più leggero, imprenditore e che funzioni meglio.
Da Giarda a Perotti zero tagli. Perché piangiamo sui tagli? Scrive Lucio Fero su "Blitz Quotidiano" l'11 novembre 2015. Domanda impertinente e insolente: perché l’Italia tutta da anni piange lacrime amare sui tagli alla spesa pubblica? Ma che domanda! Perché da anni la spesa pubblica è sottoposta a tagli che sono amputazioni, perché da anni sacrifici per tutti, se non addirittura “macelleria sociale”. Quindi che razza di domanda che fai, ma dove vivi, non li leggi i giornali, non la senti la televisione? In effetto sono anni che la stampa e la tv piangono anche loro i tagli alla spesa pubblica. Non solo versano lacrime di cordoglio sui tagli, li danno per ovvi, scontati, vissuti. In ogni articolo, titolo, intervista, chiacchiera si parte dal dato di fatto che la spesa pubblica in Italia è stata da anni pesantemente tagliata. Dato di fatto? Freschi di stampa e di televisione sono i dati che tutti riportano, non senza rammarico e ammonizione ai governi. Pietro Giarda nel 2012, commissario alla revisione della spesa pubblica, individua cinque miliardi da tagliare e tagliabili subito. Non se ne fa nulla, non si taglia niente. Enrico Bondi, commissario alla stessa cosa dopo Giarda, individua 14 miliardi da tagliare in due anni. Bondi sparisce, i miliardi da spendere restano. Carlo Cottarelli, commissario numero tre, individua 7 miliardi da tagliare nel 2014, 16 nel 2015…Non verrà tagliato un euro. Ultimo commissario Roberto Perotti propone taglio un paio di miliardi dopo aver calcolato dieci e poi cinque…Niente, Perotti si auto taglia. E non è neanche un taglio di spesa microscopico, Perotti lavorava gratis. La morale politica e sociale è che in Italia non c’è stato e forse non ci sarà mai governo che abbia davvero la forza e la voglia di tagliare la spesa pubblica, anzi quella parte della spesa pubblica che, non essendo pensioni, stipendi, sanità, tagliabile sarebbe eccome. Fanno cento miliardi di euro abbondanti all’anno che dallo Stato scivolano in ruscelli anche minimi sul “territorio”, cioè categorie, gruppi, votanti, elettori, gente. Pessima od ottima notizia che sia, questo è il dato di fatto: non si taglia, non si è mai tagliato. Spesa pubblica zero tagli. Come conferma peraltro la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil sempre saldamente sopra il 50 per cento da anni e anni e anni. E allora la domanda, in primo luogo a giornali e televisioni che almeno l’alfabeto del reale dovrebbero conoscerlo…Come si fa a criticare i mancati tagli di spesa pubblica mentre ogni pagina dà per scontati, ovvi e avvenuti i tagli di spesa pubblica? Come si fa a piangere insieme il danno dei governi che non tagliano e il danno dei tagli sofferti? Come si fa ad avere memoria zero anche delle proprie stesse pagine e parole? Si fa, si fa… E si fa senza troppa fatica, tanto se ne accorge nessuno o quasi. Altrimenti per raccontare, riflettere, riferire, capire la realtà occorrerebbe gran fatica. Vedere, quindi spiegare, quindi sopportare il danno di certa impopolarità. Vedere, spiegare che diminuendo il Pil la spesa pubblica qua e là è diminuita in cifra ma non in percentuale. Vedere, spiegare che i “tagli” sono quasi sempre sulle aspettative di crescita della spesa pubblica e non sulla spesa pubblica “abituale”. Vedere che la superficialità e spregiudicatezza del ceto politica e della sua comunicazione hanno colonizzato il mondo dell’informazione che ormai parla la lingua del colonizzatore. Contribuendo quindi al paradosso di un paese tutto che si sente tutto in credito, tutto “tagliato” mentre nulla o quasi è stato davvero tagliato. Salvo poi corrucciarsi, i giornali e le tv, quando i Commissari alla spending review mollano perché non si taglia un tubo.
La Boldrini spende 40mila euro in lavanderia: tutti gli sprechi della Camera. Più di un milione di euro per fotocopie e per trasportare lettere per 350 metri. E spuntano anche 90mila euro per assicurarsi del buon trattamento dei migranti nei centri di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo il 21 agosto 2015 su "Il Giornale”. La spesa più bizzarra è indubbiamente quella che gli onorevoli deputati (a nostre spese) sosterranno per smacchiarsi i vestiti. Nel bilancio della Camera guidata da Laura Boldrini, approvato il 5 agosto, infatti, è iscritta una voce che parla chiaro: 40.000 euro per il servizio di lavanderia. Una cifra incredibile, immaginando che le giacche e le cravatte (ormai se ne vedono poche) i deputati se le laveranno a casa. Ma non c'è solo questo. La relazione dei Questori e gli annunci della Presidenza parlano di un bilancio ridotto praticamente all'osso. Falso. E' vero che la "spesa prevista per il 2015 si riduce di 50,5 milioni di euro rispetto al 2014 (-4,87%)" e che si attesta sotto il miliardo di euro. Ma parliamo pur sempre di 986,6 milioni di euro. Ed è anche vero che i soldi che lo Stato da qui al 2017 dovrà sborsare sono "solo" 943,16 milioni di euro all'anno, come è corretto dire che nel 2015 saranno restituiti al bilancio dello Stato 34,7 milioni di euro, che dal 2012 i deputati hanno fatto risparmiare allo Stato sono 223 milioni di euro. Ma le voci in cui si annidano sprechi e spese incomprensibili sono ancora eccessive. Troppe e con troppi soldi gettati al vento. Vediamoli, partendo dallo spreco più eclatante. La Camera può vantare il possesso di un meraviglioso palazzo sorto "in epoca paleocristiana nel cuore del Campo Marzio". Un gioiello, e come tale costa parecchio per la manutenzione. Per la precisione 1milione e 140mila euro per il supporto operativo nella sede di Vicolo Valdina. Per cosa vengono spesi? Basta andare a leggere nel bando di gara. L'appalto è di durata triennale e l'azienda vincitrice deve assicurare, tra le altre cose, la "movimentazione, anche tramite carrello, di plichi, faldoni, risme di carta, cancelleria, etc.", poi "l'accoglienza e l'accompagnamento ai piani dei frequentatori della sede" e "'esecuzione di attività di riproduzione fotostatica o fascicolazione di documenti". Insomma, più di un milione di euro per fare fotocopie, trasportare faldoni e recapitare la "corrispondenza e di ulteriori materiali". Per questo particolare compito, il bando precisa che i funzionari dovranno assicurare il "ritiro e la consegna della corrispondenza all'interno del Complesso e tra il Complesso e tutte le altre sedi della Camera dei deputati (...) e il recapito, con idonei mezzi di trasporto, della corrispondenza dei deputati tra il Complesso e le sedi degli altri organi costituzionali e dei ministeri ubicate nel comune di Roma". C'è da chiedersi quali siano gli "idonei mezzi di trasporto", considerando che tra Palazzo Montecitorio e Vicolo Valdina, dove è sito il complesso, ci sono appena 350 metri. Fatti a piedi significano circa 4 minuti (diciamo 5 in caso di pioggia), che diventano 6 se fatti in auto. E considerare che la Camera già spende 1.660.000 euro per "trasporto e facchinaggio". Tra le spese, va detto, ci sono anche quelle per il servizio di guardaroba. Un’altra di quelle voci di spesa della Camera che sembrano eccedere la logicità: nel bilancio sono stati previsti 150.000 euro per tenere a bada cappotti e cappelli dei deputati. Per non parlare poi delle spese di pulizia. Laura Boldrini, evidentemente attenta al pulito, si è assicurata una spesa di 6milioni e 550mila euro per l'igiene. Precisamente: 40.000 andranno alla lavanderia, 6.100.000 all'impresa di pulizie e 410.000 per lo smaltimento dei rifiuti. Altro punto poco chiaro riguarda le capacità poliglottiche degli onorevoli. I corsi di lingua, infatti, sono tutti a carico dei contribuenti: 300.000 euro nel 2015, cui va aggiunto il residuo di quelli ancora non pagati nell'anno passato, che ammontano a 295.113,70 euro. In totale quasi 600mila euro in docenti di inglese e di informatica. La cosa più curiosa, poi, è che evidentemente queste lezioni non danno i frutti sperati. O almeno non fino in fondo. Le tasse degli italiani, infatti, vanno a coprire anche le spese per "traduzioni e interpretariato". Che, sommando tutti i casi in cui vengono citate, si parla di 515mila euro. Andiamo oltre. Ogni anno vanno in fumo circa 35mila euro per sostenere la commissione che indaga (ancora) sulla morte di Aldo Moro e 340.000 euro per finanziare vari ed eventuali "convegni e conferenze". Tralasciando poi i 63 milioni di "rimborso delle spese sostenute dai deputati per l’esercizio del mandato parlamentare" (sul quale spesso ricadono enormi dubbi per il modo in cui vengono utilizzati) ci sono ulteriori 15 milioni e 910mila euro legati a spese non specificate, ma inserite in generiche voci chiamate "altre" o "accessorie". Infine, spuntano anche i 90.000 euro che ogni contribuente contribuirà a versare per permettere ad una commissione speciale di assicurarsi che i profughi abbiano tutto quello che gli occorre nei vari c'entri d'accoglienza sparsi per l'Italia. Una spesa di cui, sinceramente, non si sentiva il bisogno.
Come la Camera dei Deputati boccia se stessa. La Commissione di Montecitorio abolisce i tagli introdotti da Boldrini e Sereni: sì al tetto dei 240 mila euro, ma no alla sforbiciata sugli stipendi dei funzionari. Così, i 60 milioni di risparmi annunciati fino al 2018 rischiano di ridursi a 13 milioni. L'ufficio di presidenza annuncia ricorso. La battaglia tra caste continua, scrive Adriana Botta su “L’Espresso”. La Camera taglia, la Camera boccia i propri stessi tagli. E dopo aver annunciato una sforbiciata per 60 milioni di euro nel quadriennio 2015-2018, rischia seriamente di veder ridotto lo sbandierato dimagrimento a meno di un quarto del totale: 13 milioni di euro. E’ questo l’inedito boomerang che ha colpito i vertici di Montecitorio: dopo la corsa al taglia-taglia gli stipendi del personale, nel quale lo scorso anno sia la presidente Laura Boldrini che la vice Marina Sereni si erano distinte per impegno – spalleggiate anche da Renzi e dal Pd - arrivando a settembre 2014 all’approvazione unilaterale in ufficio di presidenza (contrarie tutte le 25 sigle sindacali) dei tagli modulari a tutti i ruoli del personale, adesso arriva lo stop a sorpresa. A seguito del ricorso dei dipendenti, con una sentenza notificata il 30 luglio, infatti, la commissione giurisdizionale per il personale di Montecitorio – organo interno, per ironia peraltro composto quasi solo da deputati Pd - ha bocciato la legittimità di quei tagli. Dando nei fatti ragione a quanti tra dipendenti e sindacati, nel corso delle trattative, parlavano di una norma "incostituzionale” perché violava il “principio più volte stabilito dalla Consulta circa il divieto di modificabilità della carriera in corso di rapporto di lavoro”, e ledeva sia “i diritti acquisiti” dei dipendenti più anziani, sia “le legittime aspettative” di un “avanzamento retributivo” “ben codificato”. Ma quale è esattamente il punto? Un anno fa, l’ufficio di presidenza di Montecitorio non si limitò ad adottare il tetto massimo di 240 mila euro annui per i funzionari pubblici che il governo aveva appena introdotto. Volle fare di più: per dimostrare risparmiando di “non essere sordi a quel che avviene nel paese” (come disse Boldrini), ma anche per mantenere la differenza monetaria oltreché di status fra le varie categorie lavorative (segretari generali, consiglieri, documentaristi, segretari, commessi, tecnici), per evitare appiattimenti si introdussero i cosiddetti “sotto-tetti”, ossia tagli proporzionali a tutti i livelli dei dipendenti di Palazzo. Una sforbiciata generale, che secondo i calcoli ha toccato circa il 40 per cento del personale, ossia quelli che hanno già superato il ventennio di servizio (lo scatto di stipendio maggiore arriva al ventitreesimo anno di servizio). E’ proprio questa decisione sui sotto-tetti, quella bocciata dalla Commissione giurisdizionale: pur ribadendo l’autonomia della Camera, infatti, la sentenza spiega in sostanza che ci si può ispirare alla legge che prevede il tetto dei 240 mila euro, ma non aggiungere ulteriori limiti per le altre categorie di dipendenti – non previsti da quella legge. Il che, era proprio il punto contestato all’epoca dai sindacati, che si erano detti favorevoli al limite dei 240 mila euro, ma contrari alla complessiva rimodulazione. Non che la sforbiciata sia stata annullata del tutto. Spiega infatti la presidente Boldrini, che la decisione è provvisoria: «Sono saltati i tetti agli stipendi dei dipendenti della Camera? Non è vero. La decisione sarà presto riesaminata». Ovviamente, quella che volendo può chiamarsi una guerra fra caste nel nome dei tagli (politici contro Palazzo) non è finita qui. L’ufficio di presidenza ha infatti già presentato appello contro la sentenza, che quindi resta sospesa fino a settembre, quando si avrà la parola definitiva. In un caso e nell’altro, comunque, si dovrà scegliere tra due paradossi: o un segretario generale (che fino all’anno scorso prendeva 478 mila euro) finirà per guadagnare quanto un consigliere parlamentare a fine carriera (240 mila euro, appunto) e poco più di un documentarista (237 mila euro, sempre a fine carriera), oppure si dovrà escogitare un altro sistema che eviti l’appiattimento senza però risultare illegittimo. Servirà insomma una soluzione complessiva: anche perché al Senato la stessa vicenda ha preso una piega opposta (i sottotetti sono stati giudicati legittimi), e il tutto dovrà essere armonizzato con il cosiddetto ruolo unico dei dipendenti dei due rami del Parlamento. La valanga dei ricorsi, peraltro, non può dirsi ancora finita. Alla prossima.
Camera, commessi a 232 mila euro e barbieri a 143 mila: l’Italia che resiste, scrive Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano”. Duecentoquarantamila euro, tanto può guadagnare al massimo il Presidente della Repubblica e tanto possono guadagnare, al massimo, i dipendenti pubblici, compresi ovviamente quelli della Camera dei Deputati. Stipendio bloccato grazie al tetto imposto ed introdotto l’anno scorso per la pubblica amministrazione che a Montecitorio aveva portato con sé anche dei limiti intermedi, dei sottotetti continuando la metafora, che si sono però rivelati stretti, troppo, per chi li doveva “subire”. Così stretti che gli interessati hanno presentato ricorso, accolto dalla Camera stessa, realizzando la meraviglia, il paradosso per cui i commessi possono continuare a sfiorare a fine carriera lo stipendio dell’inquilino del Quirinale toccando i 232 mila euro e i barbieri (7 a Montecitorio) continuare a costare 500mila euro ogni dodici mesi con il più anziano che vanta uno stipendio da 143mila euro. “L’anno scorso – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – si era stabilito di applicare il tetto dei 240 mila euro per gli stipendi pubblici anche ai dipendenti di Montecitorio, dove le retribuzioni arrivano anche a superare anche il doppio di quella cifra. Avevano dunque fissato il tetto massimo per i superdirigenti, introducendo limiti di fascia più bassi per le categorie inferiori in modo da graduare i compensi”. La vicenda nasce nell’ambito del contenimento della spesa pubblica con la decisione del governo, nell’aprile 2014, di introdurre un tetto ai dirigenti della pubblica amministrazione, fissato a 240mila euro. A questa norma si sono in seguito adeguate tutte le istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, passando poi dal Senato e dalla Camera. In particolare alla Camera sono stati introdotti dei tetti per i consiglieri parlamentari, che sono i funzionari di più alto livello (che a fine carriera avrebbero potuto raggiungere anche i 358mila euro lordi annui), e poi dei sottotetti per le altre figure professionali. Il dipendente di più basso livello, l’operatore tecnico o il commesso che a fine carriera raggiungeva i 136mila euro lordi annui, dopo la delibera aveva visto la cifra scendere a 96mila, per fare un esempio. La logica sottesa all’introduzione dei sottotettiera quella di modulare la retribuzione massima in modo da evitare che due funzioni diverse, come ad esempio il commesso della Camera ed il Presidente della Repubblica, potessero essere retribuite praticamente allo stesso modo. Logica chiara e, evidentemente, ineccepibile. Almeno dal punto di vista teorico. Eccepibile invece dal punto di vista pratico tanto che gli interessati, come detto, hanno presentato ricorso. E grazie al regolamento della Camera dei Deputati il ricorso dei dipendenti della Camera, e scusate le inevitabili ripetizioni, è stato presentato alla Camera dove dei parlamentari della Camera che compongono la commissione competente lo hanno accolto stabilendo che la decisione della Camera era sbagliata. Sembra folle, sembra italiano non corretto eppure è così e, ancora una volta, a spiegare l’accaduto è Rizzo facendo ricordo al termine ‘autodichia’ che, nella definizione della Treccani, è “l’esercizio di attività formalmente giurisdizionale da parte della pubblica amministrazione”. Cioè il principio in base al quale le decisioni di un organo costituzionale come il Parlamento non sono sindacabili dall’esterno. “Davanti alla proposta di applicare tetti diversi – spiega Rizzo -, commessi e documentaristi hanno abbozzato e hanno fatto ricorso all’organo giurisdizionale interno. Si tratta di una commissione composta da deputati. E ovviamente ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato dei dipendenti riottosi: l’ex deputato Maurizio Paniz. Tutto in famiglia insomma”. Risultato: il risparmio previsto da qui al 2018 per Montecitorio passerà da 60 a 13 milioni di euro. Raramente barba e capelli sono costati tanto. Eppure commessi, documentaristi, barbieri e addetti vari della Camera dei deputati non sono soli. Sono soltanto un segmento della vasta Italia che resiste. Resistono gli autisti Atac nella trincea dell’orario di lavoro effettivo più basso d’Italia e certo d’Europa. Resistono i dipendenti comunali nella trincea del salario accessorio percepito senza lavoro o produttività accessoria, resistono tutti nei bunker conquistati finora, strappati alla lobby a fianco o comunque espugnati demolendo il pubblico denaro. Resistono tutti indifferenti al mondo, all’intero resto del mondo. Solo che non è proprio la stessa cosa resistere ottusamente se si guadagnano 1.500/2.000 euro al mese o se lo stipendio è cinque volte tanto. Non sono soli questi lavoratori della Camera dei deputati a pretendere ciò che non gli spetta, solo è che non si possono guardare tanta è la loro protervia. Come diceva un tale che faceva il filosofo…dopo una certa misura la quantità stessa muta la qualità, dopo un botto di stipendio infatti il corporativismo sindacale muta in indecenza sociale.
Fata Boldrini trasforma i barbieri in parrucchieri. Oltre alla barba anche la piega per le deputate. Il servizio alla Camera parte da domani, scrive Laura Della Pasqua l’8 giugno 2014 su “Il Tempo”. Taglio, messa in piega, colore e permanente, da domani la Camera fornirà anche questi servizi. È da tempo che le parlamentari reclamano i parrucchieri in nome del pari trattamento con i colleghi. Perchè, è stata la lamentela ricorrente, «dobbiamo uscire dal Palazzo per una piega quando i deputati possono farsi in qualsiasi momento barba e capelli?» Così siccome il «problema» era particolarmente sentito e siccome anche in questo, sostiene più di una deputata, si vede la piena attuazione delle «pari opportunità», ecco che il presidente della Camera Laura Boldrini ha cercato di rimediare a questa carenza. Una recente delibera del Collegio dei Questori ha disposto un servizio di parrucchiere da affiancare a quello di barbiere. Non ci saranno assunzioni nè aumento dei costi e tantomeno listini di favore. La segreteria della Boldrini ci tiene a precisare che con questo servizio, la Camera addirittura ci guadagna. Come? I barbieri infatti si sono riconvertiti in parrucchieri. La segreteria del presidente spiega che i sette barbieri operativi a Montecitorio già in parte esercitavano le funzioni di parrucchiere su richiesta di alcune deputate. Capitava infatti che qualcuna avesse bisogno di una piega espressa e invece di uscire dalla Camera, prendere appuntamento con un parrucchiere e mettersi in attesa, chiedesse a un barbiere di improvvisarsi coiffeur. Insomma tra una barba e un’altra, un paio di bigodini non si negavano a nessuna. Il problema era però che questi servizi extra venivano fatti a prezzi da barbiere che, come si sa, sono più bassi di quelli di un parrucchiere. Un conto è fare una sfumatura maschile e un conto è invece tagliare una chioma femminile. Inoltre quelle che fino alla scorsa legislatura, erano richieste sporadiche, eccezionali, ora con la massiccia presenza di donne alla Camera (il 30% degli eletti) è diventata, fanno notare presso la presidenza, quasi una necessità. Così la Boldrini, come spiega la sua segreteria, ha pensato che era arrivato il momento di fare una distinzione tra il servizio di barbiere e quello di parrucchiere introducendo un listino ad hoc per le parlamentari. I prezzi, si tiene a precisare, sono quelli di mercato. E dal momento che la spending review non consente di allargare i cordoni della spesa, i barbieri svolgeranno la doppia funzione. Gli uffici della Camera sostengono che Montecitorio ci andrà addirittura a guadagnare. Ma un interrogativo sorge spontaneo: non è che con l’aumento dell’attività i barbieri-parrucchieri reclameranno un aumento di stipendio? Andando a spulciare le tabelle sulle retribuzioni del sito della Camera, avrebbero poco da lamentarsi anche se il lavoro dovesse raddoppiare. I barbieri rientrano nella categoria degli operatori tecnici al pari dei falegnami, dei baristi, degli elettricisti e dei centralinisti. Appena entrato un barbiere della Camera porta a casa circa 30.351 euro l’anno (quasi 2.600 euro al mese); una cifra che dopo il decimo anno arriva a 50.545 euro, dopo vent’anni lievita a 89.528 euro e dopo quarant’anni di servizio sale a oltre 136 mila euro. Questi scatti di anzianità così rapidi hanno avuto, almeno fino al varo della riforma Fornero, un impatto significativo sulle pensioni. Con il vecchio sistema retributivo, il vitalizio si calcolava tenendo presente le ultime buste paga. Comunque anche a fronte della riforma previdenziale, l’assegno pensionistico rimane di tutto rispetto e molto al di sopra di quello di quanti svolgono la stessa attività fuori dal Palazzo. Il Reparto Barberia, questo il nome ufficiale, fino al 1991 era gratuito e per le senatrici era previsto addirittura un bonus messa in piega. Nel 2007 arriva anche all’ordine del giorno la proposta di eliminare il servizio da barbiere ma viene cassata perché ritenuta «non coerente con le scelte della Camera». Ora si cambia ancora.
La Camera salva i barbieri e li promuove a commessi. L'ufficio di presidenza risolve all'italiana il caso dei coiffeur in esubero: invece di licenziarli vengono inquadrati come assistenti parlamentari. Stipendio finale: 136mila euro all'anno, scrive Paolo Bracalini, Domenica 31/01/2016, su "Il Giornale". I barbieri della Camera, creature mitologiche che, per saper usare forbici e schiuma da barba, arrivano a guadagnare a fine carriera come un dirigente di una multinazionale, 136mila euro l'anno di stipendio. E, a differenza dei barbieri normali che si accollano il rischio di un negozio, se sulle loro poltrone non si siede nessuno per loro non cambia niente: sono assunti a vita dal Parlamento. Ma c'è ancora di più, se i barbieri di Montecitorio si rivelano in eccesso rispetto alle esigenze delle onorevoli chiome, non vengono tagliati ma al contrario, promossi. Miracoli dell'incredibile welfare assicurato ai dipendenti della Camera, difesi da una dozzina di sigle sindacali differenti e pronti a scioperare al minimo segnale di affronto ai diritti acquisiti. Negli ultimi anni il Reparto Barberia ha ridotto gli introiti, 90mila euro circa a fronte di un costo di 500mila euro per il bilancio di Montecitorio, ovvero 400mila euro in perdita. Si calcola che taglino i capelli non più di 23 volte alla settimana, in tutto. Una soluzione andava trovata. Ma l'Ufficio di presidenza della Camera, composto da ventun deputati e guidato da Laura Boldrini, dopo annunci mirabolanti di spending review anche per il Reparto Barberia della Camera (addirittura l'ipotesi di chiuderlo), si è dovuto piegare di fronte ai diritti intoccabili. E che piega. L'estenuante trattativa è finita a tarallucci e vino, con una delibera del massimo organo interno di Montecitorio che tiene aperto l'indispensabile servizio di barberia per gli onorevoli (esteso per pari opportunità, su indicazione della Boldrini, anche alle deputate come servizio di parrucchiere), con la differenza che i barbieri in servizio non saranno più sette, ma quattro. E gli altri tre? Qui sta il colpo di genio. I tre barbieri in esubero da domani diventeranno «assistenti parlamentari». In altre parole verranno promossi, perché l'inquadramento dei barbieri alla Camera è quello di «operatore tecnico», livello più basso rispetto all'«assistente parlamentare», a cui si accede per concorso come per le altre qualifiche. E la funzione dell'assistente parlamentare è così descritta da un documento della Camera: «Gli assistenti parlamentari svolgono attività operative o di coordinamento nei settori della vigilanza, della sicurezza delle sedi, della rappresentanza e dell'assistenza alle attività degli organi parlamentari». Ma che ne sanno i barbieri di vigilanza e assistenza alle attività degli onorevoli, tolte le esigenze collegate ai bulbi piliferi? Non importa. «Non potevamo fare altrimenti, non si possono licenziare - ci racconta un deputato membro dell'Ufficio di presidenza che preferisce restare anonimo - E quindi l'alternativa era tenere tutti i barbieri della Camera e pagarli inutilmente, o spostarne alcuni ad altre mansioni trasformandoli in assistenti parlamentari. Faranno i commessi, mica vanno a fare i consiglieri legislativi!». Tutti salvi e anzi promossi. In barba alla spending review.
Diabolus in politica. Perché è stato bocciato il tetto massimo di 240 mila euro fissato invece per tutti i funzionari della pubblica amministrazione, scrive Serenus Zeitblom su “Panorama”. Gli stipendi dei politici vi sembrano alti? Cambiereste idea se conosceste gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato. Fino all’anno scorso, i più alti funzionari di Montecitorio arrivavano a guadagnare quasi 360.000 euro l’anno, vale a dire il triplo dell’indennità che percepisce un deputato. Lo scorso anno, i vertici dei due rami del Parlamento decisero di applicare, congiuntamente, un tetto analogo a quello che il Governo Renzi aveva disposto per il resto della pubblica amministrazione. I funzionari di Palazzo Madama e di Montecitorio non avrebbero percepito più di 240.000 euro l’anno, comunque il doppio dei deputati (ad entrambe le categorie vanno poi aggiunte indennità varie). Vi sembra ancora troppo? Tenete presente che si tratta di funzionari di altissimo livello, il meglio di cui la pubblica amministrazione disponga. Vengono selezionati attraverso concorsi molto severi e – bisogna riconoscerlo – non troppo lottizzati politicamente. Naturalmente, secondo logica, si decise in quel momento di diminuire anche gli stipendi delle altre categorie di dipendenti dei due palazzi, provvedimento certamente logico e necessaria conseguenza dell’altro (si tenga conto che quasi la metà del totale dei dipendenti della Camera – compresi commessi e centralinisti - guadagnava più di un deputato). Ma qui le cose non sono andate lisce. Se nel caso degli alti funzionari si ebbero solo composti mugugni, qui si misero di mezzo i sindacati, e fioccarono i ricorsi. Ricorsi alla Magistratura? Niente affatto: la Camera è un organo costituzionale, e quindi – come per il Senato, il Quirinale, la Corte Costituzionale - vale il principio dell’autodichìa, per effetto del quale è la Camera stessa, attraverso un organo apposito, a giudicare sui ricorsi. Questo organismo si chiama Commissione Giurisdizionale per il personale, ed è composto da 3 deputati, estratti a sorte. In questa legislatura la sorte ha voluto, un po’ curiosamente, che i 3 membri fossero tutti del PD: gli on. Bonifazi (Presidente), Ginefra, Bonavitacola. Nessun problema, si dirà: la delibera che poneva un tetto alle retribuzioni è stata assunta dall’Ufficio di Presidenza della Camera, a stragrande maggioranza PD, in attuazione di un orientamento del Governo Renzi (PD). E invece no: nei giorni scorsi la delibera è stata bocciata, i ricorsi accolti. Lodevole esempio di indipendenza di giudizio di deputati PD che decidono secondo coscienza, o terrore di scontentare i sindacati? Vediamo. La motivazione della sentenza che accoglie i ricorsi ha poco di tecnico. Il tetto alle retribuzioni, secondo i tre deputati del PD “viola il principio di ragionevolezza” e non giova all’amministrazione, perché i dipendenti, privati “delle leve di incentivazione determinate dal consolidato sviluppo stipendiale” potrebbero dar luogo “a comportamenti poco virtuosi e a cali di produttività determinati dall’assenza di competizione”. Fuori dagli orrori del burocratese, significa che i lavoratori della Camera (al Senato un ricorso analogo è stato respinto), secondo i tre del PD, senza l’incentivo di aumenti di stipendio diventerebbero meno produttivi o addirittura “meno virtuosi”. In effetti, c’è da capirli. Si tratta di modesti lavoratori, che devono mantenere la famiglia lavorando duramente per un tozzo di pane: come si può chiedere a una segretaria di essere motivata a lavorare con impegno se guadagna solo 115.000 euro l’anno? (lordi, s’intende). Come si può pretendere che un commesso spenga le luci o distribuisca la posta fra gli uffici con dedizione e impegno sapendo che non prenderà mai più di 99.000 euro l’anno? Per fortuna il PD ha corretto queste storture, questo vero attentato ai diritti dei lavoratori, e si è tornati al regime precedente. Uno stenografo potrà tornare a percepire 256.000 euro l’anno (più del Segretario Generale), un barbiere anziano ed esperto, che “porta in dote il bagaglio professionale acquisito in anni di servizio” come scrivono i tre del PD, sarà premiato per le sue rasature con 160.000 euro l’anno (il 30% in più di un deputato). Poi dicono che il PD non è più un partito di sinistra: un simile esempio di socialismo reale – a spese dei contribuenti - persino Lenin se lo sognava!
"La lista della spesa". La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Si è parlato tanto di spending review, di taglio agli sprechi..ma cosa è stato fatto? E soprattutto, cosa si può davvero tagliare della spesa pubblica? Carlo Cottarelli, classe 1954, laureatosi a Siena e alla celeberrima London School of Economics, ha alle spalle una lunga carriera in Banca d’Italia, Eni e al Fondo Monetario internazionale. E’ salito alla ribalta quando è stato nominato commissario straordinario per la Revisione della Spesa, incarico che ha ricoperto da ottobre 2013 a novembre 2014, proprio con il compito di individuare i tagli da fare per ottimizzare la spesa pubblica. Dalla sua attività sarebbero dovuti scaturire milioni di euro, eppure ancora poco si è mosso. Per spiegare agli italiani che cos’è la spesa pubblica, Cottarelli ha scelto di raccogliere nel libro “La lista della spesa” le sue riflessioni (e la sua diagnosi) in merito a questo grande “mistero italiano”. Ed ecco che ne deriva una lettura acuta del nostro paese, di come spende e di perché si spende, una sorta di guida che illustra dove vanno a finire le tasse che paghiamo, se spendiamo davvero troppo per i servizi pubblici e perché i tagli tanto promessi da tutti i politici tardano ad essere sempre concretizzati. Chi se non lui poteva svelare cosa si può davvero tagliare in Italia? Una lettura acuta per conoscere un po’ meglio il nostro paese.
Carlo Cottarelli ha goduto per qualche tempo di grande attenzione mediatica. È stato nominato commissario straordinario alla spending review, dal suo lavoro dovevano arrivare milioni di euro per le esauste casse dello stato italiano, al termine del suo mandato è stato invitato in tutte le televisioni e intervistato da tutti i giornali. A distanza di mesi, Cottarelli affida a questo libro le sue riflessioni, i suoi ricordi, le sue diagnosi per cercare di spiegare al grande pubblico uno dei grandi misteri dell’Italia: quell’enorme calderone che è la nostra spesa pubblica. Senza tecnicismi ma non tralasciando nulla di importante, Cottarelli ci guida nei meandri del bilancio statale, facendoci scoprire man mano il grande meccanismo che regola la nostra vita di cittadini, un meccanismo di cui abbiamo solo una vaga percezione, al tempo stesso minacciosa e sfocata. Dove vanno a finire tutti i soldi che paghiamo con le tasse? Davvero spendiamo troppo per i servizi pubblici? Perché si finisce sempre a parlare di tagli alle pensioni? Sprecano di più i comuni, le regioni o lo stato centrale? Perché tutti i politici dicono che taglieranno gli sprechi e nessuno lo fa mai? Ma gli altri paesi come fanno? Un libro chiaro e autorevole, per fare le pulci alla macchina statale italiana, al di là dei luoghi comuni e delle polemiche giornalistiche: perché analizzare un bilancio statale può sembrare arido e difficile, ma con la guida giusta può diventare la lettura più acuta, sorprendente e accurata di un paese intero. “Il livello di spesa pubblica appropriato dipende anche da quanto un paese si può permettere. Non a caso, come motto per la revisione della spesa mi è stato suggerito un vecchio adagio cremonese: "Se se pol mia, se fa sensa", ovvero: se non si può, si fa senza.”
Spending review, la verità di Cottarelli in un libro: «Ecco chi remava contro», scrive “Businness People”. Carlo Cottarelli dopo un anno da commissario alla spending review ha gettato la spugna per tornare al Fmi. La verità dell'ex commissario sui mancati tagli alla spesa: lo spreco delle sedi statali in affitto. «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». E' una frase di Francesco Guccini ad aprire l'attesissimo saggio di Carlo Cottarelli, l'ex commissario alla spending review che ha gettato la spugna dopo un anno di guerra ai mulini a vento degli sprechi pubblici. Il libro, edito da Feltrinelli, sarà in vendita da domani 27 maggio (i diritti saranno devoluti all'Unicef). La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare è la summa del lavoro dell'economista e racconta ancheil fallimento della sua missione, incagliatasi contro gli interessi politici.
DIECIMILA SEDI. Nelle anticipazioni del Corriere della Sera, si racconta passo passo l'opposizione, a partire dai cinque gruppi di lavoro su 17 che non hanno mai fornito proposte di tagli, insomma hanno boicottato la spending review. Tutta colpa del «complicato mosaico», come lo definisce Cottarelli. E a ogni tessera corrisponde uno spreco: 5.700 sedi territoriali dei ministeri, 3.900 uffici di enti vigilati. Diecimila sedi statali, senza contare caserme di polizia e carabinieri.
W LE PROVINCE. Tutto ruota ancora sulle province e sui capoluoghi, nonostante la riorganzzazione annunciata e mai intrapresa. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...
FORZE DELL'ORDINE. Altro capitolo spinoso è quello delle forze dell'ordine: sono cinque, per cominciare, ognuno dipendente da un ministero diverso per 21 miliardi di spesa totale vista la duplicazione di amministrazioni, centri acquiisti, forniture, manutenzioni e persino pubblicazioni. E occupano 320 mila persone, con un rapporto fra agenti e abitanti superiore alla media europea e inferiore in assoluto soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. FInisce così che i 34 mila uffici pubblici per l'acquisto di beni e servizi gestiscano 1,2 milioni di procedure, con un costo a bando da 50 mila a 500 mila euro.
ENTI PUBBLICI. Non finisce qui. Capitolo enti pubblici, che sono 198. C'è pure l'Aci, simbolo degli sprechi secondo Cottarelli. I cittadini pagano all'ente 190 milioni all'anno per immatricolazioni e cambi di proprietà, per un servizio che è un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Ma i due archivi sembrano non poter essere uniti.
QUANTO SPAZIO. Il primo passo per risparmiare dovrebbe essere la razionalizzazione degli spazi e la ristrutturazione degli stabili obsoleti: l'operazione nel Regno Unito è costata 7,5 miliardi, ha aiutato l'economia e ha permesso di ridurre gli immobili occupati del 45% dimezzando i costi. «Potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...», dice Cottarelli, «e anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche».
Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Nel suo volume "Lista della Spesa" l'ex commissario alla spending review svela paradossi e enti che si moltiplicano. Un racconto anticipato da Sergio Rizzo sul "Corriere della Sera", scrive Giornalettismo. Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Inefficienze, sprechi, paradossi. Nel suo volume “Lista della Spesa”, pubblicato da Feltrinelli e anticipato sul “Corriere della Sera” da Sergio Rizzo, l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli racconta la sua verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può realmente tagliare. Chiamato dall’ex premier Enrico Letta nel 2013, il cambio a Palazzo Chigi non ha certo giovato al lavoro di Cottarelli e dei gruppi, finito di fatto archiviato. Soltanto un anno dopo è stato pubblicato online il piano dell’ex commissario alla spesa, applicato però soltanto in modo marginale. Da Cottarelli però nessuna polemica, soltanto la convinzione che la “Bestia” sia ancora battibile, che gli sprechi possano essere tagliate. Basta guardare qualche numero. Soltanto le sedi territoriali dei ministeri erano quasi dieci mila alla fine del 2012. Una ogni 6.250 italiani, senza conteggiare le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Scrive Rizzo: «Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione… Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni… Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. Per quanto riguarda gli enti pubblici, Cottarelli nel suo libro precisa di aver trovato un documento della Camera che ne elenca 198, soltanto nazionali: «Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi», si legge. Al contrario, in Italia imitare questo modello sembra ancora un’utopia. Serve volontà politica. Eppure i costi, scrive Cottarelli, «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno…». Senza dimenticare quegli sprechi che potrebbero essere eliminati senza bisogne di “ristrutturazioni”: «Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione…». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno».
Il libro (e il bilancio) di Cottarelli. Diecimila sedi dello Stato. La spesa pubblica che ci soffoca. Inefficienze, enti che si moltiplicano e paradossi nel racconto del commissario alla revisione della spesa, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. «Ma se io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Carlo Cottarelli La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Un viaggio nel ventre della Bestia che succhia le nostre risorse più preziose. La Bestia, è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review, già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. Della determinazione con cui Carlo Cottarelli ha affrontato per un anno e dieci giorni il compito di commissario alla revisione della spesa, dice tutto una strofa della canzone L’Avvelenata di Francesco Guccini: «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Cottarelli in libreria da domani, pubblicato da Feltrinelli. Un libro, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, semplicemente sorprendente. Non ha sassolini da togliersi, l’ex commissario. Anche se un altro, dopo la freddezza con cui l’attuale governo ha accolto la fine della sua esperienza, l’avrebbe fatto eccome. Non lui. Leggere il libro è come fare un viaggio nel ventre della «Bestia» che succhia le nostre risorse più preziose, ma condotti da una guida esperta che ne ha già esplorato le viscere. Così bene da sfatare anche le convinzioni più pessimistiche. La «Bestia», è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Prima sorpresa...Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. A cominciare dai fondamentali. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, e ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. C’entra forse la caduta del governo Letta, che probabilmente ha segnato anche il destino di Cottarelli. Forse. Ma di sicuro c’entra anche la reazione della pubblica amministrazione. E di quello che l’ex commissario chiama benevolmente il suo «complicato mosaico». Cottarelli racconta di averne scoperto le dimensioni grazie a una stima della Funzione pubblica. Da brivido. Sapete quante erano alla fine del 2012 le sole sedi territoriali dei ministeri? Circa 5.700. Numero al quale si devono però aggiungere 3.900 uffici di enti vigilati dai ministeri. Per un totale di 9.600. Senza però che in quelle quasi 10 mila sedi del solo Stato centrale, per capirci una ogni 6.250 italiani, siano comprese le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni...Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. E poi gli enti pubblici. La «migliore ricognizione» che Cottarelli dice di aver trovato è un documento della Camera che ne elenca 198, ma solo per quelli nazionali. Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi. Noi, niente affatto. Gli edifici sono vecchi, gli spazi si sprecano. Eppure i costi «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...». Vero è, insiste l’ex commissario, che «anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche». Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione...». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno». Per la cronaca, i diritti del libro di Cottarelli saranno devoluti all’Unicef.
Spese pazze nei tribunali: il governo li "commissaria". Ci sono sedi che spendono cinque volte più di altre. Adesso la gestione passerà dai Comuni allo Stato. Milano ironizza: "Aspetteremo l'idraulico da Roma...", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Far funzionare la giustizia a Bologna costa quasi il doppio che a Firenze. Tenere aperto il tribunale di Sassari costa il triplo che mantenere quello di Trento. La corte d'appello di Messina va avanti con metà degli euro che servono a quella prospiciente di Reggio Calabria, e con un quinto del denaro che inghiotte ogni anno, cento chilometri più in giù, il distretto giudiziario di Catania. Com'è possibile? Mistero, anche se si può stare certi che ognuno dei tribunali spendaccioni avrà pronta una sua spiegazione. Ma il dato di fatto è che nelle tabelle diramate ieri dal ministero della Giustizia emerge un affresco surreale delle spese che ogni anno mantengono in vita l'apparato giudiziario: le spese correnti, quelle per il riscaldamento, i telefoni, la vigilanza privata agli ingressi. Un buco senza fine cui solo di recente il ministero ha deciso di prendere in mano il controllo. Finora (con l'eccezione di Roma e Napoli, già gestite direttamente dal ministero della Giustizia) i palazzi di giustizia vengono mantenuti dai Comuni, che poi si rivalgono sulle casse di via Arenula. E il documento diramato dallo staff del ministro Andrea Orlando rende conto di come sono stati distribuiti i 58 milioni di euro che il governo ha versato ai Comuni per rimborsare una prima tranche, il 70 per cento, delle spese sostenute nell'arco del 2013. La distribuzione riguarda sia i capoluoghi più grossi, che sono sedi di Corti d'appello (e qui il più costoso è Milano, con i suoi 4,7 milioni), sia i Comuni dove c'è solo un tribunale o un giudice di pace, nonchè quelli che ospitavano sedi giudiziarie soppresse recentemente da Renzi nella spending review : ed è un piccolo viaggio nella giustizia di paese, dove si apprende che a Silandro, in Alto Adige, c'era una sede staccata che riusciva a stare aperta con 512 euro l'anno, meno di due euro al giorno; o che la vita quotidiana della giustizia a Foligno costava, chissà perché, 37 volte più che nella vicina Città di Castello. Insomma, un marasma dove accade che il più costoso d'Italia sia il tribunale di Agrigento, e che il suo funzionamento costi il quintuplo di quello di Varese, che ha il doppio di abitanti. È per mettere sotto controllo questo andazzo che il ministero ha deciso di accentrare dal prossimo settembre la gestione delle spese di funzionamento dei palazzi di giustizia. La decisione di Orlando ha sollevato le ire di molte toghe: a Milano si sono addirittura riuniti in assemblea per protesta, «adesso se si rompe un tubo dovremo aspettare l'idraulico da Roma». Ma è un dato oggettivo che le spese per la giustizia erano quasi ovunque fuori da ogni controllo, anche perché la Corte dei Conti, molto e giustamente solerte nel fare le pulci alle spese dei politici, quando si tratta di affari che riguardano altri magistrati è assai più lenta. Tanto per restare a Milano, le denunce sullo sperpero di fondi Expo avvenuto in tribunale sono rimaste senza conseguenze, e lo stesso è accaduto all'esposto della Procura generale sulla folle cifra investita per costruire una nuova aula bunker davanti al carcere di Opera, incompiuta dopo oltre sedici anni.
Cottarelli boccia la Consulta: si sono aumentati le pensioni. L'ex commissario racconta i risparmi mancati dei governi di Letta e Renzi. E bacchetta la Corte costituzionale: l'intero organo costa 60 milioni l'anno, scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. La spesa pubblica resiste. Compressa da interessi sul debito e dalle pensioni. Ridotta negli ultimi anni, ma con grande parsimonia, senza incidere sulle voci principali (a partire dal personale) o con inutili tagli lineari. La macchina della pubblica amministrazione, insomma, non cambia. Quella centrale si espande su migliaia di sedi, quella locale resiste e anche gli organi costituzionali, dopo qualche limatura ai bilanci, restano lontani dagli standard internazionali. Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review nominato dall'ex premier Enrico Letta e uscito di scena con l'esecutivo Renzi, ha dedicato alla sua esperienza un libro (La Lista della spesa, Feltrinelli). Toni molto soft. Soprattutto con gli organi costituzionali. Ma la sostanza resta quella di un Paese che conserva gelosamente le sue anomalie. Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, Csm, Consiglio di stato, Corte dei conti e Cnel nel 2013 costavano circa 2 miliardi e 700 milioni. Negli ultimi due anni la spesa è «rimasta sostanzialmente invariata». Camera (che ha operato i risparmi più consistenti) e Senato costano circa un miliardo. Per House of Commons e House of Lords i cittadini del regno Unito spendono 675 milioni di euro, il Parlamento tedesco costa 670 milioni, sotto quello italiano anche considerando le pensioni. In Francia 900 milioni. Il confronto è difficile anche per l'opacità delle onorevoli buste paga. La Commissione Giovannini, ricorda Cottarelli, era stata incaricata di confrontare in modo rigoroso gli stipendi dei parlamentari in Europa, ma gettò la spugna. L'ex commissario ci prova comunque e rileva come, a fronte di un'indennità dei parlamentari italiani di 10mila euro, quella francese è di 7mila, 8.000 quella dei tedeschi e di 6.500 euro quella dei britannici. Al netto delle tasse restiamo sopra gli standard europei del 30%. Abbiamo più parlamentari degli altri paesi europei. I costi del personale del Parlamento rappresentano la metà delle spese del bilancio. «La retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188mila euro», contro i 106mila di quelli di Bankitalia. Cottarelli fa un accenno anche ai vitalizi e sembra dubitare della riforma che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo anche per i deputati. Qualche riga anche alla Corte costituzionale, finita sotto i riflettori per la sentenza che ha salvato la rivalutazione delle pensioni. Costa 60 milioni. I costi di funzionamento sono stati tagliati, ma la Consulta ha fatto registrare anche un aumento della spesa, per pagare le proprie pensioni. In generale, Cottarelli dà conto di un'amministrazione bizantina. Il conto delle pubbliche amministrazioni è di 10.200, solo i Comuni sono 8.100. I ministeri, fanno aumentare il conto degli uffici pubblici di altre 10mila unità. A fine 2012, conta Cottarelli, «erano circa 5.700, cui si devono aggiungere quasi 3.900 sedi di enti vigilati dai ministeri, per un totale di oltre 9.600 sedi». Ogni ministero ha come minimo 100 uffici provinciali che spesso si moltiplicano per ogni funzione. Ad esempio il ministero dell'Economia conta «103 commissioni tributarie provinciali, 102 comandi provinciali della Guardia di finanza, 97 uffici provinciali dell'Agenzia delle entrate e 93 ragionerie territoriali dello stato». Una complessità che si traduce anche in un costo esorbitante per gli affitti degli uffici pubblici. Circa due miliardi all'anno.
Le meteore del 1994 si tengono stretti i vitalizi. È stato l'anno della svolta che ha seppellito la prima Repubblica ma anche quello degli esordienti in politica, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Dal 1994 nulla è stato più come prima. Forse perché, come il 1992, è esistito veramente e non è stato partorito da un'idea di Stefano Accorsi. Altro che fiction, ci sono testimonianze nell'elenco dei vitalizi della Camera che dimostrano come quel Big Bang elettorale abbia inciso sui destini del nostro Paese, ma anche come la politica non fosse pronta a un grande cambiamento. Le resistenze alla novità hanno in qualche modo prevalso, ieri come oggi, e l'impreparazione di molti, insieme all'opportunismo di alcuni, ha fatto il resto. Più che della «gioiosa macchina da guerra» dei Progressisti di Achille Occhetto, sbaragliata da Silvio Berlusconi, val la pena di partire da un segno premonitore nelle circoscrizioni fiorentine. Il Pds presenta un trentottenne consigliere comunale, il segretario fiorentino Leonardo Domenici (-51mila euro il suo sbilancio previdenziale), destinato a diventare cinque anni dopo sindaco del capoluogo. Gli fa idealmente posto un deputato ex dc (Ppi e sinistra non sono ancora alleati): l'ex sottosegretario all'Istruzione Giuseppe Matulli (-600mila euro). Se ne torna nel Mugello a fare il sindaco del suo Paese, poi diverrà il vice di Domenici. Proprio in quegli anni diventa lo «sponsor» politico di uno studente universitario e caposcout, coinvolgendolo di lì a poco nei comitati per Prodi e nello staff di un altro diccino di sinistra, Lapo Pistelli. Sì, Matteo Renzi nasce dalle «porte girevoli» di Montecitorio nel 1994. Certo, agli occhi della grande stampa in quel periodo desta maggiore attenzione il pattuglione di homines novi portati in Parlamento da Silvio Berlusconi e da Umberto Bossi. E, in effetti, rispetto al grigiore del passato la musica cambia. C'è il professor Giuliano Urbani (-238mila euro), ideatore del progetto di coalizione alternativo alla sinistra. Un'idea presentata a Gianni Agnelli e rifiutata dall'Avvocato, restio a scomporre assetti precostituiti. Il Cavaliere ci crede e, assieme al gruppo che aveva creduto nel suo sogno imprenditoriale, realizza un altro sogno: dare una forma alla maggioranza del Paese. La politica, però, è altra cosa dall'economia: la determinazione non basta. Anche perché collaboratori come Vittorio Dotti (-317mila) inciampano nel desiderio di visibilità della propria partner. Altri, come il capogruppo alla Camera Raffaele Della Valle (-345mila) e come il giornalista Umberto Cecchi (-347mila euro) non sono effettivamente preparati al clima incandescente, ma più propensi alle antiche mediazioni. La Forza Italia delle origini è come un elemento radioattivo: è pesante (alle Europee di quell'anno superò il 30%) ma è instabile. Un po' perché alcuni deputati sono più inclini al vecchio lavoro manageriale e presto vi fanno ritorno come Paolo Vigevano (-113mila euro) e Sandro Trevisanato (-117mila euro). Un po' perché l'ambizione di altri li porta verso altri lidi. È il caso della casiniana Ombretta Fumagalli Carulli (-638mila euro) e di Mariella Cavanna Scirea che nella legislatura successiva entreranno addirittura nella maggioranza di centrosinistra. La crisi del primo governo Berlusconi si originò dal colpo di testa di Umberto Bossi e dall'ingerenza del presidente della Repubblica Scalfaro. Anche la Lega, però, non era pronta. Quella fu l'ultima legislatura di Franco Rocchetta (-343mila euro), il fondatore della Liga Veneta incorso negli strali del Senatur. La svolta «dalemiana» di Bossi non piacque a coloro che nel centrodestra unito credevano veramente a quel tempo, come Giuseppe Dallara (-425mila euro), Enrico Hullweck (-149mila euro) e il senatore Renato Ellero (-235mila). Quest'ultimo, oltre un quindicennio dopo, tornerà agli onori delle cronache come avvocato del presunto acquirente della casa di Montecarlo nella quale viveva il cognato di Gianfranco Fini. La sinistra del 1994, invece, non è molto diversa da quella che si conosce oggi anche se tutti hanno indossato i vestiti nuovi del renzismo. Ci sono pretori d'assalto come Nicola Magrone (-324mila euro), un Michele Emiliano ante litteram, e giornalisti embedded come il socialista Vittorio Emiliani (-428mila euro) che poi sarà ricompensato con un posto nel cda Rai. Rifondazione porta con sé un giovane cossuttiano torinese: Marco Rizzo (-136mila euro). Comunista e operaista un po' fuori tempo massimo.
Metamorfosi Carroccio: Roma non è più ladrona, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Sembra passato un secolo, ma solo 35 anni fa, agli inizi degli anni '80 il fondatore e capo carismatico della Lega Nord, Umberto Bossi, approcciava la politica dal lato della poesia, dell'estetica con questi mirabili versi «Aj varan nagott sti dü fioeu, von di nostar e un teron » (Sono dei perdigiorno questi due ragazzi, uno dei nostri e un terrone). E che dire della Dieta degli autonomisti settentrionali al castello di Pomerio, fase embrionale del Parlamento padano? La Lega fino a poco tempo fa, soprattutto nell'immaginario collettivo, aveva un connotato razzista e antimeridionale. «Roma ladrona, la Lega non perdona!» era lo slogan preferito del Senatur. Osservare la folla di Piazza del Popolo in estasi per Matteo Salvini ieri potrebbe sembrare un profondo rivolgimento rispetto a quelli che erano i principi fondanti dello stesso movimento leghista che ancor oggi porta il «Nord» nel nome, pur avendo rinunciato alla dicitura «Padania» in nome del più coinvolgente «No Euro». Ma all'attuale leader del Carroccio occorre riconoscere di aver portato a fecondazione i caratteri già iscritti nel Dna del partito. L'attaccamento al territorio originario sempre minacciato nella sua «diversità» resta anche se non si sentono più certe affermazioni. «Eh sì, ho una nonna romana. Per me è come avere un'unghia incarnita. Mi dà fastidio», diceva Corinto Marchini, capo delle Camicie Verdi. «Non amo i meridionali perché sono europeo», gli faceva eco l'ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio. Tant'è che in uno dei più fortunati manifesti elettorali della Lega il settentrione era rappresentato come una gallina che inviava le proprie uova d'oro a Roma e a tutto il Sud, veri sfruttatori dell'operosità lombardo-veneta-piemontese. Erano i tempi pionieristici, quelli della Lega che sbraitava contro la «colonizzazione meridionale del Nord» invocando la secessione. Come nel settembre 1992: «Da Milano potrebbe partire una marcia su Roma per chiedere la secessione del Nord», tuonò il Senatur. In mezzo a quello che potremmo definire anche il folklore leghista c'erano i primi velleitari tentativi di varcare i confini della Padania per rendere il Carroccio un partito presente su tutto il territorio nazionale o, quantomeno, un movimento federativo delle istanze autonomiste in tutta la Penisola. Si spiega così il tour meridionale di Umberto Bossi nelle principali città del Sud all'inizio degli anni '90. Diffidenza, insulti e un primo scontro con quello che sarebbe diventato un suo alleato, il missino Gianni Alemanno andò fino a Catania per contestarlo senza sapere che di lì a dieci anni se lo sarebbe ritrovato al fianco nell'esecutivo Berlusconi. Si spiegano così pure gli abboccamenti con la Lega Sud Ausonia di Gianfranco Vestuto nel 1996, un flop elettorale clamoroso così come il tandem con l'Mpa di Raffaele Lombardo alle elezioni politiche del 2006. L'antimeridionalismo? Solo un modo per farsi pubblicità. In mezzo a tutto questo un preciso disegno politico: esportare il brand oltreconfine. Un progetto affidato al deputato ligure Giacomo Chiappori nel 2008: la creazione di un Parlamento del Sud da affiancare a quello del Nord (vecchio arnese della fase secessionista 1995-1999) e uno spin off del marchio di via Bellerio, «Alleanza Federalista». Un colpo al cerchio della crescita elettorale e uno alla botte del protoleghismo. Tipo l'infelice battuta bossiana «Spqr, sono porci questi romani» con tanto di magnata di bucatini all'amatriciana per far pace con Alemanno e Polverini a favor di telecamera. Salvini ha fatto tesoro di tutte queste esperienze. E cerca di replicarle senza esagerazioni. In fondo, essere sicuri a casa propria, avere una buona pensione, dire di no a questa Ue sono concetti che vanno bene da Milano fino a Canicattì.
L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.
Lo Stato paga i debiti dei Ds. Arriva l'ultima rapina comunista. Lo Stato è stato obbligato a coprire 107 milioni di passivi del quotidiano L'Unità. Tocca ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali dei Ds: lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici del partito. Ma non è finita: da saldare mancano altri 18 milioni di euro, scrive Sergio Rame su "Il Giornale" Lunedì 09/11/2015. Lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici dei Ds. Come denuncia Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, è toccato ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali del partito. Da saldare alla Sga, società nata dieci anni fa per recuperare i crediti dal crac del Banco di Napoli, mancano altri 18 milioni di euro. I 107 milioni di euro pubblici sono stati parcheggiati nelle casse delle banche creditrici dei Ds con "riserva". Sul malloppo pende ancora il giudizio di appello. Una legge del 1998 estende la garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. "Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità - denuncia Rizzo sul Corriere della Sera - tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi". E, nonostante il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti abbia abbattuto gran parte dei 450 milioni di euro di debiti, adesso gli italiani si trovano a dover mettere mano al portafogli. Nonostante fosse stata approvata pure una legge che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura (come avvenne nel 2008, quando i Ds partorirono il Pd), sul groppone dello Stato sono rimasti appunto 125 milioni di euro. Il Pd non ha raccolto l'eredità economica dei Ds e della Margherita, che per tre anni hanno continuato a intascare i fondi statali. "La separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali - denuncia Rizzo - ovvero, soggetti giuridici autonomi". Non avendo più immobili da pignorare, le banche hanno chiesto allo Stato di sborsare i 125 milioni di euro. "Il debitore è morto - diceva Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, ai microfoni di Report - se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto 'guarda, signor Stato, che devi pagare tu…'". Ovvero i contribuenti.
I debiti dei Ds saldati dallo Stato. Una legge obbliga a coprire 107 milioni per i bilanci in rosso della vecchia «Unità», scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” il 9 novembre 2015. La la legge è legge. Così tocca ai contribuenti ripianare i debiti dei Democratici di sinistra: 107 milioni di euro, versati dallo Stato nei giorni scorsi. Mentre già infuriavano le polemiche per i tagli della legge di Stabilità alle Regioni, quel gruzzolo finiva dunque nelle casse delle banche creditrici. E non è nemmeno tutto. Mancherebbero altri 18 milioni dovuti alla Sga, società nata dieci anni fa con la funzione di recuperare la montagna di crediti dal crac del Banco di Napoli che ha ritenuto di non rivendicare quella cifra. Va detto che quei 107 milioni pubblici si trovano ora parcheggiati nei forzieri delle banche creditrici dei Ds con «riserva». Significa che pende ancora il giudizio di appello, ma le speranze che quei denari tornino indietro sono al lumicino. Il finale era scritto da tempo. Il Corriere e Report di Milena Gabanelli avevano già raccontato come il rischio che si è materializzato fosse concretissimo. E tutto grazie a una leggina del 1998 che stabiliva l’estensione della garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità. I Democratici di sinistra avevano generosamente deciso di accollarsi la drammatica esposizione bancaria del giornale, che stava imboccando il tunnel di una crisi durissima. Tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il quale non ha mai rinnegato quella mossa assai discutibile, ce la mise comunque tutta per abbattere la montagna di debiti che sfiorava i 450 milioni di euro. Anche con l’aiuto di altre ancor più discutibili leggine approvate dal parlamento intero con rarissime eccezioni, che fecero lievitare come panna montata i rimborsi elettorali: l’ultima, quel capolavoro partorito all’inizio del 2006 che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura, come avvenne nel 2008. L’anno in cui si consumò l’ultimo atto dei Ds, con la nascita del Pd: partito che non raccolse l’eredità economica dei due soggetti fondatori, la Margherita e i Democratici di sinistra, i quali pur defunti continuarono comunque a incamerare per tre anni cospicui fondi statali. Non solo. L’astuta separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali. Ovvero, soggetti giuridici autonomi. Su questo punto la polemica con il segretario democratico Walter Veltroni raggiunse il calor bianco. Ma le sue dimissioni, rassegnate all’inizio del 2009, segnarono la fine di qualunque resistenza interna. E siamo arrivati a oggi, quando le banche creditrici, non avendo più neppure un mattone da pignorare, hanno preteso di escutere la garanzia dello Stato sui debiti residui: 125 milioni. Il giudice non ha potuto che dar loro ragione e lo Stato ha dovuto adesso sborsare 107 milioni. Va detto che non è la prima volta che succede una cosa del genere. Alla fine del 2003 avevamo già pagato i debiti dell’ex Avanti!, il quotidiano del Psi craxiano. Sia pure per una cifra più modesta: 9 milioni e mezzo. Ma allora non fu possibile ascoltare la versione del tesoriere socialista. Vale quindi la pena di riportare le dichiarazioni di Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, intervistato a maggio di quest’anno da Emanuele Bellano di Report: «Il debitore è morto. Se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto “guarda, signor Stato, che devi pagare tu…”». Gli chiede allora il giornalista, dopo aver ricordato la storia della legge del 1998: «È stata una mossa calcolata e strategica quello che poi è successo dopo?» E lui risponde: «Quindi che vuol dire? Che sono stato bravo! Una società mi avrebbe dato tanti soldi per fare questo lavoro…» Verissimo. Almeno quelli ce li siamo risparmiati. Ma è una ben magra consolazione.
Ecco l'Italia della polizia fai-da-te. Si moltiplicano in tutta la Penisola associazioni di guardie ambientali. Che sembrano veri agenti e come tali si comportano. Spesso abusando di un potere che non hanno. Ecco quante e dove sono, scrive Michele Sasso il 15 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Vestono divise verdi con mostrine e stemmi tricolori. Indossano anfibi e cinturone. Si muovono su auto con tanto di lampeggiante e staccano multe per inquinamento o caccia impropria. È il Far West delle guardie ambientali: polizie parallele che cercano di accaparrarsi fondi pubblici, possibilità di guadagno e lottizzazioni politiche. Spingendosi ben oltre i compiti di “associazioni”, vengono scambiati per uomini della forestale, senza però nessuna preparazione. «C’è una confusione di simboli e mezzi che rende queste guardie troppo simili ai nostri agenti», denuncia Stefano Cazora del Corpo forestale dello Stato: «Riceviamo segnalazioni di abusi e plagi ogni giorno, Chi copia il nostro logo e chi mette il naso in indagini sensibili. Tenere tutte le onlus sotto controllo è impossibile». In Italia sono spuntati “sceriffi verdi” con surreali comandi di zona o nuclei guidati da auto-nominati commissari che si esaltano per la divisa ma ignorano tutti i rischi dell’improvvisazione. Il pasticcio delle polizie fai-da-te nasce insieme al ministero dell’Ambiente. Siamo nel 1986 quando si “allarga” la vigilanza anche ad associazioni che proteggono la fauna e il paesaggio. Nel 2004 viene attribuito alle guardie zoofile ed ittiche la qualifica di agente di polizia giudiziaria. Tutte le altre sentinelle sono pubblici ufficiali che indossano una divisa dopo un corso di poche ore. Uniformi autorizzate dalla Prefettura che “gira” le pratiche di verifica al ministero dell’Interno, della Giustizia e dell’Agricoltura e all’Istituto geografico militare che archivia tutti i simboli in circolazione. Una verifica più formale che sostanziale: per legge non possono esserci somiglianze con gli altri corpi ma in pratica ecco che spuntato le giubbe e giacche verdi, i rangers d’Italia, le guardie ecozoofile e quelle rurali ausiliari. Così organizzazioni spregiudicate prendono via via il posto di volontari che si dedicano alla natura senza fini di lucro. E improbabili 007 vanno a caccia di discariche abusive e controllano persino il traffico sulle strade. «L’uso della paletta e del lampeggiante è consentito solo a chi ha compiti di polizia», conferma Gianni Calesini, docente di legislazione di Pubblica Sicurezza: «Invece questi pseudo-corpi si azzardano a fare perquisizioni illegali sulle auto. Chi viene fermato, però lo ignora. E subisce». Tra Napoli e Caserta, dove i roghi avvelenano l’aria, proliferano sigle reclutate dai Comuni. Ufficialmente volontari, sono rimborsati sulla base di convenzioni. Tutto nasce dal bando della Regione Campania del 2013: il patto per risanare la Terra dei Fuochi stanzia 7 milioni di euro per gli enti locali che presentano progetti per contrastare i traffici illegali. Rispondono 51 Municipi, che hanno la possibilità di “girare” fino ad un milione di euro a 20 onlus incaricate della sorveglianza. Nel paesone di Nola piovono 400mila euro. Il sindaco azzurro Geremia Bianciardi non perde tempo e stipula un accordo con Fare Ambiente per 35 corsisti: «Useranno il pugno di ferro e avranno poteri di polizia giudiziaria». Garantito per un anno di convenzione, un rimborso spese di 20mila euro. Il pm Paolo Mancuso ipotizza, però, che quelle guardie non avrebbero potuto essere ingaggiate. Legate a Laboratorio Verde, una onlus associata a Fare Ambiente che, a differenza di quest’ultima, non avrebbe il riconoscimento ministeriale. La divisa sarebbe illegale, perché identica a quella che indossa la Guardia di Finanza. Nell’inchiesta finisce anche il sindaco Bianciardi, indagato per abuso d’ufficio e falso, che respinge le accuse. Nel paese accanto, Marigliano, si sono inventati una formula più fantasiosa: rimborso spese pari alla metà delle multe riscosse grazie ai verbali. In questo affare spunta anche “La Salamandra”, sigla legata al movimento dei fascisti del terzo millennio di Casa Pound. Ben radicati, hanno fatto servizio d’ordine a Pompei durante la visita di papa Francesco lo scorso marzo. Anche loro non hanno il riconoscimento del ministero dell’Ambiente né l’ok del prefetto. «Ce ne siamo accorti dopo aver firmato e infatti non siamo mai usciti. Siamo un gruppo di protezione civile e non siamo neofascisti, con noi c’è anche chi non milita in Casa Pound», spiega la vicepresidente Maria Rosaria Nappa. Girano per l’intera penisola alla caccia di bracconieri e se serve tirano fuori il distintivo dal nome altisonante: associazione europea operatori di polizia (Aeop). Sono però disoccupati o millantatori come nel caso di Genova, dove un socio è stato fermato a bordo di una utilitaria trasformata in gazzella con la scritta gialla “Polizia”. Nulla hanno a che vedere con le forze dell’ordine, se non quella sigla allusiva. Tra gli associati possono vantare qualche nome di peso. Ma dall’altra parte della barricata. Come Ernesto Bardellino, ex sindaco di San Cipriano d’Aversa, fratello del più noto Antonio, a capo del cartello dei Casalesi fino al 1988, anno della sua morte. Radicato a Formia da quasi trent’anni, ha coltivato l’hobby della divisa mentre per la polizia è un «esponente del clan, sorvegliato speciale ed indagato per altri reati». Quando la scorsa estate la Digos ha perquisito la sua casa ha trovato decine di tesserini e documenti targati Aeop. Per Bardellino e altri tre indagati con precedenti penali è scattata una informazione di garanzia per l’ipotesi di false attestazioni di pubblico ufficiale e usurpazione di titolo. Alessandro Cetti, il capo dell’Aeop, ha spiegato che gli era stata presentata una «autocertificazione senza precedenti penali». Lui insomma non sapeva chi fosse quel volontario di Formia. Versione smentita dall’ex sindaco: «Con Cetti vi è una conoscenza risalente nel tempo, collaborazioni di carattere sociale e viaggi per motivi di lavoro». Tra gli impegni “sociali” i volontari hanno partecipato alla beatificazione di Carol Wojtyla in piazza San Pietro a Roma. Era aprile 2014 e garantirono la sicurezza a migliaia di pellegrini. Tra loro c’era anche Ernesto Bardellino. Se a Roma il governo Renzi sta cercando di accorpare il Corpo forestale ai Carabinieri, in Sardegna potrebbe succedere l’esatto opposto. Una proposta di legge firmata da Pd e Sel vorrebbe creare una forza di polizia isolana, quella dei barracelli. Eredità della vecchia polizia rurale ai tempi del Regno, nata per controllare i fondi agricoli e contrastare il furto di animali. Oggi questo esercito di 5.300 uomini è una lobby potente e gli stessi sindaci decidono spesso di usarli come polizia municipale. Il rapporto con la giunta del democratico Francesco Pigliaru non è sempre felice. I fondi ad hoc sono stati tagliati di 500mila euro con l’ultimo bilancio approvato a dicembre, scendendo a 5,6 milioni. Il parlamentino sardo ondeggia tra lo stop al loro potere e il definitivo sdoganamento in corpo di polizia. Sull’isola i barracelli non si limitano agli accertamenti, partecipando fianco a fianco alle forze dell’ordine. Si occupano soprattutto di antincendio, ma sono autorizzati a portare un fucile calibro 12 quando pattugliano i boschi. Armi in grado di uccidere animali di grossa taglia che hanno causato anche qualche problema. A Montresta, nell’Oristanese, la scorsa estate tre componenti sono stati espulsi dopo aver ucciso un leprotto proprio con il fucile in dotazione. Non è solo una questione meridionale. In Toscana il Corpo boschivo ittico ambientale prometteva posti di lavoro a tempo indeterminato, a patto di seguire un corso di tre mesi. A rispondere all’annuncio un anno fa tanti disoccupati, ma anche geologi e veterinari. È finita invece con un’accusa di truffa per l’auto-nominato comandante Simone Badalamenti, che si era fatto consegnare quattromila cinquecento euro da 83 persone. Un inganno replicabile all’infinito organizzato a Grosseto, Massa Carrara, Livorno e Lucca con la stessa promessa: uno stipendio da mille euro. Grazie alla sua intraprendenza Badalamenti è partito nel 2012 con l’obiettivo di creare una rete di pattugliamento in tutta la regione. E assoldare più di cinquecento persone per un battaglione e «divisioni operative»: antincendio, pronto intervento, agenti a cavallo e perfino un servizio di intelligence e investigazione. Un corpo che esisteva solo sulla carta ma che sognava in grande. Hanno collaborato Alfredo Faieta, Fabrizio Geremicca e Andrea Palladino
Il disastro delle ferrovie minori: tangenti e malagestione affossano le società pubbliche. Dalla Puglia fino alla Basilicata e la Lombardia un giro vorticoso di strane assunzioni, consulenze allegre, truffe e spese folli affossano le linee regionali. Perdendo milioni di euro all’anno e migliaia di pendolari, scrive Michele Sasso il 9 marzo 2016 su "L'Espresso". Piccolo non è bello con le ferrovie locali. Appalti, tangenti, distrazione di fondi pubblici e malagestione affossano le società che gestiscono i binari. Mentre vengono dismesse ogni anno stazioni e linee minori e le autolinee scalzano le carrozze nel trasporto pubblico locale, gli esempi in mano a Ministero e Regioni non invogliano ad investire milioni e puntare con decisione sul ferro per decongestionare le strade. A cavallo tra Potenza e Bari le ferrovie Appulo Lucane sono finite al centro di uno scandalo di assunzioni e consulenze, sempre in Puglia quelle del Sud Est nonostante 311 milioni di debiti vengono tenute in vita dal Governo e in Lombardia l’ex capo di Trenord ha sperperato 430 mila euro in rimborsi, bollette di cellulari, pay tv e persino scommesse sportive. Mentre c’è un Italia che viaggia ad alta velocità arrivando a Milano da Roma in meno di tre ore, quello che resta di vecchie linee arranca tra scartamento ridotto, tempi di percorrenza del secolo scorso e littorine alimentate a diesel. Marco Ponti, professore di Economia al Politecnico di Milano ed ex consulente per i trasporti della Banca Mondiale, non usa mezzi termini: «Queste società sono un incubo, una follia gestionale: nessuno dice che il problema principale che ci sono troppi pochi viaggiatori. La domanda è debole perché le ferrovie hanno bisogno di tantissima gente, ma invece di viaggiare con 80 treni al giorno si accontentano di 20 per tenerle in vita. Ma è antieconomico. C’è poi il paradosso lombardo dove i passeggeri ci sono ma la società Trenord, controllata dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, approfitta del monopolio e ottiene pure il prolungamento della concessione. Il contrario esatto del libero mercato». Le ferrovie Appulo Lucane (Fal) a cavallo tra la Basilicata e la Puglia gestiscono 183 chilometri di linee, hanno 562 dipendenti e servono sedici comuni lungo le tratte che partono da Bari e arrivano a Potenza e Matera, quest’ultima capitale europea della Cultura per il 2019, con una stazione di Trenitalia che aspetta da anni di essere aperta. Le tratte locali sono un’eredità delle Ferrovie Calabro-Lucane che nei primi del Novecento trasportavano merci e persone snodandosi sul territorio della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Oggi è di proprietà del Ministero delle Infrastrutture con treni ancora a diesel e binari a scartamento ridotto. La società attuale – Fal srl - secondo i parlamentari del Movimento Cinque stelle, si è trasformata in un "poltronificio" e un pasticcio di consulenze. «È un piccolo feudo locale con rapporti di amicizia tra vertici dell'azienda con il mondo politico, in particolare con l'ex ministro Raffaele Fitto e con altri parlamentari lucani e pugliesi, soprattutto di area di centrodestra» attacca la deputata grillina Mirella Liuzzi che aggiunge:«La Puglia e la Basilicata ci mettono circa 100 milioni di euro all’anno ma invece di modernizzare una linea ferma al secolo scorso hanno cucito su misura contratti a tempo indeterminato per ex dipendenti del partito o assistenti di alcuni parlamentari di Forza Italia». Tutto nel campo dei berlusconiani, a partire dal presidente delle Fal Matteo Colamussi che al momento della nomina (nel 2008) era presidente del consiglio comunale di Rutigliano (Bari) e vicesegretario provinciale degli azzurri. Per la nomina del nuovo cda il sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, il lucano Guido Viceconte, inserisce tra i cinque componenti anche il cugino Felice. C'è poi l'incarico fiduciario per la ristrutturazione della sede barese affidato alla moglie del deputato azzurro Nuccio Altieri. Scelta che il patron Colamussi ha difeso: «Questo tipo di incarichi si chiamano fiduciari non a caso. Bisogna scegliere gente di cui ci si fida. E io ho grande stima professionale della moglie del mio amico Nuccio Altieri. Ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa che non dovevo e che fosse contro la legge». Tutto il dossier Fal è finito in Procura per verificare anche un’altra storia, quella delle assunzioni di parenti stretti di sindacalisti, scoperta e raccontata per prima dal Quotidiano Italiano di Bari. Sempre in Puglia, sono le ferrovie del Sud Est a fagocitare milioni di euro di fondi pubblici. Tra un tourbillon di truffe per acquistare vecchie carrozze e consulenze allegre. Con un bilancio 2014 in rosso per 311 milioni e la metà dei costi di produzione -146 milioni- sborsata per pagare lo stipendio a 1300 dipendenti. Tra questi anche dirigenti che incassano fino a 220mila euro all’anno. I guai maggiori, però, vengono a galla con l’inchiesta di Firenze che svela il sistema di potere di Ercole Incalza, il potente burocrate arrestato un anno fa con l’accusa di corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione. Dalla Toscana una pista arriva fino in Puglia dove l’ipotesi che le consulenze delle Ferrovie del Sud Est si trasformassero, almeno in parte, in tangenti destinate propio al potente factotum del Ministero delle Infrastutture e al suo collaboratore Sandro Pacella. Agli arresti sono finiti Salvatore Adorisio e Angelantonio Pica, presidente e amministratore delegato della Green Field System, uno studio di progettazione specializzato in trasporti che tra il 2006 e il 2014 ha ottenuto consulenze dall’azienda pugliese per 2,4 milioni. Sarebbe questo «il canale» secondo i magistrati fiorentini, «tramite il quale grosse somme di denaro sono transitate dalle Ferrovie del Sud Est» verso Incalza e Pacella, che avrebbero intascato circa 700mila euro. Non è però l’unico scandalo che prende di mira il malaffare made in Puglia. Il 1 dicembre scorso la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone e per la società Ferrovie Sud Est nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte truffe. Tra gli altri, rischia il processo anche l’ex amministratore unico Luigi Fiorillo. Al centro delle indagini l’acquisto di 27 vagoni nuovi dalla società polacca Pesa, pagandoli 93 milioni di euro grazie ad un finanziamento regionale. Secondo la Procura sarebbero stati inclusi nel costo 12 milioni di euro di provvigioni sulle vendite pagati da Pesa alla società Varsa. Ma il "capolavoro" di spreco riguarda la seconda vicenda: nel 2006 l’azienda ha comprato in Germania 25 carrozze usate a 37.500 euro l’una per poi rivenderle a 280mila euro ciascuna alla Varsa. Che le ha ristrutturate e spedite sulle linee pugliesi per 900mila euro l’una. Dopo queste spese milionari arriva un’amara constatazione finale: le caratteristiche tecniche di molte carrozze non sono adeguate alle linee delle Sud Est, così dal 2009 i mezzi sono rimasti fermi. Nonostante questa serie di affari sporchi svelati dalla Magistratura c’è stato un’ultima chance di riportarla a galla. Lo scorso gennaio il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha nominato una squadra di commissari per scrivere un piano industriale per il risanamento e la riduzione dei costi di funzionamento. Perché con la legge di stabilità di fine anno sono arrivati 70 milioni di euro per «garantire la continuità aziendale e ripristinarne l'equilibrio economico e finanziario». Non è solo una questione meridionale. Carte di credito, alberghi, l’uso di auto con carburanti e telepass, arredi ed elettronica, bollette di telefoni cellulari, pay tv e persino scommesse sportive: è l’elenco delle spese allegre che sono costate la poltrona di presidente della società Ferrovie Nord Milano a Norberto Achille. Un utilizzo a fini personali (soprattutto da parte dei due figli) di benefit aziendali legati alla sua carica al vertice della società per azioni che fattura 300 milioni l’anno con 4.000 dipendenti e che in Lombardia fa viaggiare ogni giorno 700 mila persone. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico. Achille, presidente e legale rappresentante della holding partecipata da Regione Lombardia e Ferrovie dello Stato, è stato prima interdetto per 6 mesi dall’incarico e poi è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per la distrazione di circa 430mila euro di fondi pubblici. Una storia di sperperi e lussi con al centro il figlio di Achille, il 35enne Marco. Una vita segnata dall’amore per gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui - come raccontato da l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Per il rampollo del manager pubblico che passava dalle feste al business immobiliare nel curriculum c’è anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro.
Che fortuna essere il figlio del capo delle Nord. La vita nel lusso la paga il papi coi rimborsi. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico, scrive Francesca Sironi il 19 maggio 2015 su "L'Espresso". Marco Achille, in una fotografia pubblicata da lui su Instagram il 19 maggio nel pomeriggio «Papà, sono contento di ciò che sono diventato. E un po' è anche merito tuo, per cui grazie per ogni singolo momento». Firmato «Tuo figlio Marco». Il messaggio è di Marco Achille, figlio trentacinquenne di Norberto Achille, il presidente di Ferrovie Nord indagato della Procura di Milano con l'accusa di peculato. Al manager, che aveva annunciato le sue dimissioni, sono contestate maxi spesea favore dei familiari: 124mila euro solo di conti telefonici, guida privata dell'auto blu, carte di credito usate per pagare vestiti, mobili, alberghi e cene. Perfino le scommesse sportive. Non solo: nella lista ci sono anche 124mila euro di multe accumulate da uno dei figli alla guida delle Bmw aziendali. E pagate attingendo alle casse di Ferrovie Nord, alla faccia dei pendolari lombardi. Tutto questo denaro, secondo l'accusa del Pm Giovanni Polizzi, sarebbe servito a garantire la vita bella del figlio, un giovane che ama gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui – come può rivelare l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Un uomo a cui l'esuberanza dei rampolli è costata cara: «Le intercettazioni sembrano ricondurre le disinvolte prassi di spesa soprattutto ai comportamenti dei figli e alla mancata forza del padre di porvi argine», scrive infatti Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. «Il manager», spiega il suo avvocato Gianluca Maris, «aveva iniziato a restituire il denaro: era stato lui stesso a chiedere il rapporto che aveva evidenziato i conti fuori controllo, concordando con l'azienda i rimborsi delle spese ingiustificate». Mannaggia ai lussi, insomma. Ed eccoli i figli, Marco e Filippo. In Rete è più riservato il secondo, più estroverso il primo, sorridente dal torso scolpito fra autoritratti in barca, selfie-con-scultura-del-Duce, pranzi al “Bistrot” di Forte dei Marmi (frequentato anche da Belen), pose muscolari in stile Baywatch e party alla moda. C'è anche lo scatto orgoglioso del polso con indosso un orologio da 54mila euro: un Royal Oak Audemars Piguet tempestato di brillanti. Tra i televisori al plasma, i pavimenti di marmo, la casa nuova su due piani in centro e lo champagne, sui social network di Marco compare a sorpresa anche l'immagine frugale di Papa Francesco, per la Benedizione Apostolica “impartita di cuore” da Sua Santità al papà Norberto Achille il 13 dicembre 2013. E pubblicata dal figlio poco dopo. Prima il piacere, poi il business. Achille padre infatti ha gestito fino all'aprile scorso la “Palladium 2013 Limited”, una società di Londra che era stata amministrata anche dal figlio (uscito di scena nel 2014) insieme a uno dei fondatori dello studio di commercialisti di Milano dove lavora. La società londinese, pur avendo un capitale minimo, possiede il 50 per cento di una holding che a sua volta controlla un'immobiliare di Bratislava dal capitale milionario, la “Retail Slovakia”, specializzata nella compravendita di appartamenti e uffici. Anche a Milano, Marco Achille, oltre al suo impiego come commercialista, ha a che fare con dimore e palazzi. È infatti titolare e amministratore unico dell'immobiliare Techimm srl (ora Techfin), che possiede beni in via della Chiusa, nel pieno centro di Milano, alle spalle della Basilica di San Lorenzo. È poi socio di un'altra immobiliare e consigliere di una terza, oltre che fondatore di una palestra di Boxe, intestatario del 25 per cento di un'azienda che si occupa di commercio all'ingrosso per articoli medicali e di una “New Parking company” inattiva. Nonostante tutto questo, e nonostante due appartamenti di proprietà, uno a Basiglio (il comune con i redditi pro capite più alti d'Italia, da quando Silvio Berlusconi inaugurò Milano3) e uno nel capoluogo, nell'ultima indicazione pubblica dichiarava un reddito imponibile di 28mila euro. L'informazione arriva dalla sua “scheda per la trasparenza” pubblicata sul sito web del Comune di Milano. Già, perché il figlio del manager ed ex assessore di Forza Italia Norberto Achille ha anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro. È stato nominato il primo marzo del 2012 e lì resterà fino all'aprile del 2016, percependo un gettone di 41 euro a presenza e un fisso di 5mila euro. Un bel record per un giovane di 35 anni.
Grandi Opere, i nomi del sistema Ercole Incalza. Lo scandalo costato il posto al ministro Lupi coinvolge molti potenti: l'ex sottosegretario di D’Alema, l’ingegnere del metrò milanese. E tanti figli di boiardi, da Trane a Monorchio. Ecco chi viene citato negli atti dell’inchiesta, scrive Gianfranco Turano il 20 marzo 2015 su "L'Espresso". Nelle carte dell’inchiesta fiorentina sugli appalti del Mit appaiono molti nomi di poca notorietà e grande potere. Ecco i più influenti.
GIULIO BURCHI. Ingegnere modenese di 55 anni, indagato, è stato presidente e amministratore delegato della Metropolitana milanese con Gabriele Albertini sindaco e Maurizio Lupi assessore all’urbanistica. Nel 2004 ha guidato Italferr, società di ingegneria del gruppo Fs sotto la gestione di Elio Catania. Dal 2001, ha presieduto l’autostrada Parma-La Spezia (gruppo Gavio) dopo l’uscita di Bruno Tabacci. Nel settore autostradale è considerato l’uomo di fiducia di Intesa che lo ha nominato in Autostrade lombarde, nella Brebemi e, ad aprile del 2013, nella Serenissima (Brescia-Padova).
ANTONIO BARGONE. Sottosegretario ai lavori pubblici con Massimo D’Alema premier, 67 anni, l’ingegnere brindisino è tornato all’attività privata per assumere la guida della Sat, società che gestisce l’autostrada Livorno-Civitavecchia sotto il controllo di Atlantia-Autostrade. Prima dell’inchiesta fiorentina, dove Bargone è fra gli indagati, il suo nome era circolato come uno dei candidati alla successione di Pietro Ciucci all’Anas.
FABRIZIO AVERARDI RIPARI. Indagato, romano di 57 anni, è direttore generale di Anas international enterprise, creata per incrementare i ricavi da attività private della spa di Stato. Fra gli obiettivi della società c’è la realizzazione dell’autostrada libica Eas Ejdyer-Emssad. Averardi è imprenditore in proprio con Integra e Tensacciai. L’ordinanza cita anche Massimo Averardi, 68 anni, dirigente Anas in pensione, non indagato, amministratore del consorzio Ferconsult negli anni Novanta insieme a Stefano Perotti.
ALFREDO PERI. Ex sindaco di Collecchio (Parma) ed assessore regionale ai trasporti dal 2000 al 2010, Peri è indagato per avere promesso di affidare la direzione lavori della Cispadana a Stefano Perotti, arrestato con Ercole Incalza, Francesco Cavallo e Sandro Pacella. Peri ha conosciuto Incalza quando il dirigente del Mit amministrava Metro Parma, incaricata di realizzare una metropolitana che non si è mai costruita con uno spreco di decine di milioni di euro in progettazioni finanziate dal Cipe.
FIGLI DI QUALCUNO. L’ordinanza della procura di Firenze mette in fila vari personaggi dal cognome illustre. Fra gli indagati, ci sono il milanese Giovanni Li Calzi, figlio dell’architetto ed assessore comunale all’edilizia del Pci Epifanio, morto due anni fa. Li Calzi era stato al centro di altre inchieste di Mani Pulite e ne era uscito grazie alla prescrizione. Pasquale Trane, indagato, è figlio di Rocco, uno degli esponenti della cosiddetta sinistra ferroviaria del Psi, opposta alla segreteria di Bettino Craxi. Trane senior è morto all’improvviso nell’agosto 2012 durante il Meeting di Rimini. Citati dai giudici ma non indagati, sono Giandomenico Monorchio e Giovanni Paolo Gaspari. Il primo, figlio dell’ex ragioniere dello Stato Andrea, ha una società di ingegneria (Sintel engineering). Il secondo, dirigente delle Fs e nipote dell’ex ministro democristiano Remo Gaspari, definisce Incalza “dominus totale” del sistema grandi appalti.
Anche Stefano Perotti è figlio d’arte. Suo padre Massimo è stato direttore generale dell’Anas di nomina socialista nei primi anni Ottanta e fu incarcerato nel 1985 per lo scandalo Icomec, una sorta di prova generale di Tangentopoli.
Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: cinque miliardi di welfare clientelare. Gli assegni di invalidità pagati in Calabria sono, in proporzione agli abitanti, almeno il doppio di quelli erogati in Emilia Romagna: l’allarme del commissario alla spending review trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Inps, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera" del 30 marzo 2016. L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità, squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna, «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolta del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità.
Fare industria con i soldi di tutti. Esce il saggio «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio). Teoria, prassi e sperperi dello Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti, scrive Antonio Polito il 30 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Anche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi, m per Marsilio). Ma un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Lo sapeva bene Giorgio Gaber, che aggiungeva: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». E in effetti l’idea è di sinistra, ma in Italia l’hanno mangiata altri, e ci hanno davvero costruito su una rivoluzione. Prima Mussolini, che diede vita all’Iri credendola temporanea per rispondere alla Grande Crisi del 1929. E poi, nello snodo cruciale del dopoguerra, quando si trattò di decidere se sciogliere l’Iri o confermarla, toccò alla Dc appropriarsi dell’idea fin dal Codice di Camaldoli del 1943, che si ispirava insieme alla dottrina sociale della Chiesa e al New Deal rooseveltiano. Mentre la sinistra del tempo, il Pci, fu almeno all’inizio contraria: ostile a una programmazione di stampo sovietico, ma anche a un riformismo socialdemocratico, «non trovava altra soluzione che una ricaduta totale nel liberismo, nel lasciar fare», come ha notato Vittorio Foa. «In quegli anni si affermò», scrive Debenedetti, «la convinzione tutta ideologica che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali — disoccupazione, arretratezze, iniquità — e portare il bene — crescita, protezione, innovazione — che, se può, deve, e se deve, che ottenerlo sia un diritto». La politica si comportò insomma come il gran cancelliere di Milano nei Promessi Sposi: «Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto, che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla». La prassi della politica industriale, almeno nella senescenza della Prima Repubblica, più che una politica per l’industria produsse industrie per la politica (ci fu un tempo in cui l’Iri era della Dc, l’Eni del Psi e l’Efim del Psdi). Ma l’idea ha avuto una sua grandezza e megalomania, anche in campi lontani dall’industria. Pensate per esempio alla cultura. «Ancora oggi non c’è praticamente discussione nella quale il modello Bbc non venga evocato come platonica idea di servizio pubblico». Oppure pensate alla giustizia. «Non mi vengono in mente», scrive l’autore, e devo convenire che non vengono in mente neanche a me, «casi in cui l’intervento della magistratura non vada nella direzione di aumentare il controllo da parte dello Stato e di restringere la libertà dei cittadini come imprenditori e consumatori. E non ne ricordo nessuno in cui l’intervento vada invece nella direzione di eliminare ostacoli all’iniziativa economica privata... L’articolo 41 della Costituzione è specchio di questo pregiudizio: dichiara l’iniziativa economica “‘libera’ ma fintantoché “non in contrasto con l’utilità sociale”». D’altra parte, oltre che la biografia di un’idea questo libro è anche una autobiografia. Perché la politica industriale e l’autore hanno la stessa età (l’Iri e Debenedetti sono nati entrambi nel 1933); perché l’autore ha un lungo passato di dirigente d’industria che ha militato in entrambe «le metà del cielo», come lui chiama l’industria pubblica e quella privata, e dunque ha osservato da vicino le conseguenze negative che la politica industriale ha avuto anche sull’impresa privata (rivelate per esempio dalle inchieste di Tangentopoli); e anche perché l’autore ha un fratello, Carlo De Benedetti, che in molte delle vicende narrate nel libro si è mosso da protagonista, vincendo o perdendo, e dunque il racconto di Franco va letto con un grano di sale perché inevitabilmente, e spesso dichiaratamente, partigiano. La fine della politica industriale è stata segnata dall’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 che diede il via alla grande stagione di privatizzazioni, ma dura ancora lo strascico di polemiche che si è lasciata alle spalle. Per esempio da parte di chi la rimpiange come un’occasione ormai perduta di avere grandi industrie e campioni nazionali. Debenedetti risponde con puntiglio alla teoria dei «fallimenti di mercato», ripercorrendo le travagliate vicende di Olivetti e Telecom. E contrattacca ciò che resta oggi, al tempo di Renzi, del dirigismo: «Il posto dell’ideologia è stato preso da una sorta di pragmatismo, e proprio perché nessuno sembra potergli attribuire propositi sistemici di politica industriale, Renzi si ritiene libero di fare interventi che però ne hanno gli stessi presupposti e conseguenze». Residuati bellici di una guerra ormai finita, come il caso Ilva, il piano «banda larga», le ottomila aziende municipali, le regolamentazioni inutili per tentare di fermare lasharing economy. In definitiva, l’immarcescibile e pericolosa voglia di chiunque entri nella stanza dei bottoni, di schiacciare qualche bottone.
PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.
Baby pensioni: che cosa sono? Tutte persone che sono uscite dal mondo produttivo in base a finestre aperte dalla legge, oggi diventano una sorta di profittatori, gente colpevole di campare troppo a lungo e sulle spalle del sempre più esiguo e spremuto contingente di lavoratori in attività, scrive Stefano Filippi il 4 aprile 2016 su “Il Giornale”. L'Inps ha fatto sapere che in Italia oltre 474mila pensioni sono state liquidate prima del 1980: i relativi titolari, dunque, vivono di rendita da 36 anni e per di più dopo aver lavorato sicuramente meno. I dati sono presi dalle tabelle sugli assegni di vecchiaia e di anzianità e ai superstiti del settore privato (cioè la reversibilità): sono perciò escluse le pensioni di invalidità previdenziale e civile, quelle sociali al minimo e i trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Di conseguenza non sono conteggiati neppure i cosiddetti «baby pensionati», cioè le impiegate del pubblico impiego sposate con figli che fino al 1992 potevano congedarsi con un'anzianità di 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi. L'età media da cui le pensioni hanno iniziato a decorrere è molto inferiore all'attuale: quasi 56 anni per gli assegni di vecchiaia e poco più di 41 per quelle ai superstiti. Nel 2015 le pensioni di anzianità liquidate sono state 238.400 con un'età di decorrenza di 62 anni e mezzo. Nel settore privato supera gli 800mila il numero di pensionati in quiescenza da oltre 30 anni (decorrenza antecedente il 1986) cui si aggiungono altri 527mila assegni di reversibilità. L'effetto mediatico di questi numeri è evidente: sono troppi. Anche perché si tratta di pensioni «pesanti», calcolate con il metodo retributivo basato sugli ultimi stipendi e non sull'ammontare dei contributi effettivamente versati.
Che cosa sono le baby pensioni? Risponde Flavia Amabile il 28 ottobre 2011 su "La Stampa". In questi giorni se ne è parlato molto. Il termine baby pensioni però indica solo quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi 20 anni dopo, nel 1992 da Dini.
Chi ne aveva diritto?
Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.
In quanti ne godono?
Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni, avendo versato pochi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.
Chi sono i baby-pensionati?
Il 78,6% - quasi 8 su 10 - sono dipendenti pubblici. Di questi più della metà (il 56,5%) sono donne. Il restante 21,4% sono persone che godono di regimi speciali. Sono soprattutto persone che vivono al Nord, e non a caso la Lega punta i piedi contro ogni intervento in materia. Il 62,5% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi e un record assoluto di 2 baby-pensionati su 10. Al secondo posto c’è il Veneto con 56.785 assegni, il 10,7% del totale. Al terzo e quarto posto Emilia Romagna e Piemonte, rispettivamente con 52.626 e 48.414 assegni, il 9% del totale.
Quanto costano?
Cifre abnormi, se si considerano gli effetti sull’economia di quest’anomalia previdenziale. Costano allo Stato circa 163,5 miliardi, una «tassa» di 6630 euro a carico di ogni lavoratore, sostiene Confartigianato, se si calcola la maggiore spesa che le casse pubbliche sopportano rispetto ai pensionati ordinari. I baby pensionati infatti ricevono un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio. Se si calcola la maggior spesa pubblica cumulata per ognuno degli anni di pensione eccedenti alla media, si arriva a 148,6 miliardi di euro. A questa somma bisogna aggiungere la minore contribuzione, pari a 138.582 euro per ogni baby pensionato del settore privato. Sono circa 100 mila e vuol dire 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali. Se invece si vogliono considerare solo le rendite erogate, siamo a una spesa di 9,45 miliardi: 7,43 miliardi per quelle incassate dai lavoratori del pubblico impiego, 2,02 miliardi per i lavoratori sottoposti a regimi speciali. E’ una cifra considerevole, se si tiene presente che nel 2010 la spesa pensionistica, secondo la Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso per i baby-pensionati.
Quanto hanno lavorato?
Forse sarebbe preferibile rovesciare la domanda e chiedere quanto restano in pensione per avere un quadro più chiaro di quello che accade. In media il 48% della vita, ovvero più di 40 anni, se si considera una durata media della vita di 85,1 anni. Ma ci sono 16.953 fortunatissimi baby pensionati che si sono ritirati a 35 anni e che restano in pensione quasi 54 anni, ovvero il 63,4% della vita, molto più della metà della loro esistenza. Da non disprezzare anche la condizione di coloro che sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni: restano in pensione 47 anni, il 55,8% della loro vita.
Esistono baby pensionati famosi?
Sì e sono anche molti e spesso politicamente scomodi. Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60), e che incassa 2.644 euro lordi al mese. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, sposata con il leader della rivolta contro Roma Ladrona, è andata in pensione come insegnante a 39 anni. Su di lei si è scatenata l’ultima lite alla Camera. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che è andato in pensione a 42 anni. E persino Adriano Celentano non si è tirato indietro: è in pensione dal 1988 a 50 anni. A livelli diversi, anche come rendite percepite, l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Quando compì 48 anni decise di lasciare la Banca d’Italia, di cui era arrivato a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale. Un ottimo incarico che si è riflesso sulla pensione: 15 mila euro al mese per 24 anni di lavoro senza che questo impedisca di continuare a ottenere incarichi e stipendi mensili. Un percorso simile quello di Rainer Masera, andato in pensione a 44 anni, dopo una carriera in Banca d’Italia per diventare presidente dell’Imi, l’Istituto Mobiliare Italiano. Da allora lo Stato gli versa 18mila euro al mese.
La Casta dei baby-pensionati Costa 9 miliardi l'anno. Sono oltre mezzo milione gli ex lavoratori che percepiscono vitalizi per i quali non hanno pagato i necessari contributi, scrive Antonio Castro su “Libero Quotidiano" del 25 ottobre 2011. Trenta, quaranta, anche cinquant’anni di vita da pensionato. Paradossi di un Paese, l’Italia, che oggi deve tirare la cinghia. Ma che negli anni Settanta era molto, molto generosa. Mentre si discute se ritoccare per l’ennesima volta l’età pensionabile (ieri la richiesta è e stata reiterata dai giovani imprenditori di Confindustria nel tradizionale meeting autunnale di Capri), di quanti hanno la fortuna di avere un impiego, spulciare i dati dei 535.752 baby pensionati fa salire la pressione e incoraggia una riflessione. Oggi il nostro sistema previdenziale deve sostenere un esborso notevole (9,45 miliardi l’anno) per retribuire un esercito di oltre mezzo milione di (ex) giovani pensionati. E non si tratta di poca cosa, considerando che nel 2010 la spesa pensionistica complessiva, secondo i dati della Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso vero signori e signore che negli anni successivi al 1973 (decreto 1092 varato dal governo Rumor) riuscirono ad andare in pensione con una manciata di anni di lavoro. All’epoca bastavano alle impiegate pubbliche con figli appena 14 anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E indifferentemente dal sesso tutti i dipendenti statali potevano ambire alla pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno. Un po’ più sacrificati i dipendenti degli enti locali che potevano ritirarsi con 25 anni di contributi. Vista con gli occhi di oggi - e con la prospettiva di dover lavorare fino ai 70 anni come in Germania - un Eldorado previdenziale. Se a questo regalino previdenziale sommiamo poi l’allungamento dell’aspettativa di vita degli italiani (arrivata a 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le signore), ne viene fuori un salasso che rischia di protrarsi per altri 20/30 anni. Già durante la turbolente estate della manovra correttiva si parlò di mettere mano a quest’anomalia tutta italiana. Le tabelle del Tesoro (sulle quali si basa l’elaborazione realizzata per Libero dal Centro Studi Sintesi), sui signori baby pensionati vennero velocemente messe via quando Umberto Bossi oppose categorico il niet della Lega, alleato di peso e indispensabile per la tenuta della maggioranza. E non solo perché la signora Bossi, ex insegnante, è una delle baby pensionate. Manuela Marrone ha fatto l’insegnante fino a 39 anni, e da qualche decennio incassa un assegno mensile di 766 euro. La verità è che in Lombardia (110.497 baby pensionati), Piemonte (48.414), Veneto (56.785) ed Emilia Romagna (52.626), si concentrano una parte importante dei privilegiati. Una mappa che corrisponde più o meno con il bacino elettorale della Lega Nord. Comprensibile quindi i cavalli di Frisia eretti contro qualsiasi intervento dai lumbard. Ma dalle Alpi alla Sicilia la corsa alla baby è uno sport nazionale. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, un tempo sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che ha pensato bene di andare in pensione a soli 42 anni. O Adriano Celentano (in pensione dal 1988 a soli 50 anni). La Cgil - che di fiuto politico ne ha per i possibili interventi governativi che colpiscono i pensionati - ha già messo le mani avanti e ammonito a guardare altrove. Eppure un contributo di solidarietà del 5% su questi assegni (in media 1.357 euro al mese), peserebbe per poco meno di 60/70 euro. Ma consentirebbe di risparmiare quasi cinquecento milioni l’anno. Barricate leghiste a parte, tra gli indefessi paladini dell’assegno pensionistico giovanile troviamo anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che abbandonata la toga e sceso in politica optò per un prematuro pensionamento dalla magistratura e oggi incassa un assegno mensile di 2.644 euro (lordi) al mese. Non se la passa certo male l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, che quando festeggiò 48 anni pensò bene di mettersi a riposo e si deve barcamenare con una pensioncina di 15mila euro al mese. Ma l’Inps ha a libro paga anche banchieri famosi come Rainer Masera (andato in pensione a 44 anni) che devono “sopravvivere” con 18mila euro al mese. Ma l’elenco dei fortunati pubblicato nel libro di Mario Giordano (Sanguisughe, Mondadori), è molto più lungo. Certo questi sono casi limite. Poi c’è la maestra con la pensioncina da 800 euro scarsi al mese. Peccato che chi ha iniziato a lavorare da 20 anni (e dovrà faticare per altri 20) a stento riuscirà a portare a casa una pensione superiore al 60% dell’ultimo stipendio. I signori baby, invece, incasseranno in vita loro, assegno dopo assegno, il 300% di quanto hanno versato.
Baby pensionati, ecco i conti. Fino all’82 per cento in regalo. A chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema previdenziale «regala» l’82% dell’assegno, scrive Sergio Rizzo il 9 ottobre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati. Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore del centro studi Economia reale. Proprio nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare. Prendiamo il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro. E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby» sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione 328.400 e così via. All’opposto di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età, almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a 57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti, addirittura del 40%. Il che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del 26,9. A 54, del 43,1. «Ad oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel 2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente con il metodo retributivo. E questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi guadagnava meno.
Il presidente dell’Inps Boeri: «Serve un contributo dalle pensioni più alte». Boeri interpellato sul dato delle 500 mila persone in pensione da oltre 36 anni: «In passato sono state fatte concessioni eccessive. Sarebbe opportuno chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani», scrive Raffaella Polato, su "Il Corriere della Sera" del 3 aprile 2016. «Il testo deve essere pronto entro l’8 aprile». Cioè entro venerdì prossimo. Che non è solo la data fissata per la presentazione del Def, il Documento economico e finanziario cui sta lavorando il ministero dell’Economia e che, poi, il governo invierà anche all’Unione europea con l’obiettivo di ottenere il via libera alla «flessibilità» chiesta da Matteo Renzi. Su quel fronte, lascia intendere Tommaso Nannicini, l’esecutivo è certo che onorerà le scadenze. Soprattutto, è convinto di aver raggiunto «la quadra» rispetto ai paletti posti da Bruxelles. Anche se nel frattempo lo scenario generale non è migliorato. Al contrario: la «crescita ancora fragile», come la definisce lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si vedrà togliere qualche altro «zero virgola». Nannicini non ne fa cenno, dal palco di quel Festival Città Impresa che, poco dopo, assisterà a un nuovo «caso pensioni», sorta di duello a distanza tra il presidente dell’Inps Tito Boeri e i ministri presenti a Vicenza: il primo a sollecitare un «contributo di solidarietà», i secondi a bocciare seccamente l’uscita. Anche questo, d’altra parte, ha a che fare con la «crescita ancora fragile». Se il sottosegretario non la quantifica è perché occorrerebbero dei numeri nero su bianco. Numeri che sono però in arrivo. Venerdì, appunto, insieme al Def. Confermato che il governo aggiornerà le stime sul Pil 2016 e confermato, sebbene non ufficialmente, che la revisione sarà forzatamente al ribasso. Forse non seguirà l’entità dei tagli già annunciati da tutti i maggiori centri di ricerca (dall’Ocse in poi le ultime previsioni non vanno oltre il +1%). Di sicuro, però, una crescita dell’1,6% - cui Palazzo Chigi puntava - non è più un obiettivo raggiungibile. È inevitabile che sia questo quadro, a fare da sfondo ai dibattiti conclusivi del Festival Città Impresa. Il primo — cui partecipano Nannicini, Boeri, Francesco Giavazzi e il capo economista di Intesa San Paolo Gregorio De Felice — lo apre Giavazzi e l’esordio scelto basta a sintetizzare il «filo» dell’intera giornata. Oggi che sono certamente fattori esterni e tensioni internazionali, a frenare i nostri tentativi di ripresa, non dobbiamo dimenticare con quale peso ancora ci presentiamo alla sfida. Ovvero, ricorda l’economista: «I 30 punti di competitività persi in 15 anni rispetto alla Germania». È Nannicini a definirla «una zavorra strutturale», che solo «riforme strutturali potranno buttare a mare». Ma è qui anche — sul tema riforme — che «a lato palco» scoppia il nuovo caso pensioni. L’Inps ha appena diffuso un dato che fotografa oggettivamente l’allegro passato per cui oggi paghiamo il conto: quasi mezzo milione di italiani dev’essere stato a suo tempo un baby-pensionato, se è vero che il relativo assegno lo riceve da più di 36 anni. Su questo Boeri riflette e conclude: «Credo sarebbe opportuno chiedere a chi riceve importi elevati un contributo di solidarietà, per facilitare i giovani e la flessibilità in uscita». «Non è all’esame, né tecnico né politico», replica tranchant Nannicini. Seguito a ruota dal titolare del Lavoro, Giuliano Poletti: «Il contributo c’è già. È a scadenza e dovrà essere valutato, ma non è il caso di alimentare dannose incertezze».
Inps, mezzo milione in pensione da oltre 36 anni. Boeri: "Serve contributo da importi elevati". I dati solo sul settore privato non comprendono i baby pensionati del pubblico impiego, usciti dal lavoro prima del '92 con almeno 14 anni di contributi. Baretta "Legge Fornero va difesa" ma bisogna "agire sulla flessibilità in uscita". Così "è impraticabile", scrive il 3 aprile 2016 la Repubblica". In Italia ci sono oltre 474 mila pensioni liquidate prima del 1980, che quindi ricevono la pensione da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Un dato subito commentato dal presidente dell'Inps, Tito Boeri: "Siccome son state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - dice a margine del convegno Città Impresa - credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per rendere più facile a livello europeo questa uscita flessibile". Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude però nuovi prelievi: "Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c'è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio. Vedremo cosa fare sulla flessibilità". A Boeri era stato chiesto nel dettaglio se la presenza di una così vasta platea di pensionati di lunga data, non sia il caso anche di andare a rivedere i diritti acquisiti, anche per rendere più sostenibile il sistema pensionistico. "Abbiamo formulato delle proposte molto articolate, che guardano all'età, alla decorrenza della prima pensione - risponde Boeri -. Perché quando si guarda anche agli importi pensionistici bisognerebbe sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi. Possono essere anche importi limitati ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole". Per le pensioni di vecchiaia l'età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l'età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne spostate con figli. L'Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico. Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800 mila persone mentre altri 527 mila assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent'anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L'età media alla decorrenza era molto inferiore all'attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall'essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l'età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l'età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l'età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un'età media alla decorrenza di 73,89 anni. Per quanto riguarda gli importi, dopo le polemiche sull'alto numero di pensionati sotto i 750 euro al mese, quasi 6 su 10, il presidente dell'Inps Boeri invita a "guardare al dato medio per pensionato, e non alla pensione media", perché "la situazione è meno grave di quel che si possa pensare". "C'è stata una informazione errata, bisogna guardare al dato medio per pensionato, non alla pensione media - spiega -. In Italia sono molti i pensionati che percepiscono più di un trattamento, questo non vuol dire che le pensioni non siano basse in Italia, ma la situazione è meno grave di quel che si possa pensare prendendo il dato per pensione singola".
PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato eFatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".
Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu cosa ne sai
Dei quarantenni pensionati
che danzavano sui prati
dopo dieci anni volati all'aeronautica
e gli uscieri paraplegici saltavano
e i bidelli sordo-muti cantavano
e per un raffreddore gli davano
quattro mesi alle terme di Abano
con un'unghia incarnita
eri un invalido tutta la vita
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu cosa ne sai
Dei cosmetici mutuabili
le verande condonabili
i castelli medioevali ad equo canone
di un concorso per allievo maresciallo
sei mila posti a Mazzara del Vallo
ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano
come i conigli
tanto poi
eran cazzi dei nostri figli
Ma adesso vogliono tagliarci il Senato
senza capire che ci ammazzano il mercato
senza Senato non c'è più nessun reato
senza reato non lavora l'avvocato
il transessuale disperato
mi perdi tutto il fatturato
ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato
Ma il Presidente è toscano
ell'è un gran burlone
ha detto “eh, scherzavo”
piuttosto che il Senato
mi taglio un coglione
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
era bella assai
la prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu che ne sai
Ma davvero Quo Vado di Checcho Zalone racconta l'Italia di oggi? Il 1° gennaio arriva l'attesissimo nuovo film di Checco Zalone, "Quo vado?", atteso dai fan ma anche dagli esercenti dal momento che il suo ultimo film ha incassato la cifra record di 51 milioni di euro. Il nuovo film racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita: vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza, rimanere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità, un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Un giorno però tutto cambia: uìil governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province, Checco viene trasferito al Polo Sud. Il regista e attore barese ha scelto però di non fare promozione tradizionale e al posto del trailer sta diffondendo sulla sua pagina Facebook dei piccoli spot ironici autopromozionali. Il film comico spiega il Paese meglio degli studiosi secondo alcuni osservatori. Abbiamo chiesto a uno di loro, Ilvo Diamanti, che ne pensa, scrive Ilvo Diamanti il 15 gennaio 2016 su "L'Espresso". Ho assistito con attenzione “professionale” alla proiezione di “Quo vado?”, il film di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Naturalmente, io non sono un critico cinematografico. E neppure un esperto. Lo ero, di più, da giovane, quando seguivo e, a volte, conducevo i cineforum, nella provincia veneta. Ma, poi, il lavoro e i viaggi (per lavoro: insegno in sedi universitarie diverse, lontane da dove risiedo) hanno preso il sopravvento. E ho ripiegato sui dvd e sugli streaming. Che ti seguono nei viaggi e in ogni trasferta. Anche se i film vanno guardati nelle sale cinematografiche. Al buio, in silenzio. Così, da qualche anno, anzi, da molti anni, al cinema ci vado saltuariamente. Spinto da mia moglie. Perlopiù, a vedere film diretti o interpretati da amici. Io, peraltro, ho perfino partecipato all’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Amico carissimo (e in-dimenticato). “La sedia della felicità”. Dove, per venti secondi, ho recitato la parte di… me stesso. L’esperto che analizza la società (del Nordest). Così, ho accettato di vedere e commentare il film di Zalone con l’occhio dell’analista sociale. E politico. Come di fronte a un ritratto dell’italiano medio, dei suoi miti, dei suoi desideri, dei suoi valori. D’altronde, com’è noto, è già avvenuto in passato. La commedia all’italiana: ha raccontato l’Italia della ricostruzione e del miracolo. Con realismo e ironia. Ma ciò è avvenuto anche in tempi recenti. Basti pensare a Paolo Villaggio e al suo personaggio più noto: Fantozzi rag. Ugo. Io stesso, nell’ambito del mio corso di Comunicazione Politica, all’Università di Urbino, ho organizzato un seminario intitolato: “Politica e spettacolo”. Anzi, “Politica è spettacolo”. Dove ho invitato, fra gli altri, Antonio Albanese. Inventore e attore di alcune straordinarie maschere del nostro tempo. Delineate, oltre che interpretate, con la cura del sociologo. O dell’antropologo. Penso a Ivo Perego, idealtipo del piccolo imprenditore della provincia lombardo-veneta. O, per altro e diverso “verso”, a Cetto La Qualunque. Maschera esemplare del politico-politicante del Sud (ma non solo), buffo e un po’ buffone. Al proposito, Albanese rivelò ai miei studenti, che «nessuna parola e nessuna frase è mia. Ho raccolto registrazioni in occasione di diverse elezioni locali. Nel Sud. La sceneggiatura è loro. Dei Cettilaqualunque presenti sul nostro territorio». E che dire di Neri Marcorè (anch’egli invitato ai miei corsi). Autore di “imitazioni” di successo, imitate dagli stessi imitati. Come Maurizio Gasparri. Ma lo stesso discorso, oggi, vale per Maurizio Crozza. Come dimenticare l’indimenticabile maschera di Bersani? Più efficace dell’originale, purtroppo per l’interessato. Mi accorgo, ora, che il tentativo di spiegare il motivo per cui un in-esperto di cinema, come me, venga invitato a commentare un film, per quanto “eccezionale”, per numero di spettatori e volume di incassi, mi ha portato lontano. Tanto lontano, che ora rischio di perdermi. D’altronde, Francesco Anfossi, su “Famiglia Cristiana”, ha scritto che «Zalone e il regista Nunziante spiegano l’Italia meglio di Ilvo Diamanti o Giuseppe De Rita». Naturalmente, De Rita non ne ha bisogno, ma io ci tengo a imparare dai maestri. Tanto più se realizzano analisi di successo, come “Quo Vado?”. Così ho guardato il film cercando di capire quanto l’Italia di Nunziante e Zalone coincida con le mie rappresentazioni. E interpretazioni. Premetto che mi sono divertito. Ho riso molto. E ho provato a riflettere. Su quanto sia realistica e attuale «l’Italia malinconica e meschina di Checco Zalone», come la definisce Goffredo Fofi su “Internazionale”. L’Italia fondata sul “posto fisso”. («Cosa vuoi fare da grande»? Chiede il maestro al giovane Checco. E lui, prontamente: «Il “posto fisso”»). L’Italia che, mira, anzitutto, al pubblico impiego, nei servizi dello Stato. Checco Zalone, impiegato alla Provincia (chiusa per legge), disposto a girare per il mondo, fino in Norvegia, fino ai ghiacci del Polo Nord, pur di non rinunciare al “posto fisso”. Come gli ripete e gli “raccomanda” il suo amico e protettore politico, interpretato da Lino Banfi. L’Italia fondata sulla mamma e sulla famiglia. Ebbene, la prima impressione è che questa raffigurazione è, forse, puntuale, ma caricaturale. Ancora: valida soprattutto per alcuni settori sociali e territoriali (gli adulti, il Mezzogiorno). E, comunque, datata. Perché l’Italia dei giovani, è “precaria”. Non si ferma in un “posto fisso”. I giovani, appena possono, se ne vanno dalla famiglia. Si trasferiscono altrove. In Europa, nel mondo. Non per imposizione. Nessuno li caccia. In un Paese di figli unici, figurarsi... Partono per scelta e necessità. Perché 7 italiani - e 8 giovani - su 10 ritengono che, per fare carriera, per trovare un impiego adeguato alle loro aspirazioni, i giovani debbano andarsene. All’estero. Tuttavia, a guardare i sondaggi realizzati da Demos, che utilizzo regolarmente per le mie ricerche, l’Italia di Nunziante e Zalone pare meno manierista e fantastica di quel che si potrebbe pensare. Proviamo a scorrere alcuni dati. Fra le caratteristiche che orientano la scelta del lavoro, secondo gli italiani (aprile 2015), la più importante è (appunto…) «che sia sicuro, senza rischio di perderlo e rimanere disoccupati». La prima, per il 39% degli intervistati. La seconda, per un altro 22%. Se sommiamo i due principali requisiti del lavoro, dunque, oltre il 60% degli italiani attribuisce effettivamente al “posto fisso” un ruolo importante. Anche se tra i giovanissimi (15-24 anni) conta di più la “soddisfazione”. Potendo scegliere un’occupazione per sé o i propri figli, inoltre, il 29% preferirebbe «un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico». (La quota sale a circa il 32% nel Sud.) Anche in questo caso, si tratta della scelta più apprezzata. Seguita dal «posto in una grande impresa» (22%). E dal lavoro in proprio o da libero professionista (18%, in entrambi i casi). Di nuovo, però, la gerarchia delle preferenze cambia fra i giovanissimi. Attirati soprattutto dalla libera professione. Infine la famiglia. Secondo il 36% degli italiani, è ancora il soggetto che tutela maggiormente i lavoratori. Più dello stesso sindacato, indicato dal 16% del campione. D’altronde, «cosa distingue maggiormente gli italiani dagli altri popoli»? Naturalmente la famiglia (28%). Poi, «l’arte di arrangiarsi» (17%). Anche perché, agli italiani, è possibile “arrangiarsi”, soprattutto grazie alla famiglia. È interessante osservare che il ruolo della famiglia è riconosciuto anche dai giovani. E dai giovanissimi. In misura maggiore della media. Il profilo che emerge da questi dati, dunque, rende il “ritratto dell’italiano medio” secondo Zalone meno caricaturale del previsto. L’Italia appare ancora ispirata dal mito del lavoro fisso, nei settori pubblici, statali. Attaccata alla famiglia. Soprattutto se facciamo riferimento alle generazioni adulte e, ovviamente, anziane. A maggior ragione (ma non solo) del Sud. Questo modello, però, si adatta molto meno ai più giovani. Abituati alla flessibilità, alla precarietà. Al nomadismo. Per motivi di studio e lavoro. Ma, ormai, anche per passione. Eppure anch’essi possono sperimentare la condizione di “professionisti dell’incertezza” perché alle spalle hanno una famiglia. Un genitore o (meglio) due con lo stipendio fisso. Impiegati, magari, nel settore pubblico. Un nonno o una nonna con la pensione. Con una casa di proprietà. L’Italia di Zalone riflette, dunque, i valori e i riferimenti economici e sociali che hanno accompagnato la nostra società, nel dopoguerra. Oggi erosi dall’incertezza e dalla crisi. Ma ben piantati nella nostra storia. E ancora resistenti. Appigli necessari per vivere e sopravvivere. A chi resta - i più anziani. E a chi se ne va - i più giovani. I quali sanno, comunque, di poter tornare. A casa. Dove c’è sempre qualcuno ad attendere.
"Vinsi un miliardo di lire 35 anni fa al Totocalcio, ma non mi hanno mai pagato. Ora voglio 10 milioni di euro". Parla Martino Scialpi il miliardario mancato: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione...", scrive Giuseppe Caporale il 3 marzo 2016. Ora che i suoi “nemici” di una vita sono finiti nel registro degli indagati, ora che un pezzo di Stato (presidenti e dirigenti del Coni, cancellieri e giudici di diversi tribunali e avvocati) è dentro una inchiesta giudiziaria che promette di mettere la parola fine alla sua assurda vicenda, Martino Scialpi tira finalmente un sospiro. “Sono 30 anni che lotto, dottore... non so se lei può comprendere la mia amarezza. La mia rabbia”. Non si è mai trasformato in un assegno circolare il 13 al Totocalcio fatto nel 1981 da questo commerciante di Martina Franca (Taranto). Di quel miliardo di lire vinto sulla carta, non ha mai ottenuto nemmeno un centesimo. Ed ora che sono trascorsi tre decenni e si ragiona ormai da un bel pò in euro, lui spera di incassare parecchi soldi in più: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Guardi, non sono pochi. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione... Non mi crede? Ho dovuto sostenere 33 cause. Perfino quando un tribunale di Roma ha chiesto al Coni di trovare una conciliazione con il sottoscritto, questi signori si sono negati. E ora per tutti i loro tentativi maldestri di non pagarmi sono finiti nei guai con la giustizia penale....” Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina, dopo una serie infinita di traversie giudiziarie, nel 1987 fu dichiarata autentica. Scialpi denuncia invece una serie di “anomalie e discrasie” che avrebbero “influenzato” la decisione del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre del 2014, ha accolto l’istanza presentata dal Coni di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni: “Come è possibile - dice ancora Scialpi - che questa somma sia ancora bloccata grazie, tra l’altro alla presentazione di documenti falsi, quando è ormai acclarato che quei soldi me li devono dare. Quanto vogliamo ancora andare avanti con questa farsa”. Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l’efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l’opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu “mai notificato” allo scommettitore, al suo legale e all’avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l’avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice. Il Coni però ribatte e fa presente che “pretese economiche del sig. Scialpi sono già state respinte con sentenze del Tribunale di Roma del 1983 e della Corte d’appello di Roma del 1985, passata in giudicato. Avverso tale ultima pronuncia il sig. Scialpi ha proposto ben tre domande di revocazione, tutte respinte dalla Corte d’appello di Roma, con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (da ultimo nel gennaio 2012). L’unico provvedimento, a carattere provvisorio (si trattava di un’ingiunzione di pagamento), che ha condannato il Coni, adottato dal Tribunale di Roma il 9 febbraio 2012, è stato revocato dallo stesso Tribunale pochi giorni dopo, con ordinanza del 14 marzo 2012. Pertanto, il sig. Scialpi non ha diritto di pretendere alcunché dal Coni”. Ora però è intervenuta la procura di Potenza: sono 36 gli indagati per abuso d'ufficio legati all'infinita vicenda giudiziaria della mancata corresponsione della vincita. Tra gli indagati vi sono i vari presidenti del Coni che si sono succeduti in oltre 30 anni di cause, 11 magistrati dei tribunali di Taranto, Bari e Roma, ufficiali della Guardia Finanza, un dirigente dell'Azienda Monopoli di Stato e alcuni avvocati del foro di Roma, di Taranto e dell'Avvocatura dello Stato. L’inchiesta penale è approdata a Potenza perché la sede giudiziaria competente ad indagare su vicende che riguardano magistrati in servizio presso il distretto della Corte di appello di Lecce, al quale Taranto appartiene.
Corruzione, Italia bocciata. Nella Ue fa peggio solo la Bulgaria. La pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con "gravi problemi". Rispetto al 2014 siamo migliorati di un punto, ma non basta per la sufficienza. Ecco come funziona l'indicatore, che misura reputazione e competitività, riconosciuto a livello mondiale, scrive Gianluca De Feo il 27 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Come è lontano l'Occidente. Certo, l'Italia dell'onestà nell'ultimo anno ha fatto qualche passo in avanti. Ma la distanza dai paesi “normali” è ancora abissale. E la pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con “gravi problemi di corruzione”. Il voto è migliorato rispetto al 2014: un punto in più, arrivando a 44. Che però non basta per la sufficienza, fissata a quota cinquanta. Il risultato ci fa salire nella classifica mondiale, superando altri otto stati fino alla sessantunesima posizione. Ma l'Europa resta un miraggio: solo la Bulgaria è considerata peggio di noi, tutti gli altri ci guardano dall'alto in basso. E sullo stesso scalino ci ritroviamo in compagnia di Lesotho, Senegal, Montenegro e sud Africa. Insomma, siamo messi decisamente male. La questione non è secondaria. Ormai l'indice di Transparency è diventato un indicatore riconosciuto a livello internazionale, con un peso nella valutazione di un paese e della sua competitività. La bocciatura incide nella capacità di attrarre investimenti, perché una nazione corrotta non dà garanzie nei contratti, non offre correttezza nelle gare di appalti. E non è un caso se oggi i capitali che entrano sul mercato italiano arrivano soprattutto da nazioni che sono addirittura considerate peggio di noi in quanto a moralità, come la Cina (posizione 83), la Russia (posizione 119) o il Kazakhistan (posizione 123). Qualche dubbio può nascere se andiamo a vedere alcune petrolpotenze arabe, tutte posizionate più in alto di noi: il Qatar (posizione 22), Emirati (23), Arabia Saudita (48), il Kuwait (55). Possibile che anche gli sceicchi siano più rigorosi di noi? Il cuore della questione però è la natura di questo indicatore di moralità: non misura la corruzione, la quantità di tangenti o il numero di arresti per bustarelle, ma un valore immateriale come la percezione della corruzione. È un termometro della nostra reputazione, del modo in cui veniamo visti. Così gli arbitri della nostra immagine di legalità diventano una serie di istituti privati, che pongono domande a esperti qualificati e poi elaborano i sondaggi fino a distillare una loro classifica. Gli specialisti di Transparency a loro volta fondono le singole hit fino a stilare la graduatoria finale, con “metodologie perfezionate nel corso degli ultimi venti anni”. Nella giuria c'è per esempio la Fondazione Bertelsmann, con il suo indice di governance sostenibile, che valuta più elementi: se esiste “un meccanismo di integrità legale, politico e pubblico che efficacemente previene gli abusi dei funzionari pubblici”; “fino a che punto chi viola le leggi viene perseguito e condannato”; “quali sono i risultati del governo nel contrastare la corruzione”. E qui è difficile che l'Italia non venga stroncata, tra processi lenti, sentenze inefficaci o vanificate dalla prescrizione, condannati che riescono a farsi eleggere governatori di regioni chiave. C'è poi l'analisi dei rischi formulata dall'Intelligence Unit del centro ricerche del settimanale britannico Economist, focalizzata sulla gestione dei fondi pubblici, sull'indipendenza dei funzionari che si occupano di appalti ed enti, sull' “esistenza di una tradizione nel pagare mazzette per vincere i contratti e ottenere favori”. Un parametro quest'ultimo che automaticamente ci mette in cattiva luce, perché la nostra storia ha le mani poco pulite la questione morale è uno slogan che non si è mai trasformato in battaglia, neppure tra gli eredi di Enrico Berlinguer. Un report simile viene stilato dal gruppo di informazione economica Ihs che stima l'incidenza della corruzione nelle attività delle compagnie private mentre la business school svizzera Imd misura la competitività di un paese “attraverso 333 criteri”. Ci sono poi le analisi della Political Risk Services statunitense che stabiliscono i rischi politici, economici e finanziari prendendo in esame pure le mazzette. Quindi il World Economic Forum, con l'attenzione all'abuso di fondi pubblici, alle bustarelle per evadere le tasse, per vincere gli appalti e per comprare le sentenze dei tribunali. Più mirato lo screening del World Justice Project che cerca di capire la ricerca di profitti da parte di governi, magistrati, polizie, militari e parlamentari. Insomma, un gran calderone di centri studi – tutti privati, tutti con buona reputazione accademica - da cui poi Transparency distilla le sue pagelle. All'Italia quest'anno è stato dato quello che i professori spesso chiamano “un voto di incoraggiamento”. L'alchimia statistica degli arbitri internazionali sembra catturare il riflesso di alcuni cambiamenti, legati al pieno funzionamento dell'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone e alle norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, ma per scalzare la pessima fama bisogna fare molto di più. Perché all'estero arriva più spesso l'eco degli scandali, dalle retate di Mafia Capitale a quelle di Expo, che non l'efficacia delle indagini che li hanno svelati. Ma soprattutto perché è inutile cercare alibi negli arcani che muovono la graduatoria: nel nostro paese la corruzione c'è, ovunque, le gare d'appalto sono lente e oscure, le figure che gestiscono gli enti statali e locali spesso hanno più meriti politici e interessi di cordata che non professionalità. E questa è una tassa occulta che tutti paghiamo, un freno allo sviluppo che mette in discussione il nostro benessere presente e futuro. «Per compiere un salto di qualità importante occorre un ruolo più forte della società civile che deve acquisire la consapevolezza che un sistema dove è grande la corruzione non crea ricchezza e alimenta profonde distorsioni del mercato», dichiara il presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello. Gli scandinavi, gli stessi che a Bruxelles ci fanno di nuovo le pulci sul debito statale, possono vantare un pedigree di rigore irraggiungibile: la Danimarca è la prima della classe, con 91 punti su cento, mentre Finlandia e Svezia la tallonano con 90 e 89. Ma persino la Grecia della grande crisi, forse per merito della Troika teutonica, si mostra dinamica e ci distanzia di tre posizioni. La Spagna a quota 58 è lontanissima, Polonia e Portogallo hanno venti punti più di noi. Ma anche ungheresi, sloveni, croati, romeni sono visti come più integerrimi. Nella Ue, ci è dietro soltanto la Bulgaria. «Come dimostra la cronaca, la strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si possono raggiungere», commenta Virginio Carnevali, presidente di Transparency Italia: «In questi giorni la Camera ha approvato le norme sul whistleblowing, le pubbliche amministrazioni stanno diventando via via più aperte e trasparenti, una proposta di regolamentazione delle attività di lobbying è arrivata a Montecitorio». Insomma, la rotta è questa ma bisogna proseguire fino a trasformare le buone intenzioni in riforme concrete. E – parafrasando una frase attribuita ad Alcide De Gasperi – aggrapparci all'Europa per non scivolare nell'Africa.
Truffe degli statali tra sanità e appalti. In 10 mesi un buco da 4 miliardi. Appalti truccati, assenteismo e consulenze inutili: i dipendenti pubblici infedeli finiscono nel dossier della Guardia di Finanza per il 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 31 gennaio 2016. Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di «buco» nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli. Funzionari corrotti oppure impiegati che non hanno rispettato la legge nello svolgimento delle proprie mansioni e dunque hanno compiuto illeciti che vanno dalle omissioni agli abusi. Ci sono le truffe nel settore sanitario, i mancati controlli nell’erogazione di pensioni, indennità ed esenzioni, le procedure truccate per la concessione degli appalti. Ci sono gli appalti gonfiati e i medici assenteisti, le consulenze inutili e i doppi incarichi tra i casi più eclatanti scoperti dagli investigatori della Guardia di finanza. Sono gli ultimi dati relativi alle verifiche compiute nel 2015 a raccontare l’Italia dell’illegalità e degli sprechi che provoca danni alla collettività. Mostrando un andamento che inquieta: in soli quattro mesi, da giugno a ottobre dello scorso anno, la cifra contestata è salita di oltre 500 milioni di euro. Vuol dire oltre 100 milioni ogni trenta giorni a dimostrazione che molto ancora c’è da fare — soprattutto negli uffici pubblici più periferici — per stroncare il malaffare. Basti pensare che sono ben 3.590 le persone denunciate per aver compiuto reati nel settore delle gare pubbliche.
A Modena è stato denunciato un medico che — pur risultando in servizio — rimaneva in ospedale appena un paio d’ore. Da almeno cinque anni «la regolare presenza veniva garantita solo una volta a settimana» e per cercare di giustificarsi «ha portato i tabulati del marcatempo di un’altra struttura ospedaliera dove svolgeva attività libero professionale intramoenia». Gli sono già stati sequestrati 40 mila euro, ma i controlli sono tuttora in corso. A Imperia i dottori del dipartimento di Medicina legale «certificavano la morte delle persone pur non avendo effettuato alcuna analisi perché erano altrove». Sono decine i documenti falsi trovati nel corso delle perquisizioni.
La truffa scoperta a Milano nel giugno scorso era ben più articolata e ha provocato un danno immenso. In una struttura sanitaria convenzionata con il servizio nazionale «sono stati eseguiti oltre 4.000 interventi chirurgici in violazione delle norme di accreditamento relative alla presenza minima di operatori e anestetisti, nonché di impiego di medici specializzandi». L’azienda ha comunque «autocertificato il mantenimento dei requisiti richiesti per l’accesso al rimborso della prestazione sanitaria offerta, ottenendo indebiti rimborsi per oltre 28 milioni di euro». A Brindisi si è scoperto che la prescrizione di 15.541 farmaci per l’ipertensione era stata compiuta in maniera illecita. Sono 482 i medici denunciati per un danno alla Asl pari a 194 milioni di euro.
Quello dei benefit percepiti grazie a certificazioni false è ormai un vero e proprio affare che coinvolge migliaia di persone in grado di contare sui dipendenti pubblici amici o parenti. A Potenza si è scoperto che molti anziani prendevano l’assegno sociale previsto per i residenti, pur avendo deciso di trasferirsi all’estero, grazie agli impiegati che avevano contraffatto i documenti. Soldi rubati: 259 milioni di euro. Addirittura 500 milioni di euro sono stati sottratti alle casse dell’Inps a Viterbo dove venivano «modificati i moduli per il riscatto della laurea o la ricongiunzione di periodi contributivi per ottenere indebitamente un notevole “sconto” sull’effettiva somma da versare all’Istituto previdenziale, per il riconoscimento di ulteriori periodi contributivi utili ai fini pensionistici». A Potenza un dipendente del Comune svolgeva attività privata negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio. Faceva il geometra. Compensi rubati: 70 mila euro. A Milano un dirigente della Regione truccava gli appalti e in cambio riceveva favori personali. L’ultimo, la ristrutturazione da favola del suo appartamento. Valore accertato: 150 mila euro.
Auto dei vigili senza assicurazione: Striscia la Notizia arriva a Capaccio. L'inviato del tg satirico di Canale 5 è tornato in provincia di Salerno per chiarire il caso scoppiato sulla mancata copertura assicurativa di diversi veicoli in dotazione alla locale amministrazione, scrive il 29 gennaio 2016 "Salerno Today". Dopo il blitz di qualche settimana fa al Comune di Agropoli, l’inviato di Striscia la Notizia Luca Abete è tornato in provincia di Salerno. Questa volta si è recato nella città di Capaccio per occuparsi del caso scoppiato su alcune volanti dei vigili urbani e dello scuolabus, che verrebbero utilizzate nonostante prive di copertura assicurativa. Il tg satirico di Canale 5, spulciando il “portale dell’automobilista” del Dipartimento Trasporti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha scoperto infatti che, digitando il numero delle targhe delle auto in dotazione alla polizia municipale capaccese, queste ultime risultavano essere senza assicurazione. Il comandante dei vigili urbani e una funzionaria dell’amministrazione, intervistati da Abete, hanno confermato davanti alle telecamere, invece, che tutte le macchine dell’amministrazione "sono in regola". Sul posto sono giunti anche i carabinieri, che dopo un vertice con i dirigenti comunali, hanno spiegato al simpatico giornalista di Canale 5, che si sarebbe verificato un ritardo di comunicazione del rinnovo delle polizze tra la sede centrale dell’Agenzia assicurativa e l’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici). Dopo un po’ di tempo Abete è tornato a controllare le targhe sul “portale dell’automobilista” e tutte le auto improvvisamente sono risultate assicurate.
Vigili in giro con l’assicurazione scaduta. Nel deposito dei Monti Tiburtini 9 auto su 14 hanno il contrassegno non valido dal 31 ottobre, scrive Silvia Mancinelli il 17 novembre 2014 su “Il Tempo”. Ma se i vigili fanno le multe, a loro – in giro con l’assicurazione scaduta – la contravvenzione chi la fa? La domanda sorge spontanea, senza un velo di sarcasmo, laddove le auto della Polizia Locale di Roma Capitale circolano senza copertura assicurativa. Nel caso specifico dell’autoparco di via dei Monti Tiburtini, ad esempio, nove macchine su quattordici – parliamo di quelle in leasing e utilizzate dagli agenti dei Gruppi Tiburtino e Sapienza – espongono l’assicurazione scaduta il 31 ottobre 2014, oltre i quindici giorni di tolleranza. «Mentre alcune pattuglie erano chiamate a controllare il rispetto del blocco del traffico, le stesse erano in violazione di legge – conferma Stefano Giannini, sindacalista Sulpl -. Per una violazione del genere qualsiasi cittadino sarebbe stato multato. A noi le contravvenzioni dal terminale non spariscono di certo. Tra l’altro una situazione identica è riscontrabile anche nei Gruppi Aurelio, Appio e I Trevi. Solo ad Ostia i vigili possono stare tranquilli: a loro le assicurazioni scadono nel 2015. Alcuni colleghi già domani si stanno rifiutando di uscire in macchina, e d’altronde chi gliele paga le sanzioni da 41 euro?». «Questa incredibile vicenda segna un’ulteriore drammatica accelerazione dello sfacelo amministrativo che sta vivendo Roma – commenta Sveva Belviso, leader di Altra Destra e consigliere capitolino -. La macchina comunale è completamente impazzita, non funziona più nulla, la città è totalmente allo sbando e senza guida. E sarebbe ignobile prendersela con la polizia municipale, cui va anzi la nostra solidarietà essendo i vigili senza copertura assicurativa. L'unica responsabilità è di tipo politico e di un sindaco inetto che sta distruggendo ogni tessuto civico e amministrativo della città. Ormai siamo a livelli di pericolosità sociale, e se il Pd non caccia Marino si assumerà una responsabilità morale enorme. I romani non li perdoneranno mai». «Non vogliamo essere multati al posto del sindaco Marino – ribadisce Giannini, Sulpl - . Lui può non pagarle alcune contravvenzioni, noi non ce lo possiamo permettere». Ma le assicurazioni scadute non sono certo l’unico problema con il quale devono convivere gli agenti della Polizia Locale. Senza un vestiario adatto, spesso in servizio con giubbotti gialli in mancanza di altro. Costretti a fotografare gli incidenti con i propri cellulari, succede agli uomini del Gruppo Intervento Traffico, in attesa di una nuova macchinetta digitale, e in giro con mezzi di servizio non idonei al trasporto degli arrestati o troppo piccoli, con i furgoni per i rilievi degli incidenti stradali fermi per manutenzione. Senza visite mediche che attestino la loro idoneità al servizio in strada, impossibilitati ad usare mascherine che li proteggano dallo smog, «ma soprattutto insufficienti, considerata la cronica carenza di personale, a coprire le esigenze di una Capitale europea – aggiunge Giannini -. Per noi Roma, se non è in grado di essere Capitale, può chiudere i servizi come un Comune qualsiasi alle 20 del venerdì. Sfidiamo il Sindaco su questo tema: basta straordinari e servizi notturni per la Polizia Locale. Ci pensasse lo Stato».
“E il tagliando dell’assicurazione?”. Le auto dei vigili ne fanno a meno. Il comandante Donati: “Una dimenticanza, mica siamo a Napoli. Ora provvederemo ad esporli”, scrive Vincenzo Chiumarulo il 7 febbraio 2013 su “La Repubblica”. Che ogni auto sul suolo pubblico debba tenere bene in vista il contrassegno dell'assicurazione, ce lo confermano due vigili urbani in piazza Umberto, appena usciti da un'auto di servizio: una Punto blu col parabrezza talmente pulito, che gli agenti devono aver pensato fosse un peccato rovinarlo con il porta assicurazione. Ma questa non è l'unica vettura dei vigili col parabrezza spoglio in giro per la città. Davanti alla Prefettura ci sono tre auto e un furgoncino della polizia municipale, ma del contrassegno dell'assicurazione non c'è nessuna traccia. Perfino fuori dal comando della polizia municipale, al quartiere Japigia, seduto nella sua auto senza contrassegno, se ne sta un agente incurante di violare lo stesso codice della strada che è tenuto a far rispettare ai cittadini. Se un comune mortale dimenticasse di esporre il contrassegno dell'assicurazione, infatti, si beccherebbe una multa che, secondo l'articolo 181 del Codice della strada, oscilla tra i 24 e i 94 euro. E poiché la legge è uguale per tutti, almeno sulla carta, come mai la polizia municipale di Bari non usa esporre l'assicurazione? "E' stata una nostra mancanza", spiega il comandante dei vigili urbani, Stefano Donati che assicura: "Dopo la vostra segnalazione, stiamo provvedendo a far esporre i contrassegni in tutti i mezzi": un parco auto di un centinaio di autovetture. Le nostre, aggiunge, "sono auto come tutte le altre e quindi anche noi abbiamo l'obbligo di esporre l'assicurazione". Fino a ieri, però, "la prassi era un'altra e il contrassegno lo tenevamo nel libretto e, all'occorrenza, lo tiravamo fuori". Un'usanza di cui sono convinti anche gli agenti in servizio ai quali chiediamo spiegazioni sul contrassegno fantasma: "Non siamo obbligati a esporlo", dicono contraddicendo il loro stesso comandante: "Tanto si sa che le auto pubbliche sono assicurate". Eppure Donati tiene a precisare che "non siamo mica a Napoli, dove non c'erano i soldi per assicurare le auto: la nostra è stata una dimenticanza ma ora è tutto a posto". Non proprio tutto, però, dal momento che mentre parliamo con lui ci sfreccia davanti un'altra auto senza tagliandino. "Non è possibile", tuona il co-mandante che ci invita "a controllare anche le auto delle altre forze dell'ordine, della Prefettura e del Comune di Bari", per verificare che la "prassi di non esporre il contrassegno" è diffusa "tra le auto pubbliche". Seguiamo il consiglio e troviamo subito un'auto della polizia di Stato, in via Piccinni, in effetti senza il tagliando sul parabrezza. Mentre altre tre vetture, due del Comune e una della Prefettura, in piazza Libertà, espongono il contrassegno in bella vista. Proseguendo la passeggiata a caccia di tagliandi, incrociamo anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, al quale chiediamo spiegazioni: "Probabilmente - dice - la polizia municipale non ha l'obbligo di esporre il contrassegno ma garantisco che le auto sono assicurate, altrimenti la responsabilità ricadrebbe sui dirigenti del Comune, i quali, stia sicuro, preferirebbero non far uscire le auto piuttosto che mandarle in giro senza assicurazione". Non "avevo idea di questo problema fino a oggi, ma credo si tratti di una mancanza grave della polizia municipale", rileva il direttore generale del Comune, Vito Leccese, promettendo che "darà disposizioni affinché siano immediatamente esposti i contrassegni dell'assicurazione in tutte le vetture dei vigili urbani".
Quei burocrati che salvano se stessi, scrive Sergio Rizzo il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamentali che regolano l’esistenza della pubblica amministrazione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibile: affidarne l’applicazione agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministrazione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronica certificata? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizione interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaforma informatica, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministrazioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzione, regolare i conti con il fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabilità. Non perché siano i politici a scrivere regolamenti e circolari che stabiliscono come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle. Il caso del regolamento edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibile far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddittorie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscrizioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizioni stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinata cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminato lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenza quasi sempre di qualche solerzia amministrativa la cui logica è però raramente ritracciabile nelle pieghe del buon senso. Un caso? L’articolo 31 del regolamento edilizio del Comune di Fiumicino afferma che «è permessa la costruzione di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamento, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori». Tutto questo, però, «fatta eccezione per le case di tipo popolare». Il che starebbe a significare che il cortile, a parte la maniacale descrizione dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi. Insomma un guazzabuglio infernale, al quale si ritiene di mettere conclusione imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizioni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione verrebbero meno se il regolamento unico vedesse effettivamente la luce, fosse semplice e facilmente applicabile in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistico, una specifica costruttiva, un divieto lessicale, un ostacolo strutturale, un compendio normativo, una deroga altimetrica... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranza, purtroppo no. Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miseramente. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchino le maniche assumendosi l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipendenti: ce ne sono dappertutto, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligenze pronte all’uso. Di sicuro non si può pretendere che a semplificare sia chi è pagato per complicare, e complicando assicura la sopravvivenza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento.
Il licenziamento del professore perché fece pipì in un cespuglio. Padre di tre figli, insegnava filosofia a Bergamo. L’episodio risale a 11 anni fa, scrive Gian Antonio Stella il 3 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La scure della giustizia, che troppe volte aveva graziato bancarottieri, ladri, trafficanti di droga e truffatori, s’è finalmente abbattuta. Implacabile. E ha mozzato la testa a un professore padre di tre figli che undici anni fa, alle due di notte, in un borgo di poche anime, aveva fatto pipì in un cespuglio. Licenziato in tronco. Vi chiederete: è uno scherzo? Magari! Il protagonista di questa storia (meglio: la vittima di questa giustizia ottusamente ingiusta) si chiama Stefano Rho ed è nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per quella straordinaria organizzazione che è il Cuamm-Medici con l’Africa. Anzi, loro stessi avevano messo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati e aver chiesto agli amici, nella «lista nozze», il dono di «22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio...». Rientrato con i genitori in Italia, a Bergamo, Stefano si è laureato in Filosofia alla Cattolica e si è messo in coda, di concorso in concorso, di supplenza in supplenza, per avere un posto da insegnante. Problemi? Zero. Lo dichiara lo stesso «Certificato penale del Casellario giudiziale» dove è scritto chiaramente: «Si attesta che nella Banca dati del Casellario giudiziale risulta nulla». Torniamo a scriverlo: «nulla». Undici anni fa però, qualcosa successe. Un episodio così marginale, in realtà, che quasi tutti ce lo saremmo dimenticati. O ne avremmo riso con gli amici: «Pensate che una notte...». È la sera di Ferragosto 2005. Il paesello di Averara, un pugno di case con 182 abitanti in una valle laterale della Val Brembana, ha organizzato per i concittadini e la gente dei dintorni una sagra paesana con un ospite d’onore, un cabarettista di Zelig. Pienone. Al punto che molti giovani, tra cui Stefano e il suo amico Daniele, non riescono a entrare. Gironzolano nei dintorni, e finalmente, sul tardi, un attimo prima che lo stand chiuda, riescono a bere una birra. Poi, come tutti i ragazzi del pianeta, si fermano un po’ a chiacchierare e tirano tardi. Alle due di notte, mentre gli ultimissimi nottambuli risalgono sulle loro auto per andarsene, «gli scappa». Si guardano intorno. La festa ha chiuso. Il paese, salvo un lampione qua e là, è immerso nel buio. Non c’è un bar aperto a pagarlo oro. Men che meno dove stanno, al limite della contrada. Che fare? Stefano e Daniele fanno pipì su un cespuglio. In quell’istante passa una pattuglia di carabinieri. «Ci hanno visto, chiesto i documenti, fatto una ramanzina bonaria rimproverandoci perché secondo loro c’era un lampione che un po’ di luce la faceva e ciao». Un anno dopo i due si ritrovano imputati, davanti al giudice di pace di Zogno, «perché in un piazzale illuminato adiacente alla pubblica via compivano atti contrari alla pubblica decenza orinando nei pressi di un cespuglio». Duecento euro di multa: «Non abbiamo neanche fatto ricorso e neppure preso un avvocato di fiducia. Ci sembrava una cosa morta lì». Il 2 settembre 2013 il professor Rho, da quattordici anni precario come insegnante di filosofia in varie scuole superiori della bergamasca, firma per il Ministero un’autodichiarazione dove spunta la voce in cui dice «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi scritti del Casellario giudiziario ai sensi della vigente normativa». Tra mesi dopo, il dirigente scolastico gli comunica che da un controllo è risultato che lui, il professor Rho, risulta «destinatario di un decreto penale passato in giudicato». E lo invita a presentarsi a fine gennaio del 2014 per spiegarsi. Avute le spiegazioni, il dirigente riconosce che «appaiono plausibili le motivazioni addotte a propria discolpa» e che «se anche il prof. Rho avesse correttamente dichiarato le condanne avute le stesse non avrebbero inciso sui requisiti di accesso al pubblico impiego». Per capirci: a dichiarare il falso, perfino se fosse stato in malafede, non ci avrebbe guadagnato nulla. Anzi. Quindi, «tenuto conto del principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in rapporto alla gravità delle mancanze», decide di dare al malcapitato il minimo del minimo: la censura. Buon senso. Ma la legge italiana, che riesce a sbattere in galera un trentacinquesimo dei «colletti bianchi» incarcerati in Germania e arriva a scarcerare sicari mafiosi perché ha scordato una scadenza dei termini e non ce la fa quasi mai a processare i bancarottieri prima che cada tutto in prescrizione, decide che no, Stefano Rho non può cavarsela così. E la Corte dei conti, del tutto indifferente al tipo di condanna, che non prevede neppure l’iscrizione nella fedina penale (rimasta infatti candida) né un «motivo ostativo» all’assunzione nei ranghi statali, ricorda alle autorità scolastiche che Rho va licenziato. E così finisce. Il dirigente scolastico di Bergamo, Patrizia Graziani, prende atto della intimazione dei giudici contabili e dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate negli ultimi anni insegnando con continuità negli istituti bergamaschi «Natta» e «Giovanni Falcone», la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali eccetera eccetera... Il tutto in un Paese dove, per fare un solo esempio fra tanti, i dipendenti pubblici furbetti (agenti di custodia, bidelli, maestri...) che grazie alle clientele politiche riuscirono a farsi piazzare nel Cda dell’area sviluppo industriale di Agrigento (così da avere il trasferimento vicino a casa) sono stati assolti nonostante avessero firmato di loro pugno di avere la laurea (falso) ed «esperienza almeno quinquennale scientifica ovvero di tipo professionale o dirigenziale» o addirittura la «qualifica di magistrato in quiescenza». Assolti! Il che impone una domanda: la legge italiana è davvero uguale per tutti o dipende dal giudice che capita? Non manca, in coda a questo pasticciaccio brutto, il dettaglio paradossale: il professor Rho, che come dicevamo ha una moglie e tre figli da mantenere ed è stato buttato fuori con così feroce solerzia l’11 gennaio da un pezzo dello Stato, era stato definitivamente assunto da un altro pezzo di Stato il 24 novembre. Della serie: coerenze...
Assenteismo alla Asl, in servizio i 36 condannati a Brindisi: un oculista è stato promosso. Non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, scrive il 25 gennaio 2016 "La Repubblica" e "La Gazzetta del Mezzogiorno". Le immagini delle microcamere nascoste furono proiettate nell'aula di giustizia in cui è iniziato due anni fa e si è concluso la scorsa estate il processo di primo grado per assenteismo: si scorgevano le addette alle pulizie che strisciavano i badge altrui nella macchinetta marcatempo, all'ingresso di una delle sedi della Asl di Brindisi. Ma anche medici, infermieri, tecnici, fisioterapisti che dopo aver timbrato il cartellino si recavano a casa, a fare la spesa al discount, ad accompagnare i bambini a scuola. Per quei fatti 36 dipendenti pubblici sono stati condannati in primo grado, nel giugno scorso, a pene comprese tra sei mesi e tre anni: le accuse formulate dal pm Milto Stefano De Nozza sono a vario titolo truffa in danno dello Stato e violazione del decreto Brunetta. Inizialmente erano 48 gli imputati. Sono tutti ancora in servizio presso la stessa azienda sanitaria. Anche coloro i quali sono stati ritenuti assenteisti. Uno di essi, un oculista, ha ottenuto perfino una progressione di carriera. Uno scatto in avanti previsto dal contratto nazionale del lavoro: atto dovuto che non è stato possibile evitare, a quanto si è appreso dalla direzione generale Asl, proprio perché per i lavoratori in questione non c'è stato alcun provvedimento punitivo. I procedimenti disciplinari avviati nel 2010, quando nell'ambito della stessa inchiesta furono eseguite 26 ordinanze di custodia cautelare dai carabinieri dei Nas di Taranto, furono già allora congelati in attesa di un verdetto definitivo che è però ancora lontano dall'essere emesso. Ci sono però le motivazioni della sentenza di primo grado depositate a settembre, in cui il giudice monocratico Giuseppe Biondi ha fatto una disamina puntuale di ogni singola posizione. Le difese hanno già impugnato la decisione del tribunale e attendono che venga fissato l'appello. Viene attribuito dal giudice un rilievo di maggiore gravità ai medici coinvolti, a uno dei quali, un odontoiatra, è toccata la pena massima inflitta: tre anni di reclusione. In quanto dirigenti avrebbero dovuto controllare, a quanto è riportato, il rispetto delle regole da parte dei sottoposti. E avrebbero dovuto dare l'esempio. Tutti, poi, sottraendo ore che avrebbero dovuto essere di esclusiva proprietà del datore di lavoro, avrebbero provocato all'Azienda sanitaria locale, quindi a una pubblica amministrazione, un danno patrimoniale. Oltre che un danno di immagine dovuto - si legge - al fatto che avrebbero agito sempre "alla luce del sole". Per altro il fatto che non fosse emersa durante il dibattimento la prova di conseguenze dirette nella qualità del servizio, non avrebbe avuto alcun valore riguardo le contestazioni per cui si è proceduto: la truffa e le irregolarità nell'utilizzo del cartellino marcatempo. Nel frattempo nulla è cambiato in quel di via Dalmazia e più in generale presso l'Azienda sanitaria di Brindisi. "I procedimenti disciplinari - ha spiegato il direttore generale Giuseppe Pasqualone - sono stati riaperti". Ma non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, che prevede una linea durissima, ancor di più rispetto al passato, per i cosiddetti furbetti del cartellino.
Palermo, inquinamento: tre anni di processo inutile. "Il pm ha sbagliato imputati". Le motivazioni dell'assoluzione per gli ex governatori Cuffaro e Lombardo. Il presidente del tribunale: “Alla sbarra dovevano andare i dirigenti, non i politici”, scrive Alessandra Ziniti il 26 gennaio 2016 “La Repubblica”. Per anni in tutto il territorio siciliano c’è stato un superamento sistematico dei limiti di inquinamento ambientale e per anni c’è stata "una evidente e macroscopica negligenza dell’apparato regionale e dell’Arpa, dando prova di palese negligenza a danno di tutti i cittadini siciliani". Ma il processo che vedeva alla sbarra gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo e gli ex assessori al Territorio e Ambiente Cascio, Interlandi, Sorbello e Di Mauro è finito in un nulla di fatto perché la procura ha sbagliato imputati e imputazioni. Sono durissime le motivazioni della sentenza con le quali il presidente della quarta sezione del tribunale Vittorio Alcamo ha motivato l’assoluzione di tutti gli imputati. "Tenuto conto della delicatezza della materia e della serietà delle possibili conseguenze a carico della salute collettiva, avrebbero meritato un ben più centrato procedimento a carico dei soggetti realmente responsabili", scrive Alcamo. Rifiuto di atti d’ufficio era il reato che la procura aveva contestato ai politici per "essersi indebitamente rifiutati di predisporre e far approvare" i piani per combattere l’inquinamento ambientale. I pm avevano invece chiesto l’archiviazione per i dirigenti e i funzionari amministrativi. Ma — sottolineano i giudici — erano proprio loro i soggetti competenti ad istruire e predisporre i piani mentre ai presidenti della Regione e agli assessori la legge assegna il compito di "esercitare le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e definire gli obiettivi ed i programmi da attuare". Nel corso del processo, i giudici si sono ben presto resi conto di ritrovarsi davanti come testimoni quelli che avrebbero dovuto essere gli imputati (cioè i dirigenti e i tecnici) e come imputati i politici che avrebbero dovuto essere testimoni. O ai quali, in alternativa, avrebbe dovuto essere contestata un’altra condotta: "L’unico potere-dovere previsto in capo agli assessori ed al Presidente della Regione — scrivono i giudici — è quello, residuale ed eccezionale, di fissazione di un termine perentorio nell’eventualità
di gravi inerzie da parte dei dirigenti ed, in caso di ulteriori inerzie, di nomina di un commissario ad acta". Contestazione che la procura ha provato a rivolgere loro ormai in prossimità della sentenza, quando — contestualmente — il gip ha rigettato la richiesta di archiviazione nei confronti dei dirigenti sollecitata dalla procura. Ora il reinvio degli atti ai pm è sostanzialmente vano perché i fatti contestati sono già andati in prescrizione.
Il record dei voltagabbana ai tempi di Renzi. Dall'inizio della legislatura 234 parlamentari hanno cambiato casacca: l'inchiesta di copertina di Panorama in edicola dal 18 febbraio, scrive il 17 febbraio 2016 "Panorama". Dal 2013 ben 234 parlamentari hanno cambiato casacca e tradito il mandato dei cittadini, lasciando il gruppo parlamentare di appartenenza. E non solo una volta: alcuni di questi senatori e deputati si sono infatti riposizionati più volte con il risultato che i cambi di casacca totali risultano essere 329. Un record mondiale. È questo il risultato di un’indagine condotta da Panorama e pubblicata sul numero in edicola da giovedì 18 febbraio. Il caso è particolarmente accentuato a Palazzo Madama, dove il 30 per cento dei senatori ha cambiato casacca, alcuni anche cinque o sei volte. Il 43,6 per cento dei transfughi ha scelto di allearsi con il Partito democratico e i loro voti sono spesso fondamentali per il governo Renzi. Sono nati anche nuovi gruppi parlamentari. Sempre a Palazzo Madama, su 10 gruppi, soltanto 4 hanno partecipato alle elezioni con proprie liste. Il recordman di questa legislatura è il senatore Luigi Compagna con sei passaggi da una sigla all’altra.
Il M5S e Grillo: uno, nessuno, centomila. Da Rodotà a Farage. Dal Mein Kampf fino all'ultima capriola sulle unioni civili. La schizofrenia a 5 stelle riflette la personalità del suo leader, scrive il 17 febbraio 2016, Paolo Papi su "Panorama". Grillo, quale? Quello che candidò, non appena i suoi misero piede in parlamento, l'esimio e laicissimo professore Rodotà al Colle? O quello che, dopo aver assicurato che i suoi senatori avrebbero votato la legge sulle unioni civili purché non venisse stralciata dalla stepchild adoption, ha compiuto una stupefacente piroetta sul blog, garantendo assoluta libertà di voto ai suoi parlamentari? Grillo, chi? Quello che tuonava contro lo scandalo dell'esenzione dell'Ici per le proprietà immobiliari della Chiesa e giunse persino a proporre nel 2012 una radicale revisione dei Patti lateranensi? Oppure il Grillo trasformista che giunse nel 2009, ben prima che si insinuasse l'idea di fondare un movimento nazionale, acandidare Tarcisio Bertone al soglio di Pietro? Grillo, quale? Quello che nel 2005, ai tempi del governo Berlusconi, difendeva con le unghie l'articolo 67 sull'assenza del vincolo di mandato in Costituzione o quello che, nel 2015, sostiene che solo il vincolo di mandato può salvare la democrazia italiana? Dicono che i movimenti carismatici riflettano vizi e virtù della personalità dei loro leader-fondatori. Nel caso del M5S, un partito che fino a qualche giorno fa aveva fatto di una laicità con venature anticlericali una delle sue tante bandiere politiche, questa apparente schizofrenia - giustificabile a teatro per un'artista, ma assai meno in Parlamento - trova la sua plastica rappresentazione in una serie di vignette che stanno facendo il giro dei social network. Come questa. Il M5s, quale? Quello che, per bocca di uno dei suoi volti più noti, Alessandro Di Battista, giunse a sostenere, all'indomani dell'esecuzione del reporter James Foley, che la "violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dal giornalista Usa è figlia della violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dai detenuti nel carcere di Abu Ghraib"? È lo stesso Di Battista che sulla crisi dei profughi, anziché sostenere per coerenza logica che le grandi ondate migratorie dai Paesi mediorientali sono figlie (anche) delle scelte occidentali, è giunto a sostenere sempre su Facebook, come avrebbe detto il Gianfranco Fini ai tempi del Msi, che "i fratelli africani devono stare a casa loro, e per farli stare a casa loro devono avere risorse e sviluppo a casa loro"? E ancora, Grillo, quale? Quello stesso Grillo che dieci anni orsono scriveva un post con un'intera citazione del Mein Kampf di Adolf Hitler, definendolo una "voce del passato per capire il nostro presente"? Quello che si è alleato in Europa con gli ultranazionalisti xenofobi di Nick Farage, dopo aver candidato Rodotà al Colle? È lo stesso leader del MoVimento che ha fatto arrampicare i suoi sul tetto di Montecitorio in nome del rispetto della Costituzione repubblicana e antifascista? Qualcosa forse non torna. Non solo nel M5S, ma in tutta la politica italiana. Ma le capriole grilline fanno pensare a Pirandello: uno, nessuno, centomila. Un partito dalle mille identità, riflesso della personalità bifronte del suo leader, straordinario Zelig, ma solo sul palcoscenico.
SCANDALO ENI TOTAL. La Procura di Potenza indaga per disastro ambientale. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 3 aprile 2016. Interrogatori, agenda da riempire e un ricorso da depositare: la settimana che comincia domani sarà per i pm di Potenza impegnati nell’indagine sul petrolio - che ha risvolti politici non meno delicati di quelli giudiziari - molto importante proprio per il futuro dell’inchiesta stessa, che ha portato giovedì scorso sei persone agli arresti domiciliari con due ordinanze del gip e all’iscrizione di 60 persone nel registro degli indagati. Gli interrogatori di garanzia e l’agenda dei pubblici ministeri sono collegati: prima cominceranno quelli degli arrestati, ma l’attenzione generale è già concentrata sull'interrogatorio dell’ex ministra Federica Guidi - che si è dimessa il giorno stesso degli arresti - e della ministra Maria Elena Boschi, citata dalla sua collega quando era prossimo l'inserimento nella legge di stabilità di un emendamento necessario a far procedere i lavori a Corleto Perticara (Potenza), dove la Total sta costruendo il secondo centro oli lucano per sfruttare 50 mila barili di petrolio all’anno dal 2017. All’emendamento era molto interessato l’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli, compagno della Guidi, che, infatti, appena la compagna gli confermò che sarebbe stato inserito, telefonò al dirigente di una società petrolifera. Guidi e Boschi saranno sentite a Roma: nei prossimi giorni sarà fissata la data, mentre riguardo al premier Renzi, che in tv ha dichiarato «l'emendamento è mio, se vogliono i pm mi ascoltino», in ambienti vicini alla procura si apprende che i pubblici ministeri di Potenza «non pensavano» di sentirlo. Attesa, da domani, anche per il ricorso dei pm contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gemelli. Dalle parole dei sei arrestati - l’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (Pd), e cinque dipendenti dell’Eni (sospesi dalla compagnia) - i pm si aspettano elementi utili per portare avanti altri accertamenti e approfondimenti. Vicino è finita ai domiciliari nell’ambito del filone di inchiesta che riguarda la costruzione del centro oli di Corleto; gli altri cinque in relazione all’accusa di traffico illecito dei rifiuti prodotti nel centro oli dell’Eni di Viggiano (Potenza), dove da giovedì è sospesa la produzione di 75 mila barili al giorno di petrolio (con centinaia di operai e tecnici in ansia per il lavoro e migliaia di abitanti della zona e ambientalisti soddisfatti). La compagnia ha preso una posizione netta: gli accertamenti che ha fatto condurre da esperti nazionali e internazionali parlano di «qualità dell’ambiente ottima» e di operazioni di smaltimento rispettose delle leggi. I pm aspettano altre analisi dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico: diranno loro se l’ombra dell’accusa di disastro ambientale potrà concretizzarsi. Infine, il filone per il momento meno chiaro dal punto di vista delle notizie trapelate e su cui il riserbo degli investigatori è più stretto: lo scenario è il porto di Augusta, punto di riferimento di diverse compagnie petrolifere. Fra gli indagati vi sono Gemelli e il capo di stato di maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi: da mesi i pm di Potenza, Laura Triassi e Francesco Basentini, indagano per associazione per delinquere e traffico di influenze sullo stesso Gemelli, su De Giorgi, su Nicola Colicchi, considerato un "lobbista», e su un consulente del Ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena. E’ la parte dell’inchiesta che potrebbe riservare rilevanti sorprese.
Il «comitato d’affari» e i politici: così venivano favorite le aziende. Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Il compagno della Guidi «si mostra attento agli emendamenti del settore energetico», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto «Tempa Rossa». Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni — visto che ne parlava come un «favore» fatto al compagno Gianluca Gemelli — non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi «soci». Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: «Non è una cosa di sistema... capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli... chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?». Sottolinea il giudice: «La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i “grossi”, lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai “grossi”, vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali». Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della «rete» che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Tra le «contropartite» pretese da alcuni amministratori locali — prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto — ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: «Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente».
Il fastidio di Renzi con i pm per la convocazione di Boschi. Lo sfogo con i collaboratori: Abbiano il coraggio di chiamarmi, così ci divertiamo un po’, scrive Maria Teresa Meli su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Davanti alle telecamere, con Lucia Annunziata che lo incalza con abilità e tenacia, Matteo Renzi non si lascia sfuggire i suoi più reconditi pensieri sulla vicenda giudiziaria che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi. Dice di non credere ai complotti e alla giustizia a orologeria. Ma ha un’aria di sfida che non passa inosservata quando invita i giudici a chiedergli di ascoltarlo. Non solo su quella storia, ma anche su «tutto il resto: la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari, la Variante di Valico». Ed è proprio da quel «tutto il resto» che traspare il tono della sfida nei confronti dei pm della Procura di Potenza. I quali, non a caso, più tardi fanno filtrare che non è nelle loro intenzioni ascoltare il premier. Renzi è con i collaboratori quando arriva quella replica e sorride: «Perché non vogliono interrogarmi? Ho detto che quell’emendamento era mio, abbiano il coraggio di chiamarmi, dopo quello che ho detto, così ci divertiamo un po’. Visto che vogliono sentire la Boschi proprio per quell’emendamento, perché non me? Forse avrebbero bisogno di una lezione su come funziona il Parlamento... È allucinante voler ascoltare Maria Elena...». I collaboratori che gli stanno di fronte annuiscono. Non capiscono il motivo per cui i pm della Procura di Potenza abbiano deciso di tirare in ballo la Boschi. Ma il premier ha un’idea del perché. E la illustra ai fedelissimi. È un convincimento andato maturando dopo che è scoppiato il «caso Guidi» e che non formulerebbe mai ad alta voce di fronte ai giornalisti. È l’unica spiegazione che è riuscito a darsi: «La verità è che c’è un disegno organico dietro tutto ciò. L’obiettivo è quello di far raggiungere il quorum al referendum sulle trivelle nella speranza di darmi un colpo». Il presidente del Consiglio non contesta l’inchiesta: «Non spetta a me mettere bocca su un’indagine». Ma è la decisione dei magistrati di coinvolgere la ministra che rappresenta in modo più significativo la novità dell’esecutivo Renzi che lo ha lasciato perplesso. Come lo ha sconcertato anche il fatto che dopo aver pubblicamente detto che l’emendamento era opera sua, ora i pm non chiedano di ascoltare pure lui. Della sua «performance» in tv è contento: «Pensavano che mi presentassi tutto intimorito e piagnucolante e invece no. Ho voluto dare un messaggio molto duro». Questa volta il presidente del Consiglio si riferisce ai grillini, ai leghisti e a tutti quelli che hanno «utilizzato questa vicenda per fare un polverone pazzesco». Renzi ce l’ha in particolar modo con i Cinque Stelle. Ma per loro ha già pronta la controffensiva: «Domani (oggi per chi legge, ndr) Bonifazi sarà a Milano per chiedere il risarcimento danni a Grillo e David Ermini sarà a Massa Carrara per querelare Di Maio, che ha avuto la faccia tosta di dire che prendiamo i soldi dai petrolieri. A lui il Pd chiederà di rinunciare all’immunità. Del resto, loro sono sempre pronti a dire che bisogna rinunciarci...». Non una delle parole che vengono pronunciate al chiuso di una stanza, davanti a persone di assoluta fiducia del premier, è stata proferita in televisione. Ma dall’Annunziata Renzi si è lasciato sfuggire qualche indizio sul suo stato d’animo. Quando ha detto di sperare che l’indagine sia «una cosa seria». E ha fatto l’esempio del senatore Salvatore Margiotta, accusato e condannato, sempre a Potenza, per la costruzione del Centro Oil della Total e poi assolto dalla Cassazione. Non è escluso che oggi, in direzione, citi di nuovo questo esempio. Senza fare nessun attacco ai magistrati, però.
L’ammiraglio De Giorgi indagato per una fornitura. La sindaca: ho solo aiutato. Parte il ricorso per l’arresto di Gemelli. Trucchi per celare i veleni, scrive Virginia Piccolillo su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. «Ma quando vengono i magistrati a sentire Rosaria Vicino?». A Corleto Perticara, da una settimana passata dalla tranquillità di paesino da 2.500 anime a centro delle cronache giudiziarie, si accomuna la ex sindaco ai domiciliari che deve subire l’interrogatorio di garanzia al ministro delle Riforme che, per cortesia istituzionale, riceverà la visita dei magistrati a Roma. Lei no. Dovrà uscire dalla villa videosorvegliata e fare i 60 chilometri di tornanti che portano a Potenza. La sua difesa la ripetono in molti: «Ha solo aiutato i ragazzi a trovare un posto di lavoro». Altrettanti però replicano: «Solo quelli che voleva lei. Ad altri, magari più preparati, ha impedito che gli venisse dato». E ripetono quella intercettazione in cui Rosaria Vicino, all’offerta di un posto per un geologo, rilancia con un suo protetto: «È geometra. Ma è sveglio». Oggi a Corleto ci sarà anche una manifestazione dei Cinquestelle ed è atteso Di Maio. Ma i riflettori sono tutti puntati sulla Procura di Potenza. Sarà una settimana di interrogatori per l’indagine sul petrolio lucano, ma non ci sarà quello del premier Matteo Renzi. Che i magistrati «non pensavano» proprio di ascoltare. Da ambienti investigativi filtra che questo non è un «processo all’emendamento allo sblocca Italia», all’origine dei guai dell’ex ministra Guidi. Lei lo aveva annunciato in anteprima al suo compagno Gianluca Gemelli, in un’intercettazione nella quale diceva di averne parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Informazione poi spesa da Gemelli per ottenere, secondo la Procura, utilità. Su quella frase verrà ascoltata, come atto dovuto, la Boschi, già nei prossimi giorni assieme alla Guidi. E, a microfoni spenti, si raccomanda di non confondere le ricostruzioni giornalistiche con le carte dell’inchiesta. Né sul filone politico, né su quello della «lobby» che agiva in vista del business del «dopo emendamento». In questo ambito è stato indagato per abuso d’ufficio il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe De Giorgi per una vicenda legata a forniture. Per Gemelli, molto attivo a facilitare affari, oggi stesso potrebbe essere presentata la richiesta di appello conto la mancata autorizzazione all’arresto. Intanto c’è da ascoltare anche i cinque arrestati dell’indagine sui veleni spacciati per acqua sporca, nel centro Oli di Viggiano. È una tranche delicatissima che, dopo i risultati dell’indagine epidemiologica, potrebbe portare all’incriminazione per disastro ambientale. Per ora a testimoniare i trucchi compiuti per trasformare i codici dei rifiuti tossici e reiniettarli così nel pozzo di smaltimento delle acque reflue oppure degli «incidenti» ripetuti per il malfunzionamento dell’impianto con lavoratori finiti intossicati al pronto soccorso ci sono le parole degli stessi funzionari Eni intercettati. Anche se la compagnia parla di «qualità dell’aria ottima» e certificata.
Guidi, due incontri con i petrolieri. Poi i "favori" a Gemelli. I verbali. Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l'ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati il 04 aprile 2016 su " La Repubblica". Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell'ex ministro che va ben oltre l'ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della "lobby petrolifera", promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio "cortesie" destinate a favorire gli affari del compagno. Il mafioso. Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare "fornitore di servizi ingegneristici" per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell'23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l'azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata - e Gemelli. Quest'ultimo ha appena chiesto di poter "fare tutto ciò che riguarda l'ingegneria per eventuali lavori successivi". Broggi risponde in maniera netta: "Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c'è quell'incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu... Tutto si fa nella vita". Gemelli ringrazia: "Tu sei un mafioso siciliano!". "Da una telefonata successiva - scrive il gip - si capisce come l'incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont". Insomma, l'accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l'emendamento) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore "spingendo" le ditte di Gemelli. Mimì e Cocò. Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. "Senti - chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?". "No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante", risponde Gemelli svelando che "questo tizio", l'uomo di Tecnimont, aveva rinviato l'appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo. "I due dell'Ave Maria si sono visti", esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po' infastidito perché la cosa è "adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l'istituzione che dice 'prendi una società italiana'; però c'è modo e modo". "La Guidi li stanerà". L'altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest'ultimo è l'interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l'inserimento dell'emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stabilità. L'incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: "Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia". "E il ministro - scrive il gip - ha detto che avrebbe convocato le Regioni (...) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati". In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta "assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto"". "L'incontro è andato bene", riferirà in un'altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica "a me ha detto che è andato tutto bene", la risposta. Lo sblocco dei fondi navali. Sull'asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal "programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa". Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L'ipotesi dell'accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi - presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis - fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. "Venne da me Colicchi - racconta Pastena - e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi". Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi - che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell'intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno "Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale" (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il "parere preliminare delle Commissioni". Parere che la Guidi definisce "urgente", auspicando che l'iter si concluda "al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa". Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.
Estrazioni del petrolio, la ministra Guidi pilotava il governo per aiutare il fidanzato. La responsabile dello Sviluppo economico e l'imprenditore Gemelli parlano anche di accordo con la ministra Boschi Ecco le intercettazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". «E poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d'accordo anche “Mariaelena” (il ministro Boschi ndr), quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte...! Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempra Rossa, dall'altra parte si muove tutto»: così parlava la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidial telefono con il suo compagno, Gianluca Gemelli, a proposito dell'emendamento che il governo stava per inserire nella Legge di Stabilità relativo ai lavori per il centro oli della Total in contrada “Tempa rossa”, a Corleto Perticara (Potenza), nei quali Gemelli stesso aveva interesse essendo alla guida di due società del settore petrolifero. L'imprenditore chiedeva alla sua compagna-ministro se la cosa riguardasse pure «i propri amici della Total, clienti di Tecnimont» e la Guidi rispondeva: «Eh certo, capito? Certo, te l'ho detto per quello!». Gemelli a questo punto, dopo aver parlato con la ministra Guidi chiama al telefono Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total e gli svela la notizia della volontà del governo di inserire nella legge di Stabilità, in discussione all'epoca in Senato, l'emendamento che avrebbe sbloccato “tempra rossa”, tirando in ballo anche la ministra Boschi: «La chiamo per darle una buona notizia, si ricorda che tempo fa c'è stato casino, che avevano ritirato un emendamento, per cui c'erano problemi su Tempra rossa, pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, ragion per cui, se passa... e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni... è tutto sbloccato». Le intercettazioni sono agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere. Guidi, che non è indagata nell'inchiesta, informa spesso il compagno, per il quale il gip di Potenza ha rigettato la richiesta di arresto, sui provvedimenti del governo per quanto riguarda le estrazioni petrolifere. Per questi affari Gemelli è indagato per aver sfruttato l'interesse della sua compagna-ministro e di aver fatto affari per oltre due milioni e mezzo di euro. Secondo il giudice per le indagini preliminari, che commenta queste intercettazioni sull'emendamento ritirato, precisa che: «non essendo stato possibile farlo “passare" nel testo del decreto "Sblocca Italia" il Governo (per iniziativa del ministro Guidi con l'intesa del ministro Boschi (“è d'accordo anche Mariaelena”), lo aveva sostanzialmente riproposto nel testo del disegno della legge di Stabilità (“Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità”), finendo con l'essere, unitamente alla legge di Stabilità, approvato a fine dicembre 2014. Il nuovo tentativo di inserimento, infatti, aveva esito positivo». La ministra Guidi si interessa del lato economico e finanziario del suo compagno Gemelli, al quale chiede come è messo “economicamente” e perché “è sempre sofferente in banca”. Guidi però insiste, vuole capire meglio e l'imprenditore spiega che ha “troppi mutui” da pagare. A questo punto la Guidi suggerisce: «Eh, per quello dico che dovresti riuscire a prendere altri lavori Gianluca...!»; Gemelli rispondeva "eh lo so gioia, non è che mi sono fermato, l'hai visto...».
Quella clamorosa intercettazione della Guidi. Le opposizioni: «Ora si deve dimettere». La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi rassicura il compagno, interessato ai lavori, sul destino di un impianto di estrazione di Total in Basilicata: verrà approvato un emendamento alla legge di Stabilità. «È d’accordo anche Maria Elena», dice riferendosi a Boschi. Le opposizioni gridano al conflitto di interessi: «Si dimetta. E al referendum votiamo Sì», scrive Luca Sappino il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Non è nuova alle polemiche sul conflitto d’interessi, Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi. Appena nominata, il 22 febbraio 2014, in molti notarono la scarsa opportunità della scelta del presidente del consiglio di mandare negli uffici di via Molise proprio la vicepresidente di Confindustria, figlia di Guidalberto Guidi, anch’egli a lungo vicepresidente di Confindustria e presidente della Ducati Energia, azienda di famiglia. Federica Guidi lasciò ogni incarico formale, ovviamente, e si difese dicendo di non esser socia ma solo dipendente delle varie aziende: «Sto battendo ogni record», si vantò, «il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta già arrivando la prima mozione di sfiducia individuale». Mozione però mai calendarizzata. È però adesso un’intercettazione di una telefonata avuta con il compagno Gianluca Gemelli, a riaprire il dibattito. Gemelli, interessato ai subappalti per le sue aziende, stava infatti seguendo con attenzione il destino dell’impianto Total di Tempa Rossa, giacimento petrolifero nell'alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, e viene chiamato dal ministro per ricevere rassicurazioni. Nella telefonata, negli atti di un'inchiesta in cui è indagato anche lo stesso Gemelli, per "traffico di influenze illecite" perché avrebbe "sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico”, Guidi rassicura il compagno sul destino di un emendamento alla legge di stabilità che risolverà ogni problema. Nello scambio il ministro dice così: «Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Mariaelena la... quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte... Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa... ehm... dall'altra parte si muove tutto!». A quel punto, Gemelli può chiamare subito il rappresentante della Total con cui era in contatto e farsi valere con l’informazione ricevuta dal contatto privilegiato: «La chiamo per darle una buona notizia. ehm.. Si ricorda che tempo fa c'è stato casino. Che avevano ritirato un emendamento… ragion per cui c'erano di nuovo problemi su Tempa ross ... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato...ragion per cui…se passa...e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni...(...) se passa quest'emendamento... che pare... siano d'accordo tutti… perché la boschi ha accettato di inserirlo... (...) è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! (...) e quindi questa è una notizia...». Immancabili sono a questo le reazioni politiche. Il Movimento 5 stelle, con una dichiarazione congiunta dei capogruppo di Camera e Senato, Michele Dell’Orco e Nunzia Catalfo, chiede le dimissioni di entrambi i ministri citati, di Guidi e però anche di Boschi. Più su Guidi si concentra invece Sinistra Italiana che annuncia una mozione di sfiducia, sperando che questa volta venga discussa. Tutti però girano la notizia sul prossimo referendum sulle trivelle: «La miglior risposta a queste indecenze», dicono i 5 stelle, «oltre alle dimissioni di Guidi e Boschi è andare tutti a votare domenica 17 aprile e votare sì contro le trivellazioni marine». Sconcertata si definisce anche Forza Italia, almeno per bocca di Alessandro Cattaneo, già sindaco di Pavia: «Se ciò che stiamo leggendo in queste ore fosse vero, è chiaro a tutti che siamo di fronte ad un caso sul quale il Governo non può non fare chiarezza». «Sempre garantisti», dice ovviamente Cattaneo, «ma di fronte a certe parole e fatti non si può che restare sorpresi ed agire di conseguenza. Le intercettazioni sul Ministro Guidi sono sconcertanti».
Caso Guidi, quella notte in cui l'emendamento uscì dalla legge (e poi rientrò). Presentato il 17 ottobre del 2014, scatenò le proteste dei Cinque Stelle e di Sel. E venne precipitosamente ritirato. Mentre il Pd diceva di non saperne niente. Il grillino Cioffi: “Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?” Ecco la storia della modifica che ha portato alle dimissioni della ministra, scrive Susanna Turco l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Presentato dal governo in una notte d’ottobre 2014, poi precipitosamente ritirato ("… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte", dice la Guidi nelle intercettazioni), dopo le proteste dei Cinque stelle e Sel, durante la discussione in commissione Ambiente sul cosiddetto Sblocca Italia. Presentato poi di nuovo, in dicembre, e approvato nel maxiemendamento alla Legge di stabilità: anche qui tra le proteste dei Cinque stelle. La storia dell’emendamento che è all’origine delle dimissioni della ministra Guidi, quello che dava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa, sul quale il compagno della titolare allo Sviluppo economico aveva forti interessi, è nei resoconti di quella notte in commissione ambiente. E, poi, nell’intervento in Aula al Senato, quando il grillino Andrea Cioffi domanda: "Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?". Tutto comincia all’ora di cena del 17 ottobre. E’ un venerdì, e il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, "avverte che il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52 del Governo". Dopo l’annuncio, Realacci dice subito che i sub-emendamenti andranno presentati entro le 22. Poi fa slittare il termine alle 23. Sia il deputato di Sel Filiberto Zaratti, che la deputata grillina Claudia Mannino, dicono infatti che ci vuole tempo "per valutarne attentamente il contenuto". Poco dopo, avendo letto l’emendamento, è la grillina Mirella Liuzzi ad aprire il fuoco: "L’emendamento 37.52 del Governo rappresenta una vergogna sotto il profilo del rispetto della tutela ambientale, tanto più essendo stato presentato da un Governo che si dichiara di centrosinistra", dice. La Mannino protesta: il testo "introduce poteri di intervento inconciliabili con lo stato di diritto". Zaratti (di Sel) ci mette un altro carico: "L’emendamento autorizza procedure di esproprio in ambiti di particolare rilevanza ambientale, non è degno del Parlamento di uno Stato civile". Ecco la protesta grillina in commissione Ambiente contro l'emendamento pro-Tampa Rossa che, nella notte dell'ottobre 2014, ha portato alla precipitosa marcia indietro del governo. Le urla, gli interventi concitati. “E' una assoluta vergogna, una cosa pericolosissima, e la fate qui in commissione, alle dieci di sera. Neanche Berlusconi era arrivato a tanto”, dice Liuzzi. E Mannino: “In un paese civile questo emendamento è irricevibile”. Mentre il Pd Borghi, placido chiarisce: “Il mio gruppo non era a conoscenza della presentazione di questo emendamento”. Alla fine il Cinque stelle De Rosa invita il presidente della commissione Realacci a “rivalutare l'ammissibilità dell'emendamento”. Cosa che, dopo essersi consultato col governo, Realacci farà. Dichiarandolo inammissibile. Interessante, a questo punto, la puntualizzazione del Pd Enrico Borghi: fa presente come "il gruppo del Partito democratico non era stato preventivamente messo a conoscenza della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 37.52. Chiede pertanto che su di esso possa essere aggiornata la discussione ad un successivo momento". A questo punto, Realacci sospende la seduta. Chi c’era, racconta che subito dopo in commissione arriva anche Claudio De Vincenti, allora viceministro allo Sviluppo Economico, e che nell’ora e mezza di pausa dei lavori, c’è un lungo conciliabolo tra lui e Realacci. Un deputato Cinque Stelle dice di aver notato la cosa perché "è strano che un viceministro venga in commissione di notte", e ricorda che "De Vincenti si portò via Realacci per parlarci: era evidentemente alterato, molto arrabbiato. Come se sapesse benissimo cosa stava succedendo a quell'emendamento: altro che disinteressarsene". La seduta riprende alle 21.35. E il presidente Realacci cambia improvvisamente orientamento. Dichiara infatti "inammissibile" l’emendamento, per "estraneità di materia": in sostanza, dice, perché nell’articolo 37 l’estensione delle "procedure autorizzative derogatorie" era prevista per "aumentare la sicurezza delle forniture di gas" e quindi non c’entra con "le opere relative al trasporto e allo stoccaggio di idrocarburi". La Liuzzi però protesta: dice che Realacci non è stato "corretto", perché avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità dell’emendamento, prima di dare un termine per la presentazione dei subemendamenti. "A questo punto l’emendamento dovrebbe essere discusso e votato", conclude la Liuzzi. Realacci replica di aver agito così "in considerazione dell’ora tarda e della necessità di lasciare tempi adeguati ai gruppi per la presentazione dei subemendamenti". A quel punto è il grillino De Rosa ad "avanzare il dubbio" che si sia fatto così "nella speranza che nessun deputato si accorgesse della portata dell’emendamento 37.52 e si opponesse alla sua votazione". Realacci ribadisce le sue ragioni e la discussione passa oltre. Poi, però, l’emendamento si riesce a "rimetterlo dentro" (sempre parole della Guidi) nella legge di Stabilità. E il 18 dicembre il senatore grillino Cioffi in Aula lo definisce un "emendamento con nome e cognome". "Ma cosa c'è dentro questa finanziaria? Tante cose. Ci sono alcuni emendamenti presentati dal Governo che hanno nome e cognome. Ce n'è uno che si chiama «Total». Se volete, possiamo usare «Total» sia come nome che come cognome: «Total Total». (Applausi dal Gruppo M5S). Quando voi inserite nella legge che rendiamo opere strategiche anche i tubi che servono per portare il petrolio di Tempa Rossa (che è una concessione data alla Total), nonché le infrastrutture che verranno realizzate nel porto di Taranto, stiamo facendo un regalo alla Total. Ci verrebbe allora da chiedere: ma la Total ha soffiato nell'orecchio di qualcuno, che è il Governo, e gli scrive un emendamento? La Total per caso - lo pongo come ipotesi, signora Presidente, mi consenta; sa, «mi consenta» si porta - ha agevolato il percorso per presentare un emendamento a suo favore? La Total ha contribuito economicamente - in maniera trasparente, perché non si possa mai pensare che lo faccia in maniera non trasparente, nel qual caso sarebbe un reato e i reati li accerta la magistratura, ed è il caso che li inizi ad accertare, magari su questa cosa - la Total, dicevo, ha dato dei contributi al Governo che gli fa un regalo?"
Guidi, le guerre nel Pd della Basilicata. Indagini, una talpa aveva avvisato il compagno. Le intercettazioni dimostrano nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio. Scontri fra Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute e il governatore della Regione Marcello Pittella, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Dietro all'estrazione petrolifera emergono in Basilicata guerre intestine al Partito democratico. Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza hanno permesso di registrare nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio (il comprensorio dei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara, Gorgoglione, Gallicchio ed Armento) coinvolto direttamente o indirettamente nell'attività di estrazione petrolifera, «da fare campo di conquista anche attraverso vere e proprie guerre intestine tra le vari anime dello stesso Partito», scrive il gip. Da un lato vi è la figura di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, punto di riferimento politico dell'ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, arrestata oggi dai carabinieri, e dall'altra parte il governatore della Regione Basilicata, Marcello Pittella, il quale con la sua azione politica «avrebbe cercato di mettere le “bandierine” (per richiamare il termine utilizzato da Vicino nelle intercettazioni) sui territori da “conquistare”». Gli investigatori hanno documentato come spesso Vicino ha utilizzato l'auto dei vigili urbani del paese per fare la spesa, e poi ancora per raggiungere il cantiere, e i vari imprenditori interessati all'esecuzione dei lavori legati al Centro Oli di Tempa Rossa «al solo fine di segnalare agli stessi le persone da assumere». Vicino poteva contare su un notevole consenso elettorale ottenuto «da ricondursi anche ai posti di lavoro che la stessa riesce a far ottenere attraverso le pressioni esercitate nei confronti delle imprese impegnate nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, che si vedono costrette (in alcuni casi colluse) nell'assumere persone segnalate dal primo cittadino, in cambio del rilascio delle necessarie autorizzazioni comunali o in cambio di una più celere trattazione delle pratiche annesse (permessi di costruire), ovvero in cambio di vantaggi economici anche solo promessi derivanti da concessioni, delibere». In questo modo Vicino avrebbe ottenuto non solo «il controllo dell'elettorato attivo in vista delle prossime elezioni amministrative locali», ma anche «l'impegno del sottosegretario De Filippo a far assumere il figlio all'Eni». Più volte nelle intercettazioni De Filippo ha rassicurato la Vicino di un suo intervento «presso una non meglio specificata Azienda con sede in Roma (seppure mai menzionata espressamente, la stessa è facilmente individuabile nell'Eni spa)», scrive il giudice. Il compagno della ministra Guidi, l'imprenditore Gemelli indagato in questa inchiesta a Potenza, durante alcune intercettazioni si soffermava sul ruolo politico di Pittella, e sui contatti "forti" che suo fratello, l'europarlamentare Gianni Pittella, aveva con il premier Matteo Renzi: «ma lui tramite il fratello che è al parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero, ma comunque... ! Speriamo che funzioni questo Sblocca Italia». Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto, a distanza di qualche tempo, anche insieme alla propria compagna, il ministro Federica Guidi, quando avevano appreso da una talpa la notizia delle indagini in corso da parte della procura di Potenza che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori che aveva ottenuto in Basilicata.
“Potenza, ecco come funziona il sistema degli affari petroliferi”. Il pm Woodcock fu il primo ad avviare le inchieste sul “Totalgate”. La maledizione in Basilicata è: tante indagini, poche condanne, scrive Guido Ruotolo il 4 aprile 2016 su "La Stampa". L’ultimo caso sulle estrazioni petrolifere, che ha visto indagato anche il compagno della ministra Guidi, incrocia la “maledizione di Potenza”, dove si sono fatte tante indagini ma si celebrano pochi processi. Sono tornate telecamere e microfoni. E il bivacco di giornalisti da oggi affollerà di nuovo il palazzo di giustizia. Come ai vecchi tempi di Henry John Woodcock, il pm anglonapoletano famoso per le sue retate «eccellenti», dal fotografo di gossip Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele (di) Savoia. Proprio lui, Woodcock, con tre diverse inchieste (2001,2004,2008) accese i riflettori su quelli che negli atti giudiziari venivano definiti «gli affari petroliferi». Impressionante il sistema di corruzione già scoperto quindici anni fa dal pm che poi traslocò alla Procura di Napoli. Va subito detto che la maledizione di Potenza è che si fanno le indagini ma non si celebrano i processi. I dibattimenti delle prime due inchieste sugli «affari petroliferi» infatti sono stati sospesi con la sopraggiunta prescrizione. Per la terza, il “Totalgate”, è iniziato il processo di primo grado. Finora sono cambiati per tre volte i collegi giudicanti per cui il dibattimento è stato azzerato per due volte. Anzi ha rischiato di dover ripartire da zero un’altra volta per gli stretti rapporti - pare di natura sentimentale - intrecciati dai due giudici a latere. Comunque prima dell’estate anche “Totalgate” è destinato alla prescrizione. Dunque nel 2008 il gip di Potenza ha accolto le richieste di arresto anche dell’amministratore delegato di «Total Italia», Lionel Lehva. E la stessa “Total” fu affidata in gestione commissariale a Piero Sagona, storico consulente della Banca d’Italia. Quasi un anno senza illeciti e violazioni del Codice penale, dall’aprile 2009 al febbraio 2010. Poi, a leggere le cronache giudiziarie di questi giorni, si è tornati, per dirla con il gip di Potenza, «a pratiche antiche e accettate». Per Woodcock, gli affidamenti degli appalti da parte del colosso petrolifero francese erano «pilotati e predefiniti negli esiti dai protagonisti del “comitato d’affari” costituito, appunto, dal manageament di “Total Italia”, da imprenditori, da pubblici ufficiali, politici e faccendieri, “istituzionalmente” deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite». Rileggendo gli atti delle tre inchieste colpiscono alcuni elementi che si ritrovano nelle diverse indagini. Il punto di partenza è riassunto da Woodcock: «La corruzione e la collusione tra potere economico, potere politico e frange deviate di istituzioni dello Stato - persino i Vigili del fuoco, ndr - costituiscono il modus operandi ordinario nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Il flusso di denaro pubblico rappresenta l’occasione di corruzione e di arricchimento illecito a favore di imprenditori senza scrupoli, faccendieri e funzionari pubblici corrotti». Ma questo sistema di corruzione ambientale è solo della Basilicata? Colpisce che in ogni inchiesta sono coinvolte politici e funzionari pubblici, un’amministrazione comunale, una impresa locale. Prendiamo appunto l’inchiesta “Totalgate”. Al centro delle indagini del pm Woodcock c’erano tre appalti: due per la fornitura del trattamento e dello smaltimento dei fanghi di perforazione; un appalto per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa. Bene, quelle gare furono truccate. Il 20 dicembre del 007 si precipita a Potenza l’amministratore delegato di Total, Lionel Lehva, per «pianificare la sostituzione delle buste contenenti le offerte»: «Quando si arriva - registrano le cimici degli investigatori - a far vincere Ferrara (l’imprenditore prescelto, ndr), è vinta». Sempre Lehva detta le incombenze da assolvere: «La busta D, dì che la cambino.... Ok?». L’impresa Ferrara, secondo l’intesa con i francesi, «deve sottoscrivere un contratto di cinque anni di fornitura di olii lubrificanti e carburanti per 15 milioni di euro. E Total si impegna a far vincere la gara per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa all’Associazione temporanea di imprese “Ferrara” «sostituendo fraudolentemente le buste contenenti le offerte presentate e depositate alterando i verbali di gara». Colpisce che tra gli attuali indagati di Potenza vi sia anche Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e Salute dell’Eni di Viggiano. Colpisce perché fu arrestata per corruzione dal pm Woodcock nella inchiesta «Oro nero» del 2004. Arrestata per corruzione, ma il processo è stato prescritto. E, dunque, per l’Eni dirigente da promuovere. Infatti era una specialista in autorizzazioni e relazioni pubbliche del distretto di Ortona, nel 2004, quando imponeva alle ditte contrattiste l’assunzione di certo personale su indicazione del sindaco di Calvello.
Tempa Rossa, fino a 7 anni di carcere per i vertici Total. Il processo si riferisce all'inchiesta condotta nel 2008 dall'ex pm Woodcock, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 aprile 2016. Il Tribunale di Potenza ha condannato in tutto nove persone - imputate a vario titolo per corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del Centro oli di «Tempa Rossa» - nell’ambito del processo allora chiamato «Totalgate», per pene che complessivamente ammontano a 47 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, sono stati condannati l’ex ad di Total Italia Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione) e l’ex manager della Total Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), due ex dirigenti locali della Total, Roberto Francini e Roberto Pasi (sette anni di reclusione ciascuno), l’imprenditore Francesco Rocco Ferrara (sette anni di reclusione), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), l’ingegnere Roberto Giliberti e il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Corleto Perticara (Potenza) Michele Schiavello (cinque anni ciascuno), e l’imprenditore Nicola Rocco Donnoli (due anni e sei mesi). Per Lehva e Juguet è stata disposta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, mentre per Pasi, Francini, Ferrara, Tornetta, Schiavello e Giliberti l’interdizione è perpetua. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo il giudice, Aldo Gubitosi, ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». Il pm, Veronica Calcagno, aveva chiesto pene per un totale di circa 90 anni di reclusione. La vicenda si riferisce a un’inchiesta condotta nel 2008 dal pm Henry John Woodcock - ora in servizio a Napoli - sulla realizzazione del Centro oli di "Tempa Rossa», in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero poi dovuto ospitare la struttura, e la concessione degli appalti per i lavori. Il Comune di Corleto Perticara (Potenza) è stato condannato in solido «quale responsabile civile» al risarcimento dei danni alla parte civile (con Schiavello, Pasi, Francini e Giliberti). «Non posso che esprimere la mia più viva soddisfazione per un verdetto che conferma la bontà dell’impianto accusatorio da me costruito grazie al lavoro di un gruppo affiatato di ragazzi della polizia giudiziaria (la squadra mobile e la polizia municipale di Potenza e i carabinieri del Noe del capitano Ultimo) che hanno collaborato con me». Così il pm Della Dda di Napoli Henry John Woodcock commenta l’esito del processo a Potenza scaturito dall’inchiesta Tempa Rossa, coordinata negli anni scorsi dal magistrato quando era sostituto alla procura del capoluogo lucano.
Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo». Scontro con la minoranza. M5S presenta la mozione di sfiducia, scrive Alessandro Trocino su "Il Corriere della Sera” il 4 aprile 2016. «Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza». Conclude così la sua replica Matteo Renzi, a una direzione del Partito democratico più nervosa del previsto e che, dopo i duri attacchi della minoranza, approva la relazione del segretario con 98 voti favorevoli e 13 contrari. Renzi rivendica lo sblocco del progetto Tempa Rossa, che è costato le dimissioni del ministro Federica Guidi e sul quale c’è un’inchiesta della magistratura: «Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». Parole che arrivano qualche minuto dopo che il ministro Maria Elena Boschi, in un ufficio decentrato di Palazzo Chigi, è stata sentita dai magistrati come persona informata dei fatti. E pochi minuti prima della condanna degli ex vertici della Total per turbativa d’asta e corruzione nella vicenda Tempa Rossa. Renzi difende appassionatamente l’operato del governo: «Noi schiavi delle lobby? Ma le multinazionali oggi creano 1,2 milioni di occupati, il 14% del Pil e il 25 dell’export». Le inchieste: «Noi non siamo come gli altri. Se qualcuno ruba, si proceda e si metta in galera». E rivendica la diversità anche su altro: «Non farò più di due mandati. Fuori di qui ci sono due nemici: populismo e demagogia». Renzi deve subire il duro attacco di Gianni Cuperlo: «Matteo, penso che tu sia profondamente onesto. Ma non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo». E ancora: «Sento il peso di stare in questo partito». Il governo dovrà fare fronte anche alla mozione unitaria presentata dal centrodestra e a quella del Movimento 5 Stelle. Che recita: «L’inchiesta petrolio svela l’operato di un articolato e consolidato comitato d’affari».
Inchiesta Petroli in Basilicata, quello che sappiamo. Dai nomi dei personaggi coinvolti fino alle ipotesi di reato: una guida per capire l'indagine che sta facendo tremare il governo Renzi, scrive il 4 aprile 2016 "Panorama".
Quali sono le conseguenze politiche? Dopo che è caduta la testa del ministro Federica Guidi, Maria Elena Boschi, 35 anni, è finita nel mirino delle opposizioni e sarà interrogata dagli inquirenti. Le chiederanno con ogni probabilità se era conoscenza del legame tra il ministro e l’imprenditore indagato e se sapesse della convenienza che questa ne avrebbe ricavato dallo sbloccamento dell’operazione Tempa Rossa della Total. Il ministro Boschi ha non solo per ora negato di sapere chi fosse l'imprenditore siracusano che sollecitava l'introduzione dell'emendamento che avrebbe consentito alla sua azienda di aggiudicarsi alcuni appalti milionari, ma ha difeso la ratio del provvedimento: «Conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno della Guidi o chiunque altro ha violato la legge è giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia». Sono già state presentate due mozioni di sfiducia al governo: una dei Cinque Stelle e un’altra di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’indagine della Procura di Potenza che ha provocato le dimissioni del ministro Guidi, nota come Scandalo Petroli, fotografa un quadro politico inquietante. Un affresco, secondo l'accusa, costruito attorno agli interessi lobbistici e ai perversi intrecci tra la politica e i vertici industriali dell'Eni e della Total, all'interno di un sistema clientelare del quale i soggetti-chiave erano non solo i dirigenti dei colossi petroliferi, ma anche uomini delle amministrazioni locali e del governo centrale che avrebbero dovuto vigilare, nonché ditte appaltatrici che avrebbero goduto di trattamenti di favore. Partita dai carabinieri del NCO che stavano indagando su un traffico di rifiuti tossici prodotti negli stabilimenti petroliferi in Basilicata, l'inchiesta muove da un'ipotesi: che i rifiuti liquidi prodotti dall’attività estrattiva degli impianti petroliferi presenti in Basilicata venissero sistematicamente classificati come non pericolosi e dunque versati nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, al fine di abbattere i costi di smaltimento. Con ovvie ricadute sull'ambiente e sulla qualità della vita della cittadinanza. E con la complicità interessata di uomini della Politica.
Quali sono le ipotesi di reato? L’ipotesi di reato, in generale, è quello di disastro ambientale, una fattispecie specifica introdotta nella nuova legislazione del maggio 2015 che prevede dai 5 ai 15 anni di carcere per chi se ne renda responsabile. Il disastro ambientale viene definito dal codice penale come «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Ma ci sono altre ipotesi di reato, perché attorno al reato principale - il disastro ambientale - si muovevano ditte appaltatrici e pezzi di politica locale e regionale, in un quadro corruttivo e apparentemente privo di controlli adeguati.
In quali filoni è composta l'inchiesta? Il primo, affidato ai carabinieri del Noe, riguarda l'impianto Eni di Viggiano, operativo in Basilicata, che secondo l'accusa - e con la complicità degli organismi di controllo e della politica nazionale e locale - avrebbe continuato a sversare nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, i suoi rifiuti tossici, sforando anche sistematicamente sui limiti delle emissioni previste per legge. Il secondo filone di indagine, seguito dalla squadra mobile della Polizia di Stato, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total, nell'alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, e che secondo i giudici avrebbe dato il via a un sistema oliato di corruzione e tangenti per l'assegnazione degli appalti e dei subappalti in relazione alla costruzione e ai lavori dell'impianto. Il terzo filone riguarda il porto di Augusta, attorno all'ipotesi di traffico di influenze e traffico illecito di rifiuti, all'interno di una più vasta associazione a delinquere alla quale facevano parte, secondo la procura, il capo di Stato maggiore della marina Giuseppe De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, per il quale la procura potrebbe chiedere l'arresto, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore-lobbista Nicola Colicchi.
Che cosa ha portato alle dimissioni del ministro Guidi? In una telefonata intercettata il 13 dicembre 2014 il ministro Guidi rassicura il compagno che un emendamento alla Legge di stabilità sbloccherà l’operazione Tempa Rossa, sottolineando anche il voto favorevole di Maria Elena Boschi, cui era interessato lo stesso Gianluca Gemelli, 42 anni, commissario di Confindustria siracusana e noto imprenditore edile siciliano, nonché compagno del ministro dello Sviluppo.
Perché è coinvolto anche il sindaco di Corleto Perticara? La Procura di Potenza ha dedicato a Rosaria Vicino, Pd, 62 anni, 800 pagine di ordinanza di custodia cautelare e 13 capi di accusa, tra cui corruzione, peculato e voto di scambio. Dalle intercettazioni emergerebbero pressioni per far assumere il figlio all’Eni e quali fornitori utilizzare. Ma il sindaco – stando ad alcune telefonate intercettate - si sarebbe mosso anche per raccomandare altre personaggi e far loro avere gli appalti necessari alla prosecuzione dei lavori dell'impianto Tempa Rossa di Corleto Perticara, la cittadina di cui era sindaco. È coinvolto nell'inchiesta, secondo l'intercettazione, anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo che - per i servigi resi - «avrebbe a sua volta ricevuto dall'Eni un hotel a Milano».
Quali possono essere le conseguenze economiche della vicenda? Dopo l'apertura dell'inchiesta, che ha svelato un sistema ben oliato di corruzione e omessi controlli, l'Eni ha deciso di sospendere le estrazioni del petrolio in Basilicata, in particolare in Val D’Agra dove si estraggono 75 mila barili al giorno e dove c'è il giacimento di Viggiano, il più importante d’Europa dopo quelli russi. Anche i dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati sospesi.
Un dossier anonimo contro l’ammiraglio De Giorgi: “Ecco tutte le spese pazze”. Inchiesta di Potenza, spuntano documenti sul capo di stato maggiore della Marina: «Festini e scambi di interessi con il fidanzato della ministra Guidi», scrive Grazia Longo il 12 aprile 2016 su “La Stampa”. La stagione dei veleni è appena cominciata. Non si sono ancora placate le polemiche per il dossier contro il ministro Graziano Delrio, che ne spunta fuori un altro. Stavolta nel mirino c’è il capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, al centro del filone siciliano dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. È probabile che di questo dossier si discuta venerdì alla Procura di Roma nell’incontro previsto fra il procuratore Pignatone e il collega di Potenza Luigi Gay quando verrà affrontato anche il dossier che riguarda il ministro. Questa tranche in particolare verrà trasferita a Roma, mentre si stanno ancora valutando eventuali altri passaggi. Contro di lui c’è un dossier anonimo che è stato consegnato alla procura di Potenza, alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Documenti, allegati, che contestano l’operato e le spese folli dell’alto ufficiale della Marina, in pole position, fino a poco prima dello scandalo, per diventare il nuovo capo della Protezione civile. Festini e spese pazze sono denunciate dalla gola profonda che accusa De Giorgi. Si legge ad esempio dei «festini da lui organizzati da comandante a bordo della nave Vittorio Veneto... con tanto di trasferimento a mezzo elicottero, di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da comandante della nave Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati a un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco». Grande amante del lusso, secondo il dossier, l’ammiraglio fece spendere 42 milioni di euro per rifare l’area delle cabine degli ufficiali della nave Bergamini, dopo una visita a Fincantieri. Nell’inchiesta di Potenza - il procuratore Luigi Gay, l’aggiunto Francesco Basentini, la pm Laura Triassi e Elisabetta Pugliese della Dna - l’ammiraglio è accusato di abuso d’ufficio. Il sospetto è che ci sia stato uno scambio di «interessi» tra lui e il fidanzato dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. L’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli - anche in questo caso indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra - avrebbe avuto il suo tornaconto grazie alla costruzione di un pontile per lo stoccaggio del petrolio. In cambio avrebbe speso la posizione della Guidi per uno stanziamento del ministero delle Finanze. Più in particolare, si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale. Nelle pagine del dossier anonimo (che come tale va preso con tutte le cautele), viene rappresentato un capo di stato maggiore che folleggiava a champagne, intimoriva i sottoposti, i quali solo per paura non ne denunciavano l’atteggiamento. Fango e menzogne contro l’ammiraglio? La sua carriera militare è senza macchia. Venerdì mattina, intanto, verrà interrogato in procura a Potenza in merito all’accusa di abuso d’ufficio. Inevitabilmente, anche se non c’entra con le indagini, l’attenzione ricadrà sul dossier e sulla sua immagine in sella al cavallo bianco. La gola profonda sostiene di essere un militare della Marina che preferisce restare anonimo per paura: «Non ho il coraggio di venire allo scoperto perché ho già abbondantemente pagato per non essermi piegato alle richieste del capo di Stato maggiore». De Giorgi, secondo quanto stigmatizzato nel dossier, volle spendere cifre da capogiro per il quadrato e le cabine degli ufficiali. Ben 42 milioni e 986.000 euro che l’ammiraglio «cercò di coprire con un auto investimento da parte di Fincantieri che invece non aveva alcuna intenzione di finanziare neanche parzialmente e quindi si spesero decine di milioni del contribuente». C’è poi un altro importante business nel campo dei mezzi navali per attività di spionaggio e che fa parte del rinnovamento della flotta navale per oltre 5 miliardi all’attenzione della procura di Potenza: «la produzione di unità sottili stealth ad altissima velocità, con scafi e strutture di carbonio trattato con l’applicazione delle nanotecnologie». De Giorgi ci teneva tantissimo, al punto che «propose con una lettera al capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli, chiedendogli l’approvazione a firmare una convenzione con la società As Aeronautical». È quanto riportato in una lettera del 30 novembre 2013, allegata al dossier. La gola profonda denuncia che «l’Aeronautical Service tecnicamente non esiste e non dispone di apparecchiature, né di maestranze all’altezza. Il suo responsabile, ingegner Bordignon, millanta coperture illustri come De Giorgi e Valter Pastena». Proprio quel Pastena, consulente dell’ex ministra Guidi, anche lui indagato a Potenza. Per quanto concerne invece i party con i soldi pubblici, l’anonimo racconta: «Famosi sono stati i festini organizzati dal comandante a bordo della Vittorio Veneto in navigazione, con tanto di trasferimento a mezzo elicottero di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da Comandante della Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati ad un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco appositamente noleggiato. Tutti sapevano e tutti, per paura delle sue vendette, tacevano circa l’uso improprio che l’ammiraglio, una volta diventato capo delle Forze Aeree della Marina, faceva degli elicotteri e soprattutto del velivolo Falcon 20 che in versione Vip lo trasportava continuamente come in un taxi, spesso in allegra compagnia da una parte all’altra dell’Italia, per l’esaudimento di interessi personali ma a spese del contribuente».
AMM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".
“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.
Nuove ombre su De Giorgi: "Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".
Scoppia il caso sulle caprette di De Giorgi. "Noi, zimbelli della Nato". Le caprette tosaerba all'Arsenale militare di Venezia. Animali che brucano per risparmiare sui giardinieri. Svelata un'altra stravaganza del militare ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina. E i colleghi francesi, inglesi e spagnoli emettono sarcastici belati se si trovano in missione con un marinaio italiano, scrive Fabio Tonacci il 13 aprile 2016 su “La Repubblica”. "I marinai fanno “beee...”. Grazie alle caprette tibetane di Giuseppe De Giorgi, i nostri militari della Marina sono diventati lo zimbello della Nato. Perché l'idea di sostituire i giardinieri di alcune basi con delle capre, magari ha pure una sua ragione ecologista. E magari fa risparmiare qualche spicciolo sulla manutenzione dei prati. Ma il punto è che da un anno a questa parte, i colleghi francesi, inglesi e spagnoli sfottono senza pietà, emettendo dei dolorosi e sarcastici belati appena si trovano in missione con un marinaio italiano. Ora, questa storia delle caprette inserite nell'organico dell'Arsenale militare di Venezia (tre capre alpine), nella stazione aeromobili di Marina di Grottaglie e in una base a Cagliari (una trentina in tutto, di specie tibetana), rientra nel ventaglio delle stravaganze a cui De Giorgi ha abituato i suoi sottoposti, ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina nel dicembre 2012. E paragonata alle accuse che gli vengono ora rivolte dai pubblici ministeri di Potenza (abuso di ufficio e traffico di influenze per il porto di Augusta) e da un esposto anonimo su presunte commesse milionarie poco chiare della Marina, qui siamo nel campo del colore. Ma fino a un certo punto. Perché le povere caprette sono diventate un problema serio. Sporcano, ovviamente. Hanno bisogno delle cure dei veterinari, ovviamente. E non rispettano le consegne del codice militare, ovviamente, per cui una di queste è rimasta incinta, altre vagano nelle basi in cerca di cibo. Costringendo i marinai a fare i pastori. Era stato il Fatto Quotidiano, ad ottobre scorso, a raccontare la loro presenza nelle caserme. Tutto era nato da una battuta, che battuta non era, pronunciata da De Giorgi durante alcune visite ufficiali alle basi. A chi gli faceva notare l'erba alta causata dalla mancanza di fondi per pagare i giardinieri, il capo di Stato Maggiore rispose: “Metteteci delle capre, che sono anche ecologiche”. Così un sottoufficiale dell'arsenale di Venezia preposto alla salute, con 22 anni di servizio alle spalle, racconta a Repubblica quello che successe dopo la visita di De Giorgi: “Ci siamo visti recapitare tre caprette nell'agosto scorso, forse donate da qualche allevatore veneto. C'erano una decina di marinai nell'Arsenale in quel momento, e alcuni di loro si sono dovuti occupare della gestione degli animali. Oltretutto, erano state vaccinate? Erano capi registrati all'ufficio sanitario? E c'era un ordine di servizio per cui ci dovevamo mettere a spalare il letame? Cosa fare nel caso di decesso, visto che ci potrebbero essere rischi di brucellosi? Nessuno mi dava risposte, e allora mi sono permesso di scrivere al mio superiore osservando che le capre starebbero molto meglio in libertà sulle Dolomiti. Risultato? Tre giorni di rigore e procedimento disciplinare. Ora sono in attesa di trasferimento”. Le caprette di De Giorgi sono intoccabili, come le vacche in India. “L'ultima volta che sono andato all'Arsenale per alcune pratiche amministrative – dice il sottoufficiale – ne ho viste due, diverse rispetto alle prime che abbiamo avuto”.
Nell'imbarazzo generale, la questione è arrivata anche in Parlamento, grazie all'interrogazione rivolta al ministero della Difesa dall'onorevole di Sel Donatella Duranti. E' questa è la risposta del sottosegretario Domenico Rossi: “E' vero, in alcune basi sono presenti capre di tipo alpino o misto tibetano oggetto di donazione, nonché alcuni daini prelevati dalla tenuta di San Rossore. In virtù delle loro abitudini alimentari, esse si nutrono di erba contribuendo in tal modo a tenere sotto controllo la crescita della vegetazione, anche in funzione antincendio. Sono ospitati in ampie, dedicate e circoscritte aree verdi all’interno delle quali sono garantite adeguate coperture e ricoveri per preservarli dalle intemperie, dalle piogge e dai rigori termici. Sono stati regolarmente vaccinati ed è stato richiesto il rilascio del codice di identificazione, come previsto dalla normativa vigente. Possono essere considerati, a buon titolo, delle vere e proprie «mascotte». Adesso basta solo spiegarlo ai marinai francesi.
MAFIA, PALAZZI E POTERE. Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.
Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.
Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..
Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?
V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…
L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?
V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.
L: Eh certo! (ride)
V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…
L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…
Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.
Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?
BUROCRAZIA. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
Burocrazia, Aforismi e citazioni.
“Burocrazia, ovvero un gigantesco meccanismo azionato da pigmei”. Honoré de Balzac
“Non c’è furia all’inferno che eguagli la rabbia di un burocrate disprezzato”. Milton Friedman
“I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano”. Frich Fromm
“I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata. . . .”. Franz Kafka
“Quando il mondo verrà distrutto non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. John Le Carré
“Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati”. Herbert Marcuse
“La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale è lo spiritualismo dello Stato”. Karl Marx
“La burocrazia tende a diventare una pedantocrazia”. John Stuart Mill
“Ciò che la gente rifiuta non è la burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere della vita e delle attività umane”. Ludwig von Mises
“I burocrati sono una malattia. Si suppone che siano necessari, così come si suppone che siano necessarie alla vita certe sostanze chimiche, ma provocano la morte se crescono oltre un certo limite”. Ezra Pound
“Burocrazia. . . . una difficoltà per ogni soluzione”. Herbert Samuel
“Burocrazia, ovvero l’incapacità addestrata”. Thorstein Veblen
“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”. Max Weber
Burocrati..Dal francese “BUREAUCRATE”, impiegati, funzionari della pubblica amministrazione che esercitano le mansioni con eccesivo scrupolo . Per estensione, chi è formalista, gretto e rigido, nato soltanto per fare il Burocrate. 〈〈 La vera Casta è rappresentata dagli alti burocrati di Stato, che sopravvivono ai ministri e ai governi mantenendo intatto il loro potere per anni luce…〉〉
5 pareri sui burocrati:
Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile. (Carlo Dossi)
I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano. (Erich Fromm)
Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati. (Herbert Marcuse)
Non c’è furia all’inferno che uguagli la rabbia di un burocrate disprezzato. (Milton Friedman)
I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende lo stipendio. (Ephaim Kishon)
Burocrazia "stalker": la musicista, il barista e il contadino, quelle vite in ostaggio. C'è chi perde il lavoro per una carta bollata e chi deve spostare una maniglia. La semplificazione resta un miraggio, scrive Michele Serra il 20 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso. Per me la goccia è stato il riscatto dell'automobile che avevo preso in leasing: otto (otto!) i documenti richiesti, da spedire per raccomandata, per ribadire che io sono io a chi già mi ha come fedele cliente da cinque anni e di me sa tutto, a cominciare dall'Iban. Per la mia amica musicista la goccia è stata un lavoro saltato in aria perché il Registro provinciale di Qualcosa non aveva mai trasmesso non so quale fondamentale pratica al competente Registro regionale ("Non farmelo spiegare, ti prego: sono esausta"). Per il mio amico barista l'intimazione della Asl di spostare di dieci centimetri (!!) una maniglia non a norma, pena la mancata agibilità del locale. Per il mio amico agricoltore il disperato sforzo di pagare poche ore di lavoro stagionale con i voucher, che dovrebbero essere moneta corrente e sono invece buro-denaro riscuotibile solo dopo code agli sportelli, telefonate ai call center, decifrazione di clausole, scadenze, modifiche di legge...Se c'è una parola che incarna gli inganni della politica (e l'impotenza della politica) questa parola è semplificazione. Una parola-beffa di fronte alla costante lievitazione dei faldoni, delle incombenze, delle compilazioni, degli iter, delle fotocopie, dei solleciti, delle intimazioni, degli ostacoli imprevisti, di quelli prevedibili, dei ritardi, dei rinvii. La supposta transustanziazione elettronica della massa cartacea non ha avuto luogo; e anzi la burocrazia elettronica (avete mai provato a compilare una Fepa, fattura elettronica per la pubblica amministrazione?) spesso si somma a quella tradizionale, è una promessa di liberazione che si rivela un nuovo vincolo, per giunta non facile da padroneggiare ("Per me è come essere obbligato a imparare una lingua straniera a sessant'anni suonati", parola di artigiano obbligato per legge a fornirsi di Pec, posta elettronica certificata). Non so se sia mai stato calcolato quanto costa alla comunità, in termini di ore di lavoro, mattinate perse, giornate scialate alla ricerca di un bandolo, il vero e proprio stalking burocratico al quale siamo sottoposti. Ne sono certo, si tratta di miliardi di euro. E altri miliardi di euro (e migliaia di posti di lavoro) si perdono con la rinuncia di molti aspiranti imprenditori a fronteggiare la montagna orrenda delle adempienze burocratiche: una salita che non ha mai fine, quando credi di essere arrivato in cima la vetta si allontana, conosco chi, pur di farla finita, ha mollato tutto. "Non è solo fatica - mi dice un'amica ex imprenditrice - è proprio umiliazione. È come se qualcuno volesse punirti per avere osato alzare la testa e aprire bottega". "Umiliazione" non è una parola che si usa con leggerezza. Non appartiene alla sfera delle convenienze economiche, del daffare tecnico-amministrativo, della prassi sociale ordinaria. Appartiene alla sensibilità profonda, alla dignità personale, appartiene all'io. Parla di adulti che si sentono trattati come bambini, rimbrottati per una marca da bollo mancante, multati per un abbaino chiuso invece che aperto o viceversa, costretti per qualunque allacciamento o contratto di servizio ad allegare, confermare, dimostrare, comprovare, rispedire, leggere contatori, rileggerli perché i contatori sono pieni di numeri e codici, chissà quali sono quelli giusti... I tagli di personale conducono a un crescente bisogno (delle aziende) di autocertificazione, ma l'autocertificazione è quasi sempre incompleta, da perfezionare e da rispedire. È come se un intero sistema (pubblico, ma anche privato) di vincoli e di accertamenti ricadesse sull'unico soggetto che non è in grado di sottrarsi: il cittadino, il cliente, che si ritrova a essere esattore di se stesso, certificatore dei consumi, lettore di contatori, dichiaratore di redditi, ascoltatore di musichette di attesa, per giunta continuamente sottoposto a un rischio di errore che ricade sempre e solo su di lui. Gli esami non finiscono mai. L'esempio macroscopico e arcinoto è l'impossibilità di presentare la dichiarazione dei redditi senza l'ausilio di un professionista, augurandosi che almeno lui sappia orientarsi nella foresta delle leggi (e successive modifiche). Molte delle quali "da interpretare", sperando che l'interpretazione non sia contestata innescando un nuovo diluvio di raccomandate, ingiunzioni, ricorsi, un nuovo fronte burocratico che si aggiunge ai cento già aperti. Ma ci sono poi decine di micro-esempi, di minute incombenze, di reiterate richieste che compongono una specie di fitta nube perennemente sospesa sulle nostre giornate. Lo stalking burocratico è fatto soprattutto di questa sensazione: che nessuna pratica sia mai veramente chiusa, che il dover certificare ci accompagnerà alla morte e anche oltre. Ricevo ancora oggi una bolletta intestata a mio padre, che è morto nel 2002. Ho pregato di correggere il nome del destinatario, che è stato così aggiornato: Franco Serra, presso Michele Serra. Mi tiene compagnia. Non è per l'esborso di denaro (anche se quello, specie se non si hanno le spalle forti, conta eccome). È soprattutto per il tempo. Il tempo della vita (della nostra vita) che ci urge, ci appartiene, e invece viene sequestrato da code, telefonate, consultazioni, ricerche su internet, compilazioni, richieste di accesso. E i pin, e le password, un mazzo di chiavi virtuali che si ingrossa giorno dopo giorno. Tempo rubato al lavoro e dunque alla produzione di reddito e di idee. Oppure all'ozio, al riposo, al far niente, che sono anch'essi un diritto della persona libera. E non sembri, la liberazione del tempo dalla prigionia burocratica, solamente una rivendicazione "filosofica". Ha anche profonda rilevanza economica. C'è un "nero" di puro malaffare, di sottrazione alla comunità di quanto le è dovuto. Ma c'è un "nero" di pura semplificazione (semplificazione dal basso, visto che dall'alto non ce n'è traccia), che discende dall'enorme difficoltà di stare dentro la regola. Se pagare a qualcuno poche ore di lavoro "in chiaro" comporta non solamente pratiche e contropratiche, ma addirittura l'obbligo di frequentare un corso sulla sicurezza (indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia in cima a un'impalcatura, in fondo a un pozzo oppure seduto in ufficio davanti al suo computer), la tentazione di allungargli tre o quattrocento euro brevi manu è inevitabile. Molta economia sommersa (chissà in quale percentuale: ma non piccola) non discende dalla disonestà, ma dall'esasperazione per i troppi ostacoli lungo il cammino che conduce all'onestà. Se l'onestà diventa un campo minato, c'è chi decide di tenersene alla larga. Quanti onesti potenziali sarebbero recuperabili alla causa, in presenza di un vero processo di semplificazione delle leggi e della burocrazia? Per buttarla in politica: sappiamo tutti che le regole devono esserci, e spesso le regole sono seccature. Ma se le regole sono poche e chiare ci si adegua, e chi non si adegua è un fuorilegge e basta. Se invece le regole sono milioni, e incerte, e per essere rispettate chiedono di essere decifrate, risolte come un rebus, affrontate come un esercito nemico, e mettersi in regola diventa un traguardo continuamente spostato in avanti, allora il gioco cambia. E anche a un legalitario/statalista come me a volte capita, di notte, quando non riesco a prendere sonno perché temo di avere compilato male un modulo, o di essere in mora con un ente di bonifica, di guardare con occhi sognanti quei documentari sulle famiglie pazzoidi che fuggono in Alaska, nel profondo delle foreste, là dove non esiste catasto e non esiste anagrafe. Costruiscono una capanna di tronchi e vivono di pesca e di caccia, spariti al mondo e restituiti al mondo.
Regolamento edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione. Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne bastarono 18. I ritardi nell’elaborazione del testo, previsto dalla legge Sblocca Italia sulla semplificazione, che dovrebbe unificare le norme in uso in ciascuno degli 8 mila Comuni italiani, scrive Sergio Rizzo il 26 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Dice tutto, a proposito della deriva imboccata dalla burocrazia made in Italy, un paragone. In 18 mesi, settant’anni fa, abbiamo fatto la Costituzione; in 21, oggi, non siamo in grado di scrivere nemmeno un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni italiani. Altri tempi, certo. Ma anche altra classe dirigente. La Carta costituzionale fu scritta dall’Assemblea costituente, che con tempi contingentati e una volontà di ferro riuscì a superare barriere ideologiche apparentemente insormontabili. La redazione del regolamento edilizio unico, previsto dalla legge Sblocca Italia, è invece affidata a un pool di burocrati tanto eterogenei quanto litigiosi, e siamo adesso appena all’elenco delle cosiddette «definizioni uniformi». Per capirci: si sono messi finalmente d’accordo sulle parole, convenendo che il «sottotetto» è «lo spazio compreso tra l’intradosso della copertura dell’edificio e l’estradosso del solaio del piano sottostante». Oppure che un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» si identifica con il termine «veranda». E non è stata una passeggiata. Sul concetto di superficie, per esempio, la Regione Lombardia ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni ne sono venute fuori ben sei: superficie lorda, totale, complessiva, utile, calpestabile e accessoria. Dove, per avere un’idea dell’imbuto in cui i burocrati incaricati di semplificare si sono infilati, la differenza fra «totale» e «complessiva», parole che a prima vista sembrerebbero indicare la stessa cosa, è che la seconda è la somma della superficie «utile» (differente da quella «calpestabile», ovvio) più il 60 per cento di quella «accessoria». Il regolamento edilizio unico comunale, previsto dalla cosiddetta legge Sblocca Italia approvata dal Parlamento l’11 novembre 2014, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione mettendo fine una volta per tutte al dedalo incredibile di norme locali in un Paese dove ognuno degli oltre ottomila Comuni ha proprie regole per stabilire come si tirano sui muri, quanto può essere grande una stanza da letto o un cortile, come si deve calcolare la grandezza di un ambiente. Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano un’eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è possibile fare i cortili solo nei condomini non popolari. Mentre a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi... Ventuno mesi, dicevamo, ci sono voluti solo per stabilire come chiamare le cose. Ora si è arrivati all’intesa sulle definizioni, che fa «auspicare» alla ministra della Semplificazione e della Pubblica amministrazione Marianna Madia «che lo schema tipo» del regolamento edilizio «si concluda rapidamente». Auguri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, come dimostra il caso surreale delle sei definizioni di superficie, è d’obbligo incrociare le dita. Non sfugge affatto la complessità della questione. Né che non si può evitare, in casi come questi, di ascoltare tutte le campane. Il problema però è di fondo: ogni volta che si vuole fare una riforma si commette sempre il medesimo errore. Quello di farla fare ai burocrati. Perché affidare a loro il compito di riformare se stessi è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale. Ogni semplificazione vera toglie inevitabilmente a una burocrazia congegnata come la nostra (malissimo) un pezzetto di potere: il rischio è dunque che le semplificazioni non procedano o che dietro una semplificazione si nasconda in realtà una nuova complicazione. Tanto più vero, questo, se la riforma riguarda temi sui quali si intrecciano competenze di più burocrazie. In questo caso specifico le burocrazie statali, regionali e comunali. Un delirio di interessi contrapposti ben rappresentati nel pool incaricato di sciogliere i nodi del regolamento edilizio unico. Il bello è che tutto questo meccanismo infernale rientra nell’agenda governativa battezzata, pensate un po’, «Italia Semplice». Gli ottimisti che l’hanno congegnato hanno scritto nel sito ufficiale che doveva essere tutto finito «entro novembre 2015».
La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili 21 mag 2014 di Paolo Bracalini (Autore). C'è il ristoratore multato per aver servito troppi spaghetti. Ci sono le 118 procedure da compilare per legge se si vuole aprire un'attività da estetista. C'è la famigerata "tassa sull'ombra", dovuta allo Stato per l'ombra che le tende dei negozi proiettano sul suolo pubblico, e la dichiarazione "peli di foca" per chi esporta un prodotto. C'è Equitalia con il suo "aggio", l'interesse praticato sulle temibili cartelle esattoriali, e le sue vittime. E poi l'Agenzia delle entrate con i premi per chi tartassa di più (spesso a torto). Ogni anno la burocrazia italiana costa 31 miliardi di euro: due punti di Pil persi in scartoffie e pratiche inutili. Si può dire che tutto manchi all'Italia, tranne le regole. Al contrario, i proverbiali lacci e lacciuoli, il groviglio di leggi - statali, regionali, provinciali, comunali - è così intricato che la giungla normativa italiana non ha paragoni in Europa e contribuisce all'indebolimento dei diritti dei "sudditi". I "mandarini", invece, comandano nell'ombra, con un potere enorme: nei ministeri, nella Ragioneria di Stato, nelle segrete stanze del Tesoro e del Quirinale, ma anche nei Tar che paralizzano il Paese. Paolo Bracalini ci guida nel mastodontico intreccio della burocrazia italiana con un'inchiesta che è anche un pugno allo stomaco: storie vere, testimonianze, documenti, cifre e resoconti di una follia tutta nostrana... Prefazione di Edward N. Luttwak.
Libri, la Repubblica dei Mandarini: lo Stato non siamo noi, scrive Giacomo Zucco il 3 giugno 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lo Stato siamo noi? No, sono loro!”. Queste sono le prime parole che ho potuto leggere aprendo il nuovo libro di Paolo Bracalini, “La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell’Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili”. E per un teapartysta è come un invito a nozze. Da quattro anni, ormai, andiamo ripetendo che lo Stato è altro da noi, perché se fossimo davvero noi, citando un amico, allora di certo ci tratteremmo meglio (pensateci: se noi fossimo lo Stato non ci ammazzeremmo a colpi di tasse, non ci complicheremmo la vita con tutta questa burocrazia, non faremmo di tutto per far fallire le nostre aziende, non ci metteremmo Equitalia alle calcagna)! Se a ciò aggiungiamo che nella prefazione il professor Luttwak cita direttamente i nostri cugini americani, riconoscendo i meriti delle loro battaglie, ecco che questo libro-inchiesta si va a posizionare automaticamente nella biblioteca degli attivisti del movimento. Scrive Luttwak (forse con un piccolo eccesso di ottimismo verso l’attuale situazione politica ed economica americana) che “il movimento dei Tea Party ha giocato un ruolo fondamentale in Usa permettendo di raggiungere un livello di crescita, superiore a quello italiano del 250%, con relativo crollo della disoccupazione, semplicemente tagliando la spesa pubblica. Democratici e repubblicani hanno fatto proprie le idee del Tea Party: se si licenziano 100 dipendenti pubblici e si tagliano le tasse, con il risparmio la disoccupazione non aumenta di 100, ma diminuisce di 300”. E conclude: “Il libro di Bracalini non è mera protesta. Offre l’unica soluzione possibile: tagliare lo Stato”. Ad ufficializzare questa vicinanza tra il libro e le idee del movimento, Tea Party Italia a partire dal 20 giugno inizierà un tour di presentazione del libro in diverse città della penisola (similmente a quanto già fatto con il precedente best seller di Bracalini: “Partiti S.p.a.”), in compagnia dell’autore e di Nicolò Petrali, un giovane e bravo giornalista che ha collaborato alla stesura dell’opera. Non vorrei comunque si pensasse che “La repubblica dei mandarini” sia una lettura consigliabile solo per chi ha delle idee simili alle nostre. Anzi, oserei dire che è proprio il contrario. Un antistatalista convinto, infatti, può solo “divertirsi” a vedere come, pagina dopo pagina e di capitolo in capitolo, le sue idee di partenza vengono confermate. Può scoprire nuovi dettagli e curiosità con un sorriso amaro stampato sul volto, crogiolandosi comunque in quello che è il suo habitat naturale. Al contrario, proprio gli statalisti (ovvero coloro che costituiscono purtroppo la gran parte della società italiana) potrebbero ricavare il miglior beneficio dall’approccio a questo libro. Perché per una volta ascolterebbero una musica diversa dal solito e una voce fuori dal coro. Il mio “consiglio alla lettura” si rivolge allora soprattutto a questi ultimi: se davvero siete così superstiziosi da credere che “lo Stato siamo noi”, che “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”, che “se l’Italia è in difficoltà è colpa dell’evasione fiscale”, affrettatevi a leggerlo: potreste scoprire qualcosa.
BENVENUTI NELLA REPUBBLICA DEI MANDARINI - NEL NOSTRO PAESE LA VERA CASTA E' RAPPRESENTATA DAI BUROCRATI. E' PER QUESTO CHE E' ARDUO SE NON IMPOSSIBILE CAMBIARE VERAMENTE LE COSE IN ITALIA. Come racconta Bracalini, Bassanini, presidente della Cdp, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese private. Ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto…Testo tratto dal libro di Paolo Bracalini, giornalista del Giornale, "La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili" (Marsilio, 198 pagine, 14 euro), in libreria da pochi giorni. Da "il Foglio". Ispettorato generale del bilancio della Ragioneria dello Stato. Mai sentito nominare? Probabilmente no. Eppure è l'ufficio che governa la spesa pubblica italiana, un enorme centro di potere al riparo da sguardi indiscreti, nella penombra in cui ama stare la grande burocrazia italiana, quel "mandarinato" pubblico che è il vero governo occulto del paese. "Ho fatto quattro volte il ministro e qualsiasi cosa tu possa scrivere per denunciare quanto contano queste persone sarà sempre una parte infinitesimale della realtà. Lo stato sono loro e la Repubblica è appesa alle loro decisioni", racconta Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture, parlando dei superburocrati che decidono tutto nei ministeri. "Nel 2001 nominai capo di gabinetto ai Lavori pubblici un professore, Paolo Togni, e la Corte dei conti rifiutò di registrarlo perché, dissero, non aveva i titoli. Chiesi allora che titoli servissero. Muta risposta. Ma nel silenzio fecero pressioni su Palazzo Chigi per far nominare uno dei loro: un magistrato contabile o uno del Consiglio di Stato o uno del Tar". Ci volle un mese perché Togni fosse messo nelle condizioni di ricoprire l'incarico. Ma non sempre si vince il braccio di ferro con la burocrazia ministeriale, più spesso sono loro a trionfare. "Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia", spiega l'economista Francesco Giavazzi. "Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo". Giavazzi ha imputato alla scelta di mantenere al loro posto, "quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri", il vero motivo dell'insuccesso di Mario Monti nel taglio alla spesa pubblica. Ma il professore ricorda come questo problema sia una costante per i ministri. Anche quelli più lontani dall'apparato burocratico pubblico finiscono inevitabilmente per sbatterci la testa. Successe a Giancarlo Pagliarini, primo ministro delle Finanze della Lega Nord, nel 1994. Un marziano a Roma, un fiscalista del Nord che mai aveva avuto a che fare con quel mondo. Al suo primo giorno di lavoro Pagliarini si trovò di fronte un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile: "Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno". Inutile dire chi, tra la Ragioneria e Pagliarini, ha vinto la battaglia. L'ex ministro del Bilancio leghista ricorda perfettamente l'enorme potere di interdizione della burocrazia ministeriale. "Prendiamo come esempio la legge più importante che approva il governo", spiega Pagliarini, "e cioè la legge finanziaria. Negli ultimi anni la legge finanziaria è sempre passata con il maxiemendamento. Bene, il Parlamento lo approva di fatto senza averlo letto. Ma non l'ha letto perché non è scritto. Sì, ci sono dei punti generali, ma poi sono i burocrati che lo scrivono due o tre mesi dopo l'approvazione. E quindi come si fa a sapere come lo scrivono? In sostanza il testo che tu approvi, magari come ministro, quindi anche con delle responsabilità importanti, non lo leggi nemmeno perché non c'è, non esiste ancora". E a proposito delle sorprese che i burocrati possono riservare nell'implementare una legge, ecco che Pagliarini ci porta un esempio davvero sconcertante. "Quando si parla di burocrazia amo raccontare la storia dei Giochi del Mediterraneo di Bari. Ecco come è andata: il giorno prima del Consiglio dei ministri va in scena il preconsiglio dei ministri. Al preconsiglio ci vanno i vari capi di gabinetto che discutono e poi tornano dal ministro e gli riferiscono i risultati dell'incontro. Quindi vengono da me e mi dicono che ci sarebbero queste venti leggi da approvare e che mi consigliano di farlo poiché ci sono dei problemi da approfondire l'indomani. Il problema principale è che la destra vorrebbe 5 miliardi di lire per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari. Al che mi dicono che è inutile far casino per 5 miliardi, anche perché, se il ministro si dovesse impuntare su ogni singola voce di spesa, non se la caverebbe più e che quindi sarebbe consigliato concederglieli. Il giorno dopo la prassi vuole che si approvino le voci non problematiche, si leggano solo i titoli e si approvino. C'è una cartellina con i documenti, ma di solito non si guarda mai. Bene, io quel giorno per curiosità la guardo e cosa scopro? Una cosa incredibile! Mi avevano detto 5 miliardi, ma qualcuno di notte aveva aggiunto uno zero ed erano diventati 50! E la frase non era più... "per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari", ma... "per consentire l'inizio dei Giochi del Mediterraneo di Bari". Io di queste cose ho le fotocopie a casa. Così funziona la burocrazia. E i giochi di Bari, dovete moltiplicarli per mille. Qualcuno negli uffici, a livello amministrativo cambia le carte in tavola! Loro sono consapevoli che nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a leggere sempre tutta la documentazione e se ne approfittano. Sanno che il linguaggio burocratico lo capiscono solo loro e che il politico è sostanzialmente obbligato ad approvare anche per via di pressioni esterne. Perché, per esempio, a me dicevano che bisognava approvare entro una certa scadenza sennò scattava l'esercizio provvisorio". Un po' più ottimista è invece Adriano Teso, sottosegretario del ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel 1994. Uno che, con il ruolo che aveva, di magagne burocratiche ne ha viste parecchie. "Hai il potere di cambiare tutto", ha spiegato Teso, "se porti in Parlamento politici di una certa pasta. Ci vuole etica e capacità. Certo che se parti con politici con etica e capacità discutibili, il risultato è scarso. Pensate che io avevo addirittura portato nel mio gabinetto una mia persona per controllare i testi di legge perché capita che i tuoi dirigenti ti preparino delle leggi diverse rispetto a quelle che tu dicevi che dovevano essere fatte. E vi assicuro che sono degli artisti in questo, con il loro linguaggio criptico (come da decreto, rinviato al, la legge del... ecc.). E se un giorno ti impunti e dici di non voler firmare più niente e che vuoi vedere le carte, ti arrivano carrelli di roba alti un metro e mezzo per leggi anche di una pagina. Secondo me", prosegue, "esistono due aspetti di questa burocrazia deleteria. Uno che parte dal legislativo, perché hai un'infinità di leggi che poi, per gestirle e implementarle, ti portano per forza a un eccesso di burocrazia. Non per niente nel nostro paese c'è un eccesso legislativo. Abbiamo un impianto legislativo senza paragoni nel mondo. Poi c'è la parte organizzativa della burocrazia e quello è un processo interno dei burocrati. In più c'è anche un discorso di buona fede. Perché spesso la burocrazia non è allineata con gli obiettivi della legge, ma con obiettivi propri". A detta di Sabino Cassese, invece, il sabotaggio burocratico è una prassi. "Ricordo che Andreotti si portò come capo di gabinetto a Palazzo Chigi l'ex ragioniere generale Milazzo, e non c'è dubbio che Milazzo avesse un potere enorme", racconta Cassese intervistato da Andrea Cangini sul "Quotidiano Nazionale". "Persino Stammati, ministro del Tesoro ed ex ragioniere a sua volta, faticava a farsi ascoltare. Il fenomeno del sabotaggio burocratico è stato ampiamente studiato, accade quando le burocrazie si sostituiscono al potere politico e decidono cosa fare e quando farlo. Ricordo il caso di un noto capo di gabinetto contrario a certi cambiamenti nell'amministrazione previsti da una legge appena varata. Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge. L'Italia è caratterizzata dal fatto che i governi o durano poco, o hanno una scarsa coesione e una modesta capacità di leadership, o entrambe le cose contemporaneamente. Tutto ciò, unito all'incultura e all'inesperienza di certi ministri, fa sì che si formino sacche di amministrazione che vanno in direzione diversa da quella voluta dalla politica". La precarietà dei ministri, in confronto all'eternità dei burocrati, rende questi ultimi spesso molto più potenti dei politici, trattati con sufficienza dai mandarini di Stato che sanno di essere più forti. L'oscurità e la complessità delle leggi, invece, è fatta apposta per perpetuare il potere della casta burocratica. "I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili", dice a Cangini un ex ministro che vuole restare anonimo. Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, la cassaforte finanziaria del paese, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione italiana verso le imprese private, ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto. La soluzione era una semplice cartolarizzazione: i debiti, garantiti dallo Stato, vengono trasferiti dalle imprese alle banche, che liquidano immediatamente le imprese immettendo così miliardi nell'economia. Poi lo Stato garantisce, attraverso la Cassa depositi e prestiti, che le banche vengano rimborsate dalla Pa, con un piano di rientro distribuito in un arco di più anni. "Le banche italiane avrebbero comprato volentieri i 90 miliardi di euro di debiti garantiti dallo Stato", racconta Bassanini, intervistato da Alan Friedman. "Sarebbe stata un'operazione virtuosa che immetteva in un colpo solo 60-70 miliardi nell'economia italiana e dava benzina all'economia, senza incidere sul deficit neanche dello zero per cento". Le imprese verrebbero pagate subito (dalle banche), lo Stato potrebbe ripagare i debiti nel tempo, mentre le banche avrebbero la convenienza di poter compensare i propri crediti con le imprese. Tutti contenti, dunque. La Spagna lo ha fatto e ha funzionato, nel Parlamento italiano, poi, c'era la maggioranza pronta a votare il piano Bassanini. E allora, come mai non si è fatto? "C'è stata una forte resistenza burocratica... In questo caso specifico la tesi (dei vertici del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato) era che l'Europa non ce lo avrebbe permesso. La burocrazia italiana, tanto più quando è preparata e forte, spesso usa l'Europa come pretesto per non fare le cose che non vuole si facciano. Ci sono diverse cose che servirebbero alla crescita del paese e che trovano resistenze non politiche ma burocratiche". La vera casta sono i burocrati. Per questo è arduo, se non impossibile, cambiare veramente, in Italia. Prova ne sia il documento di "passaggio di consegne" affidato dal ministro dell'Economia uscente, Fabrizio Saccomanni, a quello entrante, Pier Carlo Padoan. Ventisei fogli A3, meticolosamente annotati, che illustrano la bellezza di 465 fra decreti e regolamenti previsti dalle riforme dei governi Letta e Monti, ancora da attuare, alcuni fermi da due anni. Su quel macigno di leggi immobili i funzionari dei ministeri spesso specificano: "L'attuazione (del decreto per una piattaforma elettronica per i debiti Pa, ndr) presenta oggettive difficoltà attuative". "Per un altro decreto", scrive Fabrizio Forquet sul "Sole 24 Ore", "l'annotazione a uso interno è la fotografia dello stallo burocratico: "Sollecitata Rgs da Ulf, ufficio legislativo Finanze (nota 1418 del 10 febbraio). Il Dipto Finanze concorda con l'Ag. Entrate riguardo all'opportunità di abrogare la disposizione. Anche Rgs è d'accordo. Evidenziate dagli Uffici (Ag. Entrate, Dipto Finanze, Rgs) difficoltà applicative all'adozione del decreto. Opportuna abrogazione della disposizione"". Il responso, riportato nella colonna a fianco, è inesorabile: "Non attuabile". Il sigillo dell'alta burocrazia gattopardesca italiana: riscrivere tutto, perché nulla cambi. Chi comanda nei ministeri Ci racconta un ex ministro della Giustizia di lungo corso che preferisce restare anonimo: "La legge Bassanini che ha riformato la pubblica amministrazione divide nettamente la classe politica da quella amministrativa. Il ministro può soltanto dare gli indirizzi di natura generale e politica, tutto il resto lo fa l'amministrazione del suo ministero, al punto che ormai gli atti che firma il ministro sono quasi soltanto di natura formale, mentre quelli attuativi sono in mano all'amministrazione. Faccio un esempio. Un ministro non firmerà mai una gara d'appalto o un affidamento, queste pratiche competono tutte all'amministrazione. La conseguenza è che quando sei lì, ti trovi dentro un macchinone immenso, quello del tuo dicastero, e qui c'è già il primo problema. Lei pensi che al ministero della Giustizia avevo sotto di me 120 mila dipendenti, il ministro dell'Istruzione ne ha un milione... Con queste dimensioni significa che il ministero è diviso in una serie di dipartimenti che gestiscono realtà enormi, con molti capitoli di spesa e con i funzionari che fanno passare i soldi da una parte all'altra senza che il ministro possa controllare nulla. Come la storia degli esodati della Fornero. E' chiaro che le hanno dato delle cifre sbagliate i suoi funzionari... Un ministero è un macchinone gigantesco, il ministro non sa tutto, anzi spesso sa poco. Pensi che a me avevano messo una centrale di ascolto al ministero senza dirmi nulla. I funzionari tendono a ragionar così: tu fai il ministro, ma le cose importanti le decidiamo noi, i capi dipartimento. Una figura strapotente al ministero della Giustizia è il capo del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Gestisce un budget di 5 miliardi di euro su 7 totali del ministero, 50 mila poliziotti della penitenziaria. Immagini il potere che ha. Poi molto dipende anche dalla personalità dei vari ministri. Con un ministro debole i burocrati hanno uno spazio di intervento enorme... Naturalmente se sei esperto della materia puoi in qualche modo capire cosa sta succedendo nel tuo ministero. Bisogna stare molto attenti alle cifre che ti vengono date dall'apparato". Caso tipico è al ministero delle Infrastrutture. "Il nostro problema", ha spiegato al Fatto Quotidiano Alessandro Fusacchia, ex consigliere per la diplomazia economica alla Farnesina, "è fondamentalmente l'incertezza giuridica. Abbiamo migliaia di leggi e leggine che insistono sullo stesso argomento, per esempio il lavoro, e nessuno sa esattamente quali siano le regole. In questo modo nessuno si assume dei rischi e tutto diventa lentissimo". In questo caos acquista potere la casta dei giuristi di Stato, dei capi di gabinetto e degli uffici legislativi. "Stiamo parlando di circa 50 persone che controllano l'essenziale ", ha detto Fusacchia. la ragioneria (di Stato) ha sempre ragione Ma non ci sono soltanto i grandi boiardi dei ministeri: capi di gabinetto, capi di dipartimenti, esperti legislativi, consiglieri. Ci sono anche organismi terzi, composti da tecnici o da magistrati, che contano moltissimo sull'attuazione (e soprattutto sulla non attuazione) di riforme, leggi e decisioni politiche. Uno di questi è il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica. "I ministeri di spesa passano tutti dal Cipe. Le spese per l'edilizia scolastica, le infrastrutture, i fondi per l'industria, la banda larga, passa tutto da lì. E' composto dai ministri, ma anche dalla Ragioneria generale dello Stato che ha un enorme potere di veto. Se non vedono che dal punto di vista finanziario è tutto a posto, non ti danno il benestare. Se non c'è la famosa bollinatura, la bollinatura della Ragioneria, non passa niente. Allora non è più soltanto una questione tecnica, ma anche politica, perché se si decide che un'opera non va bene, non si farà mai. E capita spessissimo". Le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria a ogni provvedimento di spesa, "vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella "visione" politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte "politiche" diverse", racconta un ex ministro diessino che vuole restare anonimo. L'ha sperimentato sulla propria pelle l'ex senatore Mario Baldassarri, che da presidente della commissione finanze provò a metter mano a quella parte di spesa pubblica, per acquisto beni e servizi (40 miliardi l'anno), che fa capo alle grandi burocrazie ministeriali. L'emendamento non piaceva al capo del legislativo dell'economia e alla Ragioneria generale dello Stato, che non gli diede la "bollinatura". Lui andò avanti, finché alcuni compagni di partito gli dissero di aver ricevuto una telefonataccia da un importante direttore generale di ministero che consigliava di ritirare quell'emendamento. Baldassarri si infuriò, minacciò di chiamare l'autorità costituita e di denunciare il ragioniere generale dello Stato per "palesi falsi e giudizi politici". Ma alla fine tutto fu insabbiato.
Dio perdona, la burocrazia no. Le pratiche burocratiche richiedono 269 ore all'anno per impresa, con un costo complessivo di 31 miliardi. I costruttori attendono 231 giorni per un permesso edilizio. A Milano servono 23 autorizzazioni diverse per organizzare un evento. Viaggio nel girone infernale italico..., scrive Matteo Borghi su “L’Intraprendente”. Hyman Rickover, il pioniere della propulsione atomica navale, diceva che “se proprio devi peccare pecca contro Dio, non contro la burocrazia. Dio perdona, la burocrazia no”. Ed in effetti, a vedere alcuni casi, pare che il nostro ammiraglio non avesse torto. Emblematica è quella storia, che abbiamo raccontato tempo fa, di un signore che – per non aver versato un centesimo – si è visto recapitare una multa cinquemila volte più alta. La burocrazia non ammette ignoranza, sbadataggine, errore umano ma pretende inflessibile a ogni logica di buonsenso, il rispetto formale di passaggi che in molti casi sono quasi impossibili da attuare. Giusto per fare un esempio fino a pochi mesi fa ci volevano ben 23 autorizzazioni per creare un evento culturale a Milano. Che non vuol dire 23 fogli ma 23 (ven-ti-tré) procedure burocratiche autonome: una molte tanto ingente che lo stesso Comune ha ammesso che, qualche volta, qualcuno saltava qualche passaggio. Ed è drammatico pensare come le code burocratiche si allunghino sempre di più. Ancora più alto e dannoso è il costo della burocrazia per le imprese. Secondo il Centro Studi Impresa Lavoro le pratiche burocratiche richiedono 269 ore l’anno con un costo medio ad impresa di 7.559 euro. Secondo un calcolo della Cgia di Mestre alle imprese la burocrazia costa ogni anno 31 miliardi di euro, che portano la pressione fiscale complessiva a 248,8 miliardi. Insomma si tratta di un vero e proprio peso insostenibile, destinato a schiacciare sotto di sé qualsiasi ipotesi di ripresa. “Se teniamo conto – si chiedeva il compianto Giuseppe Bortolussi – che il carico fiscale sugli utili di una impresa italiana ha raggiunto il 68,6%, contro una media presente in Germania del 48,2%, c’è da chiedersi come facciano i nostri imprenditori a reggere ancora il confronto. Per questo bisogna dire basta ad un fisco opprimente e ad una burocrazia ottusa. Lavorare in queste condizioni costringe gli imprenditori italiani a trasformarsi quotidianamente in piccoli eroi: questo non deve più accadere”. Ne sanno qualcosa i numerosi costruttori che devono attendere, di media, 231 giorni (con un costo che può arrivare fino a 64 mila e 700 euro) per un permesso edilizio: in Germania bastano 97 giorni, 99 a Londra, 182 a Madrid dove però il costo medio per avere il via libera a costruire è di appena 12 mila euro, ovvero ben meno di un quinto dell’Italia. E ne sa ancora di più il patron di Esselunga Bernardo Caprotti che ha dovuto attendere dal 1971 al 2014 per costruire un supermercato in un terreno di sua proprietà a Firenze. Per 43 anni politici e burocrati si sono infatti opposti a qualsiasi ipotesi di costruzione del suo polo commerciale, accampando scuse che secondo alcuni nascondevano – in realtà – un sostegno indiretto all’avversaria Coop. Sì perché se c’è una caratteristica della burocrazia è l’asimmetria: pretende molto dagli noi, ma troppo poco da se stessa. Ci considera, più che come cittadini, come sudditi.
IL LEVIATANO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E BUROCRAZIA. IL BILANCIO DEVE ESSERE EQUILIBRATO, IL TESORO RIPIANATO, IL DEBITO PUBBLICO RIDOTTO, L’ARROGANZA DELLA BUROCRAZIA MODERATA E CONTROLLATA, E L’ASSISTENZA ALLE NAZIONI ESTERE TAGLIATA, PER FAR SÌ CHE ROMA NON VADA IN BANCAROTTA. CICERONE
Quanto sono ancora attuali le parole di Cicerone? Si continua ancora oggi a parlare di semplificazioni e ammodernamenti della burocrazia in Italia ed, anche se qualche passo avanti è stato fatto, è evidente che ancora molto ci sia da fare. Il problema è che per saper organizzare in modo efficace il “da farsi” e per assumere i giusti provvedimenti è in primo luogo necessario conoscere a fondo i meccanismi e la dinamica con la quale vengono elaborati ed emanati gli atti amministrativi che fanno capo ai tanti adempimenti burocratici. In pratica per incidere concretamente sulla macchina burocratica è fondamentale capire come funziona cosa che non mi risulta sia poi così diffusa. Si mettono così in moto processi di modifica di questo o quello spezzone di attività, ma se non si ha una vera visione d’insieme si rischia di aggiungere alle carenze già esistenti ulteriori danni. E non basta sbandierare il termine “digitalizzazione” per riuscire a smuovere apparati ormai vecchi e superati, modi di lavorare anacronistici, approcci ai problemi farraginosi e complicati, alla fine può anche succedere che riusciamo a digitalizzare tutta una branca di attività, ma poi siamo costretti a conservare negli uffici e negli archivi pubblici moli sempre crescenti di materiale cartaceo, perché le regole che sottostanno al processo di digitalizzazione che abbiamo creato sono talmente complicate ed incomprensibili che i nostri interlocutori non ci capiscono nulla, sbagliano, si perdono ed allora meglio far consegnare loro ancora tanta e tanta carta. Inoltre manca la connessione tra archivi e sistemi informativi che il più delle volte non sono in grado di dialogare tra di loro perché ciascun Ente ha scelto in autonomia senza considerare l’interconnessione dei sistemi, e si è venuta a determinare così una sorta di moderna babele telematica. Quante volte si assiste allo sbandieramento da parte del politico di turno del provvedimento risolutivo per la semplificazione amministrativa? Che fine fanno poi queste iniziative? Restano per lo più semplicemente lettera morta perché manca il decreto attuativo, manca la circolare interpretativa, una qualche sentenza ne inficia l’efficacia: il tutto si perde nelle nebbie di qualche Ministero preposto alla cosiddetta semplificazione …
MARX HA CONFUSO UNA DITTATURA DELLA GIUSTIZIA CON LA DITTATURA DEI BUROCRATI. HERBERT MARCUSE
Come scriveva Marcuse analizzando la filosofia di Marx si corre il rischio di creare una vera e propria “dittatura dei burocrati”, una dittatura ancor più pervasiva e invadente, ma soprattutto insidiosa perché nascondendosi dietro a moduli farraginosi e carta bollata in triplice copia costringe comunque l’individuo a sottostare alla sua potenza egemone. La “dittatura dei burocrati” risulterebbe così la dittatura più compiuta, si trasforma uno strumento amministrativo che dovrebbe servire alla parificazione degli individui di fronte allo Stato in uno strumento costrittivo dove i ceppi e le catene sono fatti di autorizzazioni, protocolli e commi. Per riuscire a modificare davvero le cose come si è già detto si richiederebbe innanzitutto una conoscenza approfondita di ciò che si intende modificare, ma la “macchina” della Pubblica Amministrazione è in realtà un moloch che pochissimi conoscono a fondo, ed inoltre è qualcosa che nel tempo si è talmente resa complicata da sortire l’effetto di “bloccare” e “paralizzare” a volte perfino chi ci lavora all’interno e che magari per primo avverte la necessità di un cambiamento davvero radicale. Così questo mastodonte in Italia incombe sulle nostre vite, per rendercele ogni giorno più difficili con qualche cavillo, o con qualche nuova regola, stare dietro a tutto, e questo secondo quanto affermano persone molto preparate in campo giuridico, diventa un’impresa che non ha mai termine e quel che è peggio che non consente neanche brevi momenti di pausa, una tregua per prendere come si dice almeno un po’ di fiato. Lo Stato Leviatano di Hobbes è tra noi, ci sovrasta ogni giorno, ci costringe forzosamente in fila, ci cataloga, si nutre del nostro tempo. La complessità del Leviatano lo rende intangibile all’azione del singolo cittadino che si trova ad essere in balia della “macchina” burocratica. Quante volte abbiamo la sensazione di essere assolutamente impotenti? C’è da chiedersi se tutta questa complessità è veramente indispensabile per garantire la legalità e la legittimità delle azioni, o è un modo per garantirsi una sorta di potere sui cittadini e quel che è peggio per favorire chi, e purtroppo le cronache di questi giorni ce ne hanno parlato a lungo, intende nascondere propri personali obiettivi e raggiungere finalità che vadano a proprio vantaggio e non certo della cittadinanza? Orwell in 1984 ci ha mostrato come Il Partito con la sua macchina statale persegua questa seconda finalità, siamo davvero sicuri di non vivere in una realtà del genere? Forse il Grande Fratello si è concretizzato non sottoforma di persona, ma di macchina statale impersonale? C’è quindi ancora molto da fare, la strada da percorrere è purtroppo ancora molto lunga, ma c’è poi davvero la volontà di cambiare le cose da parte di chi lo può fare? E l’apparato burocratico da parte sua è effettivamente disponibile a consentire questo cambiamento e a parteciparvi o, a sua volta, funge da freno per rallentare il tutto? Il problema è che la burocrazia è sempre più autoreferenziale in quanto lavora in prevalenza solo per giustificare se stessa. Ad esempio la P.A. non dovrebbe chiedere ai cittadini degli adempimenti che già potrebbe benissimo gestire in base alle informazioni di cui è già a conoscenza. Un caso emblematico è rappresentato in questi giorni da IMU e TASI, per le quali si chiedono calcoli complicati e compilazione di moduli quando i dati per i versamenti sono già in possesso dell’Agenzia delle Entrate. Mi chiedo perché se già altri paesi europei riescono a funzionare benissimo nel campo della Pubblica Amministrazione e potrebbero fornirci, in base alla strada da loro tracciata, degli spunti utilissimi, non si riesca neppure a cogliere questi stimoli e tutto in Italia debba essere sempre così ripetitivo e pesante. La Pubblica Amministrazione dovrebbe essere uno dei settori maggiormente gratificanti per quanti vi lavorano, perché nulla può essere più appagante dello svolgere un’attività sapendo che quello che si fa sarà utile, inciderà positivamente e migliorerà la vita dei cittadini. Invece in Italia pare essere una delle attività più frustranti per quanti vi operano ed anche una delle attività che “ingrigiscono” e fanno perdere entusiasmo ai lavoratori. Allora evidentemente c’è per forza molto da cambiare, e non basteranno riforme limitate ad alcuni spezzoni per riuscire a modificare in meglio il tutto. Deve radicalmente cambiare poi l’approccio che l’apparato pubblico ha con il cittadino, perché in un ufficio pubblico è davvero difficile non sentirsi a disagio, questo ancora di più se si è anziani, disabili, o se si è in possesso di pochi strumenti derivanti dall’istruzione scolastica. Il linguaggio usato da quanti vi lavorano è spesso poco semplice e comprensibile, se si chiedono delle spiegazioni la disponibilità a darla è molto scarsa e se comunque le spiegazioni vengono date lo si fa purtroppo spesso con atteggiamento di superiorità e fastidio nei confronti dell’interlocutore che si è macchiato della colpa di non aver capito. Per non parlare della quantità di moduli, prospetti, caselle ecc. che si è costretti a compilare per ottenere qualcosa che ci spetta ed a cui avremmo diritto di avere molto più semplicemente accesso. Non voglio che questo mio intervento venga letto però come un susseguirsi di lamentele, penso solo che se riusciamo a comprendere dove si enucleano le criticità forse, se sul serio vi sarà da parte di chi ci governerà la volontà di rimuoverle, potremo fare un passo avanti per superarle. Sarà basilare in questo chiedere un contributo da parte di quanti lavorano all’interno della Pubblica Amministrazione, ascoltarli, sentire da loro cosa li fa lavorare così con difficoltà, cosa li potrebbe motivare, perché, e questo sarà bene ribadirlo, in questo settore ci sono moltissime persone che pur con tante difficoltà lavorano bene, con competenza e professionalità, ed avendo ben presente quanto sia importante uno svolgimento pronto, puntuale, efficace, scrupoloso del lavoro per l’intera comunità. Certo la campagna denigratoria sul dipendente pubblico praticata da molti non ha aiutato a risolvere i problemi, semmai li ha ulteriormente complicati, sono questi problemi estremamente delicati, da affrontare con lucidità, lungimiranza, equità, ampiezza di vedute, dopo essersi spogliati di pregiudizi e luoghi comuni, e solo una buona dose di equilibrio potrà consentirci di fornire ai cittadini dei servizi rispondenti alle loro necessità. È legittimo immaginare una burocrazia al servizio del cittadino o siamo destinati a restare rinchiusi in questa prigione senza sbarre fatta di moduli e carta bollata?
OGNI RIVOLUZIONE EVAPORA, LASCIANDO DIETRO SOLO LA MELMA DI UNA NUOVA BUROCRAZIA. FRANZ KAFKA
Hanno ragione George Orwell e Franz Kafka quando ci mettono in guardia dalla possibilità di uscire dalle costrizioni derivanti della burocrazia al punto che qualsiasi rivoluzione comporterebbe solo la restaurazione sotto altre spoglie diverse del medesimo sistema? Matteo Montagner su “La Chiave di Sophia”.
Burocrazia, ecco l'arma letale della dittatura, scrive di Rino Cammilleri su “La Nuoiva Bussola Quotidiana”. Al tiranno dà fastidio la nobiltà, perché è da questo ceto intermedio tra il potere e il popolo che potrebbe venire l’insidia. Già nel Giappone cosidetto feudale (che col feudalesimo occidentale, però, ha niente da spartire) l’imperatore obbligava i nobili a risiedere sei mesi l’anno nella capitale, e a lasciarci i familiari sempre. In Europa, l’assolutismo regio finì col fare lo stesso e trasformò i nobili in cortigiani nullafacenti. «Lo Stato sono io». La frase del Re Sole è apocrifa, ma rende bene l’idea. Il centralismo però richiede burocrazia, parola non a caso di origine francese (bureau=ufficio) rimbalzata in tutte le lingue, dall’americana Fbi (Federal Bureau of Investigation) al russo Politburo. I giacobini insomma trovarono il lavoro già fatto dall’assolutismo regio, e bastò loro impadronirsi della sola testa per prendere tutto il corpo. Il centralismo facilita e, dunque, incoraggia, i golpe. Come quello bolscevico, che la Rivoluzione la fece, semmai, dopo. Il comunismo sovietico è crollato, sì, ma il giro mentale è rimasto. E oggi l’intero Occidente si divide tra quelli che vogliono sempre più Stato e quelli che non ne possono più. I primi, ovviamente, di Stato campano, perciò comandano. Gianluca Barbera sul Giornale dell’8 settembre ha ben sintetizzato il giacobinismo che nel Terzo Millennio ancor ci opprime: «Statalismo, assistenzialismo, proliferazione burocratica, clientelismo, fiscalità oppressiva, inamovibilità del pubblico impiego, onnipresenza dei sindacati, populismo, politicizzazione della giustizia, appiattimento sociale e professionale, vittimismo cronico, buonismo autolesionistico, cultura dell’odio e dell’invidia sociali». Metteteci anche nani&ballerine per la difesa propagandistica e c’è tutto. Ora, che il sistema sia irredimibile (hai voglia di “riforme”!) è testimoniato dal fatto di Roma, dove detto sistema cerca di correggere se stesso con una pezza non molto diversa dal buco. Cioè, con un ennesimo funzionario. Il prefetto Gabrielli, mandato a vedere come si possa rimediare alla situazione della Capitale, situazione che è un mix di corruzione e inefficienza, ha relazionato al suo superiore, il ministro dell’interno Alfano. Nella relazione, tra l’altro, si segnalano i burocrati, tra dirigenti e funzionari, da rimuovere con una certa urgenza. Ora la patata bollente passa alla politica, e perciò aspettiamoci qualche giro di poltrone (non di più). Ma il punto è che, anche volendo agire con logica e pugno di ferro (cioè, chi ha sbagliato paghi, chi non ha vigilato se ne vada, chi non ha saputo fare il suo mestiere si tolga dai piedi), l’eventuale licenziato fa subito ricorso al giudice del lavoro e questo in nove casi su dieci lo reintegra. Non solo. A volere agire come una normale azienda, la quale, quando i profitti crollano, si sbarazza del manager inadeguato, si rischia anche di più. Per restare nell’esempio romano, è lo stesso assessore ai Trasporti a far osservare che l’Atac, l’azienda di trasporto, semplicemente non ha i soldi per mandare a casa quelli che senza soldi l’hanno ridotta: dovrebbe pagare loro la buonuscita come da contratto, e sarebbero centinaia di migliaia di euro. Che l’Atac non ha. Sono le leggi sul lavoro, bellezza. Quelle italiane, almeno. Chi ha provato, non tanto a riformarle, ma solo a studiare una loro possibile modifica è finito sparato. Roma? Situazione disperata, ma non seria (titolo di un film del 1965 con Alec Guinness). Restando in loco, viene in mente l’antico aneddoto della vecchietta che, unica nella folla, augurava lunga vita a Nerone. Al quale la folla, invece, augurava morte e maledizione. Eh, era vecchia e di imperatori ne aveva visti tanti. E, ogni volta, il successivo si era rivelato peggiore del precedente. Morale: se il problema è intrinseco al sistema, cambiare le facce serve a poco.
Tante leggi e poco cervello. La dittatura dei burocrati. Il caos dei balzelli sugli immobili è solo l’ultimo esempio. I ministri sono ostaggio di funzionari inamovibili che ci complicano la vita per ragioni di potere, scrive di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2014. Enrico Zanetti è un politico di primo pelo. Nel senso che fino a otto mesi fa non sedeva in Parlamento ma nel suo studio di commercialista a Venezia. Poi, non si sa perché, gli è venuta l’idea malsana di candidarsi alle elezioni politiche e dunque eccolo catapultato tra i banchi di Montecitorio con la maglietta di Scelta Civica, il partito non partito (nel senso che non è mai nato) di Mario Monti. Alla Camera dei deputati Zanetti riveste un compito di un certo prestigio: essendo un fiscalista l’hanno infatti nominato vicepresidente della Commissione finanze, quella che discute i provvedimenti sul fisco prima che vadano in aula. A Zanetti ho provato a chiedere come si esce del pasticcio Imu, Iuc, Tasi e Tari di cui ci occupiamo anche oggi in prima pagina. La risposta è stata la seguente: «Con le ultime elezioni abbiamo cambiato il 65 per cento dei parlamentari, ma se non cambiamo il 65 per cento dei dirigenti del ministero delle Finanze temo che non faremo molti passi avanti». Può sembrare una battuta, ma non lo è. Perché se è vero che Saccomanni come ministro dell’Economia è un disastro, è altrettanto certo che la catastrofe non è tutta farina del suo sacco: per riuscire a complicare così bene la vita degli italiani, qualcuno all’interno del suo dicastero deve avergli dato una mano. Essendo del mestiere, Zanetti alza il velo su una realtà che in pochi conoscono e cioè che i ministri vanno e vengono e i governi pure, ma i funzionari restano e sono quelli a decidere del nostro destino. Prendete il caso del prelievo forzoso sugli stipendi degli insegnanti: la Carrozza ha negato di essere a conoscenza della cosa, mentre Saccomanni si è limitato a dire che si trattava di un fatto tecnico. Dalle frasi si capiva che né l’uno né l’altro avevano la minima idea di come si fosse arrivati al taglio in busta paga, che evidentemente era opera delle retrovie ministeriali. Si può discutere sul ruolo di due tizi che non sanno neppure che cosa accade in casa loro e magari anche convenire sulla necessità di fare a meno di entrambi risparmiando i loro stipendi, ciò non toglie che fra i dirigenti dell’Istruzione e delle Finanze c’è chi usa le forbici senza collegare il cervello e soprattutto senza valutare che sta affettando la vita delle persone. Insomma, fino a che non apriamo il capitolo della burocrazia di questo Paese e non capiamo che dietro un ministro c’è un funzionario che è spesso peggio del suo capo non riusciremo a modificare nulla. Le chiavi del sistema non le ha in mano il politico ma le possiede chi sta lì da una vita e sa che ci starà anche dopo che il ministro se ne sarà andato. Sono loro che scrivono le leggi e suggeriscono le misure da adottare. E poi, fatta la legge, è il dirigente che predispone le norme attuative. E sempre alla struttura tecnica tocca il compito di predisporre le circolari interpretative. Eh già, perché noi siamo l’unico Paese dove per cambiare qualcosa non basta che il governo faccia un decreto e il Parlamento lo approvi. Né è sufficiente che Camera e Senato presentino un disegno di legge e successivamente lo votino. No, da noi serve la norma attuativa della legge, altrimenti - com’è successo per gran parte delle riforme varate da Mario Monti - è come se non esistesse. E poi, quando ci sono la legge e le norme attuative, urge la circolare interpretativa, perché la legge è così vaga, lacunosa e malfatta che un dirigente deve dire come la si interpreta. Di fatto il legislatore non è il politico, ma il burocrate. È lui che detiene il potere. E più le norme sono scritte male e dunque da interpretare, più la discrezionalità del dirigente è ampia. Grazie a questo sistema abbiamo le leggi più incomprensibili del mondo. E sempre per via di tutto ciò abbiamo una legislazione ridondante, che nessuna semplificazione è riuscita a sfoltire. E più si complica la vita dei cittadini con tasse, timbri, adempimenti, pasticci vari, più la corruzione e l’evasione avanzano, perché dove c’è discrezionalità c’è anche la possibilità di fare i furbi e di farla franca. Insomma, l’Imu, la Tasi, la Iuc, la Tari e tutte le altre tremende trappole disseminate sul nostro percorso, non nascono a caso ma servono al sistema per autoalimentarsi e per rendersi indispensabile e inestricabile. In altri Paesi l’evasione la corruzione non ci sono o ci sono di meno perché le leggi sono chiare e non consentono scappatoie. Pagare le tasse è semplice: il Comune a nome dello Stato ti manda a casa un bollettino e tu non devi fare altro che portarlo in banca e autorizzare il pagamento. La dichiarazione dei redditi è comprensibile a chiunque e per spiegarla non serve rivolgersi al Caf o compulsare testi da 700 pagine, bastano quattro paginette. Se dunque qualcuno vuole davvero ridurre le tasse e cambiare questo Paese, la prima cosa da fare è cambiare la legislazione fiscale e farne una nuova. Possibilmente non con gli stessi servitori dello Stato che prima hanno servito Padoa Schioppa e Visco, poi Tremonti, quindi Monti e infine Saccomanni. Se un politico va rottamato dopo due mandati, chi lo ha aiutato a fare danni come minimo merita la stessa sorte...
Siamo un popolo oppresso dalla dittatura della burocrazia. Così gli italiani sono oppressi dal dispotismo burocratico, scrive Piero Ostellino Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Che al governo ci sia il centrodestra ovvero il centrosinistra, l'effetto per il cittadino è sempre lo stesso: nuove tasse. Era stato Einaudi ad imporre che per ogni nuova legge ci fosse la copertura finanziaria. Il principio è corretto ma evidentemente qualcosa ne impedisce il buon funzionamento se il processo legislativo, che dovrebbe essere a carico della fiscalità generale a pagarlo è, immancabilmente, il contribuente con una tassazione supplementare... La verità (...)(...) è che lo Stato costa troppo rispetto a ciò che rende, perché pesa su di esso la burocrazia cui deve chiedere assistenza ad ogni proprio atto. Per cui, la soluzione dovrebbe essere una grande riforma della Pubblica amministrazione che elimini la presenza eccessiva della burocrazia dall'attività legislativa, che dovrebbe cadere sotto la fiscalità generale, e dalla vita del cittadino. Lo aveva capito Berlusconi, che si era ripromesso di ridurre la pressione fiscale, lo ha promesso Renzi senza che nessuno dei due abbia tenuto fede all'impegno preso perché il difetto sta nel manico. Vale a dire nello Stato moderno. Trecento anni fa, l'uomo si è liberato dal dispotismo del monarca assoluto, che decideva a propria discrezione della vita dei propri sudditi. Sulla base del principio democratico «nessuna tassazione senza rappresentanza politica» la sovranità è passata dal monarca al popolo. Ma il risultato è stato lo stesso: in nome del popolo sovrano, il rapporto tra cittadino e potere politico si è trasformato, il cittadino è ritornato suddito come era sotto il sovrano assoluto; la fiscalità è lo strumento con il quale il potere politico esercita il proprio dispotismo. In definitiva, solo una grande riforma della Pubblica amministrazione può liberare il cittadino dalla dittatura della burocrazia, che tiene sotto il proprio controllo anche la politica. La volontà generale di Rousseau - che avrebbe dovuto realizzare la massima democrazia - si è tradotta nel suo contrario con il risultato che il cittadino conta ancor meno di quanto contava di fronte al monarca assoluto.
Quando i burocrati sono veri mostri (anche nel fantasy). Da Guerre stellari alla saga di Harry Potter, i cattivi sono armati di scartoffie e codicilli. Proprio come a Bruxelles, scrive Vittorio Macioce su "Il Giornale”. La sera li trovi a Les Aviateurs, in Rue des Soeurs, non lontano dalla cattedrale di Notre Dame, a Strasburgo. Lo stile è anni '50 e loro si ritrovano in quel locale dove davvero le nazionalità sembrano azzerarsi con il sogno di lasciarsi alle spalle carte e regolamenti e affogare le illusioni in pinte di birra, in canzoni vintage e nella speranza di una notte d'amore da cancellare il giorno dopo. Qui, almeno tre volte al mese, si ritrovano parlamentari e apprendisti burocrati, precari di palazzo e lobbisti, segretarie e gli ultimi fantasmi del grande gioco. È Strasburgo ma vale ancora di più per Bruxelles. Qui e lì c'è il cuore e l'anima dell'Europa, il volto del superstato, l'odore profondo di questo impero tecnocratico costruito sulla divinità della moneta unica. Ma per capire davvero di cosa si tratta bisogna, di giorno, passare al numero uno dell'Avenue Robert Schuman e guardare quel palazzo, con la parte superiore che dà l'idea di qualcosa ancora non finito e l'interno che ti sembra di aver visto già da qualche parte. Sì, qualcosa che ha l'odore dell'utopia corrotta, di ideali andati a male. Poi capisci. Il Parlamento europeo con quella gente che cammina veloce, in divise grigie, dove le lingue si mischiano, ma l'ossessione è la stessa, con l'emiciclo enorme che sembra sospeso nello spazio e i traduttori che vomitano parole inutili, è il remake del senato di Star Wars. E a quel punto ti viene voglia di smascherare una volta per sempre il senatore Cos Palpatine. Perché lui sta lì, non ci sono dubbi. Nascosto sotto uno di quei volti, magari con accento tedesco o francese, con il sorriso bonario di chi sembra stare dalla tua parte, quando in realtà tutti sappiamo che quel politico sacerdote dei regolamenti e faccendiere non è altro che il capo dei Sith. È Darth Sidious. È il lato oscuro della forza. Allora ti sembra quasi di sentire quella frase che segna la fine di ogni libertà: «Nell'intento di garantire la sicurezza e una durevole stabilità, la Repubblica verrà riorganizzata, trasformandosi nel primo Impero Galattico! Per una società più salda e più sicura!». È così che si chiude la Vendetta dei Sith. È così che si arriva al Ritorno dello Jedi e alla sconfitta della «Morte nera». Per recuperare un grammo di speranza è necessario, però, ritornare a Les Aviateurs. E capire che quel luogo stretto e lungo, con un bancone che occupa mezzo locale e dove i burocrati mostrano il loro vero volto, è in realtà la Cantina di Chalmun, conosciuta anche semplicemente come Cantina di Mos Eisley, popolare taverna di Tatooine. È nel «quartiere vecchio» e qui affari di tutti i tipi vengono condotti nell'ombra. È qui che Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi ingaggiarono il contrabbandiere Han Solo e il suo compagno Chewbacca per essere trasportati ad Alderaan. Solo qui questo può avvenire, nel bar della notte, quando i burocrati si riscoprono umani e l'Europa assomiglia a quello che avrebbe dovuto essere, un lungo viaggio senza frontiere sui binari dell'Interrail. È qui allora il senso di quello che fantascienza, fantasy e romanzi distopici ci hanno tramandato. È metterci in guardia da tutto questo, da questa Europa, dalle cattedrali di scartoffie, dal potere senza controlli, dalla stabilità dettata dagli indici finanziari, dalle tasse come forma di razionalizzazione dell'impresa, dove non si premia il coraggio di rischiare, ma l'adesione ai parametri burocratici, dove ogni cosa deve essere regolamentata e codificata, dove la realtà è solo una ragnatela di misure e procedimenti standard, dall'esercito dei cloni dove l'umano è ridotto a media statistica. È qui allora che si realizzano tutte le paure dell'Occidente. E come diceva Yoda è la paura il miglior alleato della parte oscura. Perché è chiaro che noi stiamo accettando questa Europa solo per paura di fare i conti con l'incertezza. Tutti gli imperi in fondo servono a questo: ci tolgono la libertà con la promessa di cancellare le nostre paure. È tranquillizzarci sul fatto che Dio non gioca a dadi. Pensateci. Pensate alla saga della Rowling. Chi è il vero nemico di Harry Potter? La risposta immediata è Voldemort, colui che non si può nominare. Ma Voldemort ingabbia i suoi nemici sfruttando gli ostacoli che, in modo consapevole o ad insaputa, produce la burocrazia. È il ministero della magia il primo avversario di Harry. Non lo riconosce, non riesce a catalogarlo, lo vive come un outsider, un incosciente, un piantagrane, uno da fermare con leggi e regolamenti e pazienza se in questo modo si apre la strada al potere rassicurante, stabile, di Voldemort. Nel Trono di Spade dove comincia la tragedia degli Stark? È ad Approdo del re, nella capitale del Regno, dove non valgono più le regole del Nord, ma quelle della corte. E il pericolo più insidioso arriva dagli intrighi del tesoriere Ditocorto. È lì, all'incrocio dei Sette Regni, che la partita per il potere si riduce a una scelta binaria, on o off, acceso o spento, uno o zero. Nel gioco dei troni o si vince o si muore. Ed è il gioco che ha sempre fatto la Germania. E l'unica consolazione è che farlo con la moneta (i denari) è meno cruento e drammatico rispetto alle spade. Il guaio è che ci sono molti modi per spargere distruzione e cancellare il futuro. C'è perfino chi lo fa spacciando cattiva poesia. Mai sentito parlare dei Vogon? Certo, proprio loro, quelli di Guida galattica per autostoppisti. La loro poesia è al terzo posto tra quelle peggiori dell'universo e il suo ascolto può provocare gravi danni fisici e mentali. È di fatto uno strumento di tortura. «I Vogon sono una delle razze più sgradevoli della galassia; non sono cattivi ma insensibili burocrati zelanti con un pessimo carattere, sì. Non alzerebbero un dito per salvare la propria nonna dalla vorace bestia Bugblatteral di Traal senza un ordine in triplice copia spedito, ricevuto, verificato, smarrito, ritrovato, soggetto a inchiesta ufficiale, smarrito di nuovo ed infine sepolto nella torba per tre mesi e riciclato come cubetti accendifuoco». Sono tutti impiegati negli uffici della burocrazia galattica, un lavoro che permette loro di vivere una vita socialmente accettabile pur seminando distruzione nell'universo. Il loro motto? Resistere è inutile.
Burocrazia, dagli obblighi inutili alle troppe leggi: ogni anno sprecati 70 miliardi di euro. A Milano 393 alloggi popolari non possono essere assegnati perché misurano meno di 28,8 metri quadrati: è solo uno degli esempi dell’ottusità delle norme, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 16 novembre 2015. Quale intelligenza umana avrà mai stabilito che la superficie minima calpestabile per un alloggio dev’essere di 28,80 metri quadrati? Non giapponese, di sicuro: a Tokyo la dimensione media dei monolocali non supera i 16 metri quadrati. Non francese, garantito: almeno a giudicare dalle dimensioni di moltissimi appartamenti parigini. Ma lì è al potere la normalità, a differenza di qui. Infatti l’intelligenza che ha partorito quel calcolo è italiana. Magari proprio milanese visto che quel numeretto è contenuto in un regolamento della Regione Lombardia scritto quasi 12 anni fa. Una manifestazione di sopraffina ottusità burocratica, purtroppo non fine a se stessa. Tanto che sarebbe da chiedersi se l’autore di questo capolavoro (e i politici che l’hanno fatto passare) abbia mai pensato alle conseguenze della sua iniziativa. Le conseguenze sono queste: un alloggio popolare più piccolo di 28,80 metri quadrati calpestabili non può essere assegnato. Sapete quante ce ne sono nel solo Comune di Milano di queste case «sottosoglia»? Trecentonovantatrè. Mentre c’è gente che abita nei giardini e dorme sotto i portici. Gli architetti che stanno lavorando al «rammendo» del quartiere Giambellino e delle periferie ideato da Renzo Piano si scontrano anche con questa piccola follia di centinaia di alloggi inabitabili per decisione del suo stesso proprietario: lo Stato. Che quando ha costruito quel quartiere nel 1939, con tante case di 25 metri quadrati, non era ancora impazzito di burocrazia. Questa malattia scorre potente nelle vene della pubblica amministrazione, senza risparmiare nessuna parte del corpo. Dilaga dappertutto, a dispetto dei proclami di semplificazione, in un Paese nel quale 43.587 leggi regionali si sommano alle 150 mila leggi nazionali, e poi ai decreti attuativi, ai regolamenti, alle delibere, alle circolari emanate da corpi dello stato spesso l’uno contro l’altro. E i cittadini e le imprese nel mezzo. Capita allora, ricorda Federdistribuzione, che una Azienda sanitaria locale ritenga lecito conservare il pesce surgelato in buste di plastica traforate per evitare la formazione di condensa, mentre la Capitaneria di porto consideri la busta traforata alla stregua di un contenitore danneggiato, quindi inadatto agli alimenti. Il bello è che tutto questo non è gratis. Secondo Confindustria le follie burocratiche costano al Paese 70 miliardi l’anno. E come non sono gratis gli appartamenti «sottosoglia» del Giambellino o di Quarto Oggiaro che non possono essere assegnati ai senzatetto (e invece talvolta vengono abusivamente occupati) causa una regola demenziale, così non lo sono nemmeno certi apparenti risparmi per le casse pubbliche. Un caso? Tre anni fa il governo Monti ha tagliato i fondi per le commissioni d’esame che devono dare il patentino a chi fa la manutenzione degli ascensori. Niente commissione, niente esami, niente ascensoristi, e in futuro niente manutenzioni. Con 250 apprendisti che ora, denuncia la Confartigianato, rischiano di perdere il lavoro. Risparmio ottenuto: 20 mila euro. Per non parlare di quando si scivola letteralmente nel tritacarne della burocrazia. Come è capitato al signor Francesco Del Prete, pizzicato da un autovelox della polizia provinciale di Napoli a luglio dello scorso anno (quando già le province erano sulla carta abolite) a transitare a 74 chilometri orari dove c’era il limite dei 60. La multa è di 184 euro e 70, ma se pagata entro cinque giorni si riduce a 134,30. Il Nostro va prontamente alla posta ma paga solo 134,20. Ricordava male? Il verbale era stampato a caratteri microscopici? In quel momento aveva altro per la testa? Fatto sta che un mese dopo gli arriva una richiesta di integrare il pagamento: 50,50 euro. Lui cade dalle nuvole e chiede chiarimenti. Dalla Provincia di Napoli gli replicano che è vero: ha pagato soltanto 10 centesimi in meno. Ma i cinque giorni sono purtroppo passati, e la multa è aumentata a 184,70. Del Prete non abbozza e scrive di nuovo alla Provincia. Spiega di essere chiaramente incorso in un errore materiale e ricorda come la sentenza 9507/14 della Cassazione escluda che per i piccoli errori di pagamento si possa vessare il cittadino con richieste abnormi. Per tutta risposta, ecco tre mesi dopo una nuova cartella: ora l’importo che dovrebbe pagare non è più di 50,50 euro, ma di ben 219,50. La ragione? Ormai sono passati anche i sessanta giorni. E se quei soldi non vengono pagati entro quindici giorni, la pratica passa direttamente a Equitalia, con tutti i rischi del caso. Quanto è costata questa giostra ai contribuenti non è dato sapere. Ma la burocrazia che perseguita così chi per errore ha pagato dieci centesimi meno del dovuto, è la stessa capace di mettere in atto persecuzioni esattamente contrarie. Felicia Logozzo, professoressa al liceo, viene chiamata all’università con contratto a termine come assegnista di ricerca. Subito scrive alla scuola chiedendo l’aspettativa che le viene immediatamente concessa. Peccato però che lo stipendio continui ad esserle accreditato senza che lei riesca a interrompere il flusso del denaro. Di mesi ne passano almeno quattro, poi finalmente il rubinetto si chiude: però solo grazie all’intervento di un conoscente nell’amministrazione. La professoressa Logozzo restituisce i soldi e torna a scuola, ma non ha nemmeno il tempo di dimenticare la disavventura. Ecco, due mesi fa, un nuovo contratto con l’università e una nuova aspettativa, con gli stipendi del liceo che di nuovo continuano imperterriti a correre. Sconcertante la motivazione alfine scoperta: la procedura per l’aspettativa è informatizzata, quella per la retribuzione invece no. Bisogna spedire i faldoni per raccomandata agli uffici competenti che si prendono tutto il tempo necessario. Mesi. E c’è anche la beffa, perché nel frattempo lo stato paga sia la professoressa in aspettativa che chi la sostituisce a scuola. Basterebbe che fosse tutto digitalizzato, come ci promette ogni governo. Sarebbe un gioco da ragazzi... Oppure no? Le assenze per malattia dei professori, per esempio, sarebbero in teoria digitalizzate. Si possono infatti comunicare via mail. Già. Ma prima bisogna scaricare un modulo dal sito, stamparlo, compilarlo, scannerizzarlo e solo a quel punto spedirlo per posta elettronica alla scuola dove si provvederà a stamparlo e protocollarlo. Il tutto dopo che il professore avrà telefonato alla scuola, fra le 7,30 le 7,50, come dispone una recente circolare del ministero. Troppo difficile entrare direttamente nel sito della scuola?
Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?
Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.
I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.
Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.
Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.
Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.
I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.
Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.
Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.
Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.
Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).
Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.
Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.
Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.
LA PAGLIUZZA E LA TRAVE. Scrive Aurelio su Forza Cavallasca il 12 gennaio 2016. Notavo, ma devo dire che me lo aspettavo, che il fatto di Quarto e cioè di quel comune campano in cui un consigliere comunale eletto nelle liste del M5S sembra facesse gli interessi imprenditoriali di un clan camorristico locale tramite pressioni al sindaco del suo stesso movimento che correttamente e onestamente ha respinto al mittente, è diventato un fatto di tale portata nazionale da essere da settimane una delle principali notizie dei mas media televisivi e della carta stampata al pari del tempo dedicato a quanto è successo a Roma per Mafia Capitale. Quello che mi fa specie è che se questi media televisivi dessero lo stesso tempo e spazio a quei fatti legati a procedimenti penali e indagini a carico di esponenti del Centro Sinistra e del Centro Destra a quest’ora queste testate giornalistiche ci avrebbero dovuto intrattenere settimanalmente per ore intere. Fatti molto ben più gravi di coinvolgimento di esponenti locali eletti nei due schieramenti di cui sopra hanno avuto lo spazio, da parte da parte di questi media, di durata non più che giornaliera. Due considerazioni sono dovute: La prima è il manifesto asservimento del giornalismo italiano al potere di turno dove pesi e misure sono molto discrezionali se non finalizzato a compiacere o sostenere le forze politiche che hanno portato il Paese nelle condizioni in cui si trova. La seconda è che il M5S non può pensare che in certe regioni la selezione dei candidati da eleggere si possa basare esclusivamente sulla decisione degli iscritti alla rete in quanto ci si può aspettare, considerata la partecipazione numerica a queste organizzazioni criminali, che infiltrazioni di persone legate ad ambienti poco trasparenti è molto forte. Per non esporre il fianco a queste strumentalizzazioni questo sistema va ripensato o perlomeno le cautele sulla selezione in certe regioni non sono mai troppe. Per finire noto che chi sta maggiormente speculando e strumentalizzando questo fatto che sostanzialmente si può limitare a episodi di indebita pressione falliti è il P.D. con tutto quello che è emerso sul suo conto in questi anni dagli scandali corruttivi del Mose di Venezia all’Expo di Milano da Mafia Capitale agli scandali sui rimborsi delle spese ai consiglieri regionali ai gettoni di presenza nei comuni per commissioni inesistenti. ecc. ecc…. Come non mai in questo caso credo che valga questo detto evangelico: “…Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?……. Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello…”
Trave e pagliuzza, vecchia tattica, scrive Mauro Arcobaleno sabato 16 gennaio 2016.
Loro. In sei anni subiscono un tentativo di infiltrazione mafiosa o poco più. L'ultimo in un comune che gestiscono ma che è stato sciolto gia' varie volte per mafia, in passato. Lo respingono. Quando viene fuori che il sindaco, pur avendolo respinto e pur essendo stato eletto indipendentemente dai presunti voti sporchi, non ha detto tutta la verità, in soli 7 giorni decidono di espellerla. Sono favorevoli ad andare a nuove elezioni. Sono favorevoli a pubblicare tutte le intercettazioni del caso. Pubblicano addirittura gli screenshot degli scambi di chat tra il sindaco e i dirigenti del movimento.
Gli altri. Non buttano fuori nemmeno i condannati, che continuano gestire la cosa pubblica, figurati gli indagati o i chiaccherati. Hanno decine di comuni sciolti per mafia. Hanno Roma Capitale e ci hanno messo un anno prima di agire. Gliene arrestano o indagano uno o quasi al giorno. Le condanne fioccano. Si oppongono alla diffusione delle intercettazioni (Napolitano le ha fatte bruciare). Ma, con la gentile collaborazione del 90% dei media, da giorni stanno spargendo merda su loro e ingigantendo un caso piccolo e insignificante se paragonato al marciume che li affossa, e che in questo modo cercano di nascondere. Vecchia tattica: esaltare la pagliuzza del tuo avversario di modo che non si pensi più alla trave che hai nell'occhio dell'etica.
Io non dico nulla. Ma piuttosto che non votare (sbagliato), se si vuole provare a cambiare, non puoi votare sempre gli stessi o i presunti nuovi che avanzano e che sono uguali o peggio di quelli che volevavo sostituire e rottamare: ti hanno detto mille bugie e si comportano peggio dei precedenti, non esiste differenza tra loro. Devi votare facce nuove, che hanno regole nuove e che, pur facendo errori da inesperienza (anche loro sono uomini ahimé), le applicano con coerenza. Poi se ti fregheranno pure loro, ok: ma avrai poco da rimproverati. Nell'altro caso avrai da rimproverarti eccome: se ti arriva merda te la sei voluta.
Brenta (Varese), arrestati sindaco Pd ed ex capo dei vigili. Ai domiciliari Gianpietro Ballardin e l’ex comandante della polizia locale, Ettore Bezzolato, con l'accusa di falso commesso da pubblico ufficiale, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 13/01/2016, su "Il Giornale". È stato arrestato dalla Guardia di Finanza Gianpietro Ballardin, sindaco Pd di Brenta (Varese) e presidente del Consorzio dei Comuni del Medio Verbano e sindaco di Brenta. Con lui ai domiciliari è finito anche l’ex comandante della polizia locale Ettore Bezzolato. I due sono accusati di falso commesso da pubblico ufficiale, con il secondo che avrebbe anceh rubato denaro ricevuto in custodia per ragioni di servizio e il sindaco accusato anche di false dichiarazioni. Secondo le indagini delle Fiamme Gialle, (in primis a indagare sono stati i carabinieri di Luino, che lo scorso agosto avevano già arrestato Bezzolato per peculato), l’ex comandante dei vigili avrebbe sottratto denaro dalle casse del corpo dopo averlo personalmente ritirato presso enti ed associazioni del territorio quale corrispettivo di servizi di sicurezza straordinari per eventi e feste comunali, come previsto dal regolamento. Sempre secondo le indagini, coordinate dal sostituto procuratore di Varese Massimo Politi, il presidente del consorzio e sindaco Ballardin avrebbe dichiarato il falso per alleggerire la posizione di Bezzolato. I due avrebbero inoltre firmato un documento che attestava il versamento di una parte del denaro mancante da parte dell’ex comandante nella cassaforte del comando, che gli inquirenti giudicano fasullo. Immediata la reazione del Movimento 5 Stelle che dopo la vicenda di Quarto non aspettava altro per dare addosso al Partito democratico. Gongola Beppe Grillo: "Un arrestato al giorno toglie il Pd di torno", scrive il guru sul suo blog, "Domani a chi tocca? Sono aperte le scommesse. Gli amministratori locali del Pd - attacca il leader M5S - sono una sciagura per i comuni italiani. Ieri la notizia dell'iscrizione al registro degli indagati del sindaco di Como, oggi arrestano Ballardin. Si dimetterà o amministrerà la città dai domiciliari? Il garantismo deve essere nei confronti dei cittadini: devono avere la garanzia assoluta che chi li governa non è un corrotto e non li deruba".
M5S a Pomezia: appalti sospetti affidati dal sindaco alla coop vicina a Buzzi. Dopo Quarto, ombre a Pomezia. Appalti sospetti affidati dal sindaco Fabio Fucci (M5S) alle coop vicine a Buzzi, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo Quarto nell'armadio degli scheletri grillini. Ora a Pomezia, città amministrata dal Movimento 5 Stelle, risuona il (tetro) inno di Mafia Capitale. A collegare il sindaco grillino Fabio Fucci e i nomi famosi per essere finiti nelle carte di Mafia Capitale, è la gestione dei rifiuti del Comune. Non è la prima buccia di banana che pesta il M5S. L'amministrazione grillina di Pomezia era finita sotto i riflettori della cronaca anche per il caso "parentopoli": la compagna del primo cittadino, infatti, era arrivata ad occupare la sedia di assessore. Fucci corse ai ripari, annunciando che la compagna si era già dimessa. Anche se in realtà poi rinviò le dimissioni di qualche mese. Acqua passata. Ma ora l'ombra di Mafia Capitale lambisce i 5 Stelle. Che dopo lo scoppio dello scandalo romano hanno cavalcato in tutti i modi la vicenda, attaccando la destra e la sinistra. I fatti sono questi, raccontati dall'HuffingtonPost, e partono dal giugno del 2013 per arrivare fino al dicembre del 2014, quando lo scandalo di Mafia Capitale è all'apice della forza mediatica. Nel giugno 2013 il sindaco Fucci mette piede al Municipio di Pomezia e poco dopo - dicembre 2013 - avvia un appalto per la getione dei rifiuti. Ad aggiudicarselo è il Consorzio Nazionale Servizi e la sua affiliata "Formula Ambiente". Quest'ultima è una società partecipata (prima al 49%, poi al 29%) dalla Coop 29 giugno, tristemente famosa per essere guidata da quel Salvatore Buzzi simbolo di Mafia Capitale. Ma non solo. Perché i fili del controllo del servizio dei rifiuti a Pomezia si intrecciano anche con Alessandra Garrone, compagna di Buzzi e amministratore delegato della Formula Ambiente. Senza dimenticare che Buzzi sedeva nel consiglio di sorveglianza del Consorzio Nazionale Servizi che si occupava, tramite la partecipata, dei rifiuti di Pomezia. L'appalto, come detto, prende il via nel dicembre 2013 e poi ottiene numerose proroghe. A seguire il dossier è Salvatore Forlenza, dirigente di CNS e poi indagato per turbativa d'asta nel processo di Mafia Capitale. Nel 2013, Mafia Capitale era ancora un miraggio, eppure quando scoppia lo scandalo, il membro del direttorio del M5S, Alessandro Di Battista, accusò Ignazio Marino di aver dato appalti con le proroghe a Buzzi dicendo che "non poteva non sapere". Su questo presentò anche una interrogazione parlamentare, invitando peraltro il governo a diffidare del CNS. Se valeva per Marino, varrà anche per il sindaco di Pomezia? Non sembra. Infatti, l'ultimo bando di gara emesso da Fucci è del 2 settembre 2014 e si chiude l'11 dicembre 2014: in pieno scandalo Mafia Capitale e mentre l'Operazione Mondo di Mezzo aveva già mandato in galera Buzzi e Carminati. Nonostante le manette, il bando del sindaco di Pomezia finisce ugualmente al CNS. “Il sindaco di Pomezia è incorruttibile”, furono le parole di una intercettazione di Buzzi che i Cinque Stelle fecero riecheggiare su tutti i media. Ma le opposizioni credono che l'appalto sia sospetto e abbia irregolarità sia sulla ditta appaltatrice che nelle procedure del Comune. La coop di Buzzi si aggiudicarono infatti gli appalti con un ribasso di gara dello 0,13, che può essere considerato "strano" se si considera che il costo complessivo è di 50 milioni. Le altre due ditte, invece, non raggiunsero nemmeno il punteggio minimo a livello tecnico per poter partecipare al bando. Fu scritto appositamente per far vincere le cooperative dove Buzzi aveva un "peso"? Ancora presto per dirlo. Eppure, il sindaco Fucci aveva già dimostrato un'altra volta di scrivere i bandi di gara con una certa disinvoltura, visto che Raffaele Cantone ne bloccò uno sulle aree verdi perché “limita la concorrenza” tra le imprese in gara. Ma c'è dell'altro. Da quando c’è Fabio Fucci come primo cittadino, sono aumentate le spese legali: nel 2015 Pomezia ha speso oltre un milione e mezzo di euro in spese legali. Parte di queste parcelle sono finite anche all’avvocato Giovanni Pascone - ex magistrato del Tar, dipendente del Comune – poi cancellato dall'albo degli avvocati perché socio occulto di una società di vigilanza e condannato a due anni per via di un contenzioso con il fisco di 20 milioni di euro. Infine, Fucci - scrive l'HuffingtonPost - avrebbe nominato a capo della Multiservizi Fucci, Luca Ciarlini, sotto indagine per frode.
Cari 5 Stelle, ma su Pomezia e Quarto non provate imbarazzo? Si Chiede Tommaso Ederoclite, Ricercatore, Politologo, consulente politico, su l'HuffingtonPost del 16 gennaio 2016. In queste ore è uscita la notizia che Rosa Capuozzo aveva già informato da novembre scorso il direttorio sulla faccenda Quarto, e non è un retroscena giornalistico, no, lo ha detto ai Pm durante un interrogatorio durato 6 ore. Quindi è confermata la notizia che Fico, Di Battista e Di Maio sapessero di quello che stava succedendo a Quarto. Dunque in quel video e nelle continue pubblicazioni delle loro chat si è detto una bugia, e non su un tema come il compenso o l'abuso edilizio mai dichiarato, ma su un tema come la camorra. Deputati che mentono su una questione delicata come la camorra. In queste ore però prende piede una grana che, a parere di chi scrive, è ben più pesante. Il "sistema Pomezia". Innanzitutto qualche appunto su Fabio Fucci il sindaco di Pomezia del MoVimento 5 Stelle.
1) Nominò assessore la moglie, facendola dimettere a "scandalo" avvenuto mesi dopo;
2) Aveva inserito nel suo programma la proposta di differenziare il menù scolastico: uno meno costoso e uno più costoso che includeva di dolce. Scoppiò un casino;
3) Ha (o aveva non si è ancora capito) come dipendente comunale l'avvocato Giovanni Pascone, socio occulto di una società di vigilanza (la Clstv), finita sul lastrico, che deve ancora ai suoi dipendenti migliaia di euro e che ha testimoniato a favore di personaggi di cosche camorristiche e, malgrado lettere e proteste dei sindacati e dei cittadini al sindaco grillino, è ancora lì seduto alla sua scrivania;
4) Ha "sanato" anziché affermare l'irregolarità di alcuni appalti abusivi segnalati dalla Regione Lazio e dal tribunale di Velletri.
Ma la cosa più grave sta prendendo piede in queste ore, e non credo finisca presto. Andiamo con ordine. Il primo cittadino Fabio Fucci del MoVimento 5 Stelle qualche mese fa ha dichiarato: "Con me Buzzi non ci ha neanche provato". Leggendo le notizie di queste ore, mi è venuto da dire "E per forza, ce li avevate già in casa". Infatti, il sindaco di Pomezia aveva affidato al CNS (Consorzio Nazionale Servizi) di Buzzi l'appalto per la gestione rifiuti proprio nei giorni di Mafia Capitale, proprio nei giorni in cui Di Battista sbraitava dagli scranni della Camera sostenendo "come facevate a non aver visto nulla". La cooperativa dove Buzzi aveva un ruolo determinate hanno vinto l'appalto "con un ribasso di gara dello 0,13, anomalo rispetto alla cifra di 50 milioni di appalto. Mentre le altre due ditte che si presentano non raggiungono il punteggio minimo sull'offerta tecnica, secondo la valutazione dalla commissione del Comune". In pratica, nonostante lo scandalo di Mafia Capitale il sindaco si è tenuto e ha rinnovato, con addirittura gara sospetta, la cooperativa di Buzzi al Comune. Il primo cittadino pentastellato si difende sostenendo che è stato tutto fatto con la prefettura, un po' come sostenne la Capuozzo agli inizi della sua catastrofe su Quarto. Sì, perché pare che la strategia sia questa "non importa se tu sia indagato o meno, l'importante è che tu dia la colpa agli altri". Ovviamente il tutto ora è sotto indagine, vedremo sviluppi. Ma quello che preme ora sottolineare è semplice, a parte le minacce di Casaleggio "ve la faremo pagare", e le deludenti risposte date ai cittadini da questo fantomatico direttorio, che a vederli sembrano sempre di più dei ragazzini alle prese con una cosa molto più grande di loro e che non sanno affrontare, possibile che davanti a queste sciagurate gestioni non si faccia un po' di sana autocritica? Possibile che non si prendano le responsabilità e si dica ho sbagliato? E paradossale che coloro che si proclamavano paladini della trasparenza oggi mentano sfacciatamente, e ripetano quella bugia 100, 1000 volte. Chiedo al direttorio, un po' di imbarazzo non lo provate?
La maledizione delle Cinque Stelle. Per il movimento l’incidente del sindaco di Quarto è particolarmente insidioso. Perché dimostra che le regole di Grillo sono da cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso” il 15 gennaio 2016. A ciascuno il suo Ignazio Marino, verrebbe da dire con un sorriso amaro, anche se la testa del sindaco di Roma fu fatta rotolare per una squallida storia di note spese e cene al ristorante, e in quel caso - ma guarda un po’ - i grillini lo difesero riconoscendogli di aver fatto da argine a Mafia Capitale. Invece sul capo di Rosa Capuozzo, unica sindaca a 5Stelle eletta in Campania, prima cittadina di Quarto, comune dell’hinterland napoletano sciolto due volte per infiltrazioni della camorra, pende il ben più pesante sospetto di collusione con la criminalità organizzata (ancora da dimostrare), con appendice di ricattuccio per un abuso edilizio a casa propria, pratica ormai diffusa assai nella politica all’italiana. Alla fine, sindaca espulsa. Dopo aver resistito dicendo, proprio come Marino, di aver respinto le pressioni dei boss. E certo la storia non finisce qui, come con Marino...La maledizione si abbatte anche sul Movimento di Beppe Grillo, nato all’insegna della purezza e della trasparenza in politica, fattosi grande e robusto con la guerra a caste e privilegi e costretto invece a inciampare nel più tradizionale, italico inciucio tra affari, Palazzo e voti di scambio, con condimento di spaccatura tra duri e puri (Di Maio) e moderati (Fico). Da un giorno all’altro, insomma, ecco che Torquemada finisce sotto processo. Tornano alla mente le parole di Pietro Nenni che, in una lontana Repubblica, saggiamente avvertiva: «A giocare a chi è più puro si rischia di trovare uno più puro di te che ti epura…». Stavolta è toccato a Roberto Saviano che, quando la premiata ditta Grillo & Casaleggio tentennava e sembrava voler difendere la sindaca, ne ha chiesto clamorosamente le dimissioni. Amen. Dunque, è arrivata l’ora del redde rationem, che però non si ferma a Quarto e pone al Movimento nuovi problemi. In mezza Italia, per esempio, è sempre più difficile mettersi al riparo dall’invasività delle mafie: su 258 comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata dal 1991 a oggi, 253 se li contendono Calabria, Sicilia e Campania (prima in classifica). Chi si presenta alle elezioni a sud di Roma e vince, rischia assai. E per affrontare la questione non basta tagliare corto come Grillo: «A Quarto i voti della camorra non sono stati determinanti». Ma come si fa a distinguere tra una scheda e l’altra? E c’è forse, Beppe, una percentuale eticamente accettabile e non determinante di consensi mafiosi? Argomento scivoloso. E poi, un'altra dannazione. Sembra che appena eletti, per una ragione o per l’altra i sindaci finiscano in rotta di collisione con il vertice del movimento. Il catalogo è ricco: Parma, Gela, Ragusa, Livorno, Quarto… È successo anche con molti parlamentari. Forse il problema nasce per l’inevitabile conflitto tra il quartier generale e chi combatte al fronte sporcandosi le mani con il fango della trincea; comunque sembra quasi che la Grillo & Associati sfrutti questi episodi per frenare il dissenso interno e fare pure un po’ di pulizia. Selezione del personale a posteriori. Ma non c’è sempre un agnello da sacrificare. Per un movimento che nei suoi dieci anni di vita ha puntato tutto sulla diversità, un incidente di percorso come quello di Capuozzo & C. è particolarmente fastidioso. Nel tentativo di crescere senza però tradire l’ispirazione originaria, Grillo ha temerariamente pattinato tra Forrest Gump e la Corte costituzionale, tra i vaffa e il Parlamento, tra Di Maio e il partito della rete, tra il suo ologramma e il direttorio convocato negli uffici di Casaleggio. Ha volutamente allevato un non partito, niente strutture né dirigenti, ha platealmente fatto un passo indietro lasciando che i 5Stelle si identificassero con i suoi ragazzi. Ma al primo, grave intoppo ecco che torna a convincersi che senza di lui la nave affonda. Alla fine il padrone del marchio, l’azionista di riferimento che sceglie, indirizza e sanziona è sempre lui. Così non può continuare a lungo e prima o poi il Movimento dovrà decidere se rinunciare a piccole dosi di diversità, darsi regole di democrazia interna e adottare criteri di scelta dei candidati e dei dirigenti più affidabili di un blog o di una rapida consultazione in rete, specie ora che si avvicinano scadenze decisive come il voto di primavera nelle grandi città e poi le elezioni politiche. Roma non è Quarto. E non si può vivere e governare solo nominando ed espellendo. Manco fosse la casa del Grande fratello.
Capuozzo: "Grillo fugge davanti alla mafia". Il sindaco di Quarto attacca: "Inutile avere le mani pulite, se le tieni in tasca", scrive Antonio Angeli il 19 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Ennesimo capitolo del «caso Quarto»: Rosa Capuozzo, il sindaco anticamorra invitato a dimettersi e infine espulso dal MoVimento 5 Stelle, ha sparato parole di fuoco contro il partito che l’ha piantata in asso. Intanto, mentre il Pd fa il tiro al piccione e l’indagine giudiziaria prosegue, si vanno delineando le posizioni di Di Maio e Fico. «È inutile avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca - ha scritto la Capuozzo su Facebook - Il M5S ha avuto l’occasione di combattere il malaffare in prima linea con un suo sindaco che lo ha fatto, ma ha preferito scappare a gambe levate, smacchiarsi il vestito, buttando anche il bambino insieme all’acqua sporca». Il primo cittadino di Quarto (Napoli), durissima, ha proseguito: «Non si governano così i Comuni ed i territori difficili, non si abbandonano così migliaia di persone che hanno creduto in noi e nel MoVimento. È una forma di rispetto che Quarto meritava: rimanere e combattere. Invece è stata fatta una scelta politica in una stanza grigia di Milano. Io ho fatto una scelta di principio per i cittadini onesti di Quarto. Ora lavoreremo per il territorio in modo ancora più incisivo con i principi del MoVimento nell’anima. Mi ripeto - ha concluso la Capuozzo - citando Don Milani "è inutile avere le mani pulite e poi tenerle in tasca"». Il sindaco afferma inoltre che Roberto Fico era stato subito informato del suo interrogatorio davanti al pm Henry John Woodcock. Ha ribadito la circostanza davanti allo stesso pm quando è stata ascoltata lo scorso 12 gennaio. A una specifica domanda risponde di aver parlato «immediatamente dopo» al presidente della Commissione Vigilanza della Rai del fatto che era stata sentita come teste in Procura il 24 novembre, e che Fico era al corrente anche «del contenuto» dell’interrogatorio. Dei suoi contrasti con Giovanni De Robbio, l’ex consigliere pentastellato risultato il più votato a Quarto, aggiunge Capuozzo il 14 gennaio, aveva messo a conoscenza Fico «verso la metà di luglio». Secondo Fico allora non c'erano «gli estremi» per azioni disciplinari nei confronti di De Robbio, azioni poi culminate con l’espulsione il 14 dicembre scorso. I due verbali fanno parte degli atti trasmessi alla prefettura di Napoli e alla commissione parlamentare Antimafia, che ascolterà oggi in audizione la Capuozzo. Secca la risposta dei gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato: «Il MoVimento non sapeva del ricatto». Intanto, a Quarto, due consiglieri comunali M5S rassegnano le dimissioni. In tutta la vicenda inzuppa il pane il Pd: «Te lo do io il direttorio - afferma Gennaro Migliore, facendo il verso a Grillo - Anche oggi le parole del sindaco Capuozzo confermano che il direttorio sapeva e sapeva tutto. Fico, che continua a sostenere l’insostenibile, viene per l’ennesima volta smentito. Si arrampicano sugli specchi senza speranza di riuscire a evitare la caduta. Non danno risposte e vogliono far credere che nelle loro innumerevoli conversazioni si parlasse di contrasti politici». «Pensano davvero - aggiunge Migliore - che la Procura antimafia si occupi di beghe interne invece che di reati di criminalità organizzata? Sono pure vigliacchi, scaricano tutto su altri, se ne lavano le mani e non si assumono le loro responsabilità. Invece di coprire i cocchi del paparino Casaleggio, nel M5S si cominci ad ammettere la verità, il direttorio ha completamente fallito».
Il mistero di Rosa Capuozzo nel labirinto della politica. Chi è davvero il primo cittadino di Quarto, che martedì risponde alle domande dell’Antimafia. Una moderna Giuditta, decisa e coraggiosa, o piuttosto colei che ha tardato a denunciare i ricatti? Un rompicapo su cui in molti si sono persi, scrive Marco Demarco il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Eroina civile, vittima dell’inciucio politico, o sughero galleggiante nella palude della provincia opportunista? Chi è davvero Rosa Capuozzo, sindaca ex grillina di Quarto, lo sapremo forse solo martedì, quando lei stessa risponderà alle domande della commissione Antimafia. Lunedì c’è stata la conferma che si tratta di una donna minuta d’aspetto e forte di carattere. Con l’aiuto di don Milani («È inutile avere le mani pulite e tenerle in tasca») e deprecando i moralismi astratti (c’era da combattere la camorra e invece «il M5S è scappato a gambe levate») la sindaca ha infatti risposto a chi l’ha espulsa dal movimento. Ma ancora nulla che possa mettere il punto alla polemica che l’ha vista contrapposta a Grillo e ai membri del direttorio. Rosa Capuozzo resta dunque un mistero. Uno specchio in cui ognuno vede riflesso ciò che vuole. A volte, ha dato l’impressione di essere decisa e coraggiosa come una moderna Giuditta, riuscendo, come nel mito, a ignorare la timorosa élite maschile della città assediata e a decapitare l’assediante, gigantesco Oloferne. Nel caso, la camorra. Ciò è sicuramente successo quando Rosa la «pasionaria» ha lanciato i suoi appelli anti-clan, o quando non si è piegata davanti alle pressioni di Giovanni De Robbio, l’ex consigliere comunale pentastellato espulso prima di essere indagato per voto di scambio e tentata estorsione proprio ai danni della prima cittadina, residente in una casa forse non condonata. Ma altre volte la sindaca ha invece proposto di sé un’immagine del tutto diversa, come quando, per evitare complicazioni, ha tardato a denunciare i ricatti. O quando, intercettata pur non essendo «avvisata» di alcun reato, ha consigliato ai suoi di «non mettere i manifesti» su quanto stava succedendo a Quarto. Rosa Capuozzo è diventata, insomma, un rompicapo assoluto; il labirinto in cui tutti si sono persi. Compreso Roberto Saviano. In terra di camorra, appena eletta, la sindaca era diventata per lui il simbolo mancante di una politica nobile, incondizionata, per la prima volta libera da quel voto di scambio. E invece: «Deve dimettersi», ha poi sentenziato, anticipando Grillo di ventiquattro ore. Ci sono poi tutti gli altri. Quando Grillo difendeva la sindaca, e i vari Fico e Di Maio non si vergognavano di averla sostenuta, i «democrat» ne chiedevano a gran voce le dimissioni, e la renziana Picierno addirittura calava da Bruxelles a Quarto per manifestare indignata nell’aula del Consiglio comunale. Quando Grillo di colpo l’ha scaricata («l’onesta ha un prezzo»), e vai a capire perché, visto che nulla nel frattempo era cambiato, Renzi a sorpresa l’ha invece difesa («Rosa Capuozzo ha resistito alla camorra, non deve dimettersi»). I rispettivi quartieri generali si sono così ritrovati di punto in bianco sbandati e persi come in un 8 settembre. Nessuno, tra i colonnelli e le generalesse, era più al posto giusto. Picierno ha preso l’aereo e se n’è tornata a Bruxelles; Fico e Di Maio, nell’occasione insieme con Di Battista, sono invece finiti su una panca a discolparsi. Tutti con Rosa, tutti contro di lei. Ma mai tutti insieme. Tipico di una politica italiana gravemente malata di tatticismo. È in campo grillino, però, che le contraddizioni bruciano di più. Tra luglio e dicembre i membri napoletani del direttorio pentastellato si sono incontrati con Rosa Capuozzo almeno cinque volte: nella casa posillipina di Fico, in un bar del centro storico di Napoli, a Quarto. L’assedio al Comune era già iniziato, Oloferne già alle porte. Nessuno si era accorto di niente? O Giuditta aveva già deciso di fare tutto da sola? Martedì, forse, ne sapremo di più.
Cinque stelle cadenti: quanti vip mollano Beppe. L'infatuazione politica di molti artisti per Beppe Grillo sembra già passata. Venditti è l'ultimo pentito: "Ho votato Renzi, fa bene a trattare col Cavaliere", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 31/01/2014, su "Il Giornale". Vatti a fidare degli artisti. Finché vai forte ti trovano interessante, ti fanno pure un concerto gratis se glielo chiedi. Ma quando la moda passa, chi li vede più? Dieci anni fa erano tutti veltroniani, poi ulivisti, quindi di nuovo veltroniani quando Veltroni era in sella al Pd. Poi, dopo una lunga pausa d'incertezza, non potendo buttarsi su Berlusconi perché in quegli ambienti non conviene, han provato a farsi piacere Monti (Eros Ramazzotti: «Ha dato dell'Italia un'immagine più forte»). Naufragato anche lui si sono scoperti grillini. Molto più di una simpatia, un'infatuazione, casualmente cresciuta insieme ai voti del M5S, travolgente col 25% alle politiche. Poi però scemata via via, con le polemiche e le gaffe degli eletti M5S, i dissidi interni, le uscite imbarazzanti, e il casino fine a se stesso, il non toccare mai palla lasciando il campo libero al Pd e persino a Berlusconi. Così, un grande sponsor del M5S come Adriano Celentano, che ancora pochi mesi fa vergava lettere dalla sintassi creativa per lanciare Grillo (e, per inciso, anche per difendere il metodo Stamina) e il suo M5S «movimento altamente democratico che ha generato la speranza in un mondo tutt'altro che ostile», si è raffreddato. Grillo non è più tanto rock per il Molleggiato. «Perché per la seconda volta si è rifiutato di fare il Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri - lo bacchetta Celentano sulla rivista San Francesco -. E quindi Renzi si è rivolto a Berlusconi, che pur avendo una condanna rappresenta 8 milioni di italiani, perciò mi fanno ridere gli ipocriti quando dicono che non doveva parlare con Berlusconi». Morale: l'ex grillino Celentano elogia l'accordo sulla legge elettorale, lo stesso «Pregiudicatellum» che per Grillo è fatto apposta per far fuori il M5S, addirittura uno dei motivi per l'impeachment di Napolitano. Ma seri dubbi anche in casa Fo. Il padre Nobel resta sostenitore, ma prende sempre più spesso le distanze. Prima contro il post di Grillo e Casaleggio contro l'abolizione del reato di clandestinità («Ci sono rimasto male, Beppe ha sbagliato») poi sulla gogna quotidiana contro i giornalisti («linguaggio che non accetto»). Il figlio Jacopo invece, se prima dedicava poesie alle grilline e sul blog ci informava di amare Grillo «fisicamente», si è scoperto renziano. «Ho cenato con Renzi. Lui non' è un tipo normale - scrive adesso il Nobel jr -. È il primo segretario Pd che si capisce quello che dice, ed è anche un temerario visto che dice faccio questo in 30 giorni, quest'altro in 60 giorni. E aggiungo che avere un leader progressista che cambia completamente stile potrebbe essere utile. La forma ha la sua importanza. Anche Povia, che aveva elogiato il M5S («Grillo è stato un voto di protesta giusto»), è passato coi forconi (al grido «usciamo dall'euro, l'Ue ci distrugge!»), mentre colpisce il silenzio da mesi di altri (ex?) sponsor vip del Grillo prima maniera, da Mina alla Mannoia dalla Carrà al pianista Allevi. Al cantatuore romano Antonello Venditti un annetto fa piaceva «l'aspetto morale del Movimento Cinque stelle». Quando Grillo citò sul blog una sua vecchia canzone, Bomba non bomba, Venditti ne fu entusiasta. «Mi fa piacere, la mia canzone raccontava l'arrivo della democrazia a Roma. È il cammino di Grillo e di tante persone che sperano che ci sia la democrazia in Italia». Ora sembra che Venditti sia renziano, anzi che lo sia sempre stato. «L'ho votato due anni fa alle primarie, e anche alle ultime - ha detto a RadioDue -. Renzi ha fatto bene a incontrare Berlusconi, ci mancherebbe altro». E le canzoni adesso le dedica a lui, non più Grillo: «Renzi ha un qualcosa di scanzonato, gli dedicherei Lo Studente Passa». Con sottofondo di sviolinate. Con Pippo Baudo, suo mentore televisivo nella stagione dei Sanremo e delle Domeniche in con Grillo mattatore, è finita a schifìo. Il presentatore all'inizio elogiò Grillo, l'unico che «può dare una scossa alla politica», uno che «ha saputo avvicinare i giovani alla politica». Più tardi però gli ha dato del «fascistoide», e Grillo ha reagito pesante: «Baudo ha attaccato il M5S e leccato il culo a Renzi. Quando fui cacciato dalla Rai lui slinguava Craxi... La pippite è una malattia dell'animo». Tra i delusi vip c'è anche Flavio Briatore: «Grillo è stata una grande delusione - disse il manager - ci aveva dato a tutti un po' di speranza. Invece si sono dimostrati come gli altri, forse peggio».
Vittorio Sgarbi ha abbandonato, in silenzio, la diretta di «Domenica Live» (del 17 gennaio 2016). Lo storico e critico d'arte era stato invitato da Barbara D'Urso per commentare le presunte infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, guidato da un sindaco del «Movimento 5 Stelle». «Adesso che è stato depenalizzato l'insulto - spiega Sgarbi - non vale nemmeno più la pena di usarlo. Così, invitato per discutere sul tema, inesistente, delle infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, paese di cui nessuno, fino a ieri, conosceva l'esistenza, e in cui si manifestano, per ciò che riguarda i rapporti tra i cittadini e i politici, gli stessi fenomeni di qualunque altro luogo d'Italia, ho dovuto ascoltare, per circa un'ora, insensatezze sulla presunta diversità dei 5 Stelle, movimento di cui non si conosce un pensiero, un'idea, e che pensa di disporre degli eletti come fossero «cosa loro», come ha giustamente osservato il sindaco di Gela. Non ci sono - argomenta Sgarbi - due posizioni: ce n'è una, ed è quella dettata dalla Costituzione (la presunzione d'innocenza), non certo quella delle intimidazioni dei Saviano e dei Grillo, ben più prepotenti della mafia e della camorra, delle quali occorre dire che, chi ha diritto al voto non può essere suo esponente. Quindi nessun voto camorrista, se non presunto. Quando la magistratura, con una sentenza, lo riterrà tale, il camorrista non potrà votare. Discorso troppo semplice da fare in una trasmissione in cui ognuno parla senza sapere quel che dice. Mentre chi potrebbe dire qualcosa, è costretto a tacere perché ognuno pretende di essere più puro degli altri. I 5 Stelle non esistono se non per indicare la qualità degli alberghi. Così me ne sono andato in silenzio e senza insultare. Anche gli insulti - conclude Sgarbi - occorre meritarseli». L'Ufficio Stampa di Vittorio Sgarbi
Gli affari disonorevoli dei consoli onorari. Tra bella vita e truffe. Un titolo che dovrebbe favorire i rapporti tra Paesi. Ma che in Italia è distribuito con troppa leggerezza. E talvolta premia personaggi senza scrupoli. Ecco le loro storie, scrivono Federico Franchini e Francesca Sironi il 7 settembre 2016. Nell’ufficio non mancano mai targa e attestato, fra un cartiglio con la carica e la cornice all’“exequatur” (l’atto con cui si riconosce la funzione). Sulla scrivania la bandierina, e se ci sono ospiti è pronto l’album di fotografie: scatti di visite alle istituzioni, galà, strette di mano, selfie con i leader locali. “Console onorario della repubblica Centrafricana in Italia” mostra ad esempio su un invito dai bordi dorati Claudio De Giorgi, imprenditore in oro e diamanti che sul suo sito web personale, fra immagini di safari e cortei di notabili a Bangui, si definisce rappresentante d’onore del Paese africano per le province di Milano, Como e Sondrio, anche se dagli elenchi della Farnesina non risulta. Il titolo è incerto ma è sicura la condanna di aprile a sei anni e mezzo di carcere a Trento. Per un business che riguarda proprio quel riconoscimento di prestigio. Ambìto da molti, in Italia. Le capitali del mondo sembrano ansiose di avere i loro consolati onorari a Napoli o Milano, come a Forlì, Barletta o Pavia: in Italia ne sono registrati oggi 602. Un record europeo. Tanto che il cerimoniale della Farnesina commentava preoccupato la «proliferazione» di questi incarichi, «aumentati enormemente negli ultimi tempi» già in un rapporto di due anni fa. I consoli onorari non sono diplomatici di carriera, non timbrano il cartellino in ambasciata, ma ne godono l’ombra di prestigio e ricevono un nulla osta (in gergo “l’exequatur”) dal nostro ministero, che di solito ostentano con vanto. Sono imprenditori o dentisti, avvocati o consulenti, giornalisti o notai, che si fanno indicare quali “consoli” dall’estero per favorire gli scambi fra le comunità; sbrigano pratiche sui visti, danno una mano ai turisti, ai cittadini, promuovono le reti commerciali: «siamo presenze preziose», spiegano. In cambio ricevono il titolo e alcuni privilegi: dall’inviolabilità degli archivi (quindi della corrispondenza), all’immunità “nell’esercizio della funzione”, passando dalla comoda targa Cc del “corpo diplomatico” grazie alla quale possono parcheggiare ovunque in città. L’Italia è diventata insomma laboratorio internazionale dell’under-diplomazia onoraria: l’Angola, per dire, ha un console d’onore a Varese (provincia in cui risiedono in tutto solo 46 suoi emigrati), il Lesotho a Nuoro (nessun residente, sono 13 in “continente”), Panama ha tre sedi, di cui una a Civitavecchia, San Marino ne ha dieci sparse per la penisola. O ancora: a Firenze ci sono 57 consoli onorari in rappresentanza di molte parti del globo, fra cui Capo Verde e le Seychelles. “Come diventare console onorario” è diventata addirittura una ricerca trendy su Google.it. Una mania. A che pro? Il cerimoniale lo accennava in quel rapporto datato: bisogna accertarsi, spiegava, che «a tale carica assurgano sempre cittadini di specchiata onorabilità» affinché «il prestigio della funzione» non affondi e le immunità non vengano «strumentalizzate per finalità illecite». È un timore tutt’altro che infondato. Le cronache sui consoli onorari, oltre che di feste gossippare, ricevimenti paludati e banchetti vistosi, sono dense di ascese - e discese - velocissime dalle tinte legali in chiaroscuro. Basta guardare al sorriso di Claudio de Giorgi sulle foto dei suoi viaggi in Centrafrica. Ci andava fiero, De Giorgi, di quel titolo di console della piccola Repubblica: tale si firmava in calce alle mail o sul suo profilo Skype. Per il consolato aveva aperto anche un apposito “private bureau” vicino a Lugano, nella succursale della sua società di import/export di oro e diamanti, l’Adamasswiss. Per fare affari in Africa, si sa, servono uscieri di fiducia, e alle porte giuste. A De Giorgi non mancavano certo: è l’ex presidente in persona, François Bozizé, a firmare i decreti di concessione per l’Adamasswiss nella Repubblica centrafricana. Ed è sempre Bozizé, noto per avere venduto migliaia di documenti diplomatici a veri o presunti uomini d’affari, facendone quasi un business di Stato, a concedergli il rango di diplomatico che vanta. Quello che però De Giorgi, residente in provincia di Sondrio, ricorda meno volentieri, sono le multe in Svizzera per contrabbando di diamanti. E l’ultima condanna, la più grave: una sentenza a sei anni di carcere per truffa e associazione a delinquere in Italia, arrivata ad aprile. Al centro della vicenda c’è una (presunta) miniera di diamanti che si doveva trovare proprio nella Repubblica centrafricana: miniera su cui aveva convinto 159 piccoli risparmiatori a investire. Le pietre preziose però non esistevano affatto: e le vittime ci hanno rimesso oltre cinque milioni di euro, convinte da quello che sembrava un affare sicuro, viste le relazioni di rango vantate dagli intermediari. Oltre a De Giorgi, a rassicurarli c’era Giacomo Ridi, anche lui presunto console onorario della Repubblica centrafricana e consulente finanziario: era Ridi - poi morto suicida - a convocare liberi professionisti, dipendenti, giovani e pensionati negli hotel di Trento promettendo loro quella “miniera di soldi”, e diamanti. Che si è rivelata una promessa di fumo. La confusione fra diplomazia e business d’altronde affiora spesso nelle anticamere dei consolati d’onore. Eccola riemergere a Busto Arsizio, nel processo che vede imputato in questi mesi Fabrizio Iseni. Leghista di ferro, imprenditore della sanità, amico stretto della famiglia Bossi (fino ad essere soprannominato “il badante del Trota”), Iseni è indagato, fra l’altro, proprio per aver mescolato la sua carica di console onorario della Costa d’Avorio a quella di titolare della “Iseni consulting”, una società che in due anni ha ricevuto due milioni di euro da alcuni imprenditori della provincia di Varese. Alla procura di Busto non sono chiari i riscontri di quelle attività ben remunerate: i contratti hanno testi fotocopia, sostengono, le consulenze mancano d’esiti concreti. Di certo, il carteggio indicherebbe il motivo reale per cui quei soldi sbarcavano sui conti di Iseni: i suoi rapporti con il Paese africano, dove i piccoli industriali padani speravano di sbarcare con successo. Console-consulente: la sua attività “alta” di diplomatico si era sovrapposta insomma a quella commerciale. Un errore in cui cade, restando in terra verde padana, anche l’ex assessore comunale di Bergamo Marcello Moro, indagato per corruzione: stando alle testimonianze, Moro si era fatto pagare dagli imprenditori imputati con lui sia la sede sia la segretaria del consolato onorario del Ghana a Milano, di cui è stato titolare dal 2002 al 2009. Non solo: fra gli ultimi atti depositati a processo ci sono gli esisti delle rogatorie in Svizzera, i conti su cui transitava denaro. Chiamati Diplo1 e Diplo2. La rete capillare dei consoli d’onore in Italia conta altri casi limite fra il glamour e il nero. Come quello di Emanuele Cipriani, per esempio, “l’uomo dei dossier”, l’investigatore privato condannato nel caso Telecom insieme a Fabio Ghioni e Giuliano Tavaroli, ch’era console onorario della Repubblica di Guinea e che secondo i giudici spiava «avvalendosi anche delle immunità» proprie di quel ruolo. C’è Nicola Falconi, l’ex capo dell’Ente Gondola di Venezia accusato di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sul Mose, che portava in tasca il titolo di console onorario della Finlandia dal 1996. C’è Giovanni Fagioli, grande armatore emiliano, un giro d’affari da 300 milioni di euro, console onorario della Bulgaria a Parma, indicato per questo nei Panama Papers come “persona politicamente esposta”, beneficiario di una società alle Isole Vergini Britanniche. Ci sono persone comuni: dalla pr di grido che rappresenta la Danimarca a Milano al console dell’Ungheria a Bari che ha aperto il sito “dentistinbudapest.it” per le cure dentali low cost, al console del Nicaragua che aveva la sede in una discoteca a Livorno. E poi in storie come queste non può mancare il contorno delle principesse. Ne furono invitate a iosa per un matrimonio di cui parlarono i quotidiani, nel 2003. Quattro giorni di riti, di sfarzi, di scintillii e gonne lunghe, sgomitate per essere a quelle “nozze dei vip”, quel “matrimonio da favola”, con “molto lusso ma non ostentato” (costruirono apposta un villaggio nella giungla), fra gioiellieri, alta finanza, immobiliaristi e amici. L’unione era d’amore, scrivono le cronache, fra il genovese Fabio Ottonello e una delle figlie del presidente del Congo Brazzavile, Cendrine Sassou-Nguesso, erede di una famiglia che dirige quasi ininterrottamente il Paese dal 1979, tenendo in saldo controllo il business principale di quei confini: il petrolio. Lui, figlio di un uomo che commerciava con il Congo in caffè e cacao, dopo le nozze diventa testa d’affari eterogenei: compra navi, affitta aerei, offre servizi alla produzione petrolifera e gestisce locali e ristoranti a Point-Noire. Il suocero lo nomina console onorario del Congo a Genova. Poi la coppia divorzia. Ma a una Francesca Ottonello resta il consolato. D’onore.
Ecco chi ci rappresenta all'estero. Emigrati di successo, imprenditori. Ma anche affaristi equivoci, scrive il 7 settembre 2016 “L’Espresso”. Ad attirare interessi sotto-diplomatici non sono solo le cariche attribuite dagli stranieri a rappresentanti di prestigio in Italia. C’è anche - viceversa - il piccolo esercito di nostri concittadini che hanno sedi onorarie per il tricolore all’estero. Si tratta di persone che svolgono, anche in questo caso, il loro compito gratis, ad eccezione di alcuni rimborsi che nel 2015 sono costati al ministero degli Affari Esteri 798.396 euro. Roma conta nei Paesi stranieri 541 uffici onorari, di cui 401 operativi e 340 sostenuti in parte economicamente. Ci sono funzionari d’onore nelle terre d’emigrazione storiche di italiani in Sud America oppure nelle nuove “terre dei pensionati” caraibiche. Ci sono uomini d’affari, che favoriscono gli scambi in Africa. O emigrati di successo. Ma ci sono anche personaggi di potere, come Gianfranco Falcioni, petroliere e viceconsole onorario dell’Italia in Nigeria, a cui sarebbe riconducibile, secondo le indagini, il conto svizzero della società offshore “Petro Service” su cui atterrò nel 2011 il miliardo e 92 milioni di euro versati dall’Eni al governo di Abuja. Intervistato dal “Sole 24 Ore”, Falcioni rispose soltanto che quella offshore «non ha mai operato». Gli intrecci complessi fra diplomazia e affari non trasparenti nei consolati africani sono stati raccontati magistralmente in un documentario del 2011 del giornalista danese Mads Brügger, candidato al Sundance. Fintosi uomo d’affari interessato al titolo di console onorario della Liberia, per sfruttare una miniera di diamanti, Brügger incontra diversi “colleghi”, che gli danno consigli importanti, come: «non toccar le donne, il resto è permesso». È uno dei suggerimenti di Gino Pierre Giuliani, ex rappresentante d’onore dell’Italia a Bangui, che, filmato a sua insaputa, aiuta il giornalista nel suo affare opaco. Ora il ruolo è passato a “Stephane Giuliani” che ha mantenuto la sede del consolato allo stesso indirizzo dell’uomo che vantava d’essere «il più antico membro consolare a Bangui» nel docu-film.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
Mini trattato del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd del 4 aprile 2016: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo. Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza. Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». All'indomani delle parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva, dura, la replica del presidente della sezione della Basilicata dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), Salvatore Colella: «Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti. Inopportune perché arrivano in un momento molto delicato dell'inchiesta, con un intervento “a gamba tesa” e le sue insinuazioni sono quantomeno viziate da un interesse di parte, inconsistenti perché smentite, solo poche ore dopo, da un pesante verdetto di condanna contro i vertici della Total nel processo “Totalgate” (dopo 8 anni, con inchiesta nata nel 2008 per mani di Woodcock). Se è vero che in un paese civile, come dice il Presidente Renzi, “i processi arrivano a sentenza”, e noi abbiamo dimostrato di saperlo fare - ha continuato l'Anm lucana - è anche vero che in un Paese civile “il governo rispetta i lavoro dei magistrati”, sempre, anche quando toccano la propria parte politica. Ci saremmo aspettati la stessa intransigenza e fermezza di condanna annunciata dal Presidente in occasione di altre inchieste di rilievo nazionale». Renzi sceglie Facebook per rispondere alle critiche sulle sue affermazioni sulla Procura di Potenza: «Oggi leggo che Renzi accusa i magistrati, noi stiamo incoraggiando i magistrati a fare il più veloce possibile. Non accuso i magistrati, accuso un sistema che non funziona, voglio mettere in galera i ladri, per questo incalzo i magistrati perché siano veloci», ha detto Matteo Renzi in diretta da Palazzo Chigi utilizzando Facebook Mentions.
Ma a prescindere dalla diatriba farsesca, tra parti che si coprono a vicenda, parliamo dei danni inflitti alla comunità dalle lungaggini processuali ed a cui nessuno vuol porre rimedio per non inimicarsi “le sacre toghe”.
Per porre rimedio alle condanne inflitte dalla CEDU il legislatore italiano ha inventato la Legge Pinto, ossia la legge che, man mano annacquata da riforme restrittive, è a tutti gli effetti una legge truffa.
Chi è stato coinvolto in un processo – civile, penale, amministrativo, pensionistico, militare, in una procedura fallimentare o concorsuale ovvero, a certe condizioni, tributario, ecc. – per un periodo di tempo considerato «irragionevole», cioè troppo lungo, può richiedere, in base alle disposizioni della legge 24 marzo 2001, n. 89, meglio conosciuta come “legge Pinto”, una equa riparazione, cioè un risarcimento del danno allo Stato italiano, nella misura determinata dalla legge stessa in ragione degli anni o frazione eccedenti la durata ragionevole.
Secondo l’art. 2-bis, si considera rispettato il termine ragionevole per la durata del giudizio «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità».
La legge Pinto è stata modificata col D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. È stata poi modificata dalla legge di stabilità 2016. L’ammontare effettivo del risarcimento concesso dipende dalla materia del procedimento e dalla sede territoriale della Corte: di solito vengono liquidati risarcimenti più alti per questioni in materia di famiglia o status della persona, per procedimenti penali o pensionistici, meno per altre questioni; inoltre le corti d’appello che si trovano al Nord sono, solitamente, più di manica larga rispetto a quelle del meridione, parallelamente alla differenza del costo della vita, almeno tendenzialmente. In materia, valgono inoltre le regole poste dall’art. 2 bis della legge Pinto. Il risarcimento può essere chiesto anche se il giudizio è terminato con una transazione e cioè mediante un accordo tra le parti (Cass. 8716/06, Cass. 11.03.05 n. 5398). Il risarcimento va chiesto con ricorso alla Corte d’Appello territorialmente competente e viene deciso dalla corte con un decreto che poi va notificato al ministero, con una procedura simile a quella prevista per l’ingiunzione di pagamento.
La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) è una legge della Repubblica Italiana. Essa prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l'irragionevole durata di un processo. La norma nacque come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in base all'art. 13 della Convenzione che prevede il diritto ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. In tal modo, si introduce un nuovo ricorso interno, che i ricorrenti devono avviare prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. Tuttavia le Corti d'Appello inizialmente non hanno applicato i parametri della CEDU per la definizione dell'irragionevole durata del processo, ma hanno chiesto ai ricorrenti la dimostrazione dell'aver subito un danno (cosa che, secondo l'art.6 CEDU, è incluso nel fatto stesso). Tali casi sono stati quindi ri-appellati alla Corte CEDU di Strasburgo per scorretta applicazione della Legge Pinto. Nel 2004 la Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel decidere in casi relativi alla legge Pinto, senza poter richiedere la prova del danno subito dal ricorrente. La sentenza Brusco della CEDU ha infine statuito che tutti i casi pendenti a Strasburgo dal 2001 (sui quali non sia ancora stato dato un giudizio di ricevibilità da parte della Corte) debbano tornare in Italia per l'appello interno secondo la legge Pinto. La sentenza Brusco è stata criticata per gli alti costi processuali presenti nella procedura interna italiana, ed inesistenti a Strasburgo. L'art. 55 del Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente "misure urgenti per la crescita del paese" (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), ha apportato importanti modifiche alla legge, volte a porre un freno alle richieste di risarcimento. Infatti, la riforma introdotta dal c.d. DL Sviluppo 2012 è stato profondamente mutato il procedimento delineato dalla Legge Pinto per permettere un più agevole ed efficace accesso al giudizio di equa riparazione ed ottenere in tempi più rapidi (che non siano a loro volta “irragionevoli”) il giusto risarcimento.
1) Non è più investita della decisione la Corte d'Appello in composizione collegiale. A decidere sarà un giudice monocratico di Corte d'appello con una procedura modellata su quella del decreto ingiuntivo e quindi, senza inutili appesantimenti procedurali (a titolo di esempio basti pensare che per la fissazione dell'udienza, specie avanti le Corti di appello più oberate, occorrono mesi o anni di attesa).
2) Viene fissato un preciso tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa “irragionevole” facendo così sorgere il diritto all'equa riparazione. Il processo non è svolto in termini ragionevoli quando supera i sei anni (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).
3) Sono stati puntualmente fissati gli importi per gli indennizzi commisurati in 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccedente rispetto al termine di ragionevole durata.
4) In ogni caso la domanda può essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.
La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta "Legge di Stabilità 2016", introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo ancor di più la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.
SCHEMA ESEMPLIFICATIVO.
IL DANNO
Danno da lungaggine del processo per la Cedu: patrimoniale o non patrimoniale.
Danno da lungaggine del processo per lo Stato Italiano: Forfettario. Prima, da 500 euro a 1500 euro, dopo, da 400 euro a 800 euro.
IL DIRITTO
Diritto al risarcimento per la CEDU: è incluso nel fatto stesso (onere della prova a carico dello Stato, an e quantum) senza valutazione ed interpretazione.
Diritto al risarcimento per lo Stato Italiano: ai ricorrenti tocca la dimostrazione dell'aver subito un danno (onere della prova a carico dei ricorrenti, an e quantum) e valutazione data dai magistrati responsabili essi stessi del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice collega durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
DURATA
Durata ragionevole del processo per la Cedu: ragionevole inteso in senso oggettivo europeo.
Durata ragionevole del processo per lo Stato Italiano: 3 anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno per il terzo grado. Precisando che il processo si considera iniziato, nell’ambito dei procedimenti civili, con il deposito del ricorso o con la notifica dell’atto di citazione; penali, con l’assunzione della qualità di imputato e non di indagato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero, quando l’indagato ha legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.
ITER
Iter risarcitorio per la Cedu: procedimento amministrativo semplificato, veloce e gratuito.
Iter risarcitorio per lo Stato Italiano: procedimento giudiziario di competenza dell’ordine professionale foriero del danno attivato. Prima presso la Corte di Appello competente ex art. 11 c.p.p., poi, presso la Corte di Appello foriera del danno in composizione monocratica ed inaudita altera parte. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis”o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.
ATTIVAZIONE
Attivazione dell’iter per la Cedu: semplice domanda.
Attivazione per lo Stato Italiano: Prima semplice ricorso giudiziario, dopo una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.
GRAVOSITA' DELL'ONERE DELLA PROVA
Onere della prova per la Cedu: Fascicolo acquisito d’ufficio.
Onere della prova per lo Stato Italiano: copie fascicolo conformi all’originale con oneri di bollo e diritti.
DIFFICOLTA' ARTEFATTE
Intoppi ed ostacoli per la Cedu: nessuno.
Intoppi ed ostacoli per lo Stato Italiano: La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, (insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa, come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola), istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".
TERMINE DELLA DOMANDA
Termine della domanda per la Cedu: ragionevole.
Termine della domanda per lo Stato Italiano: In ogni caso la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.
PAGAMENTO
Pagamento per la Cedu: immediato e semplice.
Pagamento per lo Stato Italiano: gli indennizzi potranno essere erogati entro il limite delle risorse disponibili di un apposito capitolo del ministero della Giustizia. Per fortuna sarà possibile un‘anticipazione di tesoreria, ma solo nel caso venga attivata l’esecuzione forzata. In quel caso sarà Banca d’Italia a provvedere registrando il pagamento in "conto sospeso" in attesa che il ministero regolarizzi la partita contabile non appena abbia le risorse per farlo. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato.
TERMINI DEL PAGAMENTO
Termini ragionevoli di adempimento per la Cedu: due anni.
Termini ragionevoli di adempimento per lo Stato Italiano (Pinto su Pinto): prima 4 mesi, dopo, 6 anni ordinari, dopo le pronunzie giurisprudenziali, 2 anni e tre anni. 2 anni. La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Infine 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata". E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001). Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".
SANZIONI
Sanzioni per la Cedu: nessuna, se non la pronuncia di rigetto della domanda.
Sanzioni per lo Stato Italiano: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!
Per le lungaggini processuali il nostro Paese è ancora ai primissimi posti nella classifica delle violazioni dei diritti umani. Assieme a disoccupati, debito pubblico e corruzione, l'Italia detiene un altro primato internazionale: il numero di ricorsi presentati da nostri concittadini alla Corte europea dei diritti dell'uomo, scrive su Elisabetta Burba il 29 gennaio 2015 su “Panorama”. A inizio ottobre 2014, l'Italia era in cima alla graduatoria dei paesi con maggior numero di ricorsi per violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, soprattutto per lungaggini processuali e sovraffollamento delle carceri. Tanto che nel 2013 è stata condannata a versare indennizzi per oltre 71 milioni di euro. Pur avendo quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012 (quando aveva raggiunto la cifra record di 120 milioni di euro), anche nel 2013 il nostro paese è stato quello condannato a versare la cifra più alta fra tutti i 47 paesi membri del Consiglio d'Europa. Lo Stato ha accumulato uno stock di debito di oltre 455 milioni di euro a titolo di risarcimento per i procedimenti non definiti entro il termine massimo di 6 anni. Ogni anno vengono presentate circa 12 mila istanze relative a richieste per cause definite con ritardi fino a 3 anni (sono il 25%), per indennizzi tra 3 e 7 anni (55% circa 6.600 casi). Ma ci sono anche richieste di risarcimento per ritardi che definire esorbitanti è riduttivo: in 2.400 casi oltre 7 anni rispetto al termine di legge. Le cifre che ogni anno le casse dello Stato liquidano per questi procedimenti è di circa 45 milioni. Con 17.300 procedimenti aperti, nell'ottobre 2014 l'Italia si è aggiudicata il primo inglorioso posto nella classifica dei ricorsi, davanti a paesi non esattamente garantisti come Russia, Turchia e Ucraina. Negli ultimi mesi il numero dei ricorsi è calato agli attuali 12mila, ma la situazione resta critica. «Come numeri assoluti purtroppo siamo ancora molto in alto: al secondo posto dopo l'Ucraina e prima della Russia, anche se fortunatamente non occupiamo più la prima posizione» dice a Panorama Guido Raimondi, il giudice italiano nonché vicepresidente della Corte. Il tribunale ha sede a Strasburgo in uno stravagante palazzo del 1995 che si ispira all'allegoria della dea Giustizia: la hall centrale di vetro simboleggia l'accessibilità della Corte e le due torri d'acciaio laterali con tetto inclinato i piatti della bilancia. Ed è proprio la "denegata giustizia" l'oggetto del contendere fra la Corte e l'Italia. Al primo posto, un annoso problema dei tribunali italiani: le lungaggini processuali (seguito a ruota dal sovraffollamento carcerario). «Il nostro contenzioso riguarda in gran parte l'eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie- spiega Raimondi - L'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che gli Stati membri sono tenuti ad applicare, dice che ogni persona ha "diritto a un equo processo". E quando la Corte rileva la violazione di un diritto segnala allo Stato che nel suo sistema c'è un problema: spetta allo Stato risolverlo. Nel caso dei processi interminabili, un fenomeno esploso negli anni Ottanta, la soluzione trovata nel 2001 era stata la legge Pinto. Quello che in gergo è detto un "rimedio interno" prevedeva un sistema risarcitorio in ambito nazionale secondo un ammontare previsto dalla Corte. Una volta promulgata la legge, che prevedeva il diritto di risarcimento in caso d'irragionevole durata di un processo, la Corte aveva ritenuto chiuso il caso. Peccato però che a Roma mancassero gli stanziamenti necessari per applicarla...». «Non solo - commenta Manuel Jacoangeli, l'attivissimo ambasciatore italiano a Strasburgo, che riceve Panorama nella prestigiosa sede del governo italiano, una villa art nouveau del 1899. - In tutti questi anni, Roma non ha saputo risolvere il problema attraverso una complessiva riforma della giustizia. Risultato: in breve tempo i ricorsi a Strasburgo per lungaggini processuali erano ripresi, gonfiandosi a dismisura, fino a coprire circa i due terzi del totale». «Il numero dei ricorsi individuali contro l'Italia, in comparazione con quello di altri paesi, è solo relativamente un indicatore dello stato dei diritti umani - spiega Vladimiro Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dal 2001 al 2010. - In Italia è facile organizzare una valanga di ricorsi seriali, facendone esplodere il totale. In altri paesi è meno frequente, anche in presenza di massicce violazioni. La questione dei numeri va quindi relativizzata, anche in relazione al tipo dì violazioni denunziate. Ciò che invece è grave - continua Zagrebelsky - sono le violazioni endemiche e strutturali da molto tempo senza soluzione. L'irragionevole durata dei procedimenti giudiziari ne è il maggiore esempio». Conclude Raimondi: «Per il nostro contenzioso non sì intravede una soluzione soddisfacente a breve termine».
Stop alle affollate udienze in camera di consiglio e ai rinvii per mancanza degli atti del processo presupposto: le richieste di equa riparazione per le lungaggini dei processi continuano a essere avanzate alla corte d’appello, ma i ricorsi depositati dall’11 settembre 2013 sono decisi da un giudice monocratico, e cioè il presidente della corte d’appello oppure un magistrato dello stesso ufficio a tal fine designato. Sono gli effetti delle modifiche alla legge Pinto (legge 89/2001) introdotte dal decreto legge sviluppo (Dl 83/2012, convertito dalla legge 134). La domanda di equa riparazione si propone con un ricorso che deve avere il contenuto dell’articolo 125 del Codice di procedura civile: indicazione dell’ufficio giudiziario adìto, delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni. E mentre la precedente versione della “Pinto” attribuiva alle parti la facoltà di chiedere alla corte di acquisire gli atti e i documenti del procedimento presupposto, adesso il comma 3 del nuovo articolo 3 dispone che, unitamente all’atto introduttivo del giudizio, devono essere depositati in copia autentica gli atti più significativi di quel procedimento, e precisamente: la citazione, il ricorso, le comparse e le memorie; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice (si tratta, evidentemente, di quelli interlocutori pronunciati in corso di giudizio); infine, il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Adempimenti che gravano in modo non indifferente l’attività propositiva, minandone la convenienza, pur rimanendo l’esenzione dei diritti statali. Lo stesso articolo 3 individua pure la legittimazione passiva: il ricorso va proposto nei confronti del ministro della Giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del ministro della Difesa in ipotesi di procedimenti del giudice militare, del ministro dell’Economia in tutti gli altri casi. Entro trenta giorni dal deposito del ricorso, il giudice pronuncia un decreto motivato. L’istanza è rigettata nelle ipotesi previste dall’articolo 640 del Codice di procedura civile, espressamente richiamato dal nuovo articolo 3 della Pinto, e cioè quando non sia accoglibile oppure quando la parte non abbia risposto all’invito del giudice di provvedere alla prova nei casi di domanda non sufficientemente giustificata. In caso di rigetto della richiesta, non solo il ricorso non può essere riproposto (salva l’opposizione), ma la parte rischia pure la condanna al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma compresa tra mille e 10mila euro. Nei casi, invece, di accoglimento, il giudice ingiunge all’amministrazione di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida pure le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento. Il nuovo rito ricalca dunque lo schema del giudizio monitorio e introduce alcuni elementi di chiarezza, mutuati dalla giurisprudenza della convenzione dei diritti dell’uomo (Cedu) e della Cassazione, che dovrebbero condurre a decisioni tendenzialmente standardizzate. Per un verso, infatti, si è proceduto all’esatta individuazione del termine di durata ragionevole del processo: tre anni per il primo grado, due anni per il secondo, un anno per il giudizio di legittimità, con l’ulteriore precisazione che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Sotto il profilo dell’importo dovuto a titolo di equa riparazione, poi, si stabilisce che il giudice liquidi una somma tra 500 e 1.500 euro per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Un’altra importante novità riguarda i tempi. L’articolo 4 della precedente versione della Pinto ammetteva la proposizione della domanda di equa riparazione già durante la pendenza del procedimento, mentre le recenti modifiche consentono l’istanza solo entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva.
Quello che non traspare è la truffa perpetrata. Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice ed altri raggiri contro il cittadino. Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare la violazione il giudice valuta:
- la complessità del caso,
- l’oggetto del procedimento,
- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:
- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,
- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,
- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,
- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;
- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.
E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!
Non basta vi è anche la “Pinto sulla Pinto”! La Cassazione sui Processi lumaca. La Cassazione interviene sulle lungaggini processuali, fissando la durata delle cause promosse ex lege Pinto, nel termine massimo di due anni, superati i quali la vittima si aggiudica il diritto ad altro e diverso ristoro. La Corte Costituzionale li dilata a 3 anni. Come si suol dire: cornuto e mazziato!
Sono le vittime del paradosso della giustizia italiana che oltre all’inganno di processi interminabili subiscono la beffa di ottenere con eccessivi ritardi processuali il ristoro dovuto! La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Il Collegio, discostandosi da un precedente orientamento, riconosce, dunque, la ragionevolezza del termine di due anni, ritenendolo “pienamente compatibile con le indicazioni…della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, e considerando il fatto che un giudizio in Cassazione “non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno”. Quanto al termine di quattro mesi, previsto dalla legge 89/2001, c.d. Legge Pinto, la Cassazione precisa la natura meramente sollecitatoria, e dunque non perentoria, dello stesso, essendo impensabile che un giudizio volto ad ottenere equa riparazione possa chiudersi in così breve tempo. Anche in questo caso, dunque, il Ministero della giustizia dovrà pagare! I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata" quindi 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001).
Dopo tutta la traversata nel deserto e dopo averti messo contro l’intera casta dei magistrati locali finalmente si può ottenere l’equo ristoro con la pignorabilità dei beni statali, tenuto conto che il Ministero non è propenso a pagare? La finanziaria 2007 al comma 1351, così come nel 2006 era avvenuto per i beni del Ministero della Salute, ha stabilito la impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia: “non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento delle spese per servizi di forniture aventi finalità giudiziaria e penitenziaria, nonchè gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, accreditati mediante aperture di credito in favore di funzionari delegati degli ufficio centrali e periferici del Ministero della Giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. E’ come se lo Stato adottasse per sè il principio secondo cui “chi non ha nulla, non ha niente da perdere” e cioè il nullatenente non sarà mai aggredibile forzatamente dal debitore in quanto non ha alcun bene su cui potersi soddisfare! Lo Stato rendendo i propri beni impignorabili, in buona sostanza, diviene come un soggetto che non ha beni da aggredire. La legge sopra menzionata si aggiunge a tutta una serie di norme speciali che rallentano ed ostacolano le azioni esecutive nei confronti della PA. Si pensi, ad esempio, che per proporre azione esecutiva nei confronti della PA occorrono 120 gg. a fronte della immediatezza di tale azione nel caso di cittadini. Se poi i 120 giorni cadono durante le ferie processuali questi diventano 170. Eppure tali leggi dovrebbero di per sè essere incostituzionali in quanto si preclude la pignorabilità e quindi la tutela costituzionale del credito. Con la finanziaria del 2007 i creditori si sono trovati impossibilitati ad ottenere il loro avere e lo stesso blocco lo hanno trovato i creditori in base alla Legge Pinto. Come se ciò non bastasse è intervenuta la legge 181/2008 che all’art. 1 ter ha esteso l’applicazione della impignorabilità sulle contabilità speciali delle prefetture, direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di Finanza, alla contabilità ordinaria del Ministero di Giustizia e degli uffici giudiziari. Pertanto non sono più soggetti a pignoramento: gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrativo dal Ministero di Giustizia, accreditati mediante aperture di credito in favore dei funzionari del Ministero della Giustizia e degli uffici giudiziari.
La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta la Legge di Stabilità 2016, introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.
Misura dell'indennizzo. L'indennizzo viene ridimensionato ed è ora previsto (art. 2-bis) in una misura che va da un minimo di euro 400 ad un massimo di euro 800 (mentre prima il massimo era previsto in euro 1.500).
Rimedi preventivi. La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".
Casi di non riconoscimento dell'indennizzo. All'art. 2 vengono inoltre aggiunti casi nei quali "Non è riconosciuto alcun indennizzo" e ulteriori casi nei quali "si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo", come ad esempio nel caso di contumacia (a dispetto di recenti pronunce della Corte di Cassazione) o di dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato. L'indennizzo non è riconosciuto, invece, ad esempio, in "caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento" o quando la parte "ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese". A questo punto il ricorso per l'equo indennizzo sottopone il processo svoltosi in ritardo ad una valutazione, talvolta altamente discrezionale, da parte della Corte d'Appello.
Modalità di pagamento. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato. Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".
Legge Pinto: la modifica della competenza per territorio e le nuove “modalità di pagamento”, scrive Finocchiaro Giuseppe - Professore associato di diritto processuale civile nell'Università degli Studi di Brescia. Ultime due rilevanti novità nella profonda metamorfosi di fine anno della legge Pinto sono costituite: da un lato, dalla modifica della competenza per territorio; dall’altro lato, dall’introduzione di una serie di complesse norme in tema di “modalità di pagamento”.
La modifica della competenza per territorio. Nel procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo la Corte d’appello (competente per materia in unico grado), dovendo valutare la violazione della ragionevole durata del processo presupposto, è chiamata non soltanto a verificare anche la condotta dei magistrati cui era stata affidata la direzione del medesimo processo presupposto, ma anche a pronunciare un provvedimento potenzialmente generatore della loro responsabilità erariale, come indicato dall’art. 5, comma 4, legge Pinto. A ragione di ciò, al fine, pienamente condivisibile, di assicurare le più complete terzietà ed imparzialità del giudice chiamato a valutare sulla violazione della ragionevole durata del processo presupposto, il legislatore, fin nella versione originaria del 2001, aveva stabilito l’applicabilità del criterio di competenza territoriale previsto dall’art. 11 c.p.p. per i procedimenti penali riguardanti i magistrati. In forza di questa norma, come ben noto, si verificava uno spostamento della competenza dall’ufficio giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente, sicché la domanda andava proposta alla “corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Questa scelta, confermata nelle precedenti riforme degli anni 2007 e 2012, dava luogo ad un inconveniente di non poco conto: faceva sì che sulle Corti d’appello limitrofe a quelle di grandi dimensioni e, conseguentemente (anche soltanto per ragioni statistiche), con un gran numero di ritardi giudiziari, si riversasse una mole di ricorsi ex legge Pinto spesso sproporzionata rispetto all’organico ridotto dell’ufficio giudiziario competente: il caso sicuramente più eclatante è quello relativo alle domande dei procedimenti celebrati nella Capitale (sede altresì delle magistrature superiori, presso cui confluiscono in sede d’impugnazione pressoché tutti i procedimenti giurisdizionali) che venivano interamente devolute alla Corte d’appello di Perugia. Per rimediare a questa inefficienza del sistema, la legge di stabilità 2016 ha sostituito l’art. 3, comma 1, prevedendo che la domanda di equa riparazione debba essere proposta alla “corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto” ed ha contestualmente aggiunto al comma 4 la precisazione secondo cui “Non può essere designato [per la trattazione del procedimento] il giudice del processo presupposto”. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis” o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.
“Modalità di pagamento”. E’ la rubrica del nuovo art. 5-sexies, che dimostra quanto sia vero il detto secondo cui “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: anche dopo la liquidazione della somma a titolo di equo ristoro per l’irragionevole durata del processo presupposto, la parte deve attendere per ottenere effettiva soddisfazione del proprio diritto all’indennizzo (cioè, essere concretamente pagata). Per cercare di porre rimedio a questa situazione, nella primavera scorsa era stato siglato tra il Ministero della Giustizia e la Banca d’Italia (“anche quale esercente la Tesoreria dello Stato”) un accordo in virtù del quale questa “presta collaborazione temporanea” a quello “nelle attività preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto dalle competenti corti d’appello a titolo di indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 e delle relative spese processuali” (le parti tra virgolette sono estrapolate dal testo dell’accordo del 18 maggio 2015. Il nucleo dell’accordo consiste nella predisposizione da parte della Banca d’Italia dei mandati di pagamento grazie alla creazione di un database da aggiornarsi settimanalmente. Il nuovo art. 5-sexies, comma 1, impone ora sul creditore i concorrenti oneri, da un lato, di rilasciare un’autocertificazione “attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, le modalità di riscossione prescelta … [accreditamento su conto corrente intestato al creditore medesimo o, per importi non superiori a 1.000 euro, per cassa o per vaglia cambiario non trasferibile]”, e, dall’altro lato, di trasmettere, all’amministrazione debitrice, della “documentazione”, che verrà precisamente individuata con decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero della Giustizia da emanarsi entro il 30 ottobre 2016 (anteriormente all’adozione dei decreti ricordati, pertanto, deve ritenersi che la disposizione de qua non sia applicabile). Ai sensi del successivo comma 4, la mancata, incompleta o irregolare trasmissione, vuoi della dichiarazione, vuoi della documentazione, costituisce legittima causa per il mancato pagamento dell’ordine di pagamento entro il termine di 6 mesi dalla ricezione. Questa articolata e complessa serie di norme, di stampo spiccatamente amministrativo-burocratico, non soltanto ha rilievo interno alle amministrazioni debitrici, ma incide anche sul diritto costituzionale di azione giurisdizionale: l’art. 5-sexies, comma 7, infatti, stabilisce che prima che sia decorso il ricordato termine semestrale per lo spontaneo adempimento “i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento” [di condanna].
Le nuove norme ricordate non possono non essere criticate, considerato che:
- innanzi tutto, appaiono profondamente inopportune ed inique, atteso che impongono alle parti private (risultate vincitrici all’esito di un processo giurisdizionale) di rendere delle autodichiarazioni (penalmente rilevanti) di fatti e di produrre della documentazione, i quali sono gli uni e l’altra già, rispettivamente, noti e nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni debitrici;
- in secondo luogo, pongono dubbi di conformità con gli art. 3 e 24 Cost., posto che condizionano l’accesso alla tutela giurisdizionale, indicata a più riprese dal giudice delle leggi come diritto essenziale e fondamentale del sistema giuridico costituzionale, a formalità volte esclusivamente a rimediare alle inefficienze delle pubbliche amministrazioni debitrici, che si dimostrano incapaci di gestire in modo ordinato i pagamenti dovuti;
- da ultimo, sono potenzialmente foriere di una notevole crescita del carico di lavoro giudiziario: non pare, infatti, infondato il timore che la principale e reale conseguenza applicativa delle nuove norme sarà di creare contenzioso circa le regolare e completa trasmissione della dichiarazione e della documentazione richieste.
COPIA CONFORME DEGLI ATTI. Prima della riforma del processo ex lege Pinto, scrive Concetta Pennisi, il ricorrente non aveva eccessivi oneri di allegazione; infatti era data facoltà alla parte di richiedere che la Corte disponesse l'acquisizione in tutto o in parte gli atti e i documenti del procedimento in cui si assumeva verificata la violazione della durata del procedimento, le parti avevano diritto, unitamente ai loro difensori, di essere sentite in camera di consiglio se comparivano. Inoltre, erano ammessi il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui era fissata la camera di consiglio. La norma è stata sostituita dall’art. 55 del DL 83/2012 convertito in l. 134/2012 che prevede l’onere per il ricorrente di depositare unitamente al ricorso la copia autentica di tutti gli atti della causa ( l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata); di tutti i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; nonché del provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Si tratta di formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive. Anzitutto la conformità comporta un onere economico gravoso per la parte. Presentare l’intero fascicolo in copia conforme della causa presupposta comporta il pagamento di svariate centinaia di euro in bolli: si pensi che i fascicoli di gran parte delle cause sono composte da migliaia di pagine. Orbene, se lo scopo della legge doveva essere quello di dotare l’ordinamento nazionale di un meccanismo riparatorio capace di riprodurre sul piano interno le condizioni assicurate sul piano internazionale dalla CEDU, tenuto conto che non esistono tali oneri nel procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo, la loro introduzione determina una vessazione tributaria che scoraggia il cittadino dal ricorrere alla giustizia interna per ottenere un’equa riparazione. Si può affermare che l’introduzione dei costi elevati per ricorrere alla giustizia e gli adempimenti formali richiesti, di fatto ha creato ulteriori ostacoli all’accessibilità dell’azione da parte del cittadino e quindi pregiudica l’effettività del ricorso interno. Le parti non possono essere gravate di oneri eccedenti la normale diligenza, tali da rendere difficoltoso o da pregiudicare il proprio diritto. Ne consegue che l’onere di cui è gravato il ricorrente ostacola di fatto l’effettivo esercizio dell’azione a tutela del proprio diritto in aperta violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 34 della Convenzione che sancisce che le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace di tale diritto. Per cui anche tale articolo è suscettibile della sanzione di incostituzionalità ai sensi degli artt. 117 e 24 Cost.
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
Risarcire Morlacchi o Di Matteo, scrive Piero Sansonetti il 14 ago 2016 su "Il Dubbio". L'editoriale del Direttore sulle sproporzioni. Piero Ostellino, recentemente, è stato condannato a risarcire con 150 mila euro due delle tre magistrate che nel giugno del 2013 condannarono Berlusconi per il caso Ruby. Ostellino criticò aspramente quella sentenza. I giudici dell'appello e della Cassazione, successivamente, diedero retta ad Ostellino e torto alle due magistrate: bocciarono la sentenza e assolsero Berlusconi. Le due magistrate però si sono sentite offese da Ostellino e gli hanno fatto causa. Hanno vinto. Criticare un magistrato - sembra - è proibito. Manolo Morlacchi - cittadino come un altro - è stato accusato qualche anno fa di aver rifondato le Brigate Rosse. Cinque mesi in cella. Rischio ergastolo. L'accusa era falsa: assolto in primo e secondo grado. Assolto in Cassazione. Lo hanno risarcito con 15 mila euro. C'è proporzione tra i 15 mila euro per cinque mesi di galera ingiusta, e 150 mila euro per una critica (giusta o ingiusta che fosse)? Le due magistrate hanno fatto causa anche a me (forse per questo sono particolarmente sensibile). A me addirittura hanno fatto due cause: una per un'intervista e una per una dichiarazione in Tv: in tutto altri 150 mila euro. Intanto mi ha fatto causa anche un altro magistrato. Il famoso Pm di Palermo Di Matteo. Altri centomila euro, vuole, perché ho scritto che lui è stato maleducato nell'interrogatorio di De Mita nel famoso processo Stato-Mafia. Ho così appreso che dire a un magistrato che è stato maleducato è dieci volte più grave che prendere un povero cristo e sequestrarlo in cella per cinque mesi. Tra i 150 mila euro alle due milanesi e i 100 mila a Di Matteo, mi tocca impegnare l'intero mio reddito futuro, se va bene, per sette o otto anni. Ho pensato che l'alternativa è quella di farmi arrestare ingiustamente e poi farmi risarcire per ingiusta detenzione. Però, per arrivare a 250 mila euro (Morlacchi docet) mi ci vorranno sempre sette o otto anni.
Le carriere con l'air bag di certi pm: sbagliano e vengono pure promossi. Il privilegio speciale delle toghe: da Esposito e Robledo a Woodcock, quando la punizione diventa un premio, scrive Enrico Lagattolla, Martedì 24/02/2015 su "Il Giornale". Ammettiamolo: è il sogno di tutti. Una carriera con l'air bag, una vita con la rete di protezione, pochi rischi e tanto onore, l'invidiabile privilegio di cadere sempre in piedi e la lunare dispensa dai contraccolpi di uno sciagurato sfondone. Anzi, a volte pure l'insensato beneficio di un avanzamento per demeriti. È il sogno di tutti e per qualcuno è realtà. Prendete il giudice di Torino che - pochi giorni fa - è stato trasferito a Milano perché strapagava le consulenze all'amante. Non a Canicattì. A Milano, l'ufficio più prestigioso del Paese. Promoveatur ut amoveatur. A essere trombati in questo modo, c'è da metterci la firma. Vincenzo Toscano - il magistrato del capoluogo piemontese - ha affidato «incarichi remunerati» a una consulente a «cui era legato da vincoli sentimentali». La Cassazione, che lunedì ne ha confermato il cambio di sede, spiega che dava lavoro alla compagna, liquidava «compensi molto superiori alla media degli altri consulenti», e si lavorava il collegio giudicante «per ottenere una decisione favorevole» alla donna. Cosa sarebbe accaduto in qualunque azienda privata? Ma la giustizia segue altre regole. Quindi, l'insopportabile sanzione è stata la perdita di un anno di anzianità - e capirai - e il trasferimento nel palazzaccio più in vista d'Italia. Diciamola tutta: promosso. Ma per uno che da Torino viene a Milano, due fanno il tragitto opposto. L'estenuante disputa tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo ex vice Alfredo Robledo si è conclusa con il trasloco di quest'ultimo in Piemonte. Che onta. Oddio, diciamo un alone. I fatti: secondo il Csm, Robledo è culo e camicia con l'avvocato della Lega Domenico Aiello. Gli «soffia» notizie riservate su un fascicolo che coinvolge alcuni politici del Carroccio. Vero o falso che sia, il punto è un altro: l'organo di autogoverno dei magistrati gli attribuisce un «provato rapporto di contiguità con l'avvocato Aiello», «improntato allo scambio di favori», così come è «inequivoca» la «propalazione» al legale dei lumbard «di atti coperti dal segreto». Sembra grave. Perciò via, Robledo lasci Milano e dismetta i panni da pm. E cosa va a fare? Il giudice. Un gradino più in alto nella scala evolutiva dell'homo togatus. Ma a Torino è andato anche un giovane pubblico ministero milanese, anche lui silurato con tutte le cautele. È una storia di leggerezze e bella vita, quella di Ferdinando Esposito, di amicizie bislacche e di un'improvvida visita ad Arcore che gli ha attirato gli strali di Ilda Boccassini. Che l'ha indagato, l'ha fatto pedinare e intercettare, e poi ha mandato gli atti a Brescia, dove un fascicolo è stato aperto senza che finora abbia portato ad alcunché. Anche su Esposito si è pronunciata la disciplinare del Csm: non può più fare il pm a Milano, sarà gip a Torino. A parte l'incomodo della breve trasferta, la carriera del magistrato prosegue spedita. Sono solo tre storie, le più recenti. Ma sono storie che si ripetono. Henry John Woodcock - quello dei disastri Vip Gate e Savoia Gate - da Potenza finisce a Napoli (qualche dubbio su quale sia la sede più rilevante?). Per le disfatte giudiziarie Why not e Toghe lucane, Luigi De Magistris se la cava con censura, trasferimento e cambio di casacca: da pm a giudice. Ma per non sbagliare, Giggino Masaniello sceglie la terza via: la politica. Ai magistrati di sorveglianza che concedono la semilibertà ad Angelo Izzo, e grazie alla quale il «mostro del Circeo» torna a uccidere, il Csm riserva un ammonimento. L'ex magistrato antimafia di Napoli che va a caccia con i boss viene assolto dal Consiglio. E il sottobosco degli sconosciuti è pieno di miracolati. Vero che ultimamente le condanne nei procedimenti disciplinari sono aumentate, ma si tratta perlopiù di sanzioni minime. Di gente cacciata dalla magistratura, negli ultimi vent'anni, se ne conta sulle dita di una mano. Quanto alla responsabilità civile, peggio che andar di notte: in un quarto di secolo i ricorsi accolti sono stati quattro su 400. È un tratto tristemente sbagliato in questa nobile categoria, semidei del diritto con la tendenza all'autoassoluzione. Avete mai visto la deferenza con cui un avvocato bussa all'ufficio di un pm? Credete davvero che in un'aula di giustizia accusa e difesa godano sempre di pari dignità? Ci dev'essere qualcosa che, strada facendo, scolla alcuni magistrati dal mondo reale. Non si spiega altrimenti, sennò, la meravigliosa ingenuità con cui il fu presidente del tribunale di sorveglianza di Milano Francesco Castellano si rivolse al Csm. Accusato di aver brigato per parare il didietro all'indagato Giovanni Consorte, Castellano propose alla disciplinare del Consiglio la sua soluzione. Facciamo così: io lascio Milano, voi mandatemi in Cassazione. Non si sa se a qualcuno scappò da ridere, ma almeno in quel caso sembrò troppo persino ai suoi pari.
Libri: "Quattro anni a Palazzo dei Marescialli", se la lottizzazione diventa magistratura. Recensione di Antonio Bevere su Il Manifesto, 15 luglio 2015. Aniello Nappi racconta in un libro i suoi quattro anni all'interno di Palazzo dei Marescialli. E si misura con i 200 "fuori ruolo", ma anche con alcune pratiche di valutazione da parte del Csm. "Soprattutto a Roma c'è contiguità fra amministrazione della giustizia e politica". Per fronteggiare la crescente espropriazione di potere giuridico ed economico, attuata da organizzazioni mafiose e da ceti finanziari e imprenditoriali, gli attuali vertici dello Stato sono ricorsi al rimedio costituito da un'anomala collocazione di pubblici ministeri in torri di controllo (Autorità Nazionale Anticorruzione, assessorato comunale delle legalità e simili) nel territorio dell'illegalità dominante. Questi avamposti delle guardie togate nelle terre dei ladri creano perplessità sotto due aspetti: da un lato, aggravano il fenomeno di magistrati distolti dal lavoro giudiziario ed inseriti nella gestione di incarichi dell'amministrazione centrale e periferica, con palese violazione del principio della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione; dall'altro, i singoli magistrati si espongono al rischio di essere coinvolti, quanto meno per scarsa capacità di vigilanza e di prevenzione, nelle inevitabili indagini dei colleghi togati, con paradossali risvolti negativi nell'accertamento delle responsabilità penali e contabili. È di tutta evidenza che la presenza delle avanguardie giudiziarie non potrà non costituire un argomento difensivo di ottimo spessore per dimostrare la buona fede del politico e dell'imprenditore che hanno trasgredito le regole, ma sotto il vigile occhio del fuori ruolo giudiziario in missione per conto dello Stato. Né va sottovalutato che il fenomeno delle carriere parallele di alcuni magistrati, che si sviluppa frequentemente con la decisione del Consiglio superiore della magistratura di concedere collocamenti "fuori ruolo" con la destinazione a funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, è stato fortemente criticato dal consigliere di Cassazione Aniello Nappi, reduce dall'esperienza di componente dell'organo di autogoverno. Questa anomalia riguarda circa duecento posti, ma coinvolge una popolazione di postulanti ben più numerosa. "E questo crea le basi per un rapporto inquinante della magistratura, soprattutto a Roma, dove c'è la contiguità tra amministrazione della giustizia e politica. Qui la questione dei fuori ruolo si pone come questione morale fondamentale" (Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p. 45). La lettura di questo libro - ricco di un'impressionate casistica di deroghe alla legge e alle regole interne - fa sorgere il quesito se la magistratura-impegnata in maniera generalmente encomiabile nella tutela della legalità tra i comuni cittadini e tra i cittadini eccellenti - sia capace di autogovernarsi correttamente attraverso l'organo assembleare previsto dall'art. 104 della Costituzione. È noto che il Csm è un'istituzione democratica nel senso che i suoi componenti vengono eletti da tutti i magistrati e dal Parlamento in seduta comune e nel senso che nei dibattiti in commissione e nel plenum è garantita la piena libertà di espressione, con conseguente immunità, al pari dei parlamentari. I singoli consiglieri non hanno vincolo di mandato nei confronti degli elettori e dei gruppi che ne hanno proposto la candidatura. Nel quotidiano svolgimento della valutazione della capacità professionale dei singoli, della assegnazione dei ruoli dirigenziali, il consigliere Nappi ha dovuto fare i conti con la consolidata regola pragmatica, secondo cui le determinazioni e le scelte espresse con il voto devono essere soggette al principio di maggioranza, nel senso devono essere assunte non secondo coscienza, ma secondo l'indicazione della maggioranza del gruppo di appartenenza. È stato facile rilevare che il voto per vincolo di maggioranza, alias per disciplina di gruppo, risponde alla logica, alla teorizzazione, alla pratica del voto di scambio: io voto uno dei tuoi se tu voti uno dei miei, come la riconosciuta esigenza di risarcire il contraente nei confronti del quale si è rimasti inadempienti...È vero che all'interno dei gruppi il principio di maggioranza viene applicato con qualche elasticità. Ma è proprio questa elasticità a farne lo strumento fondamentale dei baratti, che sono di per sé occasionali. È appunto l'accettazione del principio di maggioranza a rendere possibili occasionali accordi, ora con l'uno ora con l'altro gruppo, tanto più vantaggiosi quanto maggiori sono i pacchetti di voti disponibili. In questo contesto è nato un goffo e spiacevole episodio che ha avuto inopinata diffusione, nella totale indifferenza delle istituzioni: da una corrispondenza riservata di un componente dell'organo di autogoverno inavvertitamente è volata in rete, il 23.11.2012, una missiva in cui il mittente - pur riconoscendo "più opportuno politicamente piazzare una giovane collega napoletana di Area ad un posto direttivo, sia pure di rilievo minore", auspicava che non si facesse "tuttavia una ingiustizia troppo grossa". Nappi osserva che, pur essendo l'opportunità politica collegata a più criteri (età, territorio, appartenenza ad una corrente), è documentabile che "il criterio dell'appartenenza è accettato e riconosciuto all'interno dei gruppi consiliari". Che non si sia trattato di un caso eccezionale è dimostrato dal silenzio e dall'indifferenza della corporazione: mercoledì 8 maggio 2014 il medesimo consigliere, in qualità di Presidente della Quarta Commissione del Csm (competente per materia nelle progressioni in carriera), ha partecipato, nella sessione della Scuola superiore della magistratura dedicata all'ordinamento giudiziario, a un confronto a due voci sul tema Standard di rendimento e carichi esigibili). Talvolta gli scambi falliscono per una sopravvenuta modifica tattica delle alleanze e più raramente per l'imprevista dissociazione dal gruppo di appartenenza, con reazioni sanzionatorie, come è accaduto proprio a Nappi, la cui espulsione "venne giustificata anche con la dissociazione nel voto per un incarico semi direttivo". La lottizzazione guidata dai vertici delle tre correnti - osserva l'autore - è giustificata con l'esigenza di garantire il pluralismo culturale negli uffici e nell'organo di autogoverno, ostentando di ignorare una realtà ben visibile in magistratura e in tutte le istituzioni: "La pratica della lottizzazione, spacciata per pluralismo, ha impoverito il nostro Paese, privandolo di una classe dirigente adeguata". In conclusione, poiché è impossibile presumere che la bussola del criterio di appartenenza, impiegato per selezionare e premiare con pratiche spartitorie e preordinate, conduca infallibilmente a beneficiare i migliori, è indubbio il danno degli "indipendenti n.n." e il pregiudizio dei cittadini cui è sottratta la possibilità di avvalersi adeguatamente della capacità professionale di questi ultimi.
Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Pubblichiamo, a cura dell’Unione delle Camere Penali, fra gli editoriali, il testo integrale dell’intervento del Presidente dott. Aniello Nappi al convegno tenutosi a Camerino il 19 novembre 2015 a margine della presentazione dell’omonimo libro, nel quale l’autore racconta la sua esperienza al CSM. Il volume contiene una lucida e spietata disamina sul declino dell’organo di autogoverno della magistratura, le cui cause vengono individuate proprio nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, che ha determinato inesorabilmente la trasformazione del Consiglio stesso “in una sorta di condominio sindacale”. La gestione correntizia delle carriere dei magistrati, recentemente evidenziata dalla Commissione Scotti istituita dal governo, coincide con l’allarme, come si legge nel libro, sulla degenerazione del Csm che, afferma l’autore, “rischia di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà”. La sindacalizzazione della componente togata del consiglio, sostiene sempre l’autore, comporta moltissime conseguenze negative, perché “i sindacalisti tutelano il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono”.
Camerino, 19 novembre 2015. Intervento del Dott. Aniello Nappi. "Quando si tenne alla Luiss di Roma la presentazione del mio libro sul CSM (Quattro anni a Palazzo dei marescialli – Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura), il Vicepresidente Legnini esordì in funzione difensiva del Consiglio, domandando: “Ma chi ha mai parlato bene del Consiglio?”; e qualcuno gli fece eco, rilevando che in effetti il CSM non ha mai goduto di buona stampa. Sicché ci si domanda dov’è l’eresia, se del CSM si è sempre parlato male. Sennonché non mi sarei di certo scomodato, non avrei dedicato un’estate a mettere giù queste memorie, solo per parlar male del Consiglio. Ho invece inteso proporre una ben precisa diagnosi di un problema, che definisco come crisi di credibilità, come declino del Consiglio, individuandone la causa nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, con la trasformazione del Consiglio in una sorta di condominio sindacale. Considero questa una degenerazione, non perché ce l’abbia con i sindacati, ma per una ragione molto semplice e banale. Il Consiglio Superiore della Magistratura è un particolare ufficio del personale: gestisce la carriera, la mobilità, la valutazione di professionalità dei magistrati. Occorrerebbe domandarsi allora perché per questa attività di gestione del personale, che in altri uffici pubblici o nelle aziende private è svolta dall’amministrazione, da un consiglio di amministrazione, si scomoda il Presidente della Repubblica e si mette su un organo di rilevanza costituzionale. E la risposta è evidente: perché è chiaro che nel momento in cui si decide del destino professionale di un magistrato, del suo trasferimento piuttosto che della sua valutazione di professionalità, c’è il rischio di condizionarne l’attività giurisdizionale. Si rischia dunque di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà. È questo che giustifica l’esistenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia se le componenti togate del CSM, che sono elette sulla base delle indicazioni dell’Associazione nazionale magistrati, sono formate di sindacalisti, viene fuori un palese conflitto di interesse. Tutti comprendono che il sindacalista non può essere l’amministratore del personale, perché avrebbe due parti in commedia: quella della tutela del lavoratore e quella della gestione del lavoratore. Questo determina una situazione insostenibile. Ed è qui la mia denuncia, fondata su una diagnosi precisa. Non parlo genericamente di degenerazione, perché la degenerazione delle istituzioni pubbliche, non solo nel nostro Paese, è un fenomeno al quale purtroppo ci siamo abituati. E parlare genericamente di degenerazione non avrebbe giustificato che si scrivesse un libro sul CSM. Il problema del Consiglio è dunque nella sindacalizzazione della sua componente togata. E questo comporta moltissime conseguenze negative, perché la missione del Consiglio sarebbe quella di tutelare il giudice come istituzione. I sindacalisti tutelano invece il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono. Molto spesso la tutela del lavoratore contraddice gli interessi e la funzionalità dell’istituzione. Si determina inoltre una burocratizzazione dei magistrati. La sindacalizzazione nella gestione del personale ne comporta la burocratizzazione, perché si privilegia il rispetto delle garanzie destinate a tutelare il lavoratore anziché le garanzie dell'istituzione giudiziaria. Il giudice, ciascun giudice, è un’istituzione, di cui va garantita l’indipendenza e l’autonomia, oltre a essere un lavoratore, cui vanno riconosciute tutele economiche e “contrattuali”. Al Consiglio superiore della magistratura non è demandata però la tutela economica e contrattuale del magistrato lavoratore, bensì la ricerca di un equilibrio tra garanzie individuali dei magistrati ed efficienza dell’istituzione giudiziaria. Le garanzie individuali dei magistrati, che attengono all’ambito del loro ruolo istituzionale, vengono invece sempre più interpretate all’interno del CSM in termini di garanzie sindacali del lavoratore magistrato. Tutto questo accade per di più in un momento in cui il ruolo del giudice va sempre più enfatizzandosi. Una volta il giudice doveva essere solo il mediatore tra il caso concreto e la norma di diritto, espressa di regola in una legge. La situazione è oggi radicalmente mutata. Viviamo oggi una moltiplicazione degli ordinamenti, dalla Convenzione europea diritti dell’uomo al diritto dell’Unione Europea; e una moltiplicazione delle corti, dalla Corte europea di giustizia alla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Corte costituzionale. Si pensi solo alla recente sentenza europea sul caso Contrada, quale esempio di riconoscimento della funzione normativa della giurisprudenza, a proposito della punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Sicché oggi il diritto lo fanno sempre di più i giudici. Cresce perciò l’esigenza di un approccio sempre meno burocratico alla funzione giudiziaria, nel momento stesso in cui si burocratizza invece sempre di più la posizione del giudice. È come lo spostamento della crosta terrestre, la deriva dei continenti nella teoria della tettonica delle placche. Le nostre istituzioni giudiziarie sono sollecitate da due spinte opposte: da una parte la burocratizzazione, provocata dalla gestione sindacalizzata del Consiglio, dall’altra la spinta di tutto il sistema, anche sovranazionale, verso un’assunzione sempre maggiore di responsabilità del giudice come produttore di norme. Temo che ne possa venir fuori un sommovimento istituzionale, che metterà a rischio le tradizionali garanzie del nostro sistema giudiziario. Quando in questo Paese la politica avrà finalmente conquistato il suo primato, non accetterà più che il piccolo sindacato di una corporazione burocratizzata rivendichi un ruolo di autonomo interlocutore istituzionale senza assumersene anche le responsabilità. Così sarà a rischio non solo il destino di qualche magistrato, ma sarà a rischio la tenuta dello stesso sistema democratico. Per far fronte a questo rischio, occorre che la magistratura associata recuperi al più presto l'orizzonte culturale di un tempo. E’ opportuno a questo punto domandarsi in che senso il Consiglio tutela il magistrato come lavoratore piuttosto che come giudice, come istituzione. Gli esempi sono tanti. Prendiamo il caso dell’incompatibilità parentale tra magistrati e avvocati. La legge prevede tre criteri per definirla: la natura delle materie (penale, civile o lavoro), la dimensione dell’ufficio e l’importanza, l’intensità del lavoro dell’avvocato. Questi sono i tre criteri che detta la legge, per stabilire quando un magistrato non può svolgere le sue funzioni nella stessa sede in cui opera un suo congiunto esercente la professione forense. Questa legge viene interpretata nel senso che basta che risulti favorevole uno soltanto di questi criteri per escludere l’incompatibilità. Insomma, se il magistrato è coniuge dell’avvocato più importante del piccolo tribunale, purché l’uno si occupi di diritto civile e l’altro di diritto penale, si esclude l’incompatibilità. Se fosse invece richiesto l’esito favorevole di tutti e tre i criteri, non solo la differenza delle materie, ma anche le dimensioni dell’ufficio e l’intensità dell’attività lavorativa, dovrebbe in un caso del genere riconoscersi l’incompatibilità. Contrariamente a quanto sarebbe stato ragionevole attendersi, invece, è stata respinta la proposta di considerare necessariamente concorrenti i tre criteri. E’ questa una tipica applicazione sindacale di una norma, perché tende a tutelare l’interesse del lavoratore anziché dell'istituzione. Tende a tutelare gli interessi di chi fa il magistrato nel luogo dove è nato, dove abita. Ed è comprensibile che, se arriva un congiunto a fare l’avvocato, è duro dover cambiare sede. Sennonché la logica sindacale è incompatibile con la logica istituzionale. Non perché i sindacati siano cattivi. Ma perché i sindacati debbono essere l’interlocutore dell’istituzione, non possono sostituire l’istituzione. Le delibere del Consiglio sono pubbliche. E secondo la legge sulla privacy, quando si tratta di un pubblico funzionario, di chiunque eserciti funzioni pubbliche, tutto deve essere controllabile e deve essere conoscibile, tutto ciò che attiene alla carriera e all’attività di chi svolge funzioni pubbliche. Benché tanto preveda la legge, non è stato possibile ottenerlo. Si è detto che soltanto la delibera è pubblica, ma i documenti sui quali la delibera si fonda non sono pubblici. Mentre è evidente che, se non si può accedere ai documenti, non si può controllare criticamente la delibera. In realtà il Consiglio si dà regole molto rigide per le sue decisioni, detta criteri di decisione molto rigorosi, che agevolano le risposte negative. Una decisione che può determinare scontento risulta così giustificabile come inevitabile. Quando però la domanda alla quale bisogna dare risposta viene da chi è vicino agli apparati sindacali, allora il consiglio si riconosce esplicitamente il potere di derogare all’eccessiva rigidità dei suoi stessi criteri. Ed è chiaro che, se si riconoscesse il controllo dei documenti oltre che della delibera, risulterebbe palese la singolarità della deroga. Veniamo così ad un altro aspetto, perché poi tutto si tiene. Ci sono circa 450 magistrati, tra i 400 e i 500 magistrati, che hanno esoneri dal lavoro, totali o parziali. Ad esempio gode giustamente di un parziale esonero dal lavoro chi fa parte del Consiglio giudiziario. Ma un parziale esonero dal lavoro è riconosciuto anche ai cosiddetti RID, referenti informatici distrettuali, ai formatori decentrati, e via elencando. Questi incarichi, che hanno il vantaggio di ridurre l’impegno nel lavoro giudiziario, sono distribuiti su indicazione delle correnti dell’ANM. È uno dei mezzi per creare un piccolo ceto dei sindacalisti, con la conseguenza di una separazione sempre più netta da tutta la magistratura reale, dai tanti magistrati di prim’ordine, di grandissimo valore, che in questo contesto non contano assolutamente nulla. Negli anni in cui le correnti dell’associazione avevano un contenuto progettuale, programmatico, c’erano idee diverse sul ruolo del magistrato, sulla funzione dell’interpretazione della legge, E fu questa diversità di orientamenti culturali a determinare la nascita delle correnti dell’Associazione. La sindacalizzazione ha oggi portato all’omogeneizzazione su quasi tutte le questioni di principio. Si è discusso ad esempio di quali conseguenze debba avere la mancata osservanza del calendario del processo, uno strumento di efficienza dell’istituzione giudiziaria. E tutti i gruppi sono stati d’accordo nel dire che non debba avere conseguenze disciplinari, indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze sulla funzionalità del sistema, perché del funzionamento del processo al sindacalista non interessa molto. Al sindacalista interessa tutelare il magistrato lavoratore che, se non ha rispettato il calendario, non deve andare incontro a una responsabilità disciplinare. Sulla questione della partecipazione dei magistrati alle commissioni d’esame degli avvocati, necessaria per favorire una comune cultura forense, si è detto che non può essere considerata obbligatoria, perché ancora una volta prevale l'interesse del lavoratore sull'interesse dell'istituzione. E così sul problema dell’incompatibilità parentale tra magistrati (si ammette che due coniugi svolgono le proprie funzioni all’interno della stessa Procura della Repubblica, anche se di piccole dimensioni); sul problema del rapporto tra condanna disciplinare e valutazione di professionalità (si esclude che il giudicato disciplinare possa in qualche misura vincolare la valutazione di professionalità); sul livello massimo di “carichi esigibili” di lavoro (si tende a fissarlo in misura eguale per tutti, con un livellamento verso il basso della professionalità dei magistrati, perché la logica sindacale non ammette che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni di merito). In questo senso si può dunque affermare che la sindacalizzazione determina un conflitto d’interessi, perché la gestione del personale non può essere affidata a chi il personale lo tutela come lavoratore. È infatti questa logica individualistica e sindacale che ha portato anche a una degenerazione del rapporto con il giudice amministrativo, soprattutto, ma non solo, nel conferimento degli incarichi direttivi. In realtà dovrebbe essere scontato che l’incarico direttivo non è previsto per permettere ai magistrati di fare carriera; è previsto per far funzionare gli uffici. E tra l’altro comporta tali e tanti impegni di lavoro, aggiuntivo è diverso, che richiederebbe una notevole dose di altruismo. Se nella scelta dei magistrati ai quali affidare gli incarichi direttivi si segue una logica individualistica, intesa a soddisfare le aspirazioni del lavoratore piuttosto che le esigenze dell’istituzione, è evidente che il giudice amministrativo, abituato appunto a tutelare gli interessi individuali nei confronti della Pubblica Amministrazione, non potrà non riconoscere ai magistrati una sorta di diritto alla carriera. Solo se il CSM fosse in grado di esprimersi secondo una logica istituzionale, anche il giudice amministrativo avrebbe dei problemi a garantire i singoli piuttosto che la istituzione. Invece il giudice amministrativo è giunto ad affermare che, se il presidente di un tribunale trasferiva alla sede centrale una grande quantità di cause di una sezione distaccata, ledeva illegittimamente gli interessi dell’ufficio periferico. Mentre sarebbe stato più plausibile garantire gli interessi della funzionalità dell’ufficio, anziché del gruppo locale di avvocati che protestava contro quel provvedimento. Da questo sistema, da questo cambiamento della logica della partecipazione e della selezione dei componenti del Consiglio, deriva poi tutto il resto; deriva anche l’inefficienza degli uffici, perché tutto è destinato a tutelare i singoli piuttosto che le istituzioni. Si sono avute in particolare conseguenze estremamente negative e preoccupanti nell’interpretazione della disciplina dell’organizzazione degli uffici di Procura. Benché la legge dica chiaramente che il procuratore della Repubblica può revocare l’incarico a un sostituto anche per un mero dissenso sulla conduzione e conclusione delle indagini, si sostiene che il procuratore della Repubblica, nel momento in cui ha assegnato il procedimento, ha consumato il suo potere. I sostituti rivendicano, senza alcun fondamento, le stesse garanzie di precostituzione e tendenziale immutabilità che la Costituzione prevede per il giudice. E il CSM tende, almeno nelle proclamazioni di principio, ad assecondare questa rivendicazione, rinunciando così a ricercare un equilibrio ragionevole tra le garanzie individuali dei magistrati e le esigenze di funzionalità degli uffici. Certo, è necessario un controllo del CSM sugli interventi del procuratore della Repubblica, ma non è ammissibile una così palese elusione del testo legislativo. I rimedi a questa situazione di crisi vanno ricercati soprattutto sul piano culturale. Ma interventi normativi sono comunque auspicabili. Le soluzioni sono necessarie innanzitutto con riferimento al sistema elettorale dei togati e ai criteri di scelta dei laici. In realtà nella selezione della componente laica si tende a predeterminare la nomina del Vicepresidente. I partiti politici vogliono decidere preventivamente chi dovrà essere il Vicepresidente, benché ne sia prevista l’elezione da parte dell’Assemblea, dopo l’insediamento del consiglio. E’ certamente opportuno che il compito del Vicepresidente sia affidato a un politico, perché si tratta di un ruolo appunto politico, che richiede una specifica professionalità. Ma la pretesa di predeterminare la scelta del Vicepresidente comporta che i segretari dei partiti coinvolti prendano contatto con i responsabili delle correnti, con evidenti problemi per l'autonomia dei singoli consiglieri. E poiché gli accordi preliminari non sono abbastanza garantiti, si sceglie come predestinato alla vicepresidenza un personaggio che abbia una certa levatura politica, avendo cura di fare in modo che tutti gli altri siano ben al di sotto di questa levatura. Altrimenti c’è il rischio che si vada in Assemblea e venga eletto un personaggio diverso quello che era stato predeterminato. Dunque, poiché si deve fare in modo che quello che sarà eletto Vicepresidente sarà proprio colui che hanno scelto i gruppi parlamentari prima che il Consiglio si costituisca, si deve creare un gap notevole di spessore politico tra chi è destinato a fare il Vicepresidente e gli altri. Per quanto riguarda i professori il margine è più elastico, si può eccedere in bravura per qualcuno; ma per quanto riguarda i politici, deve essere netta la distinzione, la differenza di peso politico. E tutti gli altri vengono preventivamente informati che non debbono candidarsi alla vicepresidenza. Per quanto riguarda il sistema elettorale dei magistrati, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di evitare che ciascuna corrente limiti il numero dei propri candidati al numero dei seggi che ritiene di poter ottenere, perché così si predetermina il risultato delle elezioni. Occorre costringere ad aumentare il numero di candidati, per evitare queste distorsioni del sistema istituzionale. Quanto alla sezione disciplinare l’esigenza principale, in una prospettiva di riforma, è quella della specializzazione dei suoi componenti. Si è detto: «chi giudica non amministra e chi amministra non giudica». A me sembra ragionevole. Ai componenti della sezione disciplinare dovrebbero essere affidati solo compiti giurisdizionali e compiti di controllo. C'è una commissione di controllo sul bilancio, una commissione che si occupa del regolamento interno e che vigila sul regolamento. Affidiamo a questa commissione tutti i compiti di controllo e giurisdizionali e non quelli di amministrazione: non perché questa commistione sia di per sé ostativa a una corretta amministrazione della giustizia o a una corretta amministrazione dei magistrati; ma perché comporta una scarsa professionalità, non si riesce a ottenere una giurisprudenza coerente e uniforme. Ci sono poi l’ufficio studi e i magistrati segretari, che sono uffici importantissimi, perché il consigliere appena eletto e per almeno un anno o due è in genere inesperto; mentre i magistrati segretari, cioè coloro che li assistono, sono già del luogo, hanno competenza specifica in materia di ordinamento giudiziario. C'è una marea di circolari, delibere, risoluzioni del CSM, di cui è difficile impadronirsi senza il sostegno di chi è già del posto ed è esperto. Ma sono le correnti dell’Anm a scegliere chi mandare all'ufficio studi o alla segreteria, con una rigida lottizzazione. Per gli incarichi direttivi c’è una competizione per i posti; e gli accordi sono occasionali, ora con una corrente ora con un'altra. Non c’è una spartizione lottizzatoria, tranne quando si debbono assegnare tanti posti insieme, come avviene ad esempio per la Cassazione. Per i magistrati segretari c’è invece una proporzione rigorosa tra il peso elettorale di ciascun gruppo e il numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi. Nel 1990 era stata approvata una legge che escludeva i magistrati dalla segreteria e dall’ufficio studi, prevedendo l’affidamento di questi ruoli a funzionari assunti per concorso. Con una delibera di legittimità almeno dubbia si è detto che questa legge è stata implicitamente abrogata. Sarebbe comunque necessario che questi posti fossero sottratti alla lottizzazione, che esclude chi non ha una tessera, esclude chi non ha appartenenza. Ma non si è voluto nemmeno che i magistrati vengano scelti per concorso: si è preteso che siano scelti col bilancino delle correnti, perché ciascuna corrente deve avere un numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi proporzionale al suo peso elettorale. Il fondo della questione è tuttavia nell’involuzione dell’ANM. Negli anni ‘60 e ‘70 la Magistratura ha rappresentato in questo Paese una forza di emancipazione, contribuendo, ad esempio, all’attuazione della Costituzione e alla diffusione di una sensibilità ecologica. Questa funzione propulsiva è stata conservata certo dai giudici; ma è ormai del tutto estranea all’impegno delle correnti dell’ANM. Le correnti si distinguono solo come apparati, come apparati che cercano di giustificare la propria esistenza. Non c’è più differenza progettuale. Tant’è che per quasi tutte le questioni di fondo, tutte le correnti finiscono per convergere su un’impostazione sindacale. In una situazione disastrosa, qual è quella del sistema giudiziario italiano, si è arrivati a proporre l’allungamento dei termini di deposito delle sentenze civili monocratiche. La crisi della giustizia è certamente una crisi da eccesso di input: c’è un eccesso di domanda. E questo eccesso di input è responsabilità della politica, una politica abnormemente interventista. Sul codice di procedura penale siamo ad oltre centodieci leggi di modifica. Non c’è stabilità dei criteri di giudizio. Tuttavia se non c’è un’assunzione di responsabilità da parte della magistratura, per favorire una efficiente organizzazione degli uffici e una ragionevole prevedibilità delle proprie decisioni; se i magistrati non si riappropriano del proprio ruolo progettuale, nelle scelte anche politiche relative all’organizzazione del proprio lavoro, risulterà inutile qualsiasi riforma. Purtroppo il CSM, cui queste scelte organizzative sono in misura notevole affidate, manca di capacità progettuale. In consiglio c’è solo un sindacato che pensa prevalentemente agli interessi dei lavoratori, molto poco a quelli dell’istituzione".
Interpellata dal Dubbio, il 2 agosto 2016, la portavoce del Comitato Altra Proposta, il giudice presso il Tribunale di Pisa Milena Balsamo, fa subito una premessa: «Noi vogliamo ricondurre le correnti, patrimonio storico-culturale dell’Anm, al loro originario ruolo: quello di essere centri di elaborazione culturale indispensabili alla democratica affermazione dell’indipendenza interna e dell’autonomia che rappresentano le prerogative fondamentali della magistratura». E per tale ragione, aggiunge la giudice Balsamo, «siamo per il sorteggio come sistema di selezione dei candidati al Csm».
Le correnti sono il problema principale della magistratura?
«Per capire a che punto siamo arrivati, suggerisco la lettura del libro scritto dall’ex togato Aniello Nappi Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Consiglio Superiore della Magistratura, dove sono descritti il sistematico abuso d’ufficio, la violazione delle regole e i favoritismi per gli amici».
Lei ritiene che la magistratura abbia perso di credibilità a causa della cosiddetta deriva correntizia?
«Si, e questo perché le correnti si sono trasformate in centri di potere che condizionano, secondo strettissime logiche di appartenenza, ogni scelta di autogoverno della magistratura, a cominciare dalla selezione dei magistrati dirigenti».
Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.
Toghe innominabili, scrive Filippo Facci il 12 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Piercamillo Davigo non è più lui. Da presidente dell'Anm è stato investito da così tante bufere che ogni sua uscita pubblica ora suona imbarocchita da distinguo e premesse: sabato ha parlato a un convegno dei Cattolici democratici (sarà questo: era pieno di democristiani) e ogni volta premetteva che «non penso che tutti i politici rubano, rubano in molti... Non credo siano tutti mascalzoni, ma...». Ce l'hanno rovinato. Fortuna che non manca di che obiettargli. Ha parlato di «politici che non si vergognano più» e verrebbe da chiedergli quando mai si siano vergognati i magistrati colti in castagna: anche perché fare i loro nomi è proibito. Già. Dovete sapere che la sezione disciplinare del Csm ogni anno sanziona blandamente con ammonimenti, censure e perdite di anzianità una serie di magistrati che, per esempio, non hanno pagato il conto al ristorante, hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, o semplicemente non lavorano, o sono mezzi pazzi (uno l'hanno visto chiedere l'elemosina per strada, un altro ha spalmato l'ufficio di nutella, un altro ha urlato «ti spacco il culo» a un avvocato) e però i loro nomi non sono divulgabili. Il Csm ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali, come d'obbligo solo per i minori e le vittime di violenze sessuali: eppure parliamo di gente che giudica della vita altrui. Ecco, dottor Davigo: secondo lei è giusto?
Subisci e taci ti intima il sistema gognatico medio-giudiziario.
Un buon libro ricorda le perversioni italiane del sistema “gognatico” giudiziario, scrive Giulia De Matteo il 4 Agosto 2011 su "Il Foglio". La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d’ordine (“cricca”, “la rete di relazioni”, “appaltopoli”, “l’affare”) da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l’indagato nell’angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l’indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro “La Gogna” (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un’analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C’è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall’accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull’isola della Maddalena (poi spostato a L’Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l’apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l’indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo’ di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l’opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l’età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l’articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell’indagato e dell’imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L’apertura di un’indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell’articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E’ questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. “La Gogna” come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell’operazione “Why Not”). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.
Ed eccola l'orda dei gognatori. Il tipico esempio di disinformazione.
Mafia capitale, la minaccia in aula contro il cronista. L'avvocato difensore di Massimo Carminati, Bruno Naso, aggredisce in aula con frasi ingiuriose e pesanti insinuazioni il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, da anni sotto scorta per le minacce subite dopo aver rivelato gli affari di mafia e crimine a Roma, scrive Attilio Bolzoni il 30 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Puntare il dito contro un giornalista - sempre lo stesso - è come indicare un bersaglio, prendere la mira. Ma c'è un avvocato, qui a Roma, che forse non ha capito che Lirio Abbate non è solo. Una Mafia Capitale sotto processo si agita e si dimena nelle gabbie cercando disperatamente alibi e vie di fuga, i suoi difensori intanto sono a caccia di capri espiatori e di cronisti "colpevoli " per avere raccontato un potere criminale tollerato per troppo tempo. Chi parla (o chi scrive) sta diventando giorno dopo giorno e udienza dopo udienza obiettivo di insinuazioni e di attacchi spericolati, sta diventando un'ossessione che non annuncia niente di buono ma che al contrario comincia a preoccupare tutti noi giornalisti. Potremmo chiamarlo il "caso Abbate", ci sembra però più opportuno presentarlo come il "caso Naso". L'avvocato Bruno Naso, difensore del nero Massimo Carminati e di alcuni imputati del dibattimento contro i boss Fasciani, il penalista che all'apertura del processo su Mafia Capitale l'ha battezzato "un processetto". È da settimane, da mesi, che questo legale non perde occasione in pubblico dibattimento di aggredire - con frasi ingiuriose e pesanti allusioni - il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, il primo che nel dicembre del 2012 ha svelato i misteri e le contiguità della mafia della capitale italiana citando i "quattro re di Roma ", Massimo Carminati, Michele Senese, Carmine Fasciani, Giuseppe Casamonica. L'ultima imboscata dell'avvocato Naso contro Abbate è di ieri mattina, in un'aula di Piazzale Clodio di Roma, al processo d'appello contro i Fasciani, padrini e padroni di Ostia, malacarne di incerta nobiltà mafiosa ma con entrature nel crimine che conta e nelle amministrazioni locali. L'avvocato Naso nella sua arringa finale prima si augura che i giudici "emetteranno una sentenza politicamente scorretta", poi parla della "regia inequivoca" del procuratore Pignatone "che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria ", poi ancora riserva le sue azioni offensive - davanti agli imputati, particolare non insignificante - a "De-lirio" Abbate, il giornalista che prima ancora che i mafiosi di Roma fossero catturati aveva descritto come si muovevano da Sacrofano al Campidoglio, dalle miserabili periferie fino alle stanze della spartizione degli appalti. L'avvocato Naso si chiede perché "non hanno dato a De-Lirio il premio Pulitzer", fa credere che non sia un giornalista ma che agisca praticamente in combutta con investigatori e magistrati: "Abbate, che è casualmente di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c'era Pignatone, che casualmente frequenta ambienti frequentati da Pignatone…il cerchio si chiude". Su un altro palcoscenico, quello di Mafia Capitale a Rebibbia, il 4 gennaio scorso, lo stesso Naso aveva più volte citato "De-Lirio" (interrotto dal pm Cascini e tra le risatine di alcuni suoi colleghi) giustificando i suoi insulti al giornalista "perché se li meritava". E non era neanche quella, la prima volta che gli dedicava la sua attenzione. L'avvocato Naso ha naturalmente il diritto di difendere i suoi clienti - Carminati, gli amici dei Fasciani, gli ex Nar che ha sempre assistito - con ogni mezzo che la legge gli consente. Quello che non può fare - e non solo in un'aula di giustizia ma anche fuori - è additare un giornalista come "organizzatore" di un complotto, come protagonista di una trama ordita insieme a carabinieri e a pubblici ministeri, come un supporter operativo della procura della Repubblica. Abbate ha fatto semplicemente quello che sa fare: il giornalista. Trasformarlo in altro, come sta provando l'avvocato Naso fin da prima del dibattimento di Mafia Capitale - è estremamente pericoloso. Lirio Abbate vive sotto scorta dal 2007, negli ultimi anni il livello di protezione intorno a lui si è elevato, nel dicembre del 2013 è stato anche oggetto di una scorribanda (un'auto che ha speronato quella della polizia dove era a bordo) mai chiarita, intercettazioni ambientali e telefoniche ci svelano che Carminati ha più volte manifestato la volontà di fargliela pagare. L'avvocato Naso tenga debitamente in conto tutto questo. Ogni sua parola può venire facilmente fraintesa. Anche da chi sta dentro le gabbie.
Ed ecco, invece, l'altra verità.
"Pignatone vive nel far west di Reggio". L'avvocato Naso accusa: "Regia politico giudiziaria". "Avvocati pedinati e intercettati, violato il principio di legalità e indagini fatte con lo stampino per cercare reati e non ipotesi". Al processo al clan Fasciani l'avvocato Naso difensore anche di Carminati si scaglia contro il Procuratore di Roma e dice ai giudici..., scrive Venerdì, 29 gennaio 2016, Valentina Renzopaoli su “Affari Italiani”. Pignatone “giudice del far west”, abituato a utilizzare metodi istruttori che “violano il principio di legalità”, capace di tessere una regia di “politica giudiziaria” che travalica i confini del Tribunale. E' un attacco durissimo e senza precedenti: le parole dell'avvocato Giosuè Bruno Naso impietriscono i giudici della II sezione della Corte d'Appello del Tribunale di Roma, dove si sta svolgendo il processo di secondo grado per Carmine Fasciani e altri diciassette imputati. Nell'arringa finale, per la difesa del suo cliente Riccardo Sibio, considerato dall'ipotesi accusatoria come uno degli organizzatori dell'associazione a delinquere di stampo mafioso, Naso si lancia in uno scontro frontale. “Questo processo fa parte di una certa operazione di politica giudiziaria, spiegata da una ragione inequivocabile, che porta il nome del nuovo procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria per applicare metodi investigativi e processuali da far west”, ha tuonato l'avvocato nell'incipit del suo discorso. Parole di fuoco che, senza lasciare molto spazio alla fantasia, demoliscono l'azione del super procuratore, “padre” di Mafia Capitale, raccontando di “processi fatti con lo stampino” e basati su una massa di intercettazioni “sparate” in ogni direzione, “non per ricercare la prova di un reato ipotizzato ma per ricercare il reato”. “Il meccanismo istruttorio è sempre lo stesso, mediante intercettazioni a catena: si individua un soggetto che può incarnare sospetti, gli si viviseziona l'esistenza e si comincia a intercettare “a strascico” tutti quelli che gli girano intorno, alla ricerca di un reato ad ogni costo” ha spiegato. “La contestazione avviene sotto il profilo della contestazione di stampo mafioso, scattano le misure di natura patrimoniale per neutralizzare le possibilità di difesa e non ci si ferma nemmeno di fronte all'attività defensionale”. A questo punto, si è voltato verso i colleghi avvocati: “Guardate che ciascuno di voi è sottoposto ad un controllo massiccio e invasivo, attraverso i vostri telefoni personali e di studio”. E urlando: “Mia figlia, avvocato di Carminati, è stata pedinata dalle 8 del mattino alle 19 di sera, un pedinamento che non poteva che nascere da un'intercettazione. Questo procuratore pensa che il crimine si debba combattere come nel far west”. Con una conclusione degna dell'intera arringa, alla Corte esterrefatta il legale esclama: “Qui si vedrà se avete la cultura della giurisdizione in forza della quale il crimine non si combatte con metodi criminali, o se pensate che siamo tornati nel “far west” per fare giustizia ad ogni costo. Il vero tema è: ve la sentite di fare una sentenza politicamente scorretta?”. Il messaggio finale è ancora per Pignatone: “Chi sta coltivando ambizioni non può servirsi della vostra libertà di coscienza. Questo è un momento difficile e abbiamo bisogno che il principio di legalità siano salvaguardato”.
L'Ordine degli avvocati di Roma pronto a studiare il caso Naso - Abbate - Pignatone, scrive Roberto Galullo l'1 febbraio 2016 Fino a questa mattina il telefono dell'avvocato Mauro Vaglio, presidente dell'Ordine degli avvocati di Roma non aveva squillato. Nessuno, tra i suoi colleghi, in questi ultimi giorni, aveva sollevato la necessità di prendere posizione su quanto accaduto in un aula di Tribunale di Roma la scorsa settimana. Nel corso di un'udienza del processo di appello contro i Fasciani di Ostia, l'avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati, si era scagliato contro Lirio Abbate, inviato dell'Espresso (definendolo “de-lirio” Abbate e rivendicando l'uso legittimo dell'ironia nella sua requisitoria), che per primo descrisse la cupola criminale che ruotava intorno al “cecato” e alla sua banda di allegri compari. Sorte analoga aveva avuto il capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone, descritto come sodale di Abbate. Non vale quasi la pena ricordare che Abbate vive blindato da nove anni per le continue minacce di morte. Vaglio, però, nel fine settimana ha studiato la situazione ed è stato pronto a rispondere con la massima trasparenza all'unica chiamata giunta: quella del Sole 24 Ore.
Presidente Vaglio, l'Ordine degli avvocati di Roma viene chiamato in causa su quanto accaduto. Prego, esprima il suo giudizio.
«Tecnicamente la situazione è questa: l'Ordine è ente pubblico non economico, e dunque è fuori luogo la forzatura di chi cerca di suggerirci un comportamento pubblico da sbandierare ai giornali».
Nulla quaestio, come direste voi legali, sulla natura giuridica dell'Ordine ma insistiamo: i termini per un vostro intervento ci sono o non ci sono?
«Effettivamente c'è stato un riferimento al giornalista oltre che al procuratore e a questo punto il consiglio dell'ordine ha due possibilità: ritenere che questa notizia possa avere risvolti disciplinari oppure ritenere che non ci siano. La valutazione non è discrezionale, di solito il consiglio dell'ordine dovrebbe trasmettere la richiesta al consiglio di disciplina».
Bene. E a chi spetta fare il primo passo?
«Posso farlo anche io come presidente dell'ordine, sentiti gli altri consiglieri. E' l'ufficio nella sua coralità, comunque, che svolge questa funzione. Normalmente c'è la comunicazione al consiglio di disciplina e contemporaneamente si dà un termine di 20 giorni all'avvocato investito della questione, per le sue deduzioni».
Ritentiamo la domanda: l'Ordine di Roma si attiverà o no?
«Abbiamo un ufficio apposito che ogni giorno analizza i giornali e quanto accade nelle aule dei Tribunali in tutta Italia. E' molto probabile che il consiglio di disciplina analizzi il caso».
Lei si sarebbe mai comportato come il suo collega Naso?
«Non può pormi questa domanda. Veramente sì. Sarebbe come chiedere a un giudice di esprimere un concetto sul processo che si sta svolgendo».
Ma lei non deve intervenire su un processo in corso.
«Non posso rispondere. Non mi sembra corretto criticare pubblicamente un collega prima di aver analizzato gli atti e le eventuali controdeduzioni».
Aggiriamo l'ostacolo: si è mai trovato nella sua professione o nella sua vita associativa di fronte ad atteggiamenti simili?
«Capita molto spesso di avere questo tipo di atteggiamento in ambito civile, con termini forti nei confronti del collega o dell'avvocato controparte».
E cosa succede in quei casi?
«La procedura descritta sopra. Ricordo che le sanzioni partono da un avvertimento, che è la sanzione minima, una sorta di rimprovero e arrivano fino alla sospensione o alla radiazione. Se ci dovesse essere un'azione penale da parte del giornalista o del magistrato anche l'eventuale condanna costituisce un'azione disciplinare».
Solidarietà dell’AIGA all’Avv. Giosuè Bruno Naso espressa l’8 febbraio 2016. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati esprime piena e incondizionata solidarietà all’Avvocato Giosuè Bruno Naso, fatto oggetto di pesanti attacchi mediatici per aver, nel corso di un’arringa difensiva, stigmatizzato il contenuto di alcune inchieste giornalistiche del dott. Lirio Abbate e contestato la sistematica violazione della segretezza delle indagini preliminari. La libertà di stampa, presidio di garanzia di uno Stato democratico, non sarà mai messa in discussione dall’avvocatura, che storicamente ha vigilato per il rispetto dell’art. 21 della nostra Costituzione. È amaro constatare che, viceversa, un valore di rango straordinariamente più elevato, quello della libertà personale e conseguentemente il diritto di difesa, sia oggi messo in discussione, in modo così becero e violento, da quello stesso mondo che vive in funzione della libertà di manifestazione del pensiero. Proprio per tutelare al massimo la sacralità del diritto di difesa, la Costituzione e il codice di procedura penale pongono quale unico limite quello della continenza verbale, che è stato considerato rispettato dall’unico soggetto legittimato a contestarlo (il giudice procedente). Senza entrare nel merito dei fatti affermati dal Collega, della cui fondatezza non spetta ad altri che al Tribunale compiere valutazioni, l’arringa “incriminata”, lungi dal costituire, come pure gratuitamente lasciato intendere, una sorta di “minaccia” al giornalista da parte di un “portavoce” di un presunto criminale, rappresenta, viceversa, un luminoso esempio di richiamo ai valori della Giurisdizione, della presunzione di innocenza, del rispetto delle regole processuali, soprattutto da parte di chi rappresenta lo Stato ed esercita la pretesa punitiva, e della libertà dell’avvocato nella difesa dei propri assistiti. Senza scomodare l’esempio dell’Avvocato Otto Stahmer, protagonista al processo di Norimberga della difesa di imputati poi riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità, la Giovane Avvocatura tiene a sottolineare come la difesa degli imputati, quanto più impopolare (e quindi difficile), tanto più è nobile. L’AIGA auspica che tutte le Istituzioni Forensi prendano immediatamente una rigida posizione a tutela dell’Avvocato Giosuè Bruno Naso e, tramite esso, di tutta l’Avvocatura.
La Camera Penale di Trapani ha deciso di far sentire su questo caso la propria voce, anche se in fin dei conti le vicende romane sono lontane da questa città. In sostanza la Camera Penale di Trapani, con un documento mandato al ministro della Giustizia Orlando, per sottolineare il rango di diritto inviolabile che la Costituzione riconosce alla difesa, prendendosela a male con i giornalisti che hanno stigmatizzato il comportamento dell’avvocato Naso, ha deliberato che ad apertura di tutte le udienze penali che si svolgeranno dal 22 al 26 febbraio 2016, gli avvocati chiederanno che si metta a verbale la seguente dichiarazione: “l’avvocato difende la libertà con la libertà di difendere”.
A Naso è tutto un De-Lirio, scrive “Il Fango Quotidiano” il 31 gennaio 2016. A noi, piace fare la voce fuori dal coro, non in modo pretestuoso, ma per cercare di offrire una visione, un punto di vista meno fazioso e schierato con la massa. Non prendiamo parti, non siamo amici di nessuno e si può dire non (su)sopportiamo nessuno: dai politici ai criminali, fino ai giornalisti e agli sbirri (non usiamo il termine in senso dispregiativo ma storico). Il caso, tutto giornalistico, che tiene banco in questi giorni è quello della battuta fatta dall’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati nel processo che vede quest’ultimo come imputato e accusato di essere il capo della cosiddetta “mafia capitale”. In particolare 2 sono le affermazioni che hanno indignato la stampa italiana: lo storpiamente del nome del Giornalista Lirio Abbate in De-Lirio Abbate e quella in cui l’avvocato parla di un complotto tutto politico che vedrebbe Lirio Abbate come collaboratore e referente della procura, in particolare con il procuratore Giuseppe Pignatone. Sono stupidaggini? Sicuramente, ma rientrano nelle facoltà, e nelle possibilità lecite che ogni avvocato ha il diritto di utilizzare. Come previsto dalla legge anche i serial killer o appunto i capimafia hanno diritto a una difesa e naturalmente un avvocato non si può limitare a dire “il mio cliente è innocente” o “sono tutte falsità” deve riuscire a trovare il modo di replicare e smontare e dimostrare l’infondatezza delle accuse. Inoltre Volendo essere precisi un avvocato difensore non deve trovare le prove. Quelle le deve trovare chi accusa perchè secondo la legge si è innocenti fino a prova contraria e non viceversa. Non avendo strumenti efficaci è quindi comprensibile che l’avvocato cerchi di delegittimare coloro che hanno avviato l’inchiesta e coloro che l’hanno ispirata/anticipata (in questo caso il giornalista Lirio Abbate). Il giornalista Peter Gomez Lancia il suo editto via twitter (i giornalisti possono devono usarlo, solo i politici ci fanno brutta figura…) "Gli avvocati italiani tolgano il saluto all'avvocato Naso. Sanzionare socialmente le sue parole contro Lirio Abbate". 22:23 - 30 Gen 2016. Anche il suo collega Marco Lillo segue a ruota. "Non basta abbracciare il mio amico @LirioAbbate. Tutti quelli che incontrano l'avv Naso in tribunale gli tolgano il saluto. O di qua o di là". 21:56 - 30 Gen 2016. Eh qui non capiamo. Naso è il difensore di Carminati per forza di cose sta di là… Forse Lillo e Gomez pensano che il dovere di un avvocato con la schiena dritta sia di non difendere i criminali e quelli d’ufficio dovrebbero fare solo finta di difendere il loro assistito. Per carità, sono punti di vista. Roberto Saviano che non perde certo occasione scrive (sempre su twitter) "Solidarietà a Giuseppe Pignatone e @LirioAbbate per le violente parole dell'avvocato del boss Carminati contro di loro". 21:01 - 30 Gen 2016. Ora, premesse le ovvietà sulla solidarietà, sul giornalismo, sulla mafia che è una montagna di merda e bla bla (no perchè se no Lillo pensa che stiamo di là). Noi vorremmo provare a fare alcune riflessioni (sempre che ciò ci sia concesso). Prima che montasse la vicenda soprannominata “mafia capitale” nessun magistrato, processo o condanna aveva mai sancito o ipotizzato che la criminalità romana fosse ascrivibile alla mafia (una leggera svista…). L’oggi super boss Carminati, prima di sentire le intercettazioni di Buzzi che diceva che con gli Immigrati si facevano più soldi che con la droga e che si imbastisse l’inchiesta girava tranquillamente per la città e non aveva alcuna pendenza o reati da scontare. Era un uomo libero e nessuno ne parlava (a parte Lirio Abbate). Durante il “sindacato” targato Alemanno nessuno mai si era sognato di parlare di cooperative, di minacce, pollici spezzati, mazzette ecc. Poi quando bisognava fare fuori Marino che aveva “brutte intenzioni” ecco che hanno scoperchiato il vaso di pandora. Massimo Carminati il 7 dicembre parla con una persona (non si sa chi sia…) con tono “furioso”: “FINCHÉ MI DICONO CHE SONO IL RE DI ROMA MI STA PURE BENE, COME L’IMPERATORE ADRIANO. PERÒ SUGLI STUPEFACENTI NON TRANSIGO, LUNEDÌ VOGLIO ANDARE A PARLARE COL PROCURATORE CAPO E DIRGLI: SE SONO IL CAPO DEGLI STUPEFACENTI A ROMA MI DEVI ARRESTARE IMMEDIATAMENTE. NON SO CHI C… È QUESTO ABBATE, QUESTO INFAME PEZZO DI M… FINCHÉ MI ACCUSANO DI OMICIDI … MA LA DROGA NO… COME TROVO IL GIORNALISTA GLI FRATTURO LA FACCIA… TANTO SARÀ SCORTATO, COSÌ GLI AUMENTANO PURE LA SCORTA”. Carminati si incazza dopo aver letto l’articolo di Lirio Abbate su L’Espresso. Ora, bisogna comprendere che Carminati è uno di quei criminali che tengono alla loro reputazione, che ha un sistema di valori e principi tutto suo. Ma quello che però lo rende credibile è che difficilmente un criminale farebbe di tutto per smentire solo l’accusa meno grave nei suoi confronti. Carminati non sa di essere intercettato e non ha motivo di mentire. A lui non frega nulla delle accuse di omicidio, di mafia o dell’appellativo “Re di Roma” (quelle lo lusingano) a lui dà fastidio la più insignificante, lo spaccio di droga. L’articolo di Lirio Abbate, con tutto il rispetto per la causa, l’impegno e le conseguenze che il giornalista ha subito e sta ancora affrontando, non ci sembra un gran lavoro. Se dobbiamo essere sinceri è scritto davvero maluccio. Un giornalista quando fa della accuse dovrebbe in un certo senso dimostrarle, fornire fonti (non rivelarne l’identità ovviamente) fornire argomentazioni, testimonianze. Abbate fa solo una lunga lista di quelle che a noi sembrano più che altro sue convinzioni riportate con lo stile del romanziere. Ci sarebbero dovute essere delle “prove” (non di livello processuale naturalmente) ma almeno argomentazioni in grado di supportare le tesi espresse. Se provassimo a metterci nei panni di uno dei mafiosi di qui parla l’articolo non ci saremmo preoccupati più di tanto perchè non c’è nulla nell’articolo che possa costituire un reale problema: non ci sono date, fatti, non si smaschera nulla. Si dice solo, quello controlla la zona ovest, quell’altro la est, spacciano droga (ma non dove e come). Insomma nulla che un avvocato appena laureato non possa risolvere (stiamo ragionando dal punto di vista criminale ovviamente). Il giornalismo d’inchiesta per noi è un’altra cosa. Anche la magistratura e ci fa un po’ sorridere perchè, come detto nessuno aveva mai parlato di mafia, ma dopo che il giornali e i media hanno sdoganato il termine ecco che tutti si sono precipitati nei soliti “io l’avevo detto”, “eh, era evidente” ecc. Inoltre quando oramai tutti parlavano di mafia ecco che arriva la relazione del prefetto Gabrielli che invece dice che non si tratta di mafia. Ma insomma, è mafia o non è mafia? mmm e chi lo sa… Quello che è certo è che in tutta questa storia non ci sono morti ( e meno a male ), non si zittiscono persone, non ci sono faide per la conquista di posizioni vacanti tutte cose tipiche di un contesto mafioso, e non è vero come scrive Abbate che è perchè la mafia è cambiata, basta vedere quello che accada Napoli in questi giorni…Oggi, come detto, sono tutti lì a indignarsi e a schifarsi delle parole dello squallido avvocato Naso a cui va tolto il saluto (se che se ne importa Naso, con quello che prende…) però ad essere sinceri a noi sono anche altre le cose che ci fanno schifo. Forse siamo folli, ma a noi fa schifo:
Che gli agenti dei servizi o altro corpo dello stato, come emerso dalle intercettazioni, avvertivano e tenevano costantemente informato Carminati, non risparmiando encomi, elogi e ammirazione.
Che era impossibile che finanza e carabinieri non sapessero o non vedessero cose che per la loro evidenza (questi facevano tutto alla luce del sole, nei bar, per strada, parlavano al cell) era davvero difficile non vedere.
Che dopo l’esplosione del caso sono partiti i consueti depistaggi (furti misteriosi e inquinamenti vari).
Che politici di ogni schieramento sapevano ma nessuno di loro parlava.
Che tanto alla fine pagheranno i capri espiatori (che se lo meritano, sia chiaro) da dare in pasto all’opinione pubblica, ma forze dell’ordine colluse, servizi deviati e politici la faranno franca come avviene sempre.
Che come evocato dall’avvocato Naso ci sono cose che a confronto mafia capitale sembra una fiaba per bambini. Come quella della brutta storia del generale Ganzer e del suo gruppo di gruppo di ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri del ROS (ci sono omicidi, spaccio di droga ‘ndrangheta e chi più ne ha ne metta) che ha è finita a tarallucci e vino con una bella prescrizione (noi del fango ne parleremo a breve in un articolo dedicato al caso).
Che giornalisti o sedicenti tali partecipano a fabbricazioni di false intercettazioni (vedi caso Crocetta/Tutino) o manipolano le trascrizioni. Per non parlare di quando vengono in possesso illecitamente e dietro compenso o altra utilità di informazioni, documenti fascicoli segretati che una volta resi pubblici, non solo rischiano di vanificare anni di lavoro di delicate indagini, ma anche di far organizzare e allertare indagati e sospetti ringraziando si prodigano per eliminare possibili tracce e prove.
Potremmo andare avanti a lungo. Ma ci sta venendo da vomitare. L’avvocato Naso è stato offensivo ma il giornalista/conduttore Massimo Giannini che ha parlato di rapporti incestuosi fra il ministro Maria Elena Boschi e il padre no, lui lo difendiamo, perchè “è uno di noi” bisogna tutelare la categoria… E poi si sa che la Boschi, Boldrini, e le renzioidi possono/devono essere offese screditate e delegittimate. La Boldrini era la stronza sotto scorta, Abbate l’eroe della carta stampa minacciato dal perfido cecato. Il mondo va così due pesi e due misure, anzi a Naso si potrebbe dire che è tutto un De-lirio.
Criminale con diritto alla difesa. Non ha mai negato rapine e eversione nera e banditismo. Ma Carminati odia droga e mafia. Al Cecato è negata una tutela giudiziaria decente. Icona mediatica, non sta al gioco. Le ragioni del 416 bis secondo i legali, scrive Annalisa Chirico il 30 Dicembre 2014 su “Il Foglio”. Anche i criminali hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati. Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e censore dell’arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa. Non è lesa maestà ma tributo alla giurisdizione. Ci hanno raccontato che Carminati è un fascio cecato, dominus di una romanissima cupola mafiosa, trafficante e pluriomicida. Di sicuro c’è un fatto: “Er Cecato” è cecato veramente. Orbo di un occhio. Nell’epopea mitica del “re di Roma” propalata dalla grancassa massmediatica, l’occhio lo avrebbe perso in uno “scontro a fuoco” con la polizia. Prima bufala. L’unica arma che Carminati indossa quel 20 aprile del 1981 è un passaporto falso. Al valico di Gaggiolo, in provincia di Varese, Carminati è a bordo di una Renault 5 con due sodali in fuga dalla retata anti Nar della magistratura romana. Quando l’auto si ferma e i tre tentano di scappare, gli agenti della Digos sparano. Carminati è salvo per un pelo: il bulbo oculare sinistro è spappolato, un frammento del proiettile gli rimane conficcato nella testa. Il giovane, nato 23 anni prima da una famiglia borghese ben insediata nella capitale, maturità classica e qualche esame alla facoltà di Medicina, non è un neofita del crimine. Infiammato dall’ideologia eversiva, estremista, dei Nuclei armati rivoluzionari, nel ’79 insieme a quattro camerati mette a segno la rapina della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi a Roma. Da allora il certificato penale di Carminati s’ingrossa tra rapine, eversione, banda della Magliana, fino all’ultima clamorosa impresa: il furto nel caveau della banca interna del Palazzo di giustizia a Roma. “Massimo ha un’alta considerazione di sé”, sorride sornione l’avvocato Giosué Bruno Naso che lo difende da trent’anni. La reputazione conta. Per questo, quando nel dicembre 2012 l’Espresso pubblica un articolo a firma di Lirio Abbate che svela in anticipo l’inchiesta detta Mafia Capitale e attribuisce al Nero condanne per droga e omicidi, Carminati s’infuria: “Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l’imperatore Adriano. Però sugli stupefacenti non transigo. Lunedì voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente”. Assistito dall’avvocato Ippolita Naso, figlia di Giosué Bruno, cita per danni editore e giornalista. L’articolo di “De-Lirio Abbate”, come lo ribattezza Naso pater, alimenta l’ego di Carminati definito “arbitro di vita e di morte”, “unica autorità in grado di guardare dall’alto quello che accade nella capitale”. Ma poi l’articolista si spinge oltre e lo tira in ballo nel “business della cocaina”. Il che, per il Carminati pensiero, equivale alla peggiore delle infamie. E’ cresciuto nel mito volontaristico che non ammette dipendenze. L’uomo vero è un soggetto nel pieno controllo di sé. La droga è robaccia per il “Mondo di sotto”. Il casellario giudiziario di Carminati conferma la sua impostazione: zero condanne per droga. Quanto al profilo del pluriomicida, in entrambi i processi per l’assassinio del giornalista Carmine Pecorelli (presunto mandante l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti) Carminati è assolto. Il nome del Nero rimbalza in “Romanzo Criminale”, nonché in diverse inchieste su servizi segreti deviati e depistaggi di stragi. Sconta pure il carcere inseguito da accuse poi falcidiate a colpi di archiviazioni e assoluzioni. “E’ la solita mania tutta italiana di riscrivere la storia del paese in chiave giudiziaria – commenta il legale Naso pater – Massimo non è un frate trappista ma con la mafia non c’entra niente. Hanno tentato di coinvolgerlo nelle trame dei cosiddetti ‘misteri italiani’ privi di alcun esito giudiziario. Se non quello di rinverdire il mito carismatico del Nero”. Una vita tra fiction e realtà. Fino all’ultimo colpo di scena: Mafia Capitale. L’annuncio dell’“imminente scoperta” avviene nel corso di un convegno del Partito democratico a opera del procuratore capo Giuseppe Pignatone, magistrato stimatissimo che lo scorso sabato ha rilasciato una corposa intervista al Sole 24 Ore per dettagliare sullo sviluppo dell’inchiesta. Pignatone contesta il 416 bis perché è convinto che esista una mafia autoctona, romanissima, dotata degli “indici rivelatori” della tipica struttura associativa mafiosa. Pignatone vuole riuscire laddove gli inquirenti fallirono nei confronti della banda della Magliana (per la quale l’aggravante mafiosa fu esclusa dal giudice). “A quel punto – insinua maliziosamente Naso pater – chi potrà negargli il posto di procuratore nazionale antimafia?”. L’avvocato Naso filia ha coniato l’espressione “mafia parlata”: “Non ci sono morti né feriti. Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione… ma che senso ha contestare il 416 bis?” L’imputazione mafiosa estende la gamma dei mezzi investigativi disponibili, abbassa la soglia di gravità indiziaria, consente una gestione dei detenuti più favorevole alla procura. Il ministero di via Arenula ha disposto il 41 bis per l’indagato Carminati (non è ancora neanche imputato), il che significa 23 ore in cella e una sola visita al mese per i familiari. Chi lo conosce dubita che il “carcere duro” possa fiaccarlo nello spirito ribaldo. Ma di certo una misura cautelare così rigida rende assai ardua l’articolazione di una strategia difensiva. “Il 41 bis c’è anche a Rebibbia e a Civitavecchia. Perché trasferirlo prima a Tolmezzo, in provincia di Udine, e poi a Parma? Hanno sequestrato i conti suoi e dei familiari. Come farà a coprire almeno le spese della difesa? – si domanda Naso pater – Non siamo messi nelle condizioni materiali per difenderlo. Ma lo sa che hanno pedinato e intercettato me e mia figlia per mesi? Persino durante i colloqui con il mio assistito, cosa che è espressamente vietata dalla legge”. All’indomani dell’arresto avvenuto il 2 dicembre scorso, si consuma la prima “colossale buffonata”: un interrogatorio di garanzia in cui Carminati dovrebbe rendere conto delle risultanze d’indagini durate quattro anni e racchiuse in 80 mila pagine. Mentre i giornali ricamano sulla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, manco fosse un’implicita ammissione di colpa, gli avvocati che hanno ricevuto il malloppone appena 12 ore prima dell’incontro con il gip, si tormentano: “Come facciamo a consigliare al nostro assistito di rispondere se non abbiamo avuto il tempo di vagliare le carte?”. L’ordinanza d’arresto di oltre 1.200 pagine, un compendio d’intercettazioni telefoniche e ambientali, replica quasi testualmente l’istanza dei pm “i quali, a loro volta, ricalcano l’ultima informativa dei carabinieri. Il che vuol dire che non c’è più un controllo giurisdizionale sull’operato degli investigatori”, sostiene Naso pater. Davanti al collegio del tribunale del Riesame che potrebbe scarcerare Carminati ma non lo fa, Naso filia si scaglia contro “i metodi di un’indagine ossessiva, quotidiana, mostruosa” e contro un’imputazione, il 416 bis, che è “un calderone senza confini definiti in cui rientra ogni tipo di condotta, secondo il pericoloso e subdolo schema dell’argomentazione assiomatica”. Come un dogma. In effetti, le intercettazioni andrebbero ascoltate oltre che lette. “Il tono conta – prosegue la giovane e agguerrita Ippolita – E’ una manifestazione di spacconeria romana, un autentico cazzeggio che sconfina nel turpiloquio. Come si può pensare che un mafioso impartisca ordini imprecando seduto su una panchina con la gente che si volta a guardarlo?”. L’ormai famigerata pompa di benzina è un palcoscenico a cielo aperto. Di quale omertà parliamo? Carminati sa da tempo di essere pedinato e intercettato. Con le telecamere installate presso il benzinaio di corso Francia improvvisa siparietti da smargiasso rivolgendosi direttamente ai carabinieri: “Che ne dite, oggi facciamo un’estorsione o un’usura?”. Quando telefona a Naso filia, esordisce così: “Buongiorno, avvocato, sono il re di Roma”. Sembra una barzelletta. Stando all’ipotesi accusatoria, mentre a Roma scorrono miliardi di euro tra metropolitane e cantieri infiniti, Mafia Capitale si avventerebbe sul bottino delle corruzioni municipali con funzionari disposti a vendersi per 400 euro… “Fateci delinquenti ma non cojoni”, confida un risentito Carminati all’avvocato di una vita, Naso pater, all’indomani dell’episodio di intimidazione denunciato da Lirio Abbate. “Ma davvero credono che per mettere paura a un giornalista già scortato prendiamo un ventenne inesperto e lo mettiamo a bordo di una Clio per speronare un’auto blindata?”. La reputazione prima di tutto. “Forse ci siamo dimenticati che cos’è la mafia vera, come agisce – commenta Naso pater – C’è indubbiamente un malcostume diffuso che riguarda molte amministrazioni comunali. Ma è roba per “Striscia la Notizia” più che per la procura di Roma”. Si spieghi meglio, avvocato. “Se volete c’è una cultura mafiosa ma nessun metodo mafioso. E quella cultura mafiosa, se mi permette, permea la realtà italiana a molti livelli: negli appalti, nell’università, nella magistratura”. Attenzione che la incriminano. “Dico, e ripeto, che quando alcuni incarichi direttivi in magistratura restano vacanti per mesi e anni perché i capicorrente non si mettono d’accordo sulla spartizione dei posti, anche lì si appalesa una logica spartitoria di stampo mafioso”. I legali sono pronti a dare battaglia. Nessun giudizio abbreviato ma un processo vero, udienza per udienza. Naso pater non esita a definire Carminati un “Robin Hood del XX secolo”: se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava. Se occorreva sbloccare in Campidoglio una pratica, che riguardasse gli affari suoi o di persone a lui vicine, Carminati sapeva chi contattare. “Avete ridotto a questo stato la politica per la quale tanti di noi sono morti? E adesso io vi uso”, era l’atteggiamento sprezzante che il Nero riservava al mondo dei colletti bianchi e dei politicanti all’ombra del Cupolone. Per il resto, conduceva una vita morigerata e rigorosa con la sua compagna nella villetta di Sacrofano, una smart e pochissime uscite, una grande passione per National Geographic, “Quark” e SkyTg24. Banditi alcol e droghe. “Sa quante volte ha pagato le visite mediche private a ex camerati e ai loro familiari?”, evidenzia Naso pater. E allora uno si chiede come potesse mantenere un figlio ventenne a Londra e fare pure beneficenza con le sole entrate del negozio della compagna. “Ricordiamoci che del bottino del caveau è stata rinvenuta soltanto una minima parte”, si lascia scappare l’avvocato. Il Nero le rapine non le ha rinnegate, se l’è appuntate al petto come una medaglia al valore. Adesso che a 56 anni si ritrova per la prima volta nella sua vita al 41 bis, sussurra impaziente al suo legale: “Fateci fascisti ma non mafiosi”. Carminati invoca giustizia.
Per altri avvocati come i Naso, però, non è finita bene.
Ora si racconta un fatto: un avvocato ha chiesto il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. Quando si parla di “legittimo sospetto” ci si riferisce ad un presupposto applicativo dell’istituto giuridico della rimessione dei processi. Quest’ultimo, attualmente contemplato dall’art. 45 c.p.p., concretando una deroga a previsioni ordinarie in materia di competenza, comporta, come noto, il trasferimento del processo da una ad altra sede giudiziaria. Ratio ispiratrice del rimedio è la necessità di assicurare l’imparzialità della decisione finale rispetto a fattori di turbativa ambientale, capaci di incidere, dall’esterno, sulla regolarità processuale, intaccando così la genuinità del verdetto definitivo. Di fatto l'istituto non è stato mai applicato.
Anche perchè i magistrati, con l'ausilio della stampa, sanno come far impedire la richiesta travisandone gli effetti.
Camorra, lesse proclama contro Cantone e Cafiero de Raho: l’avvocato dei boss condannato a 5 anni e mezzo. I giudici hanno assolto con la formula "per non aver commesso il fatto" Francesco Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell'altro processo per diffamazione nei confronti di Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 luglio 2016. “Un camorrista in toga”. Così il pm della dda di Napoli Sandro D’Alessio definì Michele Santonastaso, ex difensore dei boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, definì l’avvocato che il 13 marzo 2018 nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del lesse una lettera-istanza per legittimo impedimento in cui venivano messi nel mirino due giornalisti e due magistrati: Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, Raffaele Cantone (nella foto) e Federico Cafiero de Raho. Per la diffamazione della giornalista de Il Mattino e ora senatrice Pd e per lo scrittore Santonastaso è stato già condannato a un anno l’11 dicembre 2014, oggi – a distanza di quasi un anno dalla requisitoria è arrivata la condanna per diffamazione e calunnia nei confronti dell’attuale presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Il Tribunale di Roma lo ha condannato a 5 anni e sei mesi. I giudici hanno assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” lo stesso Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell’altro processo. A Santonastaso i reati contestati sono aggravati dal metodo mafioso. Il procedimento nato a Napoli è giunto a Roma per competenza perché sia Cantone sia De Raho erano in servizio alla Dda di Napoli all’epoca dei fatti. L’accusa aveva chiesto per tutti gli imputati sei anni di reclusione. Il legale lesse a nome dei due boss (non presenti in aula) una memoria in cui veniva messa in dubbio la serietà dell’inchiesta chiedendo, quindi, il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. La lettera diffamatoria nei confronti dei magistrati conteneva espressioni minacciose e accusava i pm “di essere in cerca di pubblicità”. Nel documento venivano citati anche lo scrittore Saviano e Capacchione. A Santonastaso inoltre un anno fa furono confiscati beni mobili e immobili per 8 milioni di euro dai Carabinieri di Caserta e dagli agenti della Dia di Napoli che notificarono anche una misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di residenza della durata di 4 anni. L’avvocato era stato arrestato due volte, nel settembre del 2010 e nel gennaio del 2011, per avere commesso una serie di reati finalizzati ad agevolare la fazione Bidognetti del clan dei Casalesi, il clan Cimmino e il clan La Torre. Fu nell’udienza per chiedere la confisca dei beni – che l’11 dicembre 2014 – il pubblico ministero definì Santonastaso “camorrista in toga la cui attività, iniziata negli anni ’90, ha avuto un’escalation culminata con la lettura nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del 2008, dell’istanza per legittimo impedimento in cui vengono messi nel mirino due giornalisti e due magistrati, l’estremo tentativo dei Casalesi di ricompattarsi come aveva fatto Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima”.
Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.
Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.
Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.
Per dire: una norma scomoda inapplicata.
Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.
Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.
L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.
Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.
Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?
E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.
La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.
Come si dice..."Cane non mangia cane!". Toga non tocca toga e alla fine perdono sempre i cittadini. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno, scrive Alessandro Sallusti (la destra politica), Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". A riprova che i magistrati non sono esseri superiori, esenti dai limiti e vizi di noi comuni mortali, un importante pubblico ministero di Roma, Francesco Scavo, titolare dell'inchiesta sui marò e di quella sull'omicidio di Luca Varani, è stato processato dal Csm per molestie sessuali nei confronti di alcune avvocatesse: apprezzamenti imbarazzanti a sfondo sessuale, avance e «repentini palpeggiamenti». Dopo aver accertato i fatti, che sanzione ha deliberato il Csm? Censura e trasferimento d'ufficio, come giudice, al tribunale di Viterbo. Ora, qui non parliamo di un manager sporcaccione o di un impiegato esuberante, ma di un magistrato. Cioè di un professionista che avendo in mano le vite e i destini di altri uomini dovrebbe dimostrare doti di equilibrio al di sopra di ogni sospetto. Doti evidentemente incompatibili con il profilo psicologico di un molestatore seriale. Che continuerà invece ad operare, non più come accusatore ma, peggio mi sento, come giudice. Non voglio ironizzare in base a quali giudizi Francesco Scavo emetterà le sue sentenze a carico di imputati magari difesi da giovani avvocatesse. Ma dico che è come se un pilota trovato positivo al test antidroga, invece che messo a terra venisse spostato a pilotare un aereo solo un po' più piccolo. Come se un chirurgo alcolizzato fosse trasferito dal grande ospedale a uno di provincia. Volereste su quell'aereo? Vi fareste curare in quell'ospedale? Penso di no. E allora mi chiedo perché i cittadini di Viterbo debbano finire nelle mani di un giudice poco equilibrato. E la risposta è una sola: la magistratura italiana usa due pesi e due misure, a seconda che si tratti di noi o di loro, e chissà quante volte accade perché il caso Scavo non è certo una eccezione. Se Piercamillo Davigo, neo presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di dare dei ladri a tutti i politici e di considerare imprenditori e cittadini colpevoli fino a prova contraria, facesse un bel po' di pulizia in casa sua, il Paese ne avrebbe certamente maggiori benefici. Ma è come chiedere al tacchino di anticipare il Natale. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno.
Storia di magistrati, di malagiustizia e del popolo che paga sempre…Come un magistrato viene beccato dalla polizia nei cessi di un cinema che fa un pompino a un ragazzino ed esce dalla vicenda con una promozione che farà lievitare anche gli stipendi dei suoi colleghi. Un costo da 70 milioni di euro all’anno…Il “pompino” più caro della storia, scrive Stefano Livadiotti (la sinistra politica), giornalista del settimanale L’ ESPRESSO (tratto dal libro “MAGISTRATI L’ULTRACASTA”). Un magistrato viene sorpreso in un cinema di periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. E il Consiglio superiore della magistratura lo riabilita. Con una sentenza grottesca che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi. Ecco i verbali segreti di tutta la storia. Sono le 18 di un freddo pomeriggio di dicembre quando L.V., rispettabile magistrato di corte d’appello con funzioni di giudice del Tribunale di Milano, fa il suo ingresso nella sala dell’Ariel, un piccolo cinema all’estrema periferia occidentale di Roma. Sullo schermo proiettano il film western La stella di latta. Ma ad attirare Vostro Onore nel locale non sono certo le gesta di John Wayne nei panni dello sceriffo burbero. No, a L.V., che ha ormai 41 anni suonati, dei cow-boy non frega proprio un fico secco. Se si è spinto tanto fuori mano è perché è in cerca di tutt’altro. Così, dopo aver scrutato a lungo nel buio della platea, individua il suo obiettivo. E, quatto quatto, scivola sulla poltroncina accanto a quella occupata dal quattordicenne I.M. Quello che succede in seguito lo ricostruisce il verbale della pattuglia del commissariato di Polizia di Monteverde che alle 19.15 raggiunge il locale su richiesta della direzione. “Sul posto c’era l’appuntato di polizia G.P., in libera uscita e perciò casualmente spettatore nel cinema, che consegnava ai colleghi sopravvenuti due persone, un adulto e un minore, e indicava in una terza persona colui che aveva trovato i due in una toilette del cinema. L’adulto veniva poi identificato per il dottor L.V. e il minorenne per tale I.M. Il teste denunciante era tale F.Z”. “L’appuntato G.P. riferiva che verso le 19, mentre assisteva in sala alla proiezione del film, aveva sentito gridare dalla zona toilette: “zozzone, zozzone, entra in direzione!”. Accorso, aveva trovato il teste Z. che, indicandogli i due, affermava di averli poco prima sorpresi all’interno di uno dei box dei gabinetti, intenti in atti di libidine. Precisava, poi, lo Z. che, entrato nel vestibolo della toilette, aveva scorto i due che si infilavano nel box assieme, richiudendovisi. Aveva allora bussato ripetutamente, invitandoli a uscire, ma senza esito. Soltanto alla minaccia di far intervenire la Polizia l’uomo aveva aperto, tentando di nascondere il ragazzo dietro la porta.” “Il minorenne, a sua volta, raccontava che verso le 18 era seduto nella platea del cinema intento a seguire il film quando un individuo si era collocato sulla sedia vicina: poco dopo questi aveva allungato un mano toccandogli dall’esterno i genitali. Egli aveva immediatamente allontanato quella mano e l’uomo se n’era andato. Ma dopo dieci minuti era ritornato, rinnovando la sua manovra. Questa volta egli aveva lasciato fare e allora l’uomo gli aveva sussurrato all’orecchio la proposta di recarsi con lui alla toilette, promettendogli del denaro. Egli s’era alzato senz’altro, dirigendosi alla toilette, seguito dall’uomo. Entrati nel box, l’uomo gli aveva sbottonato i calzoni, ed estratto il pene lo aveva preso in bocca.” Adescare un ragazzino in un cinema è un fatto che si commenta da solo. Che a farlo sia poi un uomo di legge, o che tale dovrebbe essere, appare inqualificabile. Ma non è solo questo il punto. Se i fatti si fermassero qui, non potrebbero essere materia di questo libro. Invece, come vedremo, la storia che comincia nella sala dell’Ariel giovedì 13 dicembre del 1973, per concludersi ingloriosamente 8 anni dopo, va ben oltre lo squallido episodio di cronaca. Per diventare emblematica della logica imperante almeno in una parte del mondo della magistratura ordinaria (di cui esclusivamente ci occuperemo, senza prendere in considerazione quelle contabile, amministrativa e militare). Cioè, in una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola. Quel giorno, e non potrebbe essere altrimenti, V. viene dunque arrestato. Vostro Onore cerca disperatamente di negare l’evidenza. S’arrampica sugli specchi, raccontando di aver pensato che il ragazzino si sentisse male e di averlo quindi seguito nel bagno proprio per assisterlo. Ma non c’è niente da fare: l’istruttoria conferma la versione della polizia. Così, il Tribunale di Grosseto rinvia a giudizio V. per “atti osceni e corruzione di minore”. E, il 28 dicembre del 1973, si muove anche la sezione disciplinare del Csm, l’organo di governo della magistratura, che lo sospende dalle funzioni. V. sembra davvero un uomo finito. Ma non è così. Il 21 gennaio del 1976, il verdetto offre la prima sorpresa. Con il loro collega, i giudici toscani si dimostrano più che comprensivi. Il tribunale della ridente cittadina dell’alta Maremma ritiene infatti che, “atteso lo stato del costume”, l’atto compiuto da V. nella sala del cinema vada considerato soltanto come contrario alla pubblica decenza. Come, “atteso lo stato del costume”? Cosa succedeva all’epoca nei cinema di Grosseto: erano un luogo di perdizione e nessuno lo sapeva? Boh. Andiamo avanti: “Conseguentemente, mutata la rubrica nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’articolo 726 del codice penale, lo condanna alla pena di un mese di arresto […] Per quanto poi riguarda la seconda parte dell’episodio, esclusa la procedibilità ex officio, essendo ormai il fatto connesso con una contravvenzione, proscioglie il V. per mancanza di querela dal delitto di corruzione”. Ma il procuratore generale non è d’accordo, e questa è una buona notizia per tutto il paese. E V., che pure dovrebbe fregarsi le mani, neanche. Entrambi presentano ricorso. Si arriva così all’8 marzo del 1977, quando a pronunciarsi è la corte d’appello di Firenze, che ribalta il precedente giudizio. Ma lo fa a modo suo. Per i giudici di secondo grado, quelli di V. sono atti osceni. Evviva. Però, siccome il primo approccio con il ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto, il fatto non costituisce reato. V. se la cava quindi con una condanna a 4 mesi, con la condizionale, per la sola corruzione di minori. E di nuovo, non contento, ricorre, con ciò stesso dimostrando la sua incrollabile fiducia nella giustizia. Assolutamente ben riposta, come dimostra il terzo atto della vicenda, che va in scena due anni dopo, il 30 marzo del 1979: “La corte suprema, infine […] annulla senza rinvio limitatamente al delitto di corruzione di minorenne, a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia”. Amen. V. era definitivamente sputtanato davanti a tutti i colleghi. Ma senza più conti in sospeso con la legge. E tanto bastava al Consiglio superiore della magistratura (d’ora in avanti Csm), che il successivo 29 giugno revocava la sua sospensione, rigettando una richiesta in senso contrario del procuratore generale della cassazione, perché “le circostanze non giustificavano l’ulteriore mantenimento […] di una sospensione durata cinque anni e mezzo”. A V. restava da superare solo un ultimo scoglio: il verdetto della sezione disciplinare. Ed è proprio in quella sede che la storia assumerà i toni più grotteschi. La sceneggiata finale, come racconta nel dettaglio la sentenza finora inedita, scritta a macchina e lunga 12 pagine, si svolge il 15 maggio del 1981, quando si riunirono i magnifici 9 della giuria che deve esaminare il dossier n. 294. Molti di loro faranno una carriera coi fiocchi. C’è l’allora vicepresidente del Csm, che è addirittura Giovanni Conso, futuro numero uno della consulta e ministro della giustizia, prima con Amato e poi con Ciampi. C’è Ettore Gallo, che all’inizio degli anni novanta s’accomoderà anche lui sul seggiolone di presidente della corte costituzionale. C’è Giacomo Caliendo, che siederà poi nel governo di Silvio Berlusconi, con l’incarico di sottosegretario alla giustizia. C’è Michele Coiro, che sarà procuratore generale del Tribunale di Roma e poi direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ancora: i togati Luigi Di Oreste, Guido Cucco, Francesco Marzachì e Francesco Pintor, e il laico Vincenzo Summa. Chi pensa che in un simile consesso le parole siano misurate con il bilancino è completamente fuori strada. Vista dall’esterno, la sede del Csm ha perfino un che di lugubre, ma quando si riunisce la sezione disciplinare l’atmosfera è più quella del Bagaglino. La sentenza offre un campionario di spunti dalla comicità irresistibile. Come quello offerto dal medico di V., che lascia subito intendere quale incredibile piega potrà prendere la vicenda. “Veniva anche sentito il medico curante, dottor G., che testimoniò di aver sottoposto il V. a intense terapie nell’anno 1970 a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave metallico di una bassa porta. Si trattava di ferita trasversale da taglio all’alta regione frontale, che il medico suturò previa disinfezione. “ Vostro Onore, insomma, aveva dato una craniata. E allora? “Benché fosse rimasto per dieci giorni nell’assoluto prescritto riposo, il paziente accusò per vari mesi preoccupanti disturbi, quali cefalee intense, sindromi vertiginose, instabilità dell’umore, turbe mnemoniche. Le ulteriori terapie praticate diedero temporaneo sollievo, ma vi furono frequenti ricadute, soprattutto di carattere depressivo, che si protrassero fino al 1972 […] È emerso che la madre dell’incolpato è stata ricoverata per 25 anni in clinica neurologica a causa di gravi disturbi.” Che c’entra?”, direte voi. Tempo al tempo. Dopo quella del luminare, la seconda chicca è la testimonianza dell’amico notaio. “All’odierno dibattimento sono stati escussi sette testimoni, dai quali è rimasta confermata l’irreprensibilità della vita dell’incolpato, prima e dopo il grave episodio, e soprattutto la serietà dei suoi studi e del suo impegno professionale. In particolare, il notaio dottor M. ha ricordato il fidanzamento del dottor V.con la sorella, assolutamente ineccepibile sul piano morale per i quattro-cinque anni durante i quali egli ha frequentato la famiglia. Il matrimonio non è seguito per ragioni diverse dai rapporti tra i fidanzati, che sono anzi rimasti buoni amici.” Par di capire, tra le righe, che V. non molestasse sessualmente la fidanzata. La credibilità della qual cosa, alla luce della sua successiva performance con il ragazzino, appare, questa sì, davvero solida. Nonostante le strampalate deposizioni, gli illustri giurati sembrano decisi a fare sul serio. E subito escludono in maniera categorica di poter credere alla versione che il collega V., a dispetto di tutto, si ostina a sostenere. “I fatti,” tagliano corto, “vanno assunti così come ritenuti dai magistrati di merito dei due gradi del giudizio penale”. Poi, però, cominciano a tessere la loro tela. “E tuttavia ciò che colpisce e stupisce, in tutta la dolorosa e squallida vicenda, è la constatazione che l’episodio si staglia assolutamente isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intera esistenza, fatta di disciplina morale, di studi severi e di impegno professionale.” Come diavolo abbiano fatto a stabilire che “l’episodio si staglia assolutamente isolato”, i giurati lo sanno davvero solo loro. Ma andiamo avanti. La prosa è zoppicante, però vale la fatica: “Tutto questo non può essere senza significato e non può essere spiegato se non avanzando due diverse ipotesi. O l’episodio ha avuto carattere di improvvisa e anormale insorgenza, quasi di raptus, la cui eziologia va ricercata e messa in luce; oppure se, al di sotto delle apparenze, sussiste effettivamente una natura sessuale deviata o almeno ambigua, è doveroso stabilire perché mai essa si sia rivelata soltanto e unicamente in quell’occasione, durante tutto il corso di un’intera esistenza”. L’alto consesso propende, ça va sans dire, per la prima delle due ipotesi. “Già […] i giudici penali avevano adombrato suggestivamente, in presenza dei referti clinici, della deposizione del curante e di quella del maresciallo S. che eseguì l’arresto, che la capacità di intendere e di volere del V., al momento del fatto, doveva essere scemata a tal punto da doversi ritenere ‘ridotta in misura rilevante’, e ciò – secondo i giudici – “per una sorta di psicastenia, di una forma di malattia propria, tale da alterare specialmente l’efficienza dei suoi freni inibitori contro i suoi aberranti impulsi erotici’“. Poste le premesse, i giudici dei giudici preparano il gran finale, citando il parere pro veritate di due professori, scelti naturalmente dalla difesa di V. “Secondo gli psichiatri […] l’episodio in esame, non soltanto costituisce l’unico del genere, ma esso, anzi, ponendosi in netto contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici che, iniziatisi nel 1970, si trovavano in piena produttività nel 1973, all’epoca del fatto. Durante il quale, pur conservandosi sufficientemente la consapevolezza dell’agire, restò invece completamente sconvolta la ‘coscienza riflettente’, cioè la rappresentazione preliminare degli aspetti etico-giuridici della condotta da tenere e delle sue conseguenze. Il che ha reso inerte la volontà di inibire quelle spinte pulsionali su cui il soggetto non riusciva più a esprimere un giudizio di valore.” Tutta colpa, dunque, della “coscienza riflettente”, che era andata in tilt. Ma come mai? Chiaro: “Su tutta questa complessa situazione il trauma riportato nel 1970 ha svolto un ruolo – secondo i clinici – di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità, fino all’organizzazione della sindrome esplosa nell’episodio de quo”. Vostro Onore, dunque, dopo la zuccata è diventato scemo? Neanche per sogno. Lo è stato, ma solo per un po’. “D’altra parte, poi, proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi a seguito del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti, hanno favorito il completo recupero della personalità all’ambito della norma, come è testimoniato dai successivi otto anni di rinnovata irreprensibilità.” Adesso insomma Vostro Onore è guarito e può senz’altro rimettersi la toga. “Il che comporta essersi trattato di un episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza tuttavia lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità.” Conclusione, in nome del popolo italiano: “Il proscioglimento, pertanto, si impone”. Addirittura. “La sezione assolve il dottor V. perché non punibile avendo agito in istato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto”. Il procuratore se n’è fatta una ragione e non propone l’impugnazione. Il futuro ministro non ha nulla da eccepire. Il collega che siederà sullo scranno di presidente della consulta se ne sta muto come un pesce. E, diligentemente, i giurati mettono la firma sotto una simile sentenza. Dove si racconta la storiella di uno che ha sbattuto la testa e tre anni dopo è diventato scemo e ora però non lo è più. A parte il fatto che una zuccata prima o poi l’abbiamo presa tutti, magari pure Conso e Gallo, e qualcuno di noi da piccolo è perfino caduto dalla bicicletta: ma non è che poi ci siamo messi proprio tutti a dare la caccia ai ragazzini nei cinema di periferia. Il fatto che la sezione disciplinare del Csm non sia esattamente un tribunale islamico non è certo una notizia. Nel capitolo 3, intitolato Gli impuniti, ne racconteremo davvero di tutti i colori. Ma il caso di V.è al di là di ogni limite. Anche perché la sua storia non è rimasta sotto traccia come molte altre. Al contrario, nel mondo della magistratura è diventata molto, ma proprio molto popolare. Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice. Il libro lo ha infatti scritto quando aveva appena lasciato il Csm, di cui era consigliere: “A conclusione della vicenda V. non solo aveva ripreso servizio, ma era stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di cassazione, conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni. E, avendo cumulato nel frattempo molti scatti di anzianità sul suo stipendio di consigliere d’appello, si trovò per il principio del trascinamento a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, allora, grazie all’istituto del galleggiamento, ottennero un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal nostro magistrato”. Come consigliere, Mellini aveva modo di accedere agli archivi segreti del Csm. E così si era tolto la curiosità di fare due conti. “Pare che tale marchingegno abbia comportato per lo stato un onere di oltre 70 miliardi.” Tanto è costato ai cittadini italiani il caldo pomeriggio del pedofilo in toga. Trasformato d’un colpo da reprobo a benefattore dell’intera categoria. La domanda è inevitabile. Quando hanno deciso di prosciogliere il collega, Lor Signori del Csm non avevano a portata di mano un pallottoliere per fare due conti? O, al contrario, hanno prosciolto V. proprio perché i conti li avevano fatti, eccome? La risposta è arrivata nel 1993: il 29 settembre V. si è visto negare l’ultimo passaggio di carriera, quello alle funzioni direttive superiori della Cassazione. Eppure, i fatti sulla base dei quali è stato giudicato erano gli stessi di prima. Sarà perché nel frattempo era stato abolito il galleggiamento? E quindi nessuno avrebbe beneficiato di una sua ulteriore promozione?
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.
Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.
Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.
I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.
La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.
Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.
“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.
Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”
Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.
Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.
Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.
Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.
A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.
Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.
Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.
La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.
In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.
Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.
Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.
Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.
Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).
Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.
Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.
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INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
Troppi giudici impreparati? Serve un intervento legislativo per riformare l'accesso alla magistratura. Sono diventati forse troppi gli errori giudiziari per non porsi il problema di una riforma dei criteri di accesso all'esame da magistrato, scrive Annamaria Villafrate su “Studio Castaldi”. Concorso in magistratura: desiderio di molti alla portata di pochi? Probabilmente no. Dato che vi può partecipare anche chi si è laureato a fatica e dopo una serie infinita di 18. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Da diversi anni fanno notizia anche sui media errori grossolani delle prove scritte degli aspiranti giudici, una professione complessa che richiederebbe molto studio e impegno. In Italia avvocati, giuristi e cittadini denunciano la gravissima situazione di incertezza del diritto. Soggetti condannati per il reato di omicidio in primo grado, magicamente assolti in appello. Sentenze con motivazioni e dispositivi spesso frutto di un veloce copia e incolla. La giustizia italiana è affidata tal volta a magistrati degni di grande rispetto, altre volte però a decidere delle sorti di un giudizio vi sono magistrati che farebbero bene a rimettere mano allo studio di manuali e codici di procedura. Che vi sia una grossa fetta di magistrati dalla scarsa preparazione oramai è sotto gli occhi di tutti ed è anche attestata dal quotidiano ribaltamento di sentenze di merito da parte della Corte di Cassazione che fin troppo spesso è costretta a intervenire per correggere errori talvolta "imbarazzanti". Proviamo soltanto ad accedere al CED della Cassazione nella pagina in cui è possibile visualizzare le sentenze per esteso (italgiure.giustizia.it/sncass/) e a digitare le parole virgolettate "cassa la sentenza impugnata": rimarremo sorpresi di quante sentenze vengono quotidianamente bocciate dalla Suprema Corte a conferma del fatto che i giudizi di merito sono spesso, anzi troppo spesso, decisi in modo inaffidabile. Cosa dire poi dei continui e destabilizzanti contrasti giurisprudenziali? Identiche questioni giuridiche risolte con sentenze diametralmente opposte in diversi ambiti territoriali e che costringono la Corte di legittimità a un surplus di lavoro per fare chiarezza. Senza parlare del problema che si crea alla "certezza del diritto" che sta sempre più somigliando a un miraggio. Il ruolo del magistrato è senza dubbio molto delicato. Le sue decisioni possono incidere profondamente sulla vita delle persone. Una sentenza penale errata o basata su un'analisi superficiale dei fatti può privare un individuo della propria libertà. Mentre una sentenza civile può incidere sugli equilibri privati di una coppia o portare alla rovina economica un intero nucleo familiare, un'azienda o un'impresa. Come possiamo dunque accettare che si commettano così tanti errori e che ci sia così tanta incertezza? Un problema di questa portata si potrebbe anche risolvere con due interventi da mettere in campo:
1) Redigere testi di legge più chiari e non soggetti ad interpretazione. Il linguaggio giuridico è ancora troppo complesso e solleva troppi dubbi interpretativi. E a peggiorare la comprensibilità delle norme è poi la copiosa presenza di continui rinvii ad altri testi di legge e l'assenza d'interpretazioni autentiche da parte del legislatore. Non è infrequente che dopo l'emanazione di una nuova legge, decreto o regolamento, gli addetti ai lavori manifestino dubbi in merito alla concreta applicabilità delle nuove disposizioni alle fattispecie concrete.
2) Garantire un maggiore livello di preparazione dei magistrati. Un simile risultato è conseguibile anche introducendo, per legge, un filtro efficace per fare accedere al concorso solo i più meritevoli. Possiamo davvero permetterci di consentire l'accesso all'esame anche studenti che non abbiano un curriculum scolastico di tutto rispetto? Non è troppo delicato il compito affidato a chi diventerà poi magistrato? Una maggiore competenza della magistratura si può ottenere solo attraverso una preventiva severa selezione.
Tutto questo nella speranza che si possa tornare a ciò che accadeva in passato, quando, come scriveva Calamandrei, un avvocato non doveva preoccuparsi di "insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri".
Quei 44 ergastolani ostaggio dell'antimafia populista, scrive Giuseppe Rossodivita il 5 settembre 2016 su "Il Dubbio". "Boss e stragisti al Congresso dei Radicali? Provocazione spudorata". Così il titolo di un articolo su Il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa che, come rivendicato successivamente dalle colonne dello stesso giornale, ha bloccato il trasferimento da parte del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), di 44 ergastolani presso il carcere di Rebibbia per consentirgli di partecipare al 40° Congresso (da qualche ignorante chiamato raduno) del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Bene, l'Italia è salva, viva Il Fatto Quotidiano. Purtroppo, al di là delle autocelebrazioni del giornale di Travaglio, non è così. La vicenda è invece paradigmatica di una sottocultura che ha condizionato negativamente la crescita di un paese che sul punto da anni non compie altro che passi indietro. Sulla spinta di questa sottocultura populista e che fonda il proprio successo sull'ignoranza, madre e padre delle paure di chi in questa condizione viene mantenuto, l'Italia non solo non è salva, ma sta messa decisamente male. Allora cerchiamo di fare un po' di informazione, quella che, come da prassi in questi casi, è stata fatta scientificamente mancare. Il trasferimento dei detenuti ergastolani, diversi ex 41 bis, era stato richiesto nell'ambito di un progetto cui questi detenuti hanno aderito denominato "Spes contra Spem", che si potrebbe tradurre con la frase per cui non basta avere speranza ma occorre essere speranza, farsi speranza in prima persona, con il proprio agire quotidiano, come ripetuto quasi ossessivamente negli ultimi anni da Marco Pannella. Con tutti questi detenuti si sono tenuti diversi incontri, ai quali anche chi scrive ha partecipato, quale Segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei che affianca Nessuno Tocchi Caino nella battaglia volta a far accertare l'incostituzionalità dell'ergastolo cosiddetto "ostativo". Cos'è l'ergastolo ostativo? È quell'ergastolo che esiste, ma che per finalità ora editoriali, ora elettorali, viene negato che esista. Se chiedete ad un passante per strada com'è l'ergastolo in Italia, vi risponderà che in Italia l'ergastolo non c'è, perché tanto prima o poi tutti escono di galera. Ovviamente non è così, ma far credere il contrario alimenta paure che poi determinano vendite di giornali e consensi elettorali per chi si propone come salvatore della patria, essendone invece il boia. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che viene comminato per aver commesso particolari tipi di delitti di mafia, che impediscono di godere di qualsiasi beneficio penitenziario legato ad un percorso di rieducazione e reinserimento. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che porterà queste persone, un migliaio circa, ad uscire di galera, come si usa dire con cruda espressione, solamente "con i piedi in avanti". È la morte per pena, molto simile alla pena di morte. A meno che non barattino la loro vita con quella di qualcun'altro: potrebbero uscire vivi, gli ergastolani ostativi, solo se "collaborando" facciano chiamate di reità nei confronti di altri. Solo a quel punto le porte del carcere si potrebbero aprire. Ma "collaborare" nell'unico modo oggi preso in considerazione dallo Stato, facendo cioè incarcerare altri, non sempre è possibile, magari anche volendolo, per mille diverse ragioni, basti pensare alle ritorsioni nei confronti di figli e familiari tipici della criminalità organizzata. Senza contare che una "collaborazione" determinata da motivi egoistici non morire in carcere non necessariamente risulta sincera o veritiera, potendo rivelarsi calunniosa e non necessariamente restituisce alla società una persona migliore: ma questo ai Travaglio d'Italia non interessa, interessando loro solo la certezza della virile vendetta dello Stato, anche se contraria alla Costituzione. Il punto però è che il problema di questi detenuti è un problema del nostro Paese. Con il sistema attuale le mafie prosperano. È un dato di fatto. La storia e la cronaca testimoniano che le mafie non si sconfiggono solo a colpi di sentenze: per ogni mafioso condannato altre giovani leve sono pronte a prenderne il posto, essendo cresciute nel loro mito. Ciò che alimenta le mafie è una vera e propria sottocultura, che trae la sua forza dalle deteriori condizioni economiche, sociali e culturali in cui larghe fette di Paese vengono mantenute, anzitutto dalle mafie stesse, anche quando indossano il "vestito buono" della politica politicante. I 44 detenuti iscritti al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito sono stati assassini e stragisti, ciascuno almeno venti se non trenta anni fa. Ora sono altro, lo sono divenuti giorno dopo giorno, nei venti o trent'anni di reclusione che hanno subito e vorrebbero poter esser testimoni e testimonial di una dissociazione come quella che portò alla sconfitta del terrorismo che lo Stato invece sino ad ora si ostina a non prendere in alcuna considerazione. Per lo Stato o collabori o muori in carcere: questo è il modello fallimentare con cui combattere i fenomeni mafiosi. Il messaggio culturale che questi 44 detenuti potrebbero invece lanciare e avrebbero potuto lanciare dal Congresso del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - è dirompente, soprattutto nei loro territori di provenienza, soprattutto per quelle giovani leve che oggi li considerano come esempi in quanto boss, killer o stragisti: la cultura mafiosa è sbagliata, è sottocultura, c'è un altro modo per poter vivere da uomini e donne in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia ed è un modo che ripudia quella sottocultura mafiosa e sposa la legalità su cui solo si può fondare la pacifica e civile convivenza, quella legalità che solo lo Stato può garantire. Firmato ex boss ed ex assassini di mafia. Così, ancora una volta, la sottocultura dell'antimafia populista e di facciata si è contrapposta ad un'altra sottocultura, quella mafiosa. È il Paese, e non certo i Radicali o i 44 detenuti, ad aver perso un'occasione. Per ora. Perché essere speranza di lotta alla mafia - come hanno voluto essere con il coraggio civile maturato in decenni di detenzione questi 44 detenuti - significa non stare lì ad aspettare che qualcun'altro combatta la mafia per loro o per noi, magari solo con quegli strumenti messi in campo sino ad oggi e che hanno garantito alle mafie, come alle antimafie di facciata, lunga vita e prosperità.
Giustizia digitale, chiusa per ferie, scrive Guido Scorza il 22 luglio 2016 su “L’Espresso”. “A far data dal 21 luglio e sino al 7 settembre 2016 sarà consentito il solo deposito in maniera cartacea degli atti urgenti con esclusione del deposito telematico stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Recita letteralmente così un avviso, firmato dal Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Napoli e rivolto a tutti i curatori delle procedure fallimentari. A leggerlo verrebbe da ridere se il funzionamento della Giustizia non fosse così importante sul piano economico e su quello democratico. Una manciata di righe piene zeppe di contraddizioni che sembrano, per davvero, lo scherzo di un burlone che ha rigirato il senso di una comunicazione con la quale si intendeva dire l’opposto ovvero che, in estate, per consentire a personale amministrativo ed a magistrati di prendere visione degli atti, anche se fuori dall’ufficio, il loro deposito deve necessariamente avvenire solo per via telematica. Eppure è tutto drammaticamente vero. Il Presidente di una Sezione di un Tribunale importante come quello di Napoli è costretto – perché è difficile credere che se non costretto, qualcuno sarebbe riuscito a concepire una regola tanto apparentemente illogica – a mettere nero su bianco che il tanto decantato processo civile telematico è chiuso per ferie e che durante i mesi estivi si ritorna alla sana e vecchia carta. Ma più che il divieto di procedere al deposito per via telematica, ciò che lascia davvero senza parole è la sua motivazione: “stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Impossibile resistere alla tentazione di leggere e rileggere questa motivazione nella convinzione – o, almeno, nella speranza – di aver capito male e che il senso sia esattamente l’opposto. Può essere difficile – e, forse, persino impossibile - ricevere un atto depositato in forma cartacea ma come fa a considerarsi impossibile, nel 2016, ricevere un atto trasmesso per via telematica? Sarebbe intellettualmente disonesto però puntare l’indice contro il Presidente della Sezione fallimentare del Tribunale di Napoli – che, per inciso, non è certamente né il primo, né l’unico ad aver dovuto stabilire certe regole – dimenticando che, evidentemente, se si arriva a certi tragicomici epiloghi è perché, ad oltre tre lustri dall’entrata in vigore della prima disciplina sul processo civile telematico, sistemi ed interfacce continuano ad essere disegnati, progettati ed implementati in modo tale da complicare la vita agli utenti del sistema giustizia anziché semplificarla. Che la giustizia digitale debba chiudere per ferie prima e più di quella cartacea è, veramente, una barzelletta dal retrogusto amaro. [Grazie a Matteo G.P. Flora per la segnalazione]
La diseguaglianza della giustizia, scrive Michele Ainis il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". La Giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l'analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all'altro del nostro territorio. E alle deficienze s'accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d'ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l'"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov'è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell'utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l'istituto dell'accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d'accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l'eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l'essenziale, l'informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c'è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l'essenziale. Un esempio? La giustizia, per l'appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s'addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l'usuale prospettiva. L'eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mo' di corollario, che l'applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell'accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l'universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extragiuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d'ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l'udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d'un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un'ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un po' distratti, meglio controllare. Con un'indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c'è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l'indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l'immagine d'un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d'udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d'arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c'è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c'era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d'un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l'arretrato.
I giudici arroccati nelle loro “garanzie” rendono la legge diseguale per tutti. Orlando sulla prescrizione e un libro della politologa Piana, scrive Marco Valerio Lo Prete il 28 Giugno 2016 su "Il Foglio”. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in visita ad alcuni uffici giudiziari siciliani, ha detto che “non esiste un nord e un sud nell’ambito della giustizia”. E quella che a una prima lettura potrebbe apparire come una carezza buonista a tutto il sistema, contiene in realtà un messaggio critico che gli addetti ai lavori hanno carpito. “Dalle performance legate alle prescrizioni, emerge che nello stesso paese, con le stesse leggi e spesso anche con le stesse condizioni materiali, ci sono uffici che hanno, rispetto ai procedimenti sottoposti, il 30-40 per cento di prescrizioni e altri che stanno sotto il 2 o l’1 per cento. E anche in questo caso non sono le solite Trento e Bolzano, che vengono sempre citate come realtà virtuose: sono spesso, invece, uffici del Mezzogiorno, uffici di frontiera che però sono in grado di dare una risposta perché nel corso del tempo hanno prodotto elementi di innovazione organizzativa”, ha detto Orlando. In altre parole: cari magistrati, rimboccatevi le maniche, perché tante delle attuali disfunzioni del pianeta giustizia non sono colpa del governo ladro ma dipendono da voi. E’ questa una delle riflessioni al centro dell’ultimo libro della politologa Daniela Piana, pubblicato dal Mulino e intitolato “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”. Con linguaggio scientifico, quasi asettico, la studiosa dell’Università di Bologna mette in dubbio che l’uguaglianza di fronte alla legge sia oggi garantita a tutto tondo nel nostro paese. Con indagini sul campo e dati alla mano, l’autrice sottolinea infatti che “il diritto garantisce” ma “la funzione rende reale ed effettiva tale garanzia. Fra il diritto e la funzione (rendere giustizia) intervengono diversi fattori”, che a loro volta influenzano “quelle variabili che rendono diseguale o potenzialmente diseguale l’accesso alla giustizia resa al cittadino e alla collettività”. Un procedimento di diritto del lavoro viene definito nel distretto di Milano in 280 giorni in media (meno di 10 mesi), contro i 1.371 giorni di media (quasi quattro anni) nel distretto di Bari; allo stesso tempo, all’interno del distretto di Milano, una causa di diritto della famiglia si chiude in 142 giorni a Busto Arsizio e 258 giorni a Milano, poi – nel distretto di Bari – in 447 giorni a Foggia e in 536 giorni a Trani. Per la politologa Piana “non trova riscontro nella realtà dei fatti” l’ipotesi che “maggiore è il numero dei magistrati che lavorano in un tribunale, maggiore la performance e minore il numero di giorni per definire i procedimenti”. Infatti “ad Ancona la scopertura dell’organico togato è del 17 per cento, mentre a Belluno del 18 per cento. I tempi medi del primo ufficio sono di 224 giorni, mentre nel secondo 326. Palermo ha una scopertura dell’organico togato dell’11 per cento, mentre Milano del 16 per cento. I tempi medi di Palermo sono 436, quelli di Milano 229”. Piuttosto sembra incidere di più, secondo Piana, il personale amministrativo presente nei tribunali. Anche qui, però, non è questione di “quantità”: “Il rapporto Cepej (del Consiglio d’Europa, ndr) pubblicato nel 2014 rileva che solo il 2,5 per cento del personale non togato (cioè del personale non appartenente al corpo dei magistrati) è specializzato in management”. Nel resto d’Europa va diversamente: il tentativo di offrire una risposta in termini di professionalità ed efficienza ha spinto gli uffici giudiziari di altri paesi, come l’Olanda, ad avvalersi sistematicamente di figure professionali specializzate in management e accounting. D’altronde mentre il budget allocato complessivamente per il comparto nel nostro paese è in linea con gli standard europei – l’1,5 per cento del pil, come in Germania, il doppio del Belgio (0,7), poco meno di Francia (1,9) e Paesi Bassi (2) –, noi ci caratterizziamo per una ripartizione delle stesse risorse particolarmente generosa verso il solo sistema giudiziario (i tribunali) e sparagnina invece nei confronti degli utenti (vedi per esempio il patrocinio a spese dello stato). “I dati del Cepej mostrano che nel 2008 l’Italia spende 1,9 euro per cittadino per l’accesso alla giustizia contro una media europea di 7,2”. Così non c’è da meravigliarsi se sui media hanno trovato eco negli ultimi anni le proteste per l’eliminazione di tutte le sezioni distaccate dei tribunali, come anche la cancellazione di 31 tribunali e di 31 procure, avviate dal governo Monti, mentre è passato quasi sotto silenzio il fatto che “le recenti analisi dell’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia istituito dal ministro della Giustizia Orlando (…) hanno mostrato che la revisione della geografia giudiziaria ha comportato un miglioramento generale dei tempi con cui vengono definiti i procedimenti”. E’ l’organizzazione, bellezza! La politologa Piana lo ripete e lo dimostra, senza addossare croci in maniera preconcetta, rilevando che anche la politica preferisce annunciare il cambiamento senza poi seguire da vicino “il governo del cambiamento”. La sorte della riforma Mastella docet: solo nel 2015, a otto anni dall’entrata in vigore di quella legge, il Consiglio superiore della magistratura ha stilato incentivi e meccanismi di valutazione previsti dal testo per gli incarichi diretti e semidirettivi. Ecco spiegato perché “l’Italia è un paese che si è lungamente qualificato per un alto grado di garanzie ordinamentali e processuali e al contempo per un basso rendimento nella risposta resa al cittadino”. Siamo il paese con le norme e le garanzie per i giudici “più belle del mondo” ma allo stesso tempo il paese più condannato dalle corti europee per la lunghezza dei processi e quello in cui sono peggiori gli indicatori oggettivi e soggettivi sullo stato di diritto.
Una giustizia giusta, fino a prova contraria, scrive Silvia Dalpane il 20 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Significativa la testimonianza dell'infermiera di Piombino, vittima di un vero e proprio processo mediatico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: «Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia». Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l'infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l'ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l'accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l'indagine della procura di Livorno: «Sono qui perchè spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all'amara constatazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali». Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L'Italia infatti è soltanto l'ottavo paese dell'Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: «Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti». Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: «Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l'intervento dell'inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato». L'ex presidente del consiglio indica negli Usa l'esempio da seguire: «Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l'appello è più lungo del primo grado: un'inciviltà difficile da comprendere e accettare». Dall'ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all'attualità: «Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all'interno di alcune categorie c'è ancora oggi dell'omertà». Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: «Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo». Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l'Italia è chiamata a ispirarsi: «Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all'Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l'anno». Non è mancato un riferimento all'indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: «Alcuni dirigenti di Standard & Poor's sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti». Per l'ex ministro della Giustizia Paola Severino l'Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: «La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell'asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l'avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l'applicazione delle regole vengono prima della repressione». Il presidente dell'Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: «Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d'innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L'opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino nè come vadano affrontate». Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all'università di Palermo: «Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull'attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo». Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. «Rappresentano un'esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all'ambito penale», ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all'impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: «Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L'Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese». Smentiti tanti luoghi comuni: «Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D'altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi...».
Chirico: «Il mio corpo è uno strumento di lotta...» Intervista di Errico Novi del 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Marco è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite». Bisogna essere sfacciati per mettersi a parlare di giustizia dalla parte degli indagati, per sfidare il mainstream forcaiolo. E ad Annalisa Chirico il coraggio non manca, l’entusiasmo neppure né una splendida indole pannelliana che «mi porta a considerare il mio corpo uno strumento di lotta: l’ho imparato da quel gigante che è Marco Pannella, certo». E adesso questa giornalista che con un’intervista a un togato del Csm è capace di far scoppiare un caso istituzionale da restare nella storia di Palazzo dei Marescialli, presiede un movimento che «intende promuovere una vera riforma del sistema giudiziario italiano». Si chiama “Fino a prova contraria”, è una specie di bandiera con su impresso l’articolo 27 della Costituzione e ha in programma un incontro per martedì prossimo a Palazzo Wedekind intitolato “Cambiamo la giustizia per cambiare l’Italia”, con il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il professor Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, oltre ai giuristi, imprenditori e magistrati che Annalisa ha coinvolto nella sua associazione.
Di questi tempi si rischia, a mettersi contro il mainstream giustizialista.
«Be’ ci sono polemiche persino per il fatto che alla presentazione interverrà Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che i pm continuano a inseguire armati di manette fino in Cassazione, e l’ex ergastolano Giuseppe Gulotta che si è fatto 22 anni di carcere prima di vedersi dichiarato innocente. Noi comunque non ci proponiamo come un’associazione di vittime della giustizia ma per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia del processo mediatico, un caso tutto italiano che si regge sulla commistione incestuosa tra giornalisti e magistrati».
Andate controvento.
«Sono contenta del riscontro che abbiamo trovato già dal giorno del battesimo a Villa Taverna con l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, mi pare che siamo già riusciti a conquistare una certa autorevolezza. Già ci riconoscono come movimento che si batte per una giustizia più efficiente in funzione di un Paese più competitivo. Sono soprattutto gli stranieri che hanno bisogno di essere rassicurati sul funzionamento del processo, in Italia. Gli americani sono rimasti choccati dal caso Amanda Knox. La grandissima parte dell’opinione pubblica Usa è rimasta incredula nello scoprire che con il sistema processuale italiano si può essere dichiarati innocenti dopo quattro anni di carcere. Ci sono altre vicende in cui il collegamento con il sistema economico è ancora più netto».
Ad esempio?
«Il caso Ilva, in cui un polo siderurgico di livello mondiale è già stato oggetto di sequestri di beni alle persone nonostante, dopo diversi anni, si sia ancora alle battute iniziali del processo».
Fai esempi che difficilmente possono intenerire l’opinione pubblica assetata di condanne.
«E invece io credo che già ora qualcosa tenda a cambiare. Ci sono episodi che segnano un passaggio, lo fu il cosiddetto referendum Tortora che raccolse un consenso fortissimo. Credo che oggi la battaglia in difesa delle garanzie per le persone indagate, degli imputati, possa far breccia nell’opinione pubblica. Anche grazie al fatto che il re, cioè la magistratura, è nudo».
A cosa ti riferisci.
«Agli episodi che hanno spezzato l’incantesimo del magistrato infallibile: penso a quando si è scoperto il valore degli immobili di Di Pietro, al capitombolo elettorale di Ingroia, alla giudice Silvana Saguto coinvolta nello scandalo di Palermo sui beni confiscati, a un caso come quello di Morosini che racconta in un’intervista come la corrente Md intenda impegnarsi contro il governo sul referendum costituzionale».
Quell’intervista c’è stata o no?
«Mi attengo alla prima smentita di Morosini, in cui parlò di colloquio informale che lui riteneva non avrebbe dovuto essere inteso come intervista».
Tu perché l’hai inteso come intervista?
«Perché a un certo punto ho cominciato a prendere appunti sul taccuino, e davo per scontato che lui avesse compreso la mia intenzione di riportare le sue parole. D’altronde mi era parso che lui potesse essere interessato a rendere pubbliche quelle considerazioni per giochi interni alla sua corrente».
E invece?
«E invece lui pensava che prendessi appunti chissà perché. Dopo il comunicato dell’Anm e l’intervento del guardasigilli ha pronunciato una smentita completa, per mettersi in salvo. Io a quel punto, per la simpatia che ho nei suoi confronti, sono rimasta silente».
Vi siete più sentiti?
«Come no. Siamo rimasti in buoni rapporti».
Davvero? Non ti ha sbranato al telefono?
«No. Sa che non ho infierito, né lo ha fatto il mio giornale, il Foglio».
I togati del Csm sono impreparati all’esposizione mediatica?
«I magistrati in generale usano la comunicazione benissimo. E ci riescono grazie al fatto che quasi tutti, a cominciare dai giornaloni, ben si guardano dal far loro le pulci come fanno con i politici».
Sei stata provocatoria con il libro Siamo tutte puttane, continui a esporti in modo temerario: esagero se dico che in questo sei un po’ pannelliana?
«Io mi considero pannelliana, considero il mio corpo uno strumento di lotta, l’ho imparato dai radicali, anche grazie al lavoro fatto all’Strasburgo quando Marco era deputato europeo. Lui è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite. Le cose che scrivo e che porto avanti costituiscono un unico habitat umano con il modo in cui vivo e le persone che conosco».
Ecco, ma prima o poi il Fatto ti toglierà la pelle di dosso.
«Il Fatto si è già occupato di me e dei miei fidanzati veri o presunti in varie occasioni. Ho molta simpatia per Marco Travaglio, un uomo eccentrico e incline allo spettacolo».
A proposito di simpatie: con Chicco Testa vi siete lasciati così male?
«Lasciati? Ma che dici?»
Lo hai scritto tu sul Giornale di Sallusti.
«Macché. È qui vicino a me mentre parlo al telefono. Quell’articolo aveva un tono letterario, parla di Becoming, il memoir della Williams su come si risorge dopo una separazione».
E se d’improvviso sparissi e ti limitassi a scrivere senza apparire mai?
«Non potrei mai scrivere semplicemente degli articoli. Porto avanti delle battaglie proprio perché scrivo quello che Annalisa pensa».
Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
ASSOLTI. PERO’…
Assolti? C’è sempre un però, scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” l’11 novembre 2015. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto. Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio. Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta.
Errori giudiziari: una nuova vergogna. Nella Legge di stabilità 2016 il governo ha dimezzato i risarcimenti della legge Pinto per i processi troppo lenti. Rendendoli ancora più difficili, scrive Maurizio Tortorella il 15 gennaio 2016 su "Panorama". I radicali, grazie alla testa e alla penna di Deborah Cianfanelli, avvocato spezzino da tempo impegnato nella difesa dei diritti civili, hanno appena pubblicato uno studio che (come troppo spesso accade ai radicali) è passato in assoluto silenzio. Ed è un peccato, perché lo studio descrive come processi lenti e errori giudiziari in Italia siano ormai divenuti parte della nostra bancarotta economica. Cianfanelli ha analizzato i risultati della cosiddetta legge Pinto, la n. 89 del 2001, varata dal governo del premier Giuliano Amato. La norma stabilisce una "corretta durata dei processi" individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Quando fu varata, 14 anni fa, la norma cercava di fare argine a migliaia di richieste di risarcimento per la lentezza dei processi penali e civili approdati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. I radicali stimano che il costo provocato dalla Legge Pinto sui conti pubblici sia di circa un miliardo di euro l’anno, quasi il doppio di quanto calcola oggi il governo. Alla cifra vanno poi aggiunti200 milioni circa per i risarcimenti da ingiusta detenzione, originati all’incirca da altri 2 mila procedimenti l’anno. Il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano 3.580 nel 2003, saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. Se si tiene conto che la media del rimborso liquidato è di ottomila euro, si arriva velocemente a cifre stellari. Bene. Che cosa ha deciso di fare, il governo, di fronte a questo disastro giudiziario ed economico? Forse intervenire per accelerare in qualche modo i tempi medi del processo? Macché. I radicali denunciano che anzi la Legge di stabilità 2016 (all’articolo 56 del titolo nono) ha introdotto silenziosamente alcuni importanti modifiche alla legge Pinto, al solo scopo di "renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità d’accesso". Il problema è stato brutalmente risolto alla fonte, insomma: se la legge Pinto costa troppo, rendiamo più difficili gli indennizzi. I trucchi adottati sono molto insidiosi: per avere diritto a presentare ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare l’istanza di accelerazione delle udienze "almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata". Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato deve fare istanza "due mesi prima dello spirare del termine di ragionevole durata". La legge stabilisce poi che è "insussistente" il pregiudizio da irragionevole durata del processo nel caso d’intervenuta prescrizione del reato. "Ancora una volta" scrive Cianfanelli "anziché cercare di porre in essere rimedi strutturali in grado di riportare il sistema giustizia sui binari della legalità, si cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada al risarcimento del danno". Parole sante. Anche perché, non contento, il legislatore ha praticamente dimezzato i valori dei risarcimenti. L’ultima Legge di stabilità stabilisce infatti che il giudice dovrà liquidare "una somma non inferiore a euro 400 euro e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo". Per fare un confronto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che non è certo il giudice di prima istanza in materia, individua oggi il parametro dell’indennizzo in mille-millecinquecento euro per ogni anno di processo Giustizia italiana, mala e pidocchiosa.
Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. E i pm insistono nonostante le nuove regole. Il caso di Mantovani, scrive Andrea Camaiora Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. La carcerazione preventiva recentemente inflitta all'ormai ex vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani offre tristemente un nuovo spunto per affrontare l'annosa questione della carcerazione preventiva. Qual è la situazione nel nostro Paese? Nel 2009, il numero dei detenuti in custodia cautelare era di 29.809, pari al 46% del totale della popolazione carceraria; il dato di oggi è di 18.622, il 34,5%. Questi dati rivelano come troppe volte l'applicazione della custodia cautelare non costituisca l'extrema ratio, così come previsto dalla nuova disciplina in merito voluta dal Guardasigilli, Andrea Orlando, ma assuma connotati diversi, come quelli di un'anticipazione della pena. In molte occasioni i destinatari di misure cautelari personali vengono, dopo anni, assolti: i numeri parlano chiaro, dal 1991, lo Stato ha pagato quasi 600 milioni di euro a più di 20 mila persone per riparazione per ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive che hanno assolto persone che erano state arrestate. Negli ultimi 50 anni, 4 milioni, ebbene sì, 4 milioni di cittadini sono stati prima dichiarati colpevoli, quindi arrestati e infine rilasciati perché innocenti. Dal 1991 al 2012 lo Stato ha dovuto spendere 600 milioni di euro per risarcire chi è stato indebitamente arrestato. E il dato ulteriormente negativo è che questa dinamica non accenna a diminuire, anzi aumenta. Nel 2014 le somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione sono aumentate del 41% rispetto al 2013. La nuova normativa è più che limpida sull'imposizione o meno della detenzione carceraria. Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non deve essere soltanto concreto ma anche «attuale». Il giudice non può più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell'imputato. Anche gli obblighi di motivazione si sono intensificati. Il giudice che decide per il carcere non potrà infatti più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Sono aumentati da 2 a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell'esercizio della potestà dei genitori, sospensione dell'esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. È cambiata anche la disciplina del Riesame. Il tribunale della Libertà ha tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non può più essere rinnovata. Il collegio del Riesame deve inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Con questo quadro di riferimento, colpisce assai non una voce critica rispetto al provvedimento subito da Mantovani: molte e autorevoli sono state infatti le prese di posizione. Semmai ciò che si sente sempre più forte è il silenzio, l'assenza di autocritica dei cantori della manetta facile, della condanna in piazza e anche di coloro che, siamo in tanti, credono nel rigore e nella serietà della magistratura. Il tutto perché c'è chi sta leggendo questo articolo e chi - come Mantovani, ma non solo lui - si trova sottoposto a carcere preventivo da circa un mese.
Giustizia: le mille balle sulla prescrizione. Cresce in modo inarrestabile. Per colpa della ex Cirielli, varata da Berlusconi nel 2005. E della melina degli avvocati. Tutto falso: ecco perché, scrive il 15 febbraio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". A partire dalle litanie dell'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario, e cioè dalla fine di gennaio, siamo inondati di continui, alti lamenti sulla prescrizione, l'istituto che brucia "inutilmente e vergognosamente" troppi processi penali. Sui giornali si legge che le prescrizioni sono in continuo aumento: formano ormai un'ondata inarrestabile, che anno dopo anno uccide un numero crescente di procedimenti, sottraendo gli autori di reati alla giustizia. Per questo, si legge nei commenti e nelle interviste, il Parlamento dovrebbe approvare al più presto una proposta di legge che riduce grandemente la prescrizione. La riforma prevede allungamenti, sospensive dopo la condanna in 1° e 2° grado. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è perfino detto d’accordo con il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, per raddoppiare la prescrizione nei reati corruttivi. Secondo la propaganda che picchia sui tamburi in questo febbraio, la colpa di questa situazione disastrosa è tutta da attribuire (e come dubitarne?) alla famosa, malfamata legge Cirielli, varata nel dicembre 2005 sotto il governo Berlusconi: una norma così vergognosa che perfino il suo autore, il deputato Edmondo Cirielli, la rinnegò (e infatti viene rubricata come "ex Cirielli"). Ovviamente, la responsabilità dell'ondata di prescrizioni ricade anche sugli avvocati penalisti e sulle tattiche dilatorie che usano in tribunale. Secondo i cantori del populismo giudiziario, i difensori, complici di chi non vuole giustizia, usano la prescrizione come primo strumento in loro possesso per “salvare" i clienti, ovviamente sempre colpevoli, e per arrivare così al risultato di eludere la giustizia. Tutto vero? Al contrario, è tutto falso (tranne qualche caso, che innegabilmente e probabilmente magari esisterà). E a dimostrarlo sono i dati ufficiali del ministero della Giustizia. Basta andare a cercarli e metterli in fila. Partiamo dalla legge ex Cirielli. Non ha alcuna colpa. In realtà, i procedimenti finiti in prescrizione dal 2005 al 2012 sono andati diminuendo. La legge è andata in vigore alla fine del 2005, e quell'anno si è chiuso con 183.224 reati prescritti. Nel 2012 la cifra era calata a 123.078. È vero che poi nel 2013 e 2014 il dato è tornato ad aumentare (per l'esattezza a 123.078 e a 132.296). Però è clamorosamente falso che da dieci anni a questa parte ci sia un costante aumento delle prescrizioni. Perché rispetto al 2005 siamo ancora sotto di oltre 50 mila reati. Passiamo allora agli avvocati: sono loro i colpevoli? Nemmeno per idea. Sommando tutte le prescrizioni intervenute dal 2005 al 2014, il totale è di 1.454.926 reati e procedimenti prescritti. Sapete in quale fase processuale è andato in prescrizione il reato? Nel 70,7% dei casi, durante le indagini preliminari: per l'esattezza, in1.028.685 casi. Insomma, è accaduto quando gli avvocati non possono praticamente agire, quando tutto o quasi è nelle mani del pubblico ministero. Questa percentuale, semmai, dovrebbe far pensare quanti difendono come intoccabile il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale. Se oltre 1 milione di processi è abortito in dieci anni già prima del rinvio a giudizio dell'imputato, un motivo ci sarà. I motivi sono fondamentalmente due. O sono i pubblici ministeri che si accorgono troppo tardi dei reati. O sono i pubblici ministeri che lavorano male, lasciando nei cassetti i processi che importano poco loro.
L'eredità di Ermes ai rom che lo avevano derubato. Il suo "patrimonio" consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro, scrivono Nino Materi e Giuseppe De Lorenzo, Sabato 07/11/2015, su “Il Giornale”. Assegnata ai due rom-ladri l'eredità di Ermes Mattielli. Cioè l'uomo che era stato derubato (da quegli stessi due rom-ladri) per ben 20 volte. Diventa ancora più tragicamente paradossale la storia del 63enne robivecchi vicentino, morto due sere fa di infarto. Un malore provocato anche dallo stress per una vicenda giudiziaria assurda. Lui condannato a 5 anni per essersi difeso da una coppia di nomadi entrata in casa la sera del 13 giugno 2006 nella sua abitazione nel paese di Arsiero (Vicenza). Mattielli spara, li ferisce. Viene incriminato per tentato omicidio, mentre i due zingari se la cavano con una condanna a 4 mesi. Entrambi restano liberi. Liberi di continuare a rubare. Ma ora, forse - e questa sarebbe l'ennesima beffa - liberi addirittura di andare ad abitare nella catapecchia di Ermes: la stessa baracca che loro - i rom manolesta - andavano periodicamente a «ripulire» dei miseri averi di Mattielli. Ermes, oltre ai 5 anni di galera, si è beccato infatti pure una condanna pecuniaria non indifferente: 135 mila euro di risarcimento. Risarcimento a beneficio di chi? Ma dei nomadi che lo andavano sempre a derubare, ovviamente. Ora Ermes è - speriamo per lui - passato a miglior vita. Il suo «patrimonio» consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro. I familiari di Ermes hanno deciso di rinunciare a cotanti «beni». E così, come prevede la legge, gli immobili passeranno allo Stato che poi provvederà a «girarli» ai nomadi «danneggiati» da Mattielli, i quali potranno usarli come meglio credono: venderli o andarci ad abitare. E giudicate voi se questo non è scandaloso. «Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiega l'avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l'eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom». «L'art. 596 del codice civile - spiega al Giornale l'avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo Stato italiano: l'acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia». Il secondo comma dell'art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che «provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari» che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno quindi andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l'onere del risarcimento. Alla luce di tutto questo bene ha fatto due sere fa Nicola Porro ad aprire la sua trasmissione (Virus, Rai2) con la gigantografia di Ermes Mattielli. Un uomo che in vita ha vissuto da «invisibile», ma la cui «presenza», ora, da morto, pesa sulla coscienza di tutti. L'ultima intervista Ermes l'aveva rilasciata ad Alessandro Mognon del Giornale di Vicenza, diretto da Ario Gervasutti. Parole che, lette oggi, alla luce di questi ultimi sviluppi, appaiono ancora più amare: «Ho una gamba di legno, ma neppure l'invalidità minima. Vivo con l'orto, le galline. Mi hanno messo alla carità. Andavo in giro con l'Ape a raccogliere rottami, sbarcavo il lunario. Adesso devo pagare 135 mila euro. Ma chi li ha mai visti 135 mila euro? Io soldi non ne ho, l'ho detto anche all'avvocato che non posso pagarlo. Vivo con poco più di 100 euro, me li faccio bastare. Oggi ho mangiato quattro patate e du ovi». Racconta Mattielli che per mesi aveva trovato davanti al cancello del magazzino lavatrici e frigoriferi abbandonati: «Pensavo: “guarda 'sti cretini, mi tocca portare tutto all'ecocentro”. Solo dopo ho capito che li mettevano i ladri per salirci sopra e saltare la rete...». Fa vedere dove è successo tutto: «Ecco, li ho trovati qui». Perché non ha sparato un colpo in aria per farli scappare? «Ho visto una luce, ho sparato contro quella. Poi sono sbucati dal buio, erano a due metri da me, ho preso paura. In dieci anni sono venuti 20 volte a rubare. Vengono qui a rubare, da me che ho una gamba di legno. Cosa dovevo fare? Datemi uno stipendio e io lascio spalancate porte e finestre. Dovevano stare a casa loro, quei due. E non sarebbe successo nulla. Ma erano padroni loro, i ladri. A me giudici e avvocati hanno chiesto di patteggiare, ho detto: “neanche morto”. Lo Stato ha pagato il legale ai nomadi che mi hanno derubato, ai ladri». Ladri che ora, forse, vivranno anche nella sua casa. Dopo averla derubata. Per anni. Benvenuti in Italia.
Dopo la morte di Ermes sarà lo Stato a risarcire i due ladri rom. Secondo la legge i rom si approprieranno della casa di Ermes. Intanto l'avvocato di Ermes attacca: "Era preoccupato dal pignoramento", continua Giuseppe De Lorenzo. Ermes Mattielli è morto d'infarto dopo il calvario giudiziario che lo aveva condannato a 5 anni e 4 mesi di galera. Gli unici ad uscire indenni (e più ricchi) da questa vicenda sono i due ladri rom, che proprio dall'ex rigattiere attendevano i 135mila euro di risarcimento che il giudice ha disposto. Li riceveranno dallo Stato. Sul futuro dell’eredità, quello che è certo è che Ermes non aveva parenti stretti: “Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiga l’avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino”. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l’eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom. “L’art. 596 del codice civile - spiega a il Giornale l’avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato italiano: l’acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia”. Il secondo comma dell’art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che “provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari” che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l’onere del risarcimento. Secondo l'avvocato del pensionato di Arsiero, Maurizio Zuccolo, l'infarto di Ermes si inserisce in un momento di grossa preoccupazione per il rischio che la sua casa - l'unica cosa di cui disponeva - gli venisse tolta per risarcire i rom. "Era preoccupato per il futuro, aveva paura gli pignorassero la casa per pagare i 135mila euro: era preoccupato come può esserlo chiunque si trovi in quella situazione". Si può comprendere. Resta l'amarezza di una vicenda nata nel segno di due rom delinquenti (ed ora più ricchi) e finita con la morte di un onesto cittadino. Non può non indignare.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Gli errori fatti dai giudici? Ecco quanto ci sono già costati, scrive Franco Bechis, su “Libero Quotidiano”. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20, 30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo si era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra i 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni di euro di risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni di euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari di questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica si trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari di Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari di Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista di indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio.
Fbi, il grande inganno degli esami truccati per incastrare gli imputati. Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone, scrive Vittorio Zucconi su “La Repubblica”. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.
Ed in Italia?
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
Colpa dei processi indiziari. Colpa dei processi indiziari (se c'è chi sbaglia a indagare, a periziare, a sentenziare... e troppi innocenti vengono spediti in carcere e uccisi psicologicamente sui media). Gli sbagli della giustizia moderna denunciati dal dottor Imposimato già sei anni fa...Colpa dei processi indiziari. Di Ferdinando Imposimato su “Albatros Volando Controvento” del 28 dicembre 2015. Bisogna anzitutto partire da un dato. Nella realtà processuale, nell’esame dei diversi casi giudiziari, esistono due verità antitetiche: una verità reale e una processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo fondamentale del giudice consiste nel fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. Questo risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto per una serie di ragioni sia di ordine processuale che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale. Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale però manchino le prove o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato. La conseguenza è drammatica: la condanna di un imputato è “giusta” sul piano processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E’ la tragedia dell’Enrico VIII di Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per le accuse calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il verdetto: “Non nutro rancore contro la legge per la mia morte: alla stregua del processo essa doveveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengano più cristiani…”. Il giudice deve decidere solo in base alle emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha l’obbligo di applicare la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto spesso, portano lontano dalla verità reale. Rispetto a quest’ultima, le deviazioni sono dipendenti da diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità (si confonde una persona con un’altra), degli investigatori nella ricerca delle prove, dei periti nella ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell’esercizio del metodo deduttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto. Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce da perizie medico legali e psichiatriche errate. Nel caso di un delitto con autore ignoto e con molti sospettati, l’affermazione da parte del perito medico legale che si tratta dell’opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe caratteristiche fisiche e psichiche (si presume in alcuni casi di definire l’altezza e la corporatura dell’ignoto autore!!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona soprattutto è un soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale, producono come conseguenza pericolosa l’errore del giudice. Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente l’errore dei periti psichiatrici d’ufficio (cioè nominati dal giudice) nell’accertamento della “capacità di intendere e/o di volere di un soggetto”. Sovente essi hanno affermato che il soggetto rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il pubblico ministero aveva collocato l’autore del delitto. Ma non è stato raro il caso del privato che ha assecondato l’orientamento sbagliato della pubblica opinione. I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di fattori emotivi, di elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla verità. E questa è una delle cause più frequenti dell’errore giudiziario. Non mi riferisco soltanto ai periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici legali in genere. Le perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della ricerca della verità. Molto spesso allontanano dalla verità perché compiute da persone che non sono in grado di far bene il proprio lavoro – anche se solo raramente si tratta di persone in malafede. Esempio classico: nell’esame ordinato per l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini ci fu un perito che affermò, con certezza assoluta, che l’arma che aveva sparato il proiettile mortale contro il giudice era una certa pistola. Siccome questa pistola proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un altro omicidio, il giudice disse: “Questo è l’uomo che ha ucciso Alessandrini”. Senonché, a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che confessò, aggiungendo di aver sparato con un’altra pistola. Altri periti, in seguito, confermarono che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell’uomo avrebbe potuto subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse venuto fuori il vero autore dell’omicidio, quell’errore non sarebbe mai stato scoperto. Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un crimine. Molto spesso, poi, il giudice non è in grado – un po’ per incapacità, un po’ per superbia, un po’ per gli errori altrui – di cogliere l’errore. Di qui le tragedie che si verificano: il numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene normalmente percepito nella realtà. Un’altra causa molto frequente di errore è costituita dai riconoscimenti personali: è molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro, ricordo di aver ascoltato personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta certezza di aver visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a Corrado Alunni. Quest’ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro. Senonché, per sua fortuna, presto vennero fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero categoricamente che Alunni fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il giorno del sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico esempio di errore compiuto dal giudice, ma provocato dall’errore altrui: il giudice è infatti obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile, disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo riconoscimento personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per giunta affermano qualcosa “con assoluta certezza”. Un altro caso, legato all’omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza confessò di essere responsabile dell’assassinio, chiamando in correità altre due persone. Nel leggere il testo della confessione di questa ragazza – molto precisa e dettagliata – mi resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari rivelatori. Non volli accettare quella “verità” processuale, condivisa invece dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi della stampa che parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla base di due dati oggettivi, che la verità processuale emersa fino a quel momento non fosse corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad affermare che aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero fuori i veri autori dell’omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda). Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre ripetendo: la confessione non è “la madre di tutte le prove”, perché può accadere che anch’essa sia fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica il vero e quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore, indipendentemente dall’esistenza di altri elementi che possano smentirlo. Uno dei più gravi fattori capaci di provocare l’errore giudiziario è poi la presenza, nel nostro ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito dall’art.192 del codice di procedura penale). L’esistenza di un fatto può essere desunta non soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. In realtà, l’art.192 afferma una regola – il fatto non può essere provato se non attraverso la prova legale – che prevede una sola eccezione: la presenza di indizi che abbiano le tre caratteristiche sopra accennate. Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l’eccezione è diventata una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari. Che cos’è un indizio? Un fatto desunto dall’esistenza di un altro fatto. In pratica, il risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all’errore, perché troppo spesso l’indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è un grave vizio dell’ordinamento giudiziario del nostro paese, capace di portare alle situazioni processuali assurde e inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani. Per molti casi clamorosi – piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio Chinnici, comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravità – si sono avute decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in Cassazione, ma tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna rovesciate in pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di fatto. Molto spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente: sugli stessi elementi si pronunciano in maniera opposta i giudici di primo e quelli del secondo grado. Ma questo non può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo uniforme da tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto arbitrario. Certo, in presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino un certo quadro, d’accordo; ma quando questo quadro è esattamente lo stesso, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio del libero convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano certi indizi né gravi, né precisi, né concordanti; altri giudici, invece, si pronunciano in senso opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari diventa inevitabile. Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore, organo monocratico che – secondo il vecchio rito penale – doveva ricostruire la verità nel corso della fase più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia o offerte dal pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità, non mi è mai capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso, anzi, mi è capitato di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita dal pubblico ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità elementari e pacifiche debbano sempre essere verificate. Esistono rimedi concreti al problema dell’errore giudiziario? A mio avviso, il vizio è ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due distinte direzioni. Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione del magistrato, la valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella conoscenza tecnica del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la valutazione critica di tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche ai periti, per evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento processuale e di generare errori giudiziari. Dall’altro lato, il libero convincimento del giudice: un principio da rivedere, prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei quali la deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece esclusivamente a un elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili – perché anche gli ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso tipo – ritengo che la possibilità di trasformare in prova un semplice indizio – il più delle volte privo di qualsiasi rilevanza probatoria – rappresenti un nodo che deve essere risolto prima possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base di elementi labili, che poi possono essere valutati o svalutati secondo l’umore del giudice di turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro sistema. Un dato che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l’errore ha anche altre radici, delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è l’interpretazione della legge contro l’intenzione del legislatore, come conseguenza della violazione stessa del principio dell’imparzialità del giudice. L’attività politica del giudice all’inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’opinione di Cesare Beccaria circa l’arbitrio lasciato ai giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi nell’interpretazione delle leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: “Il sovrano sarà il legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà di tutti, non il giudice il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto, o non, un’azione contraria alle leggi. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da un picciol disordine presente che dalla funeste ma remote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata”. E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da un’interpretazione legata alle opinioni soggettive dei giudici: “Le nostre congnizioni e le nostre idee hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso, e da tutte quelle minute forse che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino (colpevole o innocente, nda) cangiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili essere vittime dei falsi raziocinii, o dell’attuale fermento degli umori di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”. (C. Beccaria: “Dei delitti e delle pene”). Ludovico Antonio Muratori espresse un giudizio analogo e ancora più pessimistico sulla giustizia affermando che “misera è la condizione di chi deve litigare, egli si crede di andare a picchiare alle porte della giustizia, né si accorge che va a mettere il suo alla ventura di un lotto”. E questa condizione si ripete in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Il nostro compito è quello di combatterle essendo sempre pronti a riconoscere l’errore. Prima di concludere mi viene alla mente l’immagine del giovane arrestato dalla magistratura come “mostro di Merano”. Il suo volto muto e disperato deve indurre alla riflessione. Luca Nobile era stritolato nella macchina della giustizia e non aveva voce per gridare la sua innocenza. Solo la ripetizione degli omicidi da parte del vero assassino ha salvato l’innocente da una probabile condanna all’ergastolo. La sua unica colpa fu quella di essere somigliante all’autore dei delitti.
I limiti strutturali del processo indiziario, scrive Luca Cheli. La natura del processo indiziario nel diritto penale italiano ha origine nella distinzione tra “prova diretta o storica” e “indizio” in quanto elementi di prova. Cercando di non complicare troppo le definizioni, a cui sono stati dedicati interi libri, la prova diretta o storica è la rappresentazione diretta del fatto da provare (tramite fotografia o testimonianza, per esempio), mentre l’indizio e un fatto (certo nella sua esistenza, almeno in teoria) dal quale può essere inferenzialmente dedotto il fatto da provare. Anche la prova diretta non è automaticamente “verità sicura”, perché le testimonianze devono essere valutate nella loro credibilità e le fotografie (per esempio) nella loro autenticità. Tuttavia, se tre persone vedono da pochi metri di distanza Tizio sparare a Caio e una delle tre persone riprende pure l’atto con il proprio smartphone, si può dire, una volta verificato che i testimoni non hanno motivo di mentire o di coalizzarsi contro Tizio e che il filmato ripreso non è stato alterato in qualche modo, che la colpevolezza di Tizio è provata oltre ogni ragionevole dubbio. Se invece il teste Uno riferisce di dissapori tra Tizio e Caio, il teste Due di aver visto, poco prima del fatto, Tizio vicino alla zona dove Caio è stato ucciso ed il teste Tre di aver sentito una volta Tizio parlare di una vecchia pistola che suo nonno aveva sottratto ai tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale, allora siamo in presenza di indizi. Questo perché nessuna delle tre testimonianze è diretta rappresentazione del fatto da provare (che Tizio abbia sparato a Caio), ma ognuna riporta un fatto noto e certo (ma su questo torneremo), dal quale si potrebbe dedurre che Tizio abbia effettivamente sparato a Caio: perché ne aveva il movente (dissapori), il mezzo (pistola del nonno) e l’opportunità (è stato visto nelle vicinanze della zona del delitto poco prima che questo avvenisse). In questo secondo caso il processo a Tizio per l’omicidio di Caio sarebbe un processo indiziario. Ho volutamente presentato un caso di processo indiziario molto “semplice” che probabilmente farà propendere la maggioranza dei lettori per la “probabile” colpevolezza di Tizio. Ma persino così le cose non sono affatto “semplici”. In effetti, cosa lega i tre fatti noti (forniti dai tre testimoni) al fatto ignoto da provare (Tizio ha o non ha sparato a Caio)? Essenzialmente la nostra (del lettore o del giudice fa poca differenza) logica, ovvero il modo in cui la nostra mente ritiene che da certi fatti ne debbano, con maggior o minore probabilità, derivare degli altri. Insomma molti di noi penseranno che se Tizio ce l’aveva con Caio, se aveva una pistola ed era pure stato visto vicino alla scena del crimine poco prima che lo stesso avvenisse... deve essere con ogni probabilità colpevole. Il ragionamento costitutivo alla base del processo indiziario presenta una certa analogia con la formula che permette, nella geometria euclidea, di ottenere il valore di uno dei tre angoli interni di un triangolo conoscendo l’ampiezza degli altri due. In questa analogia si potrebbe dire che la prova diretta è costituita dalla misurazione diretta dell’angolo di cui vogliamo conoscere l’ampiezza, mentre gli indizi sono costituiti dal valore dell’ampiezza degli altri due angoli interni del triangolo. Ora, nella geometria euclidea i due modi di ottenere il valore di uno degli angoli interni sono equivalenti perché la somma dei tre vale sempre 180 gradi. Abbiamo cioè una regola certa, sicura ed invariante. Ma la realtà delle cose, degli eventi, della vita non fornisce mai la rassicurante certezza delle formule di Euclide. E allora cosa succede? Parlando con un linguaggio diverso e meno aulico rispetto a quello dei tomi di giurisprudenza, dirò che alla fine dei conti si va per “probabilità”, ma una probabilità non quantificata e ben difficilmente quantificabile: un “mi pare”, “mi sembra”, “credo”. Ovviamente nelle motivazioni i giudici togati usano altre espressioni, ma chi ha letto qualche sentenza si ricorderà di espressioni quali “è ragionevole ritenere”, “risulta credibile”, “questo Giudice ritiene” e così via, che sostanzialmente sono la rappresentazione in termini “giuridicamente corretti” (e presentabili) delle valutazioni a spanna di cui sopra. Perché, sia chiaro, i giudici professionisti conoscono senz’altro la procedura e gli aspetti tecnici del diritto meglio di un dilettante, quale l’autore del presente articolo, tuttavia, quando si tratta di applicare la “logica” in un processo indiziario alla fondamentale domanda “colpevole o innocente”, essi non hanno più strumenti del cittadino medio. E d’altronde di cittadini medi è formata la maggioranza (6 su 8) dei membri delle Corti di Assise e di quelle di Appello del nostro Paese. Non per caso, infatti, di “libero convincimento” del giudice parla il nostro ordinamento: per quanto possano essere nobili le origini storiche di quell’espressione, di fatto si parla sempre, in ultima analisi, di una convinzione soggettiva e individuale. Infatti, cosa lega la pistola del nonno di Tizio, la presenza del medesimo nelle vicinanze della zona del crimine e i suoi dissidi con Caio all’omicidio di quest’ultimo? Non c’è nessuna regola dei centottanta gradi, nessuna formula matematica: ci sono solo le nostre considerazioni su cosa riteniamo più o meno probabile o ragionevole. La pistola del nonno potrebbe essere un ferrovecchio arrugginito ed inutilizzabile che Tizio non sa nemmeno più dove sia o che può aver buttato per inutilità dopo averne parlato al teste Tre svariati mesi (o anni) prima del delitto, la presenza di Tizio in prossimità del luogo del crimine una mera coincidenza e i dissapori con Caio la rappresentazione amplificata post omicidio di piccole beghe che ognuno di noi può avere. Una certa linea di pensiero, molto sfortunatamente spesso in Italia fatta propria anche dalla Cassazione, sostiene che gli indizi vanno considerati globalmente, con l’implicito corollario che se anche ognuno di essi può essere spiegato diversamente, quando vengono considerati collettivamente allora assumono un valore probatorio non solo superiore ma addirittura determinante (in una delle peggiori sentenze recenti della Cassazione, questo processo è stato definito “valutazione osmotica”). Con buona pace dei Soloni più o meno variamente togati ed imparruccati di questo mondo, per quanto la presenza di più indizi certamente rafforzi un possibile quadro accusatorio rispetto ad un numero inferiore dei medesimi, ciò che essi vanno a formare è una possibile rappresentazione degli eventi, mai l’unica e spesso neppure la più probabile. Sì, certo, se a casa di Tizio dovesse essere trovata una Luger P08 la cui rigatura della canna coincide con i segni sulle pallottole estratte dal corpo di Caio, e magari pure un diario scritto di proprio pugno da Tizio in cui questi esprime il proprio odio per Caio e lo minaccia ripetutamente di morte, allora direi che la probabilità che Tizio sia colpevole è alta. Ma quanto, in percentuale? Ottanta, ottantacinque, novanta, novantacinque, novantanove per cento? Come potrei quantificarla? E se anche potessi quantificarla, quale sarebbe la “soglia” probabilistica oltre la quale sarebbe giusto condannare? E se, come spesso succede con le perizie, quelle rigature sono solo compatibili con quelle sui proiettili? E se Tizio avesse scritto frasi simili sul suo diario anni prima nei confronti di Sempronio e Calpurnia, senza mai aver poi fatto loro alcun male? Quanto cambierebbero le mie probabilità? Il punto fondamentale, alla fine di tutto, è che non abbiamo alcuna regola certa e matematica; pensiamo di avere una logica, ma anche questa, in ultima analisi, quanto si distingue dalle nostre sensazioni ed impressioni? Un’ultima parola la riservo alle famigerate prove scientifiche, che dovrebbero quantomeno portare qualche saldo elemento numerico-quantitativo nella nebbia probabilistica (ma sarebbe meglio dire “possibilistica”, visto che si parla di probabilità non propriamente quantificabili). Purtroppo, nella realtà delle perizie e consulenze tecniche come esse oggi sono in Italia, la prevalenza di espressioni qualitative quali “compatibilità”, “non incompatibilità”, nonché spesso “opinioni d’esperto” non suffragate da studi quantitativi, non fa che aggiungere altra foschia al già indistinguibile paesaggio della verità fattuale. Gianrico Carofiglio, nella sua opera “L’arte del dubbio” definisce il risultato di un processo come “individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili”. Verità accettabili, decisioni preferibili. E’ un linguaggio che mi suona tremendamente “politico”. Se dovessi decidere di condannare qualcuno a pene detentive, io vorrei avere verità certe e decisioni giuste, altrimenti non me la sentirei mai. Ma certo capisco che se uno ragiona in termini di mantenimento dell’ordine nella società (e questo è un ragionamento politico), allora si può ambire a verità credibili per la società stessa e a decisioni preferibili per l’effetto che esse hanno sulla stabilità della società medesima. Però sia chiaro che stiamo parlando di stabilità e controllo della società, non di giustizia per la vittima, per i famigliari, eccetera, eccetera. Abbandoniamo quindi una certa retorica facile a sentirsi sui giornali e in TV e chiediamoci semplicemente se in realtà non abbiamo bisogno del processo indiziario per scopi di ordine sociale e quindi, in ultima analisi, di stabilità dello Stato. Possiamo anche rispondere positivamente, ma a quel punto non stiamo più facendo giustizia, ma solo politica.
L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.
GIUSTIZIA INGIUSTA. Boom di innocenti in cella anche nel 2015. La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente In compenso dal ’98 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro, scrive Luca Rocca il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi.
INNOCENTI IN CARCERE. Se dall’inizio degli anni ’90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 «è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro» di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro).
ERRORI GIUDIZIARI. Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro.
MAGISTRATI «IRRESPONSABILI». La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro «Magistrati, l’ultracasta», scrive che le toghe «hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione» e che «nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento».
Piangono e strillano. Così i magistrati hanno ottenuto il massimo. Hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, scrive Rita Bernardini su “Il Tempo” il 27 febbraio 2015. "Il pianto frutta": nessuno meglio dei magistrati italiani sa mettere in pratica questo antico modo di dire della saggezza popolare. Frignano per poi piangere fino a singhiozzare perché con la legge appena approvata sulla responsabilità civile, le toghe nostrane ritengono di non essere più indipendenti, di essere sottoposte a continui ricatti e costrette ad autocontenersi per il timore di essere chiamate in causa. La verità è che hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, la Corte di Giustizia Europea aveva condannato l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell'applicazione del diritto europeo. Oggi al Governo e in Parlamento sono tutti protesi a rassicurare i magistrati che strillano e battono i piedi minacciando sfracelli. Da una parte il Parlamento è arrivato ad appiccicare alla legge una relazione d’accompagnamento in cui si spiega che per "negligenza inescusabile" si intende un travisamento "macroscopico ed evidente" dei fatti; dall’altra il Governo che, con il ministro della Giustizia, s’inventa il "tagliando", affermando di essere pronto a cambiare la legge entro sei mesi se ci saranno abusi. Ma quali abusi si possono temere se saranno giudici a giudicare altri giudici? In realtà, già quando fu promosso quel referendum, insieme al compianto Enzo Tortora, i radicali avevano ammonito che occorreva urgentemente affrontare le questioni della separazione delle carriere, degli incarichi extragiudiziari, dei distacchi dei magistrati nell’amministrazione pubblica, dell’automaticità delle carriere, del principio (falso perché impossibile da attuare) dell’obbligatorietà dell’azione penale, della correntocrazia nel Csm, insomma, una riforma organica della Giustizia che affermasse concretamente la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Oggi, con oltre cento magistrati distaccati presso gli uffici legislativi dei ministeri, c’è poco da stare tranquilli: c’è sempre una manina pronta a pinzare alle leggi l’interpretazione autentica, oppure un’intimidazione per la quale l’esecutivo si ritiene costretto a promettere revisioni nel caso in cui gli effetti delle leggi non assicurino, come è stato fino ad oggi, l’impunità delle toghe, i loro privilegi, le loro carriere. Grande assente da questo film – e ho motivo di dubitare che entrerà in scena – è l’illegalità palese dell’amministrazione della Giustizia che colpisce, come denunciava il Commissario per i diritti umani Alvaro Gil-Robles 10 anni fa, il 30 per cento della popolazione italiana per tempi irragionevoli trascorsi in attesa di una decisione giudiziaria, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; Convenzione che, secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa viene sistematicamente violata dall’Italia fin dal 1980. Noi che la lotta per la responsabilità civile dei magistrati l’abbiamo per anni fatta-vissuta-vinta assieme ad Enzo Tortora con il calvario che quest’uomo perbene ha dovuto subire, siamo raggiunti da un’infinita tristezza quando vediamo che Renzi twitta esultante la foto di Tortora e tutti i media lo ritwittano raggianti. Quando nell’83 abbiamo sposato la causa di Tortora l’abbiamo fatto contro tutto e tutti perché era unanime il coro che definiva Enzo un camorrista, "cinico mercante di morte£. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se oggi – pressoché isolati – Marco Pannella e i radicali fanno proprio, nell’impegno politico quotidiano, il messaggio che il Presidente Emerito Napolitano ha inviato al Parlamento nell’ottobre del 2013 sulle infami carceri e sulla débâcle della giustizia italiana: non siamo bizzarri oggi, così come non lo eravamo più trent’anni fa al fianco di Enzo Tortora. Mi auguro che questa volta ci si aiuti ad aiutare il Paese e coloro che abitano il nostro territorio a non subire per troppo tempo ancora le conseguenze di una democrazia perennemente tradita nei suoi connotati costituzionali.
Da Enzo Tortora alla hostess ecco tutti gli sbagli delle toghe. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò ma non venne creduto. Ignazio Manca in carcere oltre un anno per non aver fatto niente, scrive Mau. Gal. su “Il Tempo il 26 febbraio 2015. I "padre" di tutti gli errori giudiziari fu il processo a Enzo Tortora. Un errore che segnerà per sempre la vita del presentatore televisivo e, per alcuni, ne decretò anche la prematura scomparsa. L’elenco dei volti noti finiti nelle maglie dell’ingiustizia all’italiana è lungo. Si va da Gigi Sabbani a Serena Grandi. Se Tortora venne arrestato nell’83, in favore di telecamere nel giugno del ’70 fu la volta di Lelio Luttazzi, ammanettato con Walter Chiari per droga. E l’8 aprile 1994 toccò a Leonardo Vecchiet, medico della Nazionale. Ma ci sono anche tanti sconosciuti, nomi anonimi, che hanno subito il danno nell’indifferenza generale. Il record spetta a Giuseppe Gulotta, che ha scontato 22 anni per un duplice omicidio mai commesso. Anche i casi e le storie più recenti (tutti sono denunciati quotidianamente dal sito specializzato "Errorigiudiziari.com") sono numerosi. E, spesso, fanno venire i brividi. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò quasi subito, ma non venne creduto. Il giovane romano venne, per sua fortuna, scagionato da una perizia su una macchia sulla pelle. Assolto, otterrà un risarcimento di circa 80 mila euro per i suoi 351 giorni dietro le sbarre. Marin H., invece, aveva già scontato un anno per il reato di sfruttamento della prostituzione. Ma questa volta non era recidivo. Lui non c’entrava, anche se le "ragazze" lo accusavano. Alla fine, ha ottenuto 51 mila euro. E che dire dell’ex vicesindaco di Montesilvano Marco Savini, che ha impiegato ben otto anni per vedere riconosciuta la sua estraneità ai fatti. Travolto (è proprio il caso di dirlo) dall’inchiesta "Ciclone" nel 2007, con le pesanti accuse di associazione per delinquere, truffa e corruzione, ha fatto 98 giorni in cella e ora attende un rimborso. La vita di Luigi Vittorio Colitti è stata distrutta quando aveva solo diciotto anni. Fu accusato di aver aiutato il nonno ad uccidere il vicino di casa, un consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori. Ci sono voluti due processi e quattordici mesi di prigione prima che venisse giudicato innocente. Ora chiede mezzo milione di euro. Ignazio Manca ha trascorso in carcere oltre un anno. E non aveva fatto niente. Era accusato di riciclaggio e ricettazione e venne condannato in primo grado a quattro anni di reclusione. Il fatto che il fratello si fosse assunto ogni responsabilità, così scagionandolo, non ha sfiorato la mente di chi lo stava giudicando, facendogli sorgere un "ragionevole dubbio". All’epoca dei fatti si trovava in ospedale e solo per questo fu assolto in appello: avrà 150 mila euro. Uno dei casi più eclatanti e strazianti fu quello della hostess Elena Romani, ritenuta l’assassina della figlia Matilda. Una bambina. Mentre la piccola moriva, però, lei non era neanche in casa. Ciò non ha impedito che dovesse affrontare tre gradi di giudizio prima di dimostrare la sua innocenza. Adesso vuole 80 mila euro. Ma il procuratore generale della Corte d’appello non è d’accordo: sostiene che con il suo comportamento abbia giustificato i sospetti su di lei. Pasquale Capriati, accusato di tentata rapina e tentato omicidio, ha dovuto attendere quasi un quarto di secolo: solo dopo 23 anni (6 mesi in cella e due ai domiciliari) si è capito che si trattava di uno sbaglio. Prosciolto, ha chiesto allo Stato 516 mila euro per ingiusta detenzione. E l’avvocato barese Sergio Mannerucci ha dovuto subire una settimana in prigione e due anni di odissea giudiziaria per far capure che non c’entrava niente con la truffa all’Inps di cui era stato accusato. Errori pagati con la privazione della libertà dagli indagati. E con i soldi da noi contribuenti.
Dodici casi di ordinaria ingiustizia. Accuse senza prove, perizie sbagliate, rapine mai fatte, così si può finire in carcere da innocenti, scrive Andrea Ossino su “Il Tempo” il 30 dicembre 2015.
Cinque anni per droga Ma il colpevole non era lui. Per 5 anni hanno creduto fosse un narcotrafficante internazionale. W.U., quarantenne residente a Frosinone, ha visto crescere le sue due gemelline da dietro le sbarre. Non è riuscito a stare vicino alla sua famiglia nei momenti di difficoltà. Tutto questo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era stato arrestato nel 2010, mentre era all'aeroporto di Capodichino, a Napoli. La Dda partenopea lo aveva fermato insieme ad altre 30 persone perché risultava aver avuto contatti con la fidanzata di un uomo che faceva parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il legale dell'uomo, Francesco Galella, è riuscito però a dimostrare che quelle telefonate che provavano come tale «Biggy» cedesse e ricevesse stupefacenti, non erano riconducibili al suo assistito. W.U. è quindi stato assolto e adesso chiede allo stato 500 mila euro. Una cifra che non gli potrà mai risarcire gli anni persi, ma almeno gli consentirà di rifarsi una vita dignitosa.
Accusati senza prove di una truffa milionaria. Accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, Pio Maria Deiana, Carlos Luis Delanoe e Carmelo Conte, sono stati assolti dal tribunale di Terni perché il fatto non sussiste. Era il 2005 quando i tre indagati cercarono di acquistare una squadra di calcio, la Ternana, e Villa Palma, un luogo dove poter avviare una fondazione. L'affare non andò in porto perché vennero arrestati prima che la filiale di una banca concedesse loro un prestito di 100 milioni di euro sulla base di una fidejussione di 400 milioni di dollari di una banca brasiliana. Proprio la fidejussione li fece finire sul banco degli imputati, dal quale dovettero assistere alla sfilata dei testimoni eccellenti: dall’ex presidente del Coni di Terni, Massimo Carignani fino all'ex sindaco di Terni, Paolo Raffaelli. Grazie ai teste e alle perizie capaci di dimostrare la veridicità della fidejussione e la limpidezza dell'operazione finanziaria, la corte di Terni li assolse sottolineando che i 3 erano stati reclusi ingiustamente per 6 mesi. Adesso chiedono di essere risarciti.
In cella a 16 anni per una perizia sbagliata. Una perizia sbagliata lo aveva condotto in cella quando aveva 16 anni. Sulla sua testa una pesante accusa: aver ucciso il padre. Per questo motivo Luca Agostino aveva trascorso 113 giorni in carcere. Il padre, Cosimo, era stato ucciso con tre colpi di arma da fuoco il 24 febbraio del 2010. Luca era stato arrestato insieme al fratello maggiore, Vincenzo. La perizia non lasciava spazio a dubbi: sulle mani del ragazzo era presente polvere da sparo. Neanche la testimonianza del fratello reoconfesso, grazie al quale era stata trovata anche l'arma del delitto, aveva convinto gli inquirenti milanesi. Poi i consulenti del giudice e quelli della procura arrivano a una conclusione unanime: «i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio». A scagionarlo definitivamente una conversazione in carcere con il fratello: «Vincenzo esprime sorpresa e rabbia verso il fratello quando apprende che Luca potrebbe aver toccato la pistola e risultare perciò positivo alla prova dello Stub». Adesso Luca è stato risarcito: 24mila e 300 euro.
Medico condannato Ma salvò un detenuto. Ha chiesto un milione di euro per ingiusta detenzione. Una cifra a sei zeri che comunque non potrà mai ripagarlo del torto subito. Alfonso Sestito, cardiologo del Policlinico Agostino Gemelli di Roma è stato assolto con formula piena. Secondo gli inquirenti avrebbe scritto una falsa perizia. Un documento che avrebbe consentito la liberazione di un detenuto e che sarebbe stato «richiesto» dall'avvocato Marco Cavaliere, condannato a tre anni di carcere. Così il medico aveva dovuto trascorrere quindici giorni agli arresti domiciliari e, dal febbraio del 2013, era stato costretto a non allontanarsi dalla Capitale. Nel corso del processo, il legale del dottore è riuscito a dimostrare che grazie a quella perizia, l'imputato avrebbe salvato la vita al paziente, il detenuto Carmine Buongiorno. Così l'uomo è stato assolto dall'accusa di falso. Adesso Alfonso Sestito, dopo aver chiesto di essere risarcito, è in attesa del pronunciamento del giudice.
Sei mesi in cella per una rapina mai fatta. Per un anno è stato detenuto ingiustamente, trascorrendo anche 6 mesi all'interno di un penitenziario. Claudio Ribelli, secondo l'accusa, avrebbe rapinato una donna puntando un coltello alla gola del figlio. Magro il bottino ottenuto: 100 euro e una piccola collana d'oro. Il ventottenne sardo era finito nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, perché la vittima affermava di averlo riconosciuto. Erano in due i complici che nel 2010 avevano rapinato la donna. Il primo, Pierpaolo Atzeni, è stato condannato a scontare 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il presunto complice, Claudio Ribelli, è invece stato assolto e la Corte d'appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato gli corrisponda 91.082 euro come riparazione per ingiusta detenzione. Del resto le telecamere di una stazione di servizio che avevano immortalato la scena del crimine avevano ripreso il complice scagionando Ribelli. Adesso l'operaio sardo cerca di rifarsi una vita nonostante abbia trascorso 6 mesi in una cella di 4 metri per 4 priva di acqua calda, riscaldamento e pavimento, insieme ad altri 5 detenuti.
Tentato omicidio. Ma il marito aveva mentito. Anche in Sicilia, nel 2015, è stato riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione. Ad Elena Khalzanova infatti sono stati dati 38mila euro. Era stata assolta due anni fa, nel luglio del 2013, dopo essere stata accusata di aver tentato di uccidere il marito. Ma secondo la corte di Catania, i 18 giorni di galera e i 286 giorni di arresti domiciliari affrontati da Elena, ingegnere russo di 59 anni ed ex direttore di una fabbrica della marina militare sovietica, non valgono neanche 40 mila euro. Elena era stata accusata di voler uccidere il marito – avrebbe tentato di soffocarlo con un cuscino – per impossessarsi dell'eredità. Ma l'unico testimone che la accusava era proprio la vittima. Durante il processo le sue testimonianze sono però state ritenute «incoerenti e contraddittorie e come tali non meritevoli di credito». A causa di presunte violazioni anche il Consolato generale della Federazione russa a Palermo aveva seguito il caso.
Accusato di corruzione Prosciolto dopo 6 anni. Dante Galli al momento del suo arresto lavorava come dirigente dell'ufficio urbanistica di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Il 31 gennaio del 2006 però aveva perso tutto. Era stato arrestato insieme al sindaco Massimo Mallegni e a numerosi politici, funzionari e imprenditori. Sulla sua testa pesava un'accusa importante: corruzione. Dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari ha dovuto affrontare un maxi processo nel corso del quale fortunatamente era tornato a piede libero. Il suo incubo è terminato dopo sei anni. Il 2 aprile del 2012. Il tribunale di Firenze non ha avuto dubbi: Galli è stato prosciolto da ogni accusa e deve essere risarcito per tutte quelle settimane trascorse tra il carcere e gli arresti domiciliari. Adesso pronuncia parole felici, si dichiara sereno, ma nessuno potrà mai cancellare l'esperienza vissuta, la perdita della libertà e della dignità professionale. Adesso all'uomo è stato riconosciuta l'ingiusta detenzione. Il politico però non ha fatto sapere a quanto ammonta.
Per i pm era un boss. Scagionato a 70 anni. Il suo nome gli è costato 3 anni e 11 mesi da scontare agli arresti domiciliari. Ma Beniamino Zappia non era il boss della mafia italo-canadese e adesso deve essere risarcito. Una vicenda che inizia il 22 ottobre del 2007, quando la Dia di Roma arresta l'uomo accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli inquirenti pensano infatti sia il tramite tra le cosche agrigentine e quelle canadesi legate ai fratelli Rizzuto di Montreal, credano che i boss si siano serviti di lui per infiltrarsi negli affari d'oro relativi alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Così lo arrestano insieme ad altre 18 persone. Complice il suo nome e la sua fedina penale non proprio immacolata, Zappia viene recluso a San Vittore, poi a Roma e ancora a Benevento e Secondigliano. Nel 2008, ormai 70enne, viene trasferito in regime di carcere duro. Poi i dubbi, la concessione degli arresti domiciliari nel maggio del 2010 e infine la sentenza. Il 23 novembre del 2012 viene assolto perché il fatto non sussiste.
Un anno di detenzione. Ma i testimoni lo salvano. Una detenzione durata ben 351 giorni e un indennizzo di 100 mila euro, pari a 235 euro al giorno. Manolo Zioni, romano, quando aveva 22 anni era stato accusato di aver messo a segno 3 rapine, tutte compiute tra l'agosto e il settembre del 2010, in zona Pineta Sacchetti, nella Capitale. Nonostante Alessandro Rossi, un rapinatore già in stato di detenzione, avesse ammesso di aver compiuto anche i colpi contestati a Zioni, i giudici non gli credono. Nessun testimone lo riconosce e allora viene disposta una perizia sulle immagini riprese dalle telecamere. Il rapinatore, quello vero, aveva un diamante tatuato sul collo. Manolo Zioni invece solo una macchia sulla pelle. Così il ragazzo viene rimesso in libertà e dopo 20 giorni viene assolto per non aver commesso il fatto. L'imputato viene risarcito, ma non è di certo un santo. Così lo scorso giugno è stato fermato nuovamente. In zona Primavalle avrebbe gambizzato un uomo, un personal trainer di 35 anni con cui aveva un debito in sospeso.
58 euro per ogni giorno incolpato ingiustamente. Lo stato gli ha dato 23 mila euro. Ogni giorno che ha trascorso in carcere vale appena 58 euro. E in cella Alberto Vitulo ha trascorso ben 13 mesi. Spaccio di sostanze stupefacenti. Questa l'accusa sostenuta dagli inquirenti di Cavarzere, in provincia di Venezia. L'uomo, 53 anni, era stato arrestato il 28 ottobre del 2008. L'operazione dei carabinieri aveva sgominato una banda di neofascisti accusati di trafficare stupefacenti. In pratica l'associazione avrebbe portato la cocaina dal Sudamerica per poi rivenderla nelle piazze di spaccio del Veneto. Alberto Vitulo, secondo l'accusa, avrebbe gestito il traffico nell’area del rodigino. Alla fine l'uomo è stato assolto. Misero il risarcimento ottenuto e sentenziato dalla Corte d'appello di Venezia. Ma i giudici hanno motivato l'ingiusta detenzione in carcere spiegando anche che Vitulo, originario di Cavarzere, avrebbe contribuito colposamente all’emissione e al prolungamento della misura cautelare a suo carico, omettendo di fornire agli inquirenti alcun chiarimento in merito al comportamento che gli veniva contestato.
Vicesindaco «truffatore». Ma era una menzogna. Un calvario giudiziario durato ben 8 anni. L'avvocato Marco Salvini, quando aveva solo 32 anni, aveva dovuto trascorrere anche 98 giorni in regime di arresti domiciliari. La vicenda che risale al 2007 lo ha visto accusato di associazione per delinquere, truffa e corruzione. Adesso chiede un risarcimento per il torto subito, per la libertà privata, per la reputazione persa in un paese, Montesilvano (provincia di Pescara), dove le voci corrono velocemente, specialmente se un processo dura più di 8 anni, soprattutto se l'avvocato Marco Salvini, al momento dell'arresto, era anche il vicesindaco di Montesilvano. La sua vita è cambiata radicalmente prima di essere assolto, prima di uscire a testa alta dall'inchiesta Ciclone, quella che nel 2007 lo ha condotto in braccio alla giustizia. Ora crede ancora nel sistema giudiziario. Un sistema capace anche di assolvere e di risarcire per il danno subito. Adesso l'uomo attende le motivazioni della sentenza e si appresta a chiedere un corposo risarcimento.
In galera 156 giorni per un errore di calcolo. Quella lunga fedina penale non gli è stata certo d'aiuto. Luigi Aiello in ogni caso è stato detenuto 156 giorni di troppo, per un errore di calcolo. Adesso è stato risarcito. Dall'errore commesso dai giudici ne era scaturito anche un secondo, questa volta commesso da Aiello. L'uomo infatti aveva una complessa vicenda giudiziaria che grazie alle leggi, e ai numerosi soggiorni in carcere, lo aveva costretto a scontare gli ultimi 5 anni e 8 mesi agli arresti domiciliari. Lui però, durante l'ultimo periodo, era andato in Spagna. Quando era tornato, dopo alcuni mesi, era dunque stato arrestato e condannato a un ulteriore anno di reclusione. Mentre stava scontando i suoi giorni in galera i suoi legali si erano accorti dell'errore. Conti alla mano, la Corte d'appello di Trento aveva accolto la sua richiesta di ingiusta detenzione: 40mila euro. Adesso l'uomo sta affrontando gli altri processi a suo carico e presto saprà se gli verrà riconosciuta una seconda ingiusta detenzione.
Dal 2000 l'Associazione Culturale "ARTICOLO 643" tutela le vittime di "errori giudiziari, ingiusta detenzione e lungaggini processuali". Sono un gruppo di professionisti (avvocati, docenti universitari, etc.) che si dedicano assiduamente alle delicate tematiche della Giustizia. Da anni mettiamo a disposizione dei cittadini competenze specifiche nei delicati istituti della revisione processuale e della riparazione per ingiusta detenzione. Il loro portale è divenuto un efficace veicolo di informazione per gli addetti ai lavori e un punto di riferimento per le centinaia di persone che ogni anno sono vittime di errore giudiziario o di ingiusta detenzione.
Altro esempio di spendita di passione a favore delle vittime dell’ingiustizia terrena è il lavoro di due giornalisti validi e coraggiosi che gestiscono il sito web ErroriGiudiziari.com che al 26 ottobre 2015 contava su 658 casi presenti nel loro archivio. Questo sito nasce dall’idea di due giornalisti che da anni si occupano di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Nel 1996, dopo aver realizzato il capitolo “Giustizia-Ingiustizia” per il Rapporto Italia Eurispes, pubblicano il libro “Cento volte ingiustizia – Innocenti in manette”, una raccolta di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Da allora hanno continuato a raccogliere e archiviare casi e storie di vittime di errori della giustizia, che ora danno vita a Errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni.
Benedetto Lattanzi (Roma, 1966), giornalista, lavora per un’agenzia di stampa nazionale.
Valentino Maimone (Roma, 1966), giornalista, scrive di attualità e salute per diversi periodici nazionali e per il web.
Legge Pinto, stretta sui risarcimenti. Rischiano anche quelli per ingiusta detenzione? Scrivono il 16 settembre 2015: Giudici, la carriera prima di tutto. Il direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, Gian Marco Chiocci, interviene con un editoriale sul tema della riforma della giustizia, degli errori giudiziari, dell’ingiusta detenzione e della responsabilità dei magistrati. A poca distanza dalla pubblicazione di dati aggiornati sugli innocenti in carcere nel nostro Paese, le sue parole non sono affatto tenere: il sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa, sta facendo un’opera meritoria di trasparenza nel tentativo di cambiare le cose. Ma le prospettive, stando al ragionamento di Chiocci, non sono affatto rosee: le riforme possibili, viste le resistenze della categoria dei magistrati, sono in realtà decisamente improbabili. Esattamente due anni fa “Il Tempo” mandò in stampa un’inchiesta devastante sulle ingiuste detenzioni, argomento tornato oggi di moda per il tentativo del governo di farla pagare a chi sbaglia, cioè ai magistrati eventualmente colpevoli d’aver mandato in galera un innocente. A scanso di equivoci e pie illusioni diciamo subito che nonostante Enzo Tortora, il referendum dei radicali, i mille tentativi di provare a regolamentare un’anomalia solo italiana, quest’ultimo esperimento, lodevole nelle intenzioni e rivoluzionario sulla carta, certamente non vedrà la luce. Il sottosegretario alla giustizia Costa, nel rendere noti i dati della vergogna (tra errori giudiziari e ingiuste detenzioni in 22mila sono stati risarciti, oltre 600 i milioni di euro che lo Stato ha tirato fuori come indennizzo) ha sollecitato l’applicazione della «responsabilità dei magistrati» attraverso l’avvio, in automatico, ai titolari dell’azione disciplinare, dell’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per il carcere ingiusto. In altre parole, nelle intenzioni del sottosegretario, a differenza del passato ove non vi era alcun obbligo di trasmissione, una volta ottenuto l’indennizzo, il fascicolo verrà preso, impacchettato e girato ai titolari dell’azione disciplinare che valuteranno se e come comportarsi con il magistrato che ha trattato il caso in questione. Fino ad oggi su 22 mila errori giudiziari accertati, hanno pagato solo 8 giudici. Con questo sistema in tanti potrebbero rischiare inciampi di carriera. Ecco perché la rivoluzione sognata da Costa non si farà mai.
Tra i centinaia di casi, ne raccontiamo qualcuno....
Addio a Mario Conte, magistrato vittima della malagiustizia. Gli errori giudiziari sono qualcosa che può capitare a tutti. Finire in carcere da innocenti, vivere un periodo più o meno lungo di ingiusta detenzione, è molto meno raro di quello che si possa pensare. Un fenomeno che in Italia è decisamente sottovalutato perché – numeri alla mano – costituisce in realtà una vera emergenza sociale: come altro definireste i circa mille casi di riparazione per ingiusta detenzione che ogni anno in media si verificano nel nostro Paese, da più di vent’anni a questa parte? La storia del magistrato Mario Conte, una precocissima esperienza a Palermo in prima linea nell’antimafia seguita da una carriera come pm a Bergamo, sotto questo aspetto è illuminante. Finì trascinato in un’accusa infamante, per un giudice dalla condotta cristallina come lui, per opera di un pentito. Travolto da capi di imputazione pesantissimi. Sottoposto a un’odissea giudiziaria a cui, nel tempo, si aggiunse un macigno ancora più colossale: una malattia terribile come il mieloma multiplo. Difficile dire se provocata, magari indirettamente, dal calvario personale cui già era stato sottoposto dal momento dell’incriminazione infondata. Ma destinata comunque a cambiargli la vita per sempre. Mario Conte ha impiegato 18 anni per dimostrare la sua totale estraneità a ogni accusa. Ha vinto contro la malagiustizia, ma ha dovuto cedere a qualcosa contro cui, purtroppo, non poteva che soccombere. Di lui ci resta un libro testamento dal titolo chiaro ed efficace come pochi altri. Perfetto per ricordare a tutti che finire nelle maglie dell’errore giudiziario può accadere a chiunque: a prescindere dalla condizione sociale, dalla provenienza, dalla collocazione geografica. E quando la giustizia sbaglia, sono dolori veri. Raccontare la sua storia in giro per l’Italia sarebbe stato, per quanto possibile, un piccolissimo risarcimento alle vicende nelle quali è stato suo malgrado coinvolto. Ma Mario Conte non ce l’ha fatta: è spirato pochi giorni prima che il suo libro «E se fossi tu l’imputato? Storia di un magistrato in attesa di giustizia» (Guerini e Associati Editore) potesse essere presentato nel paese che aveva dato le origini alla sua famiglia, Villanova del Battista, al quale era molto legato. Quello che ha riguardato Conte può essere catalogato come mero errore giudiziario, uno di quelli che in Italia, purtroppo, non sono così rari? Napoletano di nascita, ma irpino di Villanova per origini familiari, Conte era entrato in magistratura a soli 27 anni: da allora, a Bergamo per anni da pubblico ministero presso la Procura della Repubblica. «E se fossi tu l’imputato?» è il suo libro-testamento che invita a fuggire, a rigettare il concetto di giustizia come mero e vuoto esercizio del potere. Un titolo che è una domanda secca a chi legge, per far intendere che l’errore può colpire chiunque: anche magistrati come lui. Perché gli ultimi 18 anni della vita di Conte sono un vero e proprio calvario. Prima, nel 1997, viene accusato da un pentito di essere a capo di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militari del Ros di Bergamo e di Roma, che avrebbero costituito una struttura deviata per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti, al fine di conseguire brillanti operazioni. Nel 2003, Conte riceve il primo avviso di garanzia. Le accuse, gravissime, gli piombano addosso come un macigno: associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso, peculato. «Io sono un pm, non un narcos», reagisce d’istinto. Normale, per chi aveva trascorso quattro anni, dal 1992 al 1996, da applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Là dove la mafia la si combatte giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Al dramma giudiziario si aggiunge quello strettamente personale, che alcuni neurochirurghi ritengono legato al primo a filo doppio: nel 2006 gli viene diagnosticato un mieloma multiplo. Conte non si arrende e alla battaglia per la sua innocenza affianca quella per la guarigione. Battaglie che terminano nello stesso periodo, seppur con esiti drammaticamente opposti: dopo aver rinunciato alla prescrizione, nel luglio 2014 viene assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Milano. Il 2 ottobre scorso, invece, deve arrendersi al male che in 9 anni lo ha divorato. Dopo i funerali, tenuti a Bergamo, oggi, con una celebrazione alle 17 presso la Chiesa di Santa Maria Assunta, lo ricorderà anche Villanova del Battista. Oltre all’insegnamento di una vita integerrima, Mario Conte lascia un libro che è anche un testamento, una visione del tanto discusso e discutibile sistema giuridico italiano maturata attraverso la propria professione e la vicenda che lo ha coinvolto. Un sistema che egli conosce benissimo ma del quale rimane vittima. Eppure, basterebbero «piccoli accorgimenti: bisogna recuperare – scrive Conte – le distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello Stato incapaci di esprimere il proprio ruolo». (fonte: Domenico Bonaventura, Il Mattino, 10 ottobre 2015)
Storia di Mario Conte, magistrato rovinato dalla “giustizia”. Un processo all’ingiusto processo, scrive il 28 Maggio Francesco Amicone su “Tempi”. Messo alla sbarra per vent’anni secondo le accuse (inattendibili) di un criminale senza scrupoli, uscito assolto ma distrutto da due gradi di giudizio, l’ex pm ha deciso di scrivere un libro per legittima difesa. A partire da oggi, giovedì 28 maggio, sarà nelle librerie “E se fossi tu l’imputato?” (Guerini e Associati, 143 pagine, 15,50 euro), il libro in cui l’ex pm di Bergamo Mario Conte “processa” l’ingiusto processo subìto per vent’anni dopo essere stato coinvolto nella rumorosa indagine sul generale del Ros Giampaolo Ganzer. Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola che racconta la sua storia. L’Italia non sarebbe abbonata alle sentenze europee per violazione dei diritti umani e la giustizia avrebbe risolto gran parte dei suoi problemi, se fosse svelta come lo era Biagio Rotondo a uscire di prigione. Rotondo era un criminale soprannominato “il Rosso”. Entrava in prigione con accuse che avrebbero sistemato chiunque per anni e riusciva ottenere gli arresti domiciliari dopo qualche mese. Spaccio, rapine, furti. La sua fedina penale era costellata di crimini, anche violenti, ma riusciva a cavarsela con le parole. Mandava a chiamare il pm di turno e in cambio di informazioni per lui si aprivano le porte del carcere. Per i suoi accusati, invece, ad aprirsi era una lunga stagione di guai. Dalle parole di Rotondo nasce l’inchiesta che dal 1997 ha coinvolto alcuni carabinieri della sezione anticrimine di Bergamo, i vertici dei carabinieri e un magistrato, per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Rotondo non c’è più, si è impiccato in carcere nel 2007, ma il processo per alcuni imputati, in particolare l’ex comandante del Ros Giampaolo Ganzer, è ancora in corso. La durata quasi ventennale del processo è solo un particolare dell’esperienza da imputato vissuta da Mario Conte. Per trent’anni pm a Bergamo e oggi scrittore per legittima difesa, dal 1997 al 2014 Conte ha calcato aule di tribunali e studi di avvocati replicando alle accuse di Rotondo, della procura di Brescia e di Milano, dalle quali è stato completamente scagionato lo scorso anno. Dichiarato due volte innocente, ha preso la penna e ripercorso la sua vicenda giudiziaria raccontando nel dettaglio gli errori, le discrasie del sistema e alcune sviste dei pm che hanno condotto l’inchiesta. E se fossi tu l’imputato? è il titolo del libro di Conte, editato da Guerini. La vicenda ha inizio nel 1997. A giugno di quell’anno, Rotondo viene arrestato per tentato omicidio, rapina, illecita detenzione e porto di armi dalla questura di Brescia. Le porte del carcere si sarebbero chiuse per almeno un decennio se non avesse aperto bocca. Non bastava il mea culpa, c’era bisogno di una storia. Il Rosso l’aveva e la offrì alla procura di Brescia. Il pm Fabio Salamone decise di ascoltarla. Rotondo parlò della sua collaborazione con i carabinieri di Bergamo, due anni come informatore fra il 1992 e il 1994, soffermandosi su alcune irregolarità compiute dai militari e spiegando, dichiarazione dopo dichiarazione, in cosa consistesse il suo lavoro. Il compito affidatogli da “il Biondo”, “il Ciccio” e altri militari del Ros infiltrati nelle organizzazioni del narcotraffico, sarebbe stato quello di trovare criminali e istigarli ad acquistare la droga da loro importata tramite alcune fonti. In Italia, la legge sulle attività sotto copertura vieta la provocazione, ma stando a Rotondo, era proprio quello che facevano lui e gli altri militari coinvolti: avrebbero imbastito un traffico di stupefacenti internazionale con la protezione di un magistrato di Bergamo, Mario Conte, che firmava gli atti di indagine per ottenere successo, pubblicità e fare carriera. Il “sistema” sarà poi definito dai magistrati e dai giornalisti “metodo Ganzer”, generale dei carabinieri allora in ascesa e oggi in pensione, con una sentenza della Cassazione ancora pendente. Salamone, colpito dalle confessioni di Rotondo, fece parlare il pregiudicato per altri due anni. L’inchiesta, per quanto delicata, approdò davanti a un giudice soltanto nel 2003, a Milano. Nel frattempo Rotondo non smise di delinquere e fu nuovamente arrestato nel 2007, dopo aver violato più volte il programma di protezione testimoni che aveva conquistato con le sue dichiarazioni sul Ros. Sulla base delle parole di Rotondo è stato costruito un processo in cui Conte viene accusato di essere a capo del “sistema” con cui gli agenti del Ros, sotto la sua regia, avrebbero violato la legge sulle “consegne controllate” di droga, usando come burattini il Rosso e narcotrafficanti del calibro di Otoya Tobon, soprannominato “El drago” (un colombiano ai vertici del cartello di Calì e in seguito collaboratore della Dea americana). Il problema, afferma l’ex pm di Bergamo, non è avere cercato riscontro alle parole del pentito, ma il metodo seguito per verificarle. Le dichiarazioni di Rotondo difficilmente potevano essere ritenute attendibili, nel suo caso. Esaminato dalla difesa o dalla accusa, Rotondo più volte aveva cambiato versione dei fatti. Ai giudici che hanno assolto Conte è parso evidente dalle stesse dichiarazioni del pentito, il quale nel 1997 affermava «io non so se il dottor Conte sapesse come le operazioni venivano gestite», per poi cambiare parere dopo quattro anni di collaborazione: «Il dottor Conte certamente sapeva che lo stupefacente era nelle mani del Ros e che io cercavo acquirenti». Ma non si fermano qui le perplessità sulle dichiarazioni di Rotondo, perché il consulente di Conte, analizzando i nastri delle registrazioni del 1997 e del 1998, vi riscontrò molte anomalie. Ad esempio numerose interruzioni – in alcuni casi ogni sei minuti, in un caso addirittura ogni cinquanta secondi – e a volte sovra-incisioni che avrebbero dovuto rendere quelle registrazioni inutilizzabili. Il metodo operativo che avrebbe seguito Conte, usare le fonti dei carabinieri come Rotondo o “El drago” per imbastire traffici di droga direttamente dagli uffici della procura, sarebbe poi stato confermato da un appunto (senza data e non protocollato) di un maresciallo dei carabinieri. Si tratta di un resoconto di una riunione del 1991 fra il pm Conte e sottufficiali del Ros e del Road. In quell’occasione, stando all’appunto inoltrato da un maresciallo (del Road) ai superiori di stanza a Roma, Conte avrebbe teorizzato come infrangere la legge per incastrare alcuni narcotrafficanti. Nella riunione si era parlato di un’operazione sotto copertura nel quadro dell’allora nuova legge sugli agenti “undercovered”. L’appunto del carabiniere (deceduto prima di testimoniare), stando all’accusa confermava le parole di Rotondo. Secondo i giudici, però, non poteva considerarsi fedele a quanto detto da Conte. Ciò è avvalorato dal fatto che nessun altro ufficiale di polizia giudiziaria aveva pensato di informare i superiori di quel “metodo” di condurre le operazioni anti-droga. Ma ciò che ha stupito Conte è il fatto che sia stato proprio lui a dovere chiamare a testimoniare i presenti alla riunione per dimostrare che quell’appunto non poteva corrispondere a un suo discorso. Anche in questo caso, secondo il magistrato di Bergamo, si è disatteso un principio cardine del sistema processuale italiano. Il pm, infatti, non è un avvocato dell’accusa che si limita a cercare conferme alla sua teoria. Deve applicare la legge senza ignorare gli indizi a favore dell’imputato. Un modo di procedere diverso porta alla «inversione dell’onere della prova», dove è un presunto colpevole a dovere dimostrare la falsità o la verità di una teoria, quando questo compito spetterebbe ai pm. Nel processo Conte ci sono stati 43 depositi di atti relativi a indagini integrative in un arco temporale che va dal 2005 al 2012, con una media di un deposito di migliaia di pagine ogni due mesi. Il fascicolo del solo dibattimento è composto da circa 95 mila file. Migliaia di pagine, decine di faldoni da studiare, e tempi che si allungano portano inoltre a errori e confusioni negli stessi addetti ai lavori. È quasi inevitabile. Quando il procuratore generale fece appello contro la sentenza di primo grado che aveva assolto Conte, avrebbe dovuto aver studiato tutti gli atti nei quarantacinque giorni a disposizione per legge. Il che avrebbe implicato una velocità di lettura media di circa 2 mila pagine al giorno e un impegno giornaliero di circa 17 ore lavorative. 24 ore su 24, se si conta anche la redazione dei motivi di appello, una volta letti gli atti. Umanamente impossibile. Nella doppia veste di ex imputato e magistrato (favorevole alla responsabilità civile), Conte si chiede come può funzionare una giustizia che non risponde dei propri errori. Gli abbagli che sono spesso favoriti da una proliferazione di atti, mettono in difficoltà sia l’accusa sia la difesa. Conte, a riguardo, cita un esempio lampante. Nei suoi capi d’accusa era stata inserita un’operazione della procura di Bologna, condotta da un altro magistrato. L’errore all’apparenza banale fu fatto presente al pm che gestiva l’inchiesta nella seconda fase (udienza preliminare) e sembrò essere accolto. Ma fu dimenticato nella richiesta di rinvio a giudizio. Questo sbaglio, spiega l’ex pm Conte, ha comportato una evitabile perdita di tempo. Si è dovuto chiamare il magistrato di Bologna e farlo venire a testimoniare a Milano per provare che quell’operazione non aveva nulla a che fare con l’imputato. Nelle requisitorie dei pm si assiste, racconta Conte, a una replica delle inesattezze presenti negli atti. Dalle date alle interpretazioni, ovunque può nascondersi una svista. Emergono anche aspetti non chiari sul modo di seguire le regole da parte della stessa autorità giudiziaria. Riguardo all’uso delle intercettazioni, ad esempio. Conte spiega come nel suo processo dovessero essere acquisite alcune conversazioni registrate dalla procura di Roma ma che ciò fu impossibile. Il pm, nel dibattimento, informò le parti dell’impossibilità di acquisirle per «motivi tecnici». Si trattava, disse l’accusa, di «conversazioni registrate dalla Guardia di Finanza su delle cassette purtroppo oggi irrecuperabili». Conte volle controllare e scoprì un’altra verità. I finanzieri avevano scritto al pm milanese: «È d’obbligo precisare che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’autorità giudiziaria». «Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm (di Roma, ndr), il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione». Stando alle parole dei finanzieri, quindi, era stata eseguita un’intercettazione abusiva. Ecco perché non potevano essere acquisite. Si conclude con una seconda assoluzione in appello, senza strette di mano o risarcimenti, la vicenda di Conte. La carriera dell’ex pm, oggi giudice civile, è ancora bloccata dal Consiglio superiore della magistratura, che a un anno dall’assoluzione chiede a Conte di rispondere della richiesta di rinvio a giudizio di dieci anni fa, incurante dell’innocenza stabilita dai tribunali. E se fossi tu l’imputato? è un “processo” a un processo. Un libro che dimostra nel dettaglio come la malagiustizia può nascere quando chi dovrebbe applicare le leggi si dimentica dei princìpi che stanno alla base del giusto processo, dalla presunzione d’innocenza all’onere della prova.
E se fossi tu l’imputato? Il caso del magistrato Mario Conte, scrive l'11 Giugno 2015 Luigi Amicone su "Tempi". La lettera del direttore di Tempi al Foglio a proposito del libro del «pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni». Sul Foglio di oggi appare una lettera del direttore di Tempi Luigi Amicone e relativa risposta di Claudio Cerasa. Le riproponiamo di seguito. Al direttore – C’è un volumetto appena uscito in libreria per i tipi della Guerini&Associati (E se fossi tu l’imputato?) che ben si potrebbe definire una esemplificazione della testimonianza di Piero Tony, con esposizione fin troppo minuziosa, tecnica e dettagliata di come si costruisce un “mostro” attraverso un lavorìo perfettamente rispettoso di tutte le regole del circo mediatico-giudiziario ma anche totalmente avulso dai dati, prove, riscontri fattuali. Il caso del magistrato (anch’egli appartenente a Md) Mario Conte è interessante. Dimostra che quando l’accusa si trasforma in epopea narrata dalla grancassa mediatico-scandalistica, solo un pm può avere gli strumenti per difendersi da altri pm. Oggi, dopo vent’anni di processi e il manifestarsi di un cancro come quello che uccise Tortora, Mario Conte è un magistrato a cui è stato restituito l’onore umano e professionale, completamente prosciolto dall’accusa di essere stato il regista di una organizzazione criminale strutturata in cellula deviata dei Ros che avrebbe trafficato e spacciato per “brillanti operazioni di polizia” il puro e semplice traffico e spaccio di stupefacenti in tutta Italia. Ma in tutta Italia però – ci conferma l’esperienza di questo magistrato democratico – un pm che rispetti le leggi dello scandalismo mediatico può violare le leggi, farla franca e uccidere per via giudiziaria anche un collega, se necessario. Come? Cito ad esempio un episodio riferito nel libro. «Dagli atti risulta che il Goa (Gruppo operativo antidroga della Guardia di Finanza ndr) aveva inviato il 19 maggio 2004 al pm di Milano, in risposta alla sua richiesta di acquisizione dei nastri delle registrazioni, una nota18 nella quale c’era scritto qualcosa di ben diverso da quanto dichiarato dalla pubblica accusa: “È d’obbligo precisare – si legge – che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’A.G. … Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm [di Roma], il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione”. Non vi era alcun provvedimento di autorizzazione per quelle intercettazioni. Era stata eseguita un’intercettazione abusiva! Fa, poi, quasi sorridere, se come al solito non si giocasse con il destino delle persone, il fatto che la Guardia di Finanza parli di intercettazioni “per soli scopi operativi”, categoria che sicuramente mi manca non trovando un riscontro normativo. Il pm di Milano, in conclusione, apprende di un’intercettazione abusiva, ma non prende nessuna iniziativa a riguardo».
Il problema definitivo è che nessun cittadino italiano può mettersi al posto di Conte. Pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni. Perché nessun cittadino italiano può permettersi collegi di difesa come quelli di Andreotti o di Berlusconi. Oppure, in alternativa, difendersi come si è difeso il pm Conte, sapendo letteralmente dove “mettere le mani” (munito per altro di un programmino informatico capace di vivisezionare e individuare gli elementi cruciali nella montagna di atti processuali, nel caso: 100 mila file). Perciò, per rispondere all’interrogativo del libro, se fossi stato tu l’imputato Mario, ma Laqualunque e non un Conte pm, avresti potuto semplicemente rassegnarti. Cominciare a scrivere le tue memorie dal carcere e imparare a morire di cancro. Luigi Amicone. Grazie della lettera. Sul tema garantismo e sulla lotta dura e pura e senza paura alla repubblica delle manette le confesso però che la partita più appassionante in questi giorni si gioca fuori da Roma. Si gioca a Venezia, secondo me. Dove vincerà l’ex magistrato Felice Casson, tanti auguri sinceri, ma se per una qualsiasi ragione dovesse vincere il suo rivale, Luigi Brugnaro, siamo pronti a farci un bel selfie con una buona bottiglia di champagne. Cin cin.
Beniamino Zappia. Tre anni di ingiusta detenzione per mafia. Ma era solo un’omonimia. Per essere un esponente di spicco della mafia può attendersi, gli era anche andata bene: 3 anni di carcere più 11 mesi agli arresti domiciliari. Il fatto è, però, che Beniamino Zappia non era affatto quello che gli inquirenti pensavano che fosse: non era un boss della mafia italo-canadese. I giudici se ne sono accorti in ritardo, assolvendolo con formula piena. E il suo legale, l’avvocato Luis Eduardo Vaghi, ha subito pensato di presentare un’istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Ma procediamo per gradi. Come e quando comincia questa storia? Tutto inizia il 22 ottobre 2007, con il blitz della Dia di Roma ribattezzato “Orso Bruno”. Beniamino Gioiello Zappia – questo il nome del protagonista della vicenda – viene arrestato con un’accusa pesantissima: associazione a delinquere di stampo mafioso. I magistrati della Capitale lo indicano come l’uomo di collegamento, a Milano, tra le cosche agrigentine e quelle italo-canadesi legate al clan dei fratelli Rizzuto di Montreal. Nel capo di imputazione, lo descrivono come “personaggio storicamente legato all’associazione mafiosa Rizzuto”, di cui “è da sempre suo referente in Italia e in particolare a Milano ed in Svizzera”. Un uomo, insomma, “dedito alle più disparate attività delinquenziali” di cui, sempre stando all’ipotesi accusatoria, i Rizzuto si sarebbero serviti per infiltrarsi negli appalti milionari per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Insieme a lui, che ha ammesso davanti ai magistrati di conoscere alcuni membri della famiglia Rizzuto solo “per nome”, finiscono dietro le sbarre altri 18 presunti esponenti del clan italo-canadese dei Rizzuto. Diciamolo subito: Beniamino Zappia non è uno stinco di santo, la sua fedina penale non è immacolata. Ma di qui ad accusarlo di essere un boss ce ne corre. Il giorno del suo arresto viene portato nel carcere milanese di San Vittore. Poi viene trasferito a Roma e quindi spostato ancora, prima a Benevento e poi a Secondigliano. Poco più di un anno dopo essere stato arrestato, Zappia vive il suo periodo più difficile. Da fine novembre 2008, a 70 anni compiuti (Zappia è del 1938) scatta per lui la sorveglianza speciale: è il cosiddetto regime di “carcere duro”, previsto dal 41 bis per i mafiosi. Un incubo che finisce il 25 maggio 2010, con la concessione degli arresti domiciliari. La fine del calvario giudiziario arriva il 23 novembre 2012, a 5 anni, un mese e un giorno dall’operazione che lo aveva portato in carcere. La sentenza di assoluzione è di totale proscioglimento: “perché il fatto non sussiste”. Una volta tornato libero il suo assistito, l’avvocato Vaghi decide di andare a fondo: è convinto che gli inquirenti romani abbiano fatto un errore macroscopico: uno scambio di persona dovuto a un’omonimia. Ha studiato con la massima cura tutte le carte processuali. Nel capo di imputazione dell’operazione “Orso Bruno”, si legge che “Robert Papalia (presunto boss delle cosche di Montereal) ha coadiuvato Giuseppe Zappia nell’attività finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina”. Si parla di Giuseppe, non Beniamino, Zappia. Ma le anomalie non finiscono qui. Un’altra anomalia emerge dalle motivazioni della sentenza dove è citata la testimonianza del vicequestore Alessandro Mosca, ufficiale della Dia di Roma che ha coordinato l’inchiesta Orso Bruno. Nel corso del dibattimento, il funzionario ha dichiarato che “l’indagine è nata nel 2003 presso la procura della Repubblica di Roma a seguito di una segnalazione pervenuta alla Dia della Polizia Canadese, nella quale si segnalava la presenza in Roma di un personaggio, Giuseppe Zappia, soprannominato in Canada il ‘Commendatore’, che veniva indicato come fortemente legato ad un’organizzazione criminale che operava a Montreal, denominata famiglia Rizzuto”. Sempre in quel’occasione, si legge nel provvedimento, “il vice questore Mosca ha chiarito che Giuseppe Zappia è persona diversa dall’imputato medesimo, né suo parente”. La stessa tesi viene sostenuta nel corso del processo da Lorie Mcdougall, un ufficiale della polizia canadese. È lo stesso investigatore che ha seguito le indagini sulla famiglia di Vito Rizzuto dal settembre 2002 e che ha affermato di essere consapevole che l’imputato era persona diversa da tale Giuseppe Zappia, soggetto questo coinvolto nei traffici e nei rapporti con il Rizzuto in particolare nella procedura per l’appalto per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Per l’avvocato Vaghi non ci sono dubbi: Beniamino Zappia è stato vittima di “un caso di mera omonimia”. Quel che è peggio, secondo il legale, è che la difesa ha tentato in ogni modo di portare alla luce l’equivoco, ma tutti gli elementi raccolti “sono stati sistematicamente ignorati, sia in sede di indagine che in sede di udienza preliminare”. Lo dimostra proprio l’esame dell’ufficiale Mcdougall, citato come testimone dalla Procura, che durante la fase dibattimentale “rammostrava al giudicante l’errore in cui era corsa la pubblica accusa. E a questa stessa conclusione si poteva arrivare con maggiore tempestività”. (fonte: Askanews, 7 marzo 2015).
Marco Savini, otto anni per dimostrare di essere innocente. “Assolto perché il fatto non sussiste”: una formula di cui l’avvocato Marco Savini conosce perfettamente il valore e non soltanto per via della sua professione. È grazie a questa frase, pronunciata per tutti i capi di imputazione, infatti, che l’ex vicesindaco di Montesilvano (in provincia di Pescara) è uscito a testa alta dall’inchiesta Ciclone, che a luglio 2007 cambiò per sempre la sua vita costringendolo, all’età di 32 anni, a 98 giorni di arresti domiciliari. Un’avventura giudiziaria lunga otto anni che Savini ora ha deciso di portare fino in fondo attraverso una richiesta di un risarcimento danni in grado, se non di cancellare la sofferenza di essere stato accusato ingiustamente di una lunga serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere, al falso, dalla truffa alla corruzione, almeno di poter dimostrare che la giustizia ha compiuto correttamente tutto il suo percorso. “Ho sempre avuto fiducia nel sistema giudiziario”, rivela Savini, “e pur ritenendomi una persona assolutamente estranea a tutti i capi di imputazione, in maniera rispettosa e silente, mi sono fatto i miei processi e mi sono difeso. Ma proprio perché credo molto nel sistema, adesso il sistema prevede che chi come me ha subito ingiuste detenzioni o, come nel mio caso, un danno alla propria immagine, possa ottenere un risarcimento. Non voglio gridare al complotto e non lo faccio in un’ottica di rivincita, ma è solo un modo per compensare le opportunità personali perse e che credo siano state perdute anche dalla città. E non perché Marco Savini era il più bravo di tutti”, chiarisce l’ex vicesindaco, “ma perché erano stati attivati dei processi amministrativi che poi sono stati tranciati e messi nel tritacarne”. A detta di Savini, l’inchiesta Ciclone ha creato dei grandi danni soprattutto alla città. “In questi anni, non si è lavorato per l’affermazione di un nuovo progetto”, prosegue, “ma soltanto per differenziarsi da un passato con il quale non si è mai fatto il conto. L’inchiesta ha rappresentato un alibi per molti, un’opportunità per altri, ma il dato oggettivo è che Montesilvano in 8 anni ha perso tante occasioni e soprattutto la reputazione. Mi auguro che la politica montesilvanese di centrosinistra recuperi il tempo perso”. Per Savini è importante, però, non commettere gli stessi errori del passato. “L’errore finora è stato consentire agli interessi privati di entrare nelle istituzioni”, prosegue, «sia ben chiaro in maniera legittima attraverso le elezioni. Ma dobbiamo fare in modo che i partiti fungano da filtro. I cittadini devono poter scegliere tra persone lontane da interessi economici”. L’ex vicesindaco, già assessore nella giunta Gallerati, torna a quel 2007 e alla domanda se «rifarebbe quanto fatto finora» non ha dubbi: «È facile con il senno di poi dire non rifarei il vicesindaco, ma forse non è neanche vero questo. Dopotutto, senza questa esperienza non sarei quello che sono oggi ed è stata utile anche per la mia professione di avvocato, perché ha confermato la mia fiducia nei confronti della giustizia. Certo ho commesso degli errori, ma non mi sono mai nacchiato di reati, e questo è un dato oggettivo”. Sull’importo della richiesta di risarcimento danni, attualmente al vaglio dei suoi colleghi avvocati, spiega: “La richiesta non è stata ancora quantificata, aspettiamo prima le motivazioni della sentenza”. (fonte: Antonella Luccitti, il Centro, 2 gennaio 2015)
Oscar Milanetto, niente scommesse: la sua fu ingiusta detenzione. Coinvolto in una brutta storia legata al calcioscommesse, ne è uscito fuori completamente scagionato. Ma sull’ingiusta detenzione subita, ben 17 giorni in carcere da innocente con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva, Omar Milanetto (ex calciatore e oggi dirigente del Genoa) non vuole passarci sopra come se nulla fosse accaduto. E, acclarata con sentenza definitiva la sua innocenza, ha dato mandato ai suoi avvocati di richiedere ciò che la legge prevede espressamente nei casi come il suo: una riparazione per l’ingiusta detenzione subita, quei giorni in custodia cautelare che gli hanno distrutto la reputazione e portato via la serenità. Ci sono voluti quattro anni e mezzo per escludere ogni coinvolgimento di Milanetto in una presunta – ma mai accaduta – combine della partita Genoa-Lazio del 2011. E oggi l’ex centrocampista vuole andare fino in fondo. Dopo aver rifiutato assieme al suo Genoa patteggiamenti in ambito sportivo e subito quattro anni e mezzo di persecuzione giudiziaria culminata con 17 giorni di ingiusta detenzione, Omar Milanetto e con lui (moralmente) tanti genoani che l’hanno sempre difeso, è passato al contrattacco. Il dirigente RossoBlu ha atteso la fine della vicenda innanzi alla Caf(di cui abbiamo dato conto) con la definitiva conclusione dell’affaire Lazio-Genoa, per chiedere un cospicuo risarcimento danni allo Stato. In più circostanze ci siamo occupati di vicende carcerarie, di innocenti in galera e di ‘piccoli’ Enzo Tortora o nomi noti prima adorati e poi gettati nella polvere con tanto di tv, siti e giornali non bramanti di meglio, che ogni tanto fanno capolino nelle cronache giudiziarie. Quella di Milanetto, infatti, è ormai questione di civiltà e non più sportiva. Ma ricordiamo brevemente i fatti: il 28 maggio 2012 Milanetto, all’epoca centrocampista del Padova, fu tirato giù dal letto in piena notte, trascinato in carcere davanti ai figli attoniti e caricato di accuse pesanti come l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Tutto ciò per le dichiarazioni false di improbabili collaboratori come Ilievsky o per le intercettazioni mal trascritte o interpretate in modo errato. Su tutte, quella in cui il calciatore spiegava di volersi recare ad Albaro per degli acquisti, trascritta come se Milanetto avesse detto di voler andare ‘dal baro’ per truccare qualche partita. 17 giorni di ingiusta carcerazione preventiva per accuse sgretolatesi fino all’assoluzione finale, che porrebbero sul banco degli imputati in un paese progredito a livello giuridico il Pm cremonese (e sampdoriano) Roberto Di Martino che si è intestardito nel portare avanti iniziative (fra cui questa) fondate sul nulla e quei giudici che di volta in volta permettono arresti in stile tangentopoli, ovvero finalizzati a ottenere confessioni o nomi. La testardaggine con cui Milanetto (e con lui il Genoa) ha fatto emergere dopo quattro anni e mezzo la sua innocenza per la presunta ma inesistente combine con Lazio nel 2011,vedrà ora un’ulteriore coda dopo l’annuncio dato a Primo Canale dall’avvocato dell’ex calciatore, Maurizio Mascia. Come già preannunciato alcuni mesi fa, a luglio, ora è giunta la conferma che l’azione legale contro lo Stato sarà intrapresa e la cifra richiesta sarà di 516.546 euro, ovvero l’equivalente di un miliardo di lire. Somma che forse non ripaga della gogna, della sofferenza, dell’umiliazione e dell’ingiusta detenzione subite ma che può – se riconosciutagli – servire a ribadire ancora una volta quanto costino sulla pelle dei cittadini e sulle finanze pubbliche certi errori giudiziari pagati da tutti i cittadini, in assenza di una vera responsabilità civile dei magistrati in Italia. (fonte: Fabrizio Ferrante, Blastingnews, 11 ottobre 2015)
Diallo, 2 mesi in carcere per un “disguido d’ufficio”. La burocrazia è uno dei problemi fondamentali della giustizia italiana. E, nel caso che vi stiamo per raccontare, anche la causa prima di un’ingiusta detenzione, se non di un vero e proprio errore giudiziario. Proprio così: in Italia può accadere che, per quello che in burocratese viene ridotto a un banale “disguido d’ufficio”, un uomo sia costretto a passare in carcere senza motivo più di due mesi. E’ l’ennesima storia di malagiustizia: per colpa di un incredibile intreccio di coincidenze, unito a un pasticcio di competenze tra commissariato e questura, una comunicazione importantissima – perché certificherebbe che un condannato sta effettivamente rispettando l’obbligo di firma che gli è stato comminato – si perde nei meandri della burocrazia. Con il pessimo risultato di far risultare il protagonista di questa vicenda (Diallo A., un ventottenne immigrato regolare, originario della Guinea) responsabile di un reato che in realtà non ha mai commesso: “renitente all’obbligo di firma”, per usare l’arido linguaggio della polizia. Un errore, dunque. Non proprio un errore giudiziario nel significato che il codice penale dà a questa locuzione, ma uno sbaglio che causa un danno non da poco a chi invece, avendo già sbagliato di suo e volendo regolare i propri conti con la giustizia, si ritrova invece a vestire un ruolo che non vorrebbe: quello di chi ricasca nell’errore di commettere un reato. Nell’articolo del quotidiano milanese “Il Giorno” che riportiamo, viene ricostruita nei dettagli questa vicenda paradossale e per certi versi sintomatica dello stato della giustizia italiana. Tutta colpa di una firma, e di dove la metti. Se in questura o se in un commissariato di zona. E, nel secondo caso, c’è il rischio che quella firma si perda, si vanifichi e vanifichi anche il suo effetto. E il firmatario torni spedito a San Vittore. Per due mesi e un tot, dove è tuttora: per un «disguido d’ufficio». Un errore. Non suo. Il suo, quello di spacciare piccole dosi, lo ha pagato con un patteggiamento a un anno di reclusione: per cui la pena di Diallo A. – 28enne della Guinea, lingua francese e poco italiano – l’1 luglio è stata commutata dal giudice Micaela Curami in obbligo di firma trisettimanale. Ma un «disguido d’ufficio» – come viene definito dal dirigente della Divisione anticrimine della questura, Maurizio Azzolina, in una nota di chiarimenti a Procura, direttissime, e legale che Diallo è riuscito finalmente a nominare, Antonio Nebuloni – lo ha rinfilato a San Vittore, dal 30 luglio fino a tuttora. E il tuttora comprende un pasticcio di competenze su chi ha titolo, allo stato degli atti, sul detenuto, per cui la sua posizione potrebbe rimbalzare tra giudice del procedimento (nel frattempo divenuto definitivo), ufficio esecuzione della Procura e Tribunale di sorveglianza. A tutti i quali saranno destinate carte per la scarcerazione del ragazzo, che poi sarà in grado di valutare con il legale una causa per ingiusta detenzione. La prima colpa di Diallo – regolare sul territorio italiano – è il piccolo spaccio, la seconda è di non avere una dimora certa. Questo sarebbe, stando alla ricostruzione imbarazzata fatta dalla questura, il motivo dell’equivoco. Lui infatti, arrestato in flagranza il 24 maggio, condannato l’1 luglio a un anno e 1.200 euro di multa, ottiene la commutazione della pena in obbligo di firma, lunedì mercoledì e venerdì presso uffici della polizia giudiziaria. Dove regolarmente si presenta dall’1 al 6 luglio: nel commissariato di Porta Genova ma a insaputa degli uffici centrali. Così su Diallo, già il 6 luglio piomba la segnalazione della divisione anticrimine come renitente all’obbligo. Ragione per cui il tribunale il 10 luglio ripristina la custodia in carcere, e il 30 luglio – nel corso di un controllo – Diallo torna a San Vittore. Il giovane africano impiega oltre due mesi a capire e a trovare un legale che lo capisca. Quando l’avvocato Nebuloni ricostruisce che Diallo si è «presentato alla firma presso il commissariato Milano Porta Genova dall’1.7 al 30.7» e che «non ha mai saltato neppure un giorno del suo obbligo», la questura avvia una verifica interna. Da cui: «Effettivamente il Diallo in data 1.7.2015 si presentava» al commissariato Porta Genova; mentre «non risulta che si sia mai presentato negli uffici della questura dove era stato invitato…». La trasgressione delle prescrizioni è segnalata «in quanto dalla interrogazione allo Sdi non risultava essere stato sottoposto agli obblighi di nessun ufficio di polizia…». E, non avendo il ragazzo eletto alcun domicilio certo, «l’ufficio» era nell’«impossibilità di avere uno specifico commissariato come riferimento», così unico strumento utile all’accertamento restava la banca dati che lo aveva invece obliato. Solo «dalla successiva consultazione degli atti dell’Archivio generale è stata rinvenuta la nota del commissariato di Porta Genova, diretta anche alla Divisione anticrimine per conoscenza». Ma «la citata nota per un mero disguido d’ufficio sfuggiva all’attenzione degli operatori e quindi veniva trattata alla stregua di tutta la corrispondenza che perviene per conoscenza all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione». E fu così che Diallo – Guinea – fu archiviato a San Vittore. (fonte: Marinella Rossi, Il Giorno, 9 ottobre 2015). Altro che errori giudiziari. Giustizia in Italia, dove tutto può accadere. Gli orrori e le ingiustizie del nostro sistema, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Molti lo ricordano certamente Un giorno in pretura: il film di Steno con un grande Alberto Sordi, un altrettanto bravo Peppino De Filippo; e Sophia Loren, Silvana Pampanini, Walter Chiari, Leopoldo Trieste; ambientato nella seconda sezione della pretura di Roma, davanti al giudice Salomone Lo Russo, si presentano gli imputati di diversi, piccoli reati. Un film che parla, in chiave leggera, ma al tempo stesso serissima, della giustizia cosiddetta minore: quella chiamata a confrontarsi quotidianamente con le vicende umane più comuni e disparate. Qui mancano De Filippo, Sordi, Chiari; ma sono comunque episodi che possono far parte di quella galleria, una sorta di Un giorno in pretura due; e rivelano più di qualsiasi convegno o trattato giuridico, lo stato della giustizia in Italia. Per esempio: un detenuto, riconosciuto innocente, e nonostante ciò in carcere. Non per un giorno, una settimana, che può capitare, anche se non dovrebbe. In carcere per ben 72 giorni: oltre due mesi. Non tanto per il classico ‘errore giudiziario’; perché non c’è giudice competente sul suo caso. Incredibile? Bene, vediamola, la storia di Diallo A., 28 anni, originario della Guinea, piccolo spacciatore. Per questo viene condannato; patteggia, e si vede commutata in obbligo di firma. A questo punto viene – si fa per dire – il bello. Diallo è in carcere; per svista amministrativa, per burocrazia inerte, per quel che si vuole, resta in cella, non viene liberato. Finalmente si accorgono che non dovrebbe starci; a questo punto i portoni del carcere si aprono? Proprio no. Nessuno firma l’ordine di scarcerazione, e Diallo continua a stare in quella cella dove, per ‘disguido’ (giustificazione della questura) è stato rinchiuso. L’avvocato difensore si rivolge al giudice, per ottenere lo sblocco della situazione; il giudice, pur comprensivo, risponde con un non luogo a provvedere: ha ammesso il patteggiamento, commutato la pena in obbligo di firma tri-settimanale; lui a questo punto esce di scena. L’inghippo sta nel fatto che a causa di quel disguido, gli atti sono stati trasmessi alla Procura. Il Pubblico Ministero competente, qui entra in campo Franz Kafka, dovrebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della pena; ma il provvedimento si applica a chi è in libertà, proprio per evitargli la galera. Ma in questo caso, Diallo in galera già c’è… Potrebbe intervenire il Giudice di sorveglianza; però la cosa non è ancora nella fase delle sue competenze, la sentenza definitiva non è a sua disposizione; solo dopo quella, il difensore può proporre istanza di misure alternative. Ora tutta questa labirintica e tortuosa situazione ci si augura di averla raccontata come si è verificata; non si esclude di aver commesso qualche imprecisione; come si può immaginare, capire, e spiegare, come sia potuto accadere quello che è accaduto, è complicato. Prima o poi la vicenda si risolverà, se già in queste ore non si è risolta. Non è questo il problema; il problema è che è potuto accadere. Un caso interessante è quello del Tribunale di Prato. Un caso che diventa un caso perché c’è un giudice gran lavoratore, colpevole appunto di lavorare troppo. Di udienza in udienza, riesce a smaltire una quantità di procedimenti: questo singolare magistrato, una donna, spiega che “proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni, mi sento come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro”. Vallo a dire a cancellieri e al personale del tribunale che lavora oltre l’orario previsto senza essere retribuito… In Tribunale raccontano che la pianta organica è sotto-dimensionata, che il personale è stato ridotto del 35 per cento. A Prato, raccontano, convivono 127 etnie, la falsificazione dei marchi è ormai un qualcosa di cronico e storico; e una quantità enorme di micro, ma anche macro reati. “Dovremmo essere almeno un centinaio come a Lucca o Pisa invece siamo una quarantina”, dice Sergio Arpaia, cancelliere e sindacalista dell’Unsa. Non ha torto, beninteso. Lo riconosce anche il magistrato iper-attivo, il potenziamento del personale è necessario. Al tempo stesso, ragiona, “qui decidiamo della vita delle persone e non si può ascoltare la campanella di fine lavoro”… Della serie: c’è sempre qualcuno che sta peggio di quanto si sta noi. La disegnatrice e attivista iraniana Atena Farghadani, 29 anni, è detenuta nel famigerato carcere di Evin a Teheran, condannata a 12 anni e nove mesi per oltraggio; ma anche per attentato alla sicurezza nazionale e diffusione di propaganda a ostile alle istituzioni; in realtà è colpevole di pensare come non pensano gli ayatollah, e di aver disegnato alcune vignette che hanno preso di mira esponenti del regime, perfino e la guida suprema, Alì Khamenei. Prelevata in casa nell’agosto 2014 dai pasdaran della Guardia rivoluzionaria, Atena viene malmenata e trascinata in carcere. Rilasciata a novembre, è di nuovo arrestata, dopo aver denunciato in un video i maltrattamenti in cella. Nuovo rilascio, quindi l’ultima incarcerazione a gennaio; altre denunce di percosse, uno sciopero della fame di protesta, il peggioramento delle condizioni di salute. Un giorno incontra l’avvocato difensore; alla fine del colloquio, si congeda con una stretta di mano. L’avvocato, Mohammad Moghimi, per questa stretta di mano arrestato: il gesto viene bollato come ‘al limite dell’adulterio’; lo liberano dopo tre giorni, paga una cauzione di 60.000 dollari, resta comunque sotto accusa. Atena, è accusata di condotta indecente e relazione sessuale inappropriata; deve perfino a subire un test di verginità e gravidanza nel carcere in cui è rinchiusa.
Luciano Conte, 54 giorni in carcere per un latitante in casa ma a sua insaputa. C’era una volta la casa a sua insaputa, e persino la tangente a sua insaputa. Ma il latitante a sua insaputa è un brivido che, in casa propria, ha sperimentato solo un barista: che ne avrebbe volentieri fatto a meno, visto che l’equivoco da incubo gli è costato 54 giorni per sbaglio a San Vittore e altri 86 giorni per errore agli arresti domiciliari. Custodia cautelare prima di essere scagionato dall’accusa di aver nascosto a casa il latitante Gioacchino Matranga, fuggito il 26 ottobre 2009 dalla prospettiva di 30 anni per traffico di droga. La serrata caccia datagli dal pm Paolo Storari aveva riacciuffato Matranga il 31 dicembre e individuato anche la casa in cui era stato a Natale: casa del barista Luciano Conte, dunque arrestato dal gip Giulia Turri insieme al cognato di cui il latitante parlava intercettato con la moglie. Inutilmente il barista si sgolò dalla cella: mai conosciuto Matranga, non sapevo stesse nel mio appartamento e non me ne sono accorto, è mio ma ci vado poco perché vivo a casa della mia compagna, ed ecco le foto che provano che dal 24 al 28 dicembre non ero a Milano ma in vacanza con lei in Svizzera. Tutto inutile. Fin quando in Tribunale la verità riflessa si impone alla giudice Marina Zelante che assolve Conte per non aver commesso il fatto: è stato il cognato, a sua insaputa, a dare per 4.000 euro a un basista del latitante le chiavi di casa prese alla moglie (sorella del barista) che ogni tanto andava a farvi le pulizie. E ora, «per la “beffa” di essere assolto sulla base degli stessi elementi indicati sin dall’inizio», con l’avvocato Francesca Galli il barista chiede allo Stato 70.000 euro di risarcimento per ingiusta detenzione. (Fonte: Luigi Ferrrarella, Corriere della sera, 3 aprile 2013)
Marco Santese.Gli nascondono polvere bianca nell’auto, parrucchiere passa 26 giorni in carcere. Trascorse ventisei lunghi giorni fra carcere e arresti domiciliari con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, erano invece poco più di 23 grammi di zucchero. Dopo un lungo anno di indagini, gli investigatori hanno scovato i presunti registi della messinscena ordita ai danni del parrucchiere brindisino Marco Santese, 30 anni. Secondo l’accusa del pm Giuseppe De Nozza, che ha chiesto per entrambi il rinvio a giudizio per calunnia aggravata in concorso, si tratta della ex moglie Monica Biasi, 25 anni e Antonio Sanasi, 40 anni, il nuovo compagno di lei. Il movente? Pare che Sanasi temesse un ritorno di fiamma fra i due ex e che, con la complicità di un confidente storico dei carabinieri, avesse soffiato la calunnia nelle orecchie dei militari. Il prologo di questa incredibile vicenda risale a poco più di un anno fa. Il parrucchiere brindisino, incensurato, viene arrestato dai carabinieri il 29 marzo scorso. Quella mattina stessa una telefonata avverte i militari che sotto il copri cerchio della sua auto l’artigiano nasconde lo stupefacente. Alle 7,30 scatta il blitz, in sei piombano nella bottega del rione Santa Chiara, e la perquisizione conferma le informazioni dello spione. Non è tutto. Ancora più incredibile è il fatto che, da lì a poco, il narcotest sulla sostanza conferma che si tratta di cocaina. L’uomo viene arrestato di fronte ai clienti increduli e al datore di lavoro, allibito. Il legale difensore, Gianvito Lillo, non si arrende e ostinatamente chiede una seconda perizia che viene infine disposta dal pubblico ministero. I risultati confermarono l’innocenza proclamata per ventisei lunghi giorni dalla vittima: è zucchero, comune disaccaride saccarosio in polvere. Il gip Alcide Maritati dispose l’immediata scarcerazione dell’artigiano mentre l’avvocato Lillo sporse per conto del proprio assistito denuncia contro ignoti. Gli investigatori si misero immediatamente a caccia dei calunniatori. La coppia è stata stanata dagli stessi militari della compagnia francavillese, indagini coordinate dal maresciallo Antonino Farrugia, impianto accusatorio corroborato da un massiccio carico di intercettazioni. E’ lo stesso Marco Santese, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, a suggerire la pista agli inquirenti, sa bene che non sono molte le persone che possono nutrire motivi di rancore nei suoi confronti. La traccia si rivela assai puntuale e i carabinieri, con una motivazione in più del solito, arrivano presto e bene al punto, i registi della storia sono la ex moglie e il nuovo compagno. Il movente? Un insano desiderio di vendetta. A ordire il piano contro il parrucchiere, suggerendo il nascondiglio dello stupefacente posticcio a un confidente dei carabinieri, fu Santese, il nuovo compagno della ex moglie, con l’obiettivo di eliminare il rivale dalla circolazione. Letteralmente. Le intercettazioni confermano le prime intuizioni degli investigatori, tanto che la prima ipotesi di reato a carico dei due, ossia falso per induzione, muta in calunnia aggravata in concorso per aver fatto ingiustamente rischiare all’artigiano una pena da otto a venti anni di carcere. Fissata per il 28 maggio l’udienza preliminare che deciderà per il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso, mentre pende di fronte alla Corte d’appello di Lecce la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione. (Fonte: Sonia Gioia, Brindisi Report, 10 aprile 2011)
Francesco Fusco. “I pm mi hanno rovinato la vita in cambio di 8 mila euro”. “Signor Presidente, faccia qualcosa per gli italiani, eviti che finiscano nelle mani di persone che possono rovinare la loro vita come hanno fatto con me, eviti che la magistratura abbia a spargere tanta sofferenza”: con queste parole, il 13 luglio del 2008, Francesco Fusco, ex dirigente dell’Agusta – arrestato due volte e processato tre per reati mai commessi, prosciolto da ogni accusa, ma solo dopo dieci anni di persecuzione giudiziaria – concludeva una lettera al Presidente Napolitano, destinata a non ricevere risposte. L’aveva scritta con la sola mano destra, dal letto dell’istituto Redaelli di Milano, dove l’aveva inchiodato un ictus paralizzandogli il lato sinistro e lo tormentava un cancro alle ghiandole salivari. Fusco è morto a Milano l’altro giorno, e questa mattina – venerdì 27 luglio – avrà le sue esequie. Vittima di una giustizia approssimativa e occasionale, sbadata quanto spietata nei suoi carsici accanimenti. Una storia da Giobbe, la sua, la storia di un giovane benestante, apolitico, che dopo una bella carriera da giornalista, a 53 anni, nell’89, viene assunto all’Agusta dall’allora presidente Roberto D’Alessandro, craxiano, come direttore delle relazioni esterne. Nel settembre del ’92 i pm Antonio Vinci e Francesco Misiani lo arrestano (il primo morirà d’infarto nel ’98 mentre era agli arresti domiciliari per corruzione; e il secondo sarà incriminato nel ’96 per favoreggiamento e assolto solo dopo essersi dimesso dalla magistratura: un sinistro contrappasso). I pm pensano che Fusco sappia tutto delle tangenti intermediate da D’Alessandro, che invece faceva da sé. Lo sbattono in prigione senza neanche interrogarlo: vogliono nomi. Lui non ne sa, alla fine il gip lo scarcera. Riprende a lavorare, nel privato, ma nel ’94 lo riarrestano negli Usa per “corruzione di persone ancora da identificare”. Stessa trafila, altri tre mesi bruciati tra carcere e domiciliari, un altro lavoro perduto, e poi una trafila estenuante fino al 2001 – 2 milioni di euro per difendersi e mantenere e curare se stesso e la famiglia – quando arriva l’assoluzione definitiva. Nel frattempo un’altra incriminazione, a Milano, che in tre anni evapora, con lo stesso pm Gherardo Colombo che ne propone il proscioglimento per l’evidente estraneità ai fatti. Fusco chiede l’indennizzo per l’ingiusta detenzione: lo stato valuta la sua via crucis 8 mila euro. Vale la pena ricordare tutto questo nel giorno del suo ultimo viaggio. Perché i giornali di solito raccontano le inchieste e le condanne: molto più raramente gli errori giudiziari e il calvario di chi ne subisce le devastanti conseguenze. (fonte: Sergio Luciano, Italia Oggi, 27 luglio 2012).
Andrea Marcon, ingiusto il suo arresto. La vita distrutta di un maresciallo dei carabinieri. «L’arresto? Uno choc. Io arrestavo i delinquenti, non sarebbe dovuto succedere il contrario». Il maresciallo maggiore Andrea Marcon viene catturato nell’ottobre 2005 in caserma, mentre comanda ad interim la stazione dei carabinieri di Montecchio Maggiore. «Fu terribile», ricorda. Dieci giorni di detenzione e poi la sospensione dal servizio. «Quasi trent’anni di carriera cancellati, perché la maggior parte di colleghi e superiori mi voltarono le spalle, come fossi appestato, eppure ero sicuro di non avere violato la legge», aggiunge angosciato e sconsolato. Il tempo non ha lenito la ferita che dice durerà per il resto della sua esistenza. Poi il rientro in servizio e il trasferimento al battaglione di Bologna in attesa del processo. «Sono ripartito da capo, poi la seconda tegola, perché col rinvio a giudizio ci fu la seconda sospensione, mi sentivo finito perché con lo stipendio ridotto a 700 euro non potevo più mantenere la famiglia», rammenta la pagina più umiliante della sua vita. Quindi due processi conclusisi allo stesso modo: la pubblica accusa che chiede la condanna, i giudici che lo assolvono con formula piena. Un arresto del tutto ingiusto. La Corte d’Appello menziona poche volte il suo nome nelle 42 pagine della sentenza con la quale sono stati invece condannati a 5 anni di reclusione gli ex colleghi Francesco Menolascina e Ignazio Mirigliani. L’inchiesta è quella nota delle operazioni antidroga dei carabinieri di Valdagno, tra il 2004 e 2005, giudicate in secondo grado illegali nell’utilizzo degli agenti provocatori. Per Marcon una vicenda anche straziante, perché nelle stesse ore in cui veniva assolto a Venezia definitivamente – la procura generale non ha presentato ricorso in Cassazione – il padre moriva a Torri di Quartesolo. Intanto, una decisione il maresciallo l’aveva presa. «Sono andato in pensione, nonostante avessi 52 anni, e in teoria pensassi di avere davanti a me ancora una decina d’anni di carriera. Ma con 700 euro al mese non si può vivere, avendo famiglia». Già, la famiglia. Con l’arresto è andata a pezzi. Tanto che nei momenti più bui, quando «la depressione ti assale e pensi perché un servizio fatto come mille altre volte stavolta è giudicato illegale, per giunta arrestando spacciatori», Marcon ha pensato «di farla finita». «Non mi vergogno a dire di essere andato a comprare la gomma per attaccarla al gas di scarico della macchina – insiste senza alcun velo d’infingimento – e se mi sono fermato all’ultimo è stato per mio figlio. Perché se sei innocente, come poi i giudici hanno per due volte stabilito, non te ne fai una ragione di essere invischiato in una storia allucinante». Marcon racconta di quando per andare a compiere le operazione antidroga usava la propria macchina, per non gravare sullo Stato. «Avevo sempre lavorato così e io non c’entravo davvero nulla con gli eventuali illeciti commessi – dice -, perché io comandavo il radiomobile, le indagini erano imbastite dai colleghi del nucleo e io intervenivo nella fase conclusiva, a supporto. Invece, sono stato preso in mezzo». Il maresciallo in pensione sottolinea con amarezza che non tutti sono uguali. «Io senza essere mai condannato – osserva – sono stato sospeso due volte dal servizio e in pratica costretto ad andarmene dall’Arma nonostante il mio stato di servizio fosse ineccepibile, mentre il generale dei carabinieri Ganzer, per indagini antidroga di ben altra dimensione e gravità, è stato condannato a 14 anni di carcere e non è mai stato sospeso. Io constato il trattamento diverso. Ci sono militari di seria A e serie B». La «grande famiglia» dell’Arma quando Marcon venne arrestato nei fatti «mi espulse». «Sono stato abbandonato da tutti – conclude – in particolare dall’Arma, nonostante una vita spesa a correre dietro ai banditi. Ne sono uscito a pezzi, perché a costo di sembrare retorico, io gli alamari li avevo cuciti sulla pelle. Adesso chiederò i danni allo Stato per l’ingiusta detenzione e per le spese che ho dovuto sostenere di avvocato, Lucio Zarantonello, che ringrazio perché mi ha sostenuto come un fratello. Ma per il resto…». (Fonte: Ivano Tolettini, Il Giornale di Vicenza, 5 febbraio 2012).
Chiara Baratteri. Era al bar a lavorare, altro che rubare: con quella banda di truffatori non c’entra. E’ notte fonda a Niella Tanaro, in provincia di Cuneo. A casa Baratteri, Chiara, la madre, dorme nella sua camera, nell’altra stanza c’è Jodie, il figlio adolescente, che è andato a letto presto perché domani c’è la scuola. Il silenzio ovattato viene interrotto dal campanello della porta: “Aprite, Carabinieri!”. Chiara, senza rendersene conto, si ritrova con le manette ai polsi, circondata da uomini dell’Arma, davanti al figlio che trema di paura. La donna crede di sognare, di trovarsi in un orrendo incubo. E’ invece è tutto vero. Chiara viene fatta salire sulla gazzella con il lampeggiante acceso e condotta prima nella stazione dei Carabinieri di Mondovì, poi nel carcere di Cuneo. Solo all’arrivo nel penitenziario piemontese viene messa al corrente dell’accusa di far parte di una banda di nomadi Sinti responsabile di una sessantina di truffe e raggiri ai danni di anziani della zona. E’ l’11 ottobre del 2007. Cinque giorni e cinque notti in una cella prima di dimostrare che lei, con quei due episodi, tentato furto e furto, commessi il 26 ottobre e il 24 novembre 2006, in due case di anziani di Carcare, non c’entrava nulla. Chiara, come sempre, era al lavoro dietro il bancone del bar “Caffè Le Olle”, lungo la statale 28 tra San Michele Mondovì e Vicoforte. “Sono stata arrestata sulla base di un riconoscimento fotografico, ma nei giorni in cui avrei tentato la truffa e il raggiro a Carcare, in provincia di Savona, ero a lavorare al bar, a Niella Tanaro, come ho dimostrato dai registri del locale. E’ stata un’esperienza allucinante che non auguro a nessuno”, ha spiegato la signora, 35 anni, assistita dall’avvocato Mario Almondo di Torino, che ne ha ottenuto la scarcerazione dopo l’interrogatorio di garanzia, “vista l’infondatezza delle notizie di reato”, come affermato dal Gip di Savona Emilio Fois. “Durante l’interrogatorio è emerso in maniera incontrovertibile che lei non aveva nulla a che fare con quei fatti. E anche le fattezze fisiche della mia assistita sono ben diverse da quelle riconosciute dall’anziana”, ha sottolineato il legale. Dopo due anni la posizione di Chiara Baratteri è stata archiviata e la donna, assistita dall’avvocato Gabriella Turco, del foro di Mondovì, ha chiesto un indennizzo per l’ingiusta detenzione. “Per il coinvolgimento in questa vicenda, la mia assistita ha subito danni all’integrità psico-fisica, patrimoniali, di immagine e morali, non soltanto per la privazione della libertà, ma anche per il discredito su di lei gettato dalle notizie di cronaca che la dipingevano come una persona costantemente dedita a reati odiosi, tanto più odiosi quanto deboli ed indifese sono le vittime”, ha precisato l’avvocato. Il 1 marzo 2012 la terza sezione penale d’Appello di Genova, presidente Paolo Galizia, relatore Vincenzo Papillo, consigliere Maurizio De Matteis, ha accolto la domanda di risarcimento riconoscendo alla Baratteri la somma di 6.180 euro, oltre agli interessi e alle spese legali.
Franco Moceri. Altro che trafficante di droga, doveva solo costruire un muro. Era rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” nel 2008. Rimasto in carcere sei mesi, era stato poi rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Un imprenditore di Mazara, Franco Moceri, rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” del 2008 ha ottenuto, da parte della Corte di appello di Palermo, un risarcimento di 41 mila euro per l’ingiusta detenzione. Moceri, dopo avere subito una lunga detenzione cautelare, nel corso della quale si era sempre proclamato innocente, era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. E questo nonostante “anche gli altri imputati, durante gli interrogatori, abbiano più volte ricordato che l’operaio era una persona estranea ai fatti”, spiega il suo avvocato, Giuseppe Pinella. Ma in appello il verdetto della corte d’assise si è capovolto: Franco Moceri fu assolto per non aver commesso il fatto e riconosciuto come “un semplice operaio a cui era stato dato l’incarico di costruire un muro proprio nel luogo in cui, mesi dopo, sarebbero state sequestrate le piantagioni-bunker di cannabis”, dice ancora l’avvocato Pinella. Che immediatamente aveva presentato una richiesta di risarcimento danni collegata all’ingiusta detenzione (6 mesi in carcere) subita dal suo assistito. Ora, a risarcimento ottenuto, l’avvocato Pinella attacca: “Questo risarcimento è comunque inadeguato, pur essendo un ristoro per la carcerazione subita ingiustamente, perché certamente non potrà elidere il pregiudizio che si è formato a carico di Moceri, il quale da quella data non ha quasi più lavorato a causa del grave pregiudizio che la notizia del suo arresto e della lunga detenzione gli ha causato”. L’operazione “El Dorado” risale al febbraio 2008, quando i carabinieri di Trapani insieme alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, arrestarono dodici persone con l’accusa di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’organizzazione criminale, operante tra Mazara, Campobello, Marsala e Petrosino, avrebbe goduto del sostegno di indiziati mafiosi imparentanti con boss di Cosa Nostra. Gli affiliati avevano inizialmente aperto dei canali di traffico di cocaina con la Spagna e il Marocco e, in seguito, avevano avviato la produzione di due piantagioni di cannabis, nelle campagne di Mazara del Vallo, per un totale di oltre 2 mila piante destinate a produrre più di 120 milioni di dosi. L’operazione portò alla condanna di 112 anni di carcere per nove persone. (fonte: il Giornale di Sicilia, 26 gennaio 2013).
Salvatore Ramella. Una vita devastata. E i giudici aumentano il risarcimento. Quanto valgono nove giorni in carcere da innocente? Quale risarcimento per ingiusta detenzione potrà mai soddisfare la vittima di un errore giudiziario grossolano, che sconvolge una vita in tutti i suoi aspetti: lavorativi, personali, privati? Stando ai parametri ufficiali previsti dalla legge, poco più di duemila euro dovrebbero rappresentare il giusto indennizzo per un dramma così grande come quello di finire in prigione senza colpa per più di una settimana. Ma talvolta anche i giudici capiscono che è il caso di andare oltre le fredde tabelle che impongono i parametri di calcolo della riparazione per ingiusta detenzione. E si rendono conto che è il caso di aumentare l’importo, perché pur nella consapevolezza che nessuna somma potrà mai risarcire una tragedia come questa, c’è un limite a tutto. E’ quello che è accaduto a Salvatore Ramella, funzionario di banca coinvolto in una storia di riciclaggio con cui non aveva nulla a che fare. In questo articolo, la sua storia. Il puro calcolo matematico per i nove giorni passati in carcere ingiustamente porterebbe a liquidare come indennizzo per l’ingiusta detenzione 2.122 euro, più 38 centesimi. Ma i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria chiamati a pronunciarsi sull’istanza di risarcimento presentata dal funzionario di banca Salvatore Ramella, prima indagato e poi pienamente scagionato nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”, nei giorni scorsi hanno deciso di innalzare l’entità del risarcimento a 15 mila euro. Ramella, che in questa vicenda è stato assistito dall’avvocato Bonaventura Candido, all’epoca quando scattò il blitz – siamo nel maggio del 2005 –, era direttore di una filiale della banca Unicredit e per nove giorni fu ristretto in carcere; successivamente lo stesso gip dispose la misura meno afflittiva dell’obbligo di dimora, e pochi giorni dopo il Tribunale del Riesame ne dispose la liberazione totale con annullamento dell’ordinanza di custodia in quanto «non sorrette le accuse di riciclaggio dal requisito della gravità indiziaria». E si arrivò fino all’ottobre del 2007 con l’archiviazione dell’inchiesta disposta dal gip di Reggio Calabria. Eppure, dopo l’arresto, il funzionario di banca, fino a quel momento con un posto di alta responsabilità nell’ambito del suo istituto di credito, fu sospeso cautelativamente dal datore di lavoro dal 12 maggio al 5 settembre del 2005, successivamente fu trasferito in una sede bancaria a Roma presso il Servizio crediti della Direzione regionale Centro Sud. I giudici d’appello nell’argomentare la decisione con cui hanno stabilito di concedere un indennizzo molto più alto rispetto al “freddo” calcolo matematico da effettuare in questi casi, scrivono che «…nella liquidazione dell’indennizzo, il giudice deve procedere in via equitativa, essendogli riconosciuta – entro i confini della ragionevolezza e coerenza –, ampia libertà di apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, avendo riguardo non solo alla durata della custodia cautelare ma anche e non marginalmente alle concrete conseguenze sociali, personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà».
E i giudici della Corte d’appello hanno riconosciuto che la vita di Ramella fu letteralmente “devastata” da questa vicenda. (fonte: Enrico Di Giacomo, Stampalibera.it, 14 gennaio 2011).
Salvatore Grasso. Undici anni in carcere per omicidio. Ma quel giorno lui era a centinaia di chilometri. Undici anni passati in carcere da innocente, fino all’arrivo di una lettera che lo scagiona da un omicidio mai compiuto. Ora Salvatore Grasso, 53 anni, è tornato a Giarre, il paese in provincia di Catania dove vive l’anziana madre. Ma nel frattempo ha perduto tutto: due figli, il lavoro, tutti i suoi progetti, i soldi che aveva messo da parte come agente immobiliare. “Ti chiedo scusa per non aver parlato prima ma tu e Iuculano siete innocenti ed io ora sono pronto a dirlo ai giudici”. Poche righe scritte di pugno da Agatino Di Bella, detenuto nel carcere di Porto Azzurro e reo confesso dell’omicidio di Salvatore Calì, siciliano emigrato in Germania, sono state decisive per la scarcerazione di Salvatore Grasso. “Quella busta è arrivata come un fulmine a ciel sereno – racconta l’uomo – ed è stata decisiva per la fine del mio incubo”. E’ un uomo provato Salvatore Grasso, dai problemi di salute, dall’ingiusta detenzione e dal travagliato iter giudiziario che va avanti dall’agosto dell’86, quando Salvatore Calì, un siciliano emigrato come lui in Germania viene misteriosamente ucciso in un boschetto alla porte di Haltberg. Dell’omicidio viene accusato, oltre a Grasso, un altro suo amico, Francesco Iuculano Cunga, anche lui condannato per omicidio dalla corte d’assise di Catania. Grasso, che si costituisce una prima volta in Francia, inutilmente cerca di dimostrare la sua innocenza. Così trascorre tre anni in carcere, fino al ’90 quando viene prosciolto in appello e torna in libertà. Un anno dopo però la corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza ed il nuovo verdetto, che lo condanna a 26 anni, gli fa crollare il mondo addosso. Per 5 anni Salvatore Grasso vive da latitante. “Certo – dice – avrei potuto restare dov’ero, probabilmente non avrei avuto problemi, ma non mi davo per vinto e poi, come si fa a difendersi se si è lontani?”. Nel giro di qualche mese Grasso perde i due figli, uno dei quali scompare in circostanze tragiche. “Nessuno potrà mai cancellare il sospetto terribile che su quella morte – ricorda con un filo di voce l’uomo – non pesi anche la mia tragedia personale, una vicenda che i miei figli vivevano come una macchia terribile che non si è fatto in tempo a cancellare…”. L’ emozione più grande, tanto intensa da essersi tradotta in un malore, è arrivata l’altro ieri quando Salvatore Grasso è stato convocato dal direttore del carcere di Brucoli. “Mi ha chiesto come mi sentissi – racconta Grasso – e poi mi ha dato un foglio su cui c’era scritto “Provvisoria sospensione dell’esecuzione della pena in attesa della revisione del processo”. Ho avuto bisogno di sedermi, poi mi sono sentito male e sono stato portato in infermeria”. E’ stata la corte d’assise d’appello di Messina, che a fine mese pronuncerà la sentenza al processo di revisione chiesto da Grasso, a disporre la sua scarcerazione. Oltre alla lettera inviata dal vero assassino, agli atti del processo c’è ora anche la testimonianza di un uomo che aveva telefonato a Grasso poco prima che venisse ucciso Salvatore Calì e che afferma che Grasso si trovava a centinaia di chilometri di distanza dal luogo dell’omicidio. (fonte: Michela Giuffrida, la Repubblica, 3 febbraio 2005).
Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.
Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;
Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;
Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;
Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;
Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;
Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;
Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;
Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;
Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;
Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;
Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;
Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;
Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;
Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;
Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;
Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti
(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015
Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015)
Non li uccise la morte ma due guardie bigotte. Aldrovandi, Bianzino, Sandri, Uva, Cucchi...scrive di Davide Falcioni venerdì 22 giugno 2012. "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". Fabrizio De André - Un Blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971). Per cercare l'anima a Federico Aldrovandi ci si misero in 4. Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto. Quattro poliziotti. C'era chi teneva e chi picchiava. Chi picchiava lo fece talmente forte che due manganelli si spezzarono sul corpo di Federico, che ostinatamente resisteva a quelle sferzate e tentava di ribellarsi, finché non venne immobilizzato. Morì verso l'alba per asfissia da posizione, con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Successivamente i quattro poliziotti descrissero Federico come un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Da ieri quello che per anni è stato chiamato "Caso Aldrovandi" potrà essere chiamato "omicidio Aldrovandi". La Corte di Cassazione di Roma ha confermato le condanne a 3 anni e 6 mesi di reclusione a Pollastri, Pontani, Forlani e Segatto, responsabili di omicidio colposo per aver ecceduto nell'uso della forza. La vita di un ragazzo di 18 anni vale 3 anni e 6 mesi di reclusione. Comprensibilmente in molti hanno giudicato la pena troppo tenera, ma va considerata anche la verità storica che finalmente è stata definita. Una sentenza stabilisce che un ragazzo è stato ammazzato da alcuni poliziotti. Per un paese come l'Italia, dove queste cose vengono spesso occultate, è un fatto importante. Ma il caso di Federico Aldrovandi non è isolato. Come documentato dall'Osservatorio Repressione dal 1945 sono decine i cittadini uccisi per mano delle forze dell'ordine, che spesso hanno represso nel sangue manifestazioni di protesta. Senza considerare la repressione giudiziaria: oltre 15mila sono i denunciati dai fatti del G8 di Genova ad oggi: un tentativo, evidentemente, di trasformare lotte politiche in fatti di comune delinquenza. Per ragioni di spazio ci concentreremo sugli uomini morti a seguito di un fermo di polizia. Se siano stati uccisi, o se la morte sia sopraggiunta per altre ragioni, a noi non è dato saperlo con certezza. Nel caso di Aldrovandi possiamo, sentenza alla mano, parlare di omicidio: la stessa cosa non si può dire (almeno, non con rigore giornalistico) per altre situazioni che però destano preoccupazione, tra tentativi di depistaggio e insabbiamenti. Sempre per ragioni di sintesi, partiremo da Genova 2001, dai giorni torridi del luglio di 11 anni fa che videro la morte del giovane Carlo Giuliani. Carlo aveva 23 anni. Manifestava, insieme a migliaia di compagni, all'assemblea del G8 di Genova, in una città blindata e ferita da disordini e scontri continui. Carlo morì a Piazza Alimonda, ucciso da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava all'interno di un Land Rover di servizio. Carlo venne colpito subito dopo aver afferrato da terra un estintore. Una ricostruzione affidabile della vicenda, con immagini da punti di vista differenti, è stata effettuata da Lucarelli nella trasmissione Blu Notte. Dopo aver esploso il colpo, diretto allo zigomi di Giuliani, il mezzo dei Carabinieri passò ben due volte sul corpo del ragazzo. Il carabiniere Placanica è stato prosciolto dall'accusa di omicidio colposo: avrebbe sparato, secondo i giudici, per legittima difesa. L'11 luglio del 2003 all'interno del carcere Le Sugheri di Livorno venne ritrovato il corpo di Marcello Lonzi, 29 anni, in un lago di sangue. Secondo la giustizia italiana il ragazzo sarebbe morto per cause naturali (il caso è stato archiviato) ma le foto del carcere e all'obitorio mostrerebbero chiarissimi segni di pestaggio. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, ha condotto per anni una battaglia per la verità sulla morte del figlio. Riccardo Rasman morì il 27 ottobre del 2006 a Trieste. Nella sua casa di via Grego fecero irruzione le forze dell'ordine. Il ragazzo, affetto da sindrome schizofrenica paranoide, dovuta a episodi di nonnismo subìti durante il servizio militare, era in uno stato di particolare felicità: il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare come operatore ecologico. Ascoltava musica ad alto volume, lanciando un paio di petardi dal balcone. Qualcuno chiamò il 113 denunciando il baccano, arrivarono due volanti, gli agenti entrarono a casa dell'uomo, lo immobilizzarono e ammanettarono a seguito di una colluttazione. Come per Aldrovandi, Riccardo Rasman sarebbe morto per asfissia: benché fosse ancora ammanettato i poliziotti continuarono a schiacchiargli la schiena impedendogli la respirazione. Il 14 ottobre del 2007 fu la volta di Aldo Bianzino, falegname, in una cella del carcere di Perugia. Venne arrestato due giorni prima insieme alla compagna per coltivazione e detenzione di piantine di canapa indiana. Aldo era in buona salute: morì, ufficialmente, per cause naturali (a seguito di una malattia cardiaca). Una perizia medico legale effettuata dal dottor Lalli e richiesta dalla famiglia rivelerà, invece, la presenza di 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Ne seguì un processo conclusosi con l'archiviazione ma, grazie all'insistenza di amici e familiari e all'apertura di un blog, negli ultimi mesi si sta tentando di riaprire le indagini. Neanche un mese dopo, l'11 ottobre 2007, nell'autogrill di Badia al Pino verrà ucciso Gabriele Sandri, tifoso della Lazio. Ad ammazzarlo un colpo di pistola esploso dall'agente di polizia Luigi Spaccarotella, che in quel momento si trovava dall'altra parte della carreggiata. Il poliziotto verrà condannato in tutti e tre i gradi di giudizio per omicidio volontario. Giuseppe Uva morirà il 15 giugno del 2008. Venne fermato dai Carabinieri insieme ad un amico, che raccontò: “Avevamo bevuto. Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portarono via, li misero in due stanze diverse. L'amico sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo. La sorella Lucia disse: "Era pieno di lividi. Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”. “Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”. Venne violentato? Il 24 giugno del 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano (Firenze). Era stato arrestato a seguito di un'indagine su una società di San Marino responsabile di una truffa informatica. Venne trovato impiccato a un laccio nel bagno del carcere. Tutto avrebbe fatto pensare a un suicidio, ma la mamma di Niki non ci sta e, ancora una volta, scrive su un blog: "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona. Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento". Il 25 luglio del 2008 muore nel carcere Marassi di Genova Manuel Eliantonio, 22 anni. Era stato in discoteca e, a seguito di un controllo di Polizia, gli rilevarono tracce di alcol e stupefacenti. Per questo venne fermano, tentò la fuga ma venne acciuffato e incarcerato. Dopo sette mesi de detenzione per resistenza a pubblico ufficiale e a meno di un mese dal rilascio muore. L'autopsia parla di intossicazione da butano ma non spiega i lividi sul suo corpo. Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo del 2009, a soli 19 anni. Era stato arrestato per aver fatto il palo in una rapina. Tre giorni dopo aver varcato il portone del carcere di Piazza Lanza si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda. Così è stato scritto nella relazione di servizio e questo ha confermato anche il gip Alfredo Gari che ha già respinto una prima richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla famiglia del ragazzo. Ma la madre Grazia La Venia non ci sta: "Mio figlio non può essersi suicidato, non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi". Al suo fianco ora si schiera l’associazione Antigone, che ha denunciato: "Nel corso delle indagini preliminari non è stato disposto il sequestro della cella, né del lenzuolo con il quale Castro si sarebbe impiccato a questo, si aggiunga che non è stato sentito nessuno del personale di polizia penitenziaria intervenuto, né il detenuto che avrebbe portato il pranzo a Castro e che sarebbe l’ultima persona ad averlo visto ancora da vivo". Il 21 luglio del 2009, Stefano Frapporti, operaio di 48 anni, sta tornando da lavoro in sella alla sua bicicletta quando viene fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella. Ufficialmente morirà suicida, ma tra gli amici da anni è in vigore una battaglia per chiedere chiarezza. Il 58enne Franco Mastrogiovanni morirà il 4 agosto del 2009 dopo 4 giorni di trattamento sanitario obbligatorio e dopo essere rimasto legato più di 80 ore a un lettino, alimentato solo di flebo e sedato con farmaci antipsicotici. Il video della sua agonia fece il giro del mondo. Tutti conoscono la storia di Stefano Cucchi, geometra di 31 anni morto nel reparto carcerario dell'Ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Stefano era accusato di detenzione di stupefacenti. Morì di edema polmonare dopo 8 giorni di agonia, nei quali perse 7 chili. Sul suo corpo, le cui foto sconvolsero l'Italia, venne rilevata una vertebra fratturata, la rottura del coccige, sangue nello stomaco e altri traumi sparsi ovunque. Gli agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace. E la lista potrebbe essere ancora lunga, se contenesse anche i nomi dei detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi anni, spesso a causa delle condizioni disumane in cui versano le carceri. La soluzione del caso Aldrovandi dovrebbe indurre a far chiarezza anche su tutti gli altri. Verso i quali, come abbiamo visto, troppo spesso è prevalsa la superficialità di giudizio quando non un assurdo spirito cameratesco. Si ringrazia l'Osservatorio sulla Repressione.
Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane. Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile», scrive Carmine Gazzanni il 20 Aprile 2016 su “L’Inchiesta”. Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall'accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall'accusa di aver seviziato l'operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. «Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita». Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.
ONESTA’ E DISONESTA’.
1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)
2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)
3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)
4. Il socialista più elegante? Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!
5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse". "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".
6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).
7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.
8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)
9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")
10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)
11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)
12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)
13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)
14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)
15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.
16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)
17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")
18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)
19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)
20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)
21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)
22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)
23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)
24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)
25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".
26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)
27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)
28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.
29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)
30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)
31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.
32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)
34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")
35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)
36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)
37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")
38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)
39. Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.
40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")
41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!". Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")
42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)
43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)
44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)
45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)
46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)
47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")
48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)
49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)
50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.
51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)
52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)
53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)
54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)
55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)
56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)
57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)
58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)
59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.
60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)
61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)
62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)
63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)
64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)
65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)
66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.
67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)
68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)
69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)
70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)
71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.
72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)
73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)
74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")
75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")
76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")
77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")
78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette
e la poltrona sua saluta
e ogni lingua de li colleghi trema muta
che altrimenti vorrebber commentare.
Egli si va, sentendosi laudare,
per la rinuncia d’umiltà vestuta,
e par quasi fosse cosa non dovuta
ma invece scelta per obbligo morale.
Che il popolino l’onestà l’ammira,
e dà agli illusi una dolcezza al core,
chi se ne va senza aspettar altre prove.
Ma i peggiori non v’è modo li si muova,
né per decenza oppur spinti dall’onore,
che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)
79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)
80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)
81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.
82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)
83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)
84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)
85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)
86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)
87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)
88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)
Il "no" di Benedetto Croce al moralismo in politica. L'edizione nazionale dell'opera del pensatore ci restituisce i testi completi sul rapporto tra l'etica e la cosa pubblica, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/05/2016, su "Il Giornale". È curioso, ma gli italiani quando si tratta di curare malanni e malattie non chiedono un onest'uomo, sì piuttosto un buon medico, onesto o disonesto che sia, purché sappia il fatto suo e non li mandi anzitempo all'altro mondo mentre quando ci sono in ballo le cose della politica gli italiani richiedono non uomini pratici e d'azione ma onest'uomini o, almeno, così dicono. Cos'è, dunque, l'onestà politica? Se lo chiedeva in modo diretto Benedetto Croce e rispondeva in modo altrettanto diretto: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Lo scritto intitolato proprio così - L'onestà politica - è il frammento XXXVII dei Frammenti di etica che uscì in volume nel 1922 e che nel 1931 andò a comporre, insieme con altri scritti, l'importante volume Etica e Politica. Ora la casa editrice Bibliopolis, che cura l'Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, sta per mandare in libreria a cura di A. Musci proprio Etica e Politica nella edizione completa del 1931 riproducendo il testo nell'edizione ne varietur del 1945. In questo modo il lettore che segue le uscite delle opere crociane avrà modo di avere in un unico testo i quattro libri che compongono il volume: appunto, i Frammenti di etica del 1922, gli Elementi di politica del 1925, gli Aspetti morali della vita politica del 1928 e il Contributo alla critica di me stesso che uscì per la prima volta nel 1918 in cento copie stampate da Riccardo Ricciardi, l'amico editore di Croce che il filosofo chiamava con affetto Belacqua. Gli scritti raccoglievano nella maggior parte dei casi testi già pubblicati sin dal 1915 su riviste e periodici: anzitutto La Critica, e poi La Diana di Fiorina Centi, il Giornale Critico della Filosofia Italiana di Gentile, Politica di Alfredo Rocco e Francesco Coppola, gli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, i Quaderni critici di Domenico Petrini e La Parola di Zino Zini. In qualche caso anticipazioni e estratti erano già comparsi su quotidiani d'ispirazione liberale e conservatrice come Il Resto del Carlino di Tomaso Monicelli o Il Giornale d'Italia di Alberto Bergamini e Vittorio Vettori. L'origine pubblicistica dei testi ci fa aprire gli occhi sulla qualità del giornalismo italiano del secolo scorso. Ma oggi questi scritti cos'hanno da dire al lettore, son vivi o son morti? Faccia così il signor lettore, non si fidi di niente e di nessuno, neanche di questa noterella, prenda in mano il testo e si faccia un'idea sua. Qui, se è possibile, do solo un consiglio, di guardar le date e notare che gli scritti di politica - gli elementi - uscirono nel 1925 quando Croce, ormai, era passato all'opposizione di Mussolini e del fascismo, quando era finita male l'amicizia con Giovanni Gentile e in quegli scritti il filosofo della libertà marcava tutta la sua differenza rispetto alle commistioni di pensiero e azione fatte da Gentile e da Mussolini e rifiutava apertamente ogni morale governativa respingendo la sbagliata e pericolosa idea hegeliana dello Stato etico: «Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governa mentale -diceva- bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». Il pregio della posizione liberale di Croce è proprio qua: nella distinzione tra filosofia e politica, pensiero e azione; una distinzione che non solo si basava sulla qualità del giudizio storico che ha la sua virtù proprio nella distinzione ma anche sulla grande e imperitura lezione di Machiavelli che rendendo autonoma la politica rese possibile il governo liberale e il controllo dei governanti. Il liberalismo di Croce ha in sé il realismo politico e questo gli consente di non degenerare né nell'utopia né nel giusnaturalismo e di essere oggi come allora un pensatore antitotalitario che si oppose non solo al fascismo ma anche al comunismo. Tuttavia, qui giunto, vorrei dare al lettore, se mi è concesso e se non lo infastidisco, un altro consiglio non richiesto: inizi la lettura dal Contributo alla critica di me stesso, un gioiello di pensiero, umanità e letteratura. Forse, è il modo migliore non solo di avvicinarsi a quest'opera ma anche di avvicinarsi a Croce e di entrare nel suo mondo che è tutto ispirato dalla libertà umana e improntato alla sua promozione e custodia. La lezione viva che si può ricavare da Etica e Politica è quella di non cadere nelle illusioni e nei miti della politica e della vita pratica e di conservare quella necessità che insita nella vita umana: pensare la propria esistenza per non farsi eccessivamente governare dagli altri.
La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”! E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.
Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.
Una banda di ballisti. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 07/09/2016 su “Il Giornale”. Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, cadde su una bugia. Un suo successore, Bill Clinton, rischiò la stessa fine e si salvò in extremis solo perché si pentì e chiese scusa in tempo. Margaret Thatcher sull'argomento aveva un'idea più femminile: «Non si raccontano - ebbe a dire - bugie deliberatamente, diciamo che a volte bisogna essere evasivi». Virginia Raggi, neosindaco di Roma, Luigi Di Maio e tutta la banda dei Cinquestelle, travolti dallo scandalo della bugia sul fatto che nessuno sapeva che una loro assessora era indagata, sono quindi in buona compagnia. Del resto perché sorprendersi di un politico bugiardo? Machiavelli, già cinquecento anni fa, inseriva la menzogna tra le arti di cui un principe deve essere dotato se vuole ben governare. Il problema nasce quando sul malcapitato si accende il faro del sospetto, perché secondo gli esperti, per provare a coprire una bugia - esattamente come accade tra marito e moglie fedifraghi - è necessario raccontarne almeno altre sette. Che è esattamente quello che sta succedendo in queste ore nei piani alti del partito di Grillo, tra accuse e difese, sospetti e veleni incrociati. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo. E adesso si fa dura, perché, come dice un antico proverbio russo, con le bugie si può andare avanti ma mai tornare indietro. E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni. Il Cinquestelle non è il partito Bengodi, non lo è mai stato e mai lo sarà, è semplicemente una casta che sta tentando di scalzarne un'altra. Con l'aggravante dell'inesperienza e dell'incapacità che si sono dimostrate maggiori del previsto, non solo a Roma ma in tutte le città in cui sono stati messi alla prova. C'è da gioire di tutto questo? No, per niente. Milioni di italiani sono stati ingannati dal moralismo di un comico e da un gruppo di ragazzini; Virginia Raggi, se come probabile resterà in sella grazie a qualche espediente mediatico, sarà un sindaco dimezzato, bugiardo e inaffidabile. E parliamo del sindaco di Roma capitale, non so se mi spiego.
Sul web scatta la gara di sfottò: "È tutta colpa delle cavallette". Raffica di parodie su Di Maio, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/09/2016, su "Il Giornale". Dopo le case pagate ad insaputa e lauree conseguite senza saperlo, la mail letta ma non capita da Di Maio entra di diritto nella classifica delle scuse più incredibili della politica nazionale, anche perché nel breve curriculum di Di Maio figura un periodo da webmaster, difficile da svolgere se si ha difficoltà con le mail. L'ironia del web, quindi, si abbatte senza pietà sul pupillo avellinese della Casaleggio Associati, che già aveva pronti nel guardaroba i completi da presidente del Consiglio. Anche se molte tweetstar che in altri casi avrebbero fatto a pezzi il protagonista della gaffe politica, con Di Maio si astengono dall'infierire, meglio non mettersi contro i follower grillini che fanno numero. Ma se una parte dei commenti in Rete è rappresentato dai fan che seguono fedelmente la linea indicata dal direttorio (cioè: è tutta una montatura dei partiti e dei media per screditare il M5S, gli scandali sono altri), la stragrande maggioranza sono sfottó e parodie per la goffa giustificazione addotta dal vicepresidente della Camera. Che rievoca a molti lettori, ricordi e memorie dai banchi di scuola: «Ma oggi c'era interrogazione? Pensavo si facesse ripasso», «Il cane mi ha mangiato i compiti!», «La difesa del ripetente: non avevo capito, non c'ero, e se c'ero dormivo» suggeriscono tre lettori di Repubblica.it, mentre un altro propone un'interpretazione linguistica: «Lui è napoletano e la Taverna parla in romanesco stretto, dovete pur capire il poverino!». Molti twittaroli suggeriscono una integrazione alla scusa di Di Maio pubblicando il celebre monologo di John Belushi in Blues Brothers, quando deve giustificarsi di fronte all'ex ragazza che lo punta con un fucile d'assalto M16 per averla abbandonata davanti all'altare («Ero rimasto senza benzina. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»), mentre sui social network viene rimbalza una parodia evangelica: «Tutti contro Di Maio per una mail e nessuno parla dei Corinzi che non hanno mai risposto alle lettere di San Paolo. Questa è l'Italia dei poteri forti». Su Twitter esiste un account @Iddio, con 454mila follower, e anche da lì arriva l'ironia sul vicepresidente della Camera: «Nel progetto originale era previsto di fare le donne senza peli e senza cellulite, ma ho letto male l'email». Filippo Casini ha capito l'origine del complotto denunciato dai Cinque stelle: «Di Maio: Abbiamo tutti i media contro. Soprattutto Hotmail e Outlook», i provider di posta elettronica. «Ho sbagliato a leggere la mail» is the new «Mi hanno rubato l'account», twitta la Lucarelli del Fatto. Sfotte anche Pig Floyd su Twitter: «Mi è arrivata la bolletta della luce da 230. Credo che pagherò 2.30 dicendo Scusate, ho letto male». Ma poi il popolo M5S si dà la carica con Grillo a Nettuno. E anche questo ispira la presa per i fondelli sui malintesi di Di Maio: «Nettuno? Cavolo. Ma un pianeta più vicino non c'era?».
La follia di fare dell'onestà un manifesto politico. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Onestà, onestà», hanno intonato dirigenti e simpatizzanti grillini sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie all'uscita della bara di Gianroberto Casaleggio. Come ultimo saluto, una preghiera laica in linea con il dogma pentastellato che al di fuori del loro club tutto è marcio e indegno. Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione. Cari Di Maio e compagnia, smettetela con questa scemenza del partito degli onesti che fa la morale a tutti, cosa che fra l'altro porta pure male. L'onestà non è un programma politico, è una precondizione personale per affrontare la vita in un certo modo. Io voglio comportarmi onestamente, e mi piacerebbe facessero altrettanto il mio fruttivendolo, chi mi vende l'automobile, chi si occupa della mia salute, il politico che voto. Ma da loro pretendo solo una cosa: che la frutta sia buona e sana, che l'auto funzioni come mi aspettavo, che se necessario il mio medico mi salvi la vita, che la politica sia efficiente nel risolvere i miei problemi. L'onestà che viene a mancare è un problema della loro coscienza, e giudiziario se comporta la violazione delle leggi e se danneggia la comunità. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro. Anzi, a volte, vedi casi Livorno e Quarto, fanno disastri ben peggiori. Cosi come in Parlamento la strategia grillina ha prodotto tanto fumo e zero arrosto. Sarò all'antica, ma in chiesa, ai cori sull'esclusiva dell'onestà («chi è senza peccato scagli la prima pietra», diceva il Padrone di casa) preferisco ancora una preghiera.
"Noi siamo garantisti e lo siamo anche con il sindaco di Livorno raggiunto da avviso di garanzia non come gli esponenti del Movimento che sono garantisti con i loro e giustizialisti con gli altri": lo ha detto il ministro Boschi parlando nel bresciano a Desenzano del Garda il 7 maggio 2016. Boschi ha quindi aggiunto "Di Maio era a Lodi questa mattina, mi auguro che domani vada a Livorno a chiedere le dimissioni del suo sindaco". "Il 21% dei comuni amministrati dal Movimento 5 stelle - ha concluso - ha problemi con la giustizia, ma il loro grido onestà, onestà diventa omertà, omertà quando riguarda loro".
Caso Pizzarotti: il doppiopesismo che spaventa. L'ipocrisia dentro e fuori il M5S li mostra giustizialisti in pubblico, esoterici nelle “stanze delle tastiere”. Un pericolo per la democrazia, scrive Marco Ventura il 15 maggio 2016 su "Panorama". Lo aveva detto con chiarezza Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, prima della sospensione dal Movimento 5 Stelle tramite la mail anonima dello “staff” (che rimanda al direttorio M5S e, in definitiva, al clan Casaleggio): “Non è che tutti gli altri sono cattivi e noi tutti buoni. Per sistemare i problemi a volte è necessario sporcarsi le mani”. Ammissione importante. Quindi, non erano tutti cattivi i craxiani o i berlusconiani, così come non sono tutti buoni i magistrati o i 5 Stelle. Se c’è di mezzo l’amministrazione di una città, ci si può dover sporcare le mani. Ne consegue che se questo vale per Livorno, a maggior ragione deve valere per Roma o Milano. Ci si può sporcare le mani “a fin di bene”, forse. Per dare un’aggiustatina. Eppure, per degli integralisti come i 5 Stelle dovrebbe valere il principio che il fine non giustifica mai i mezzi, insomma le mani bisognerebbe non sporcarsele in nessun caso. Tanto meno bisognerebbe accusare gli altri di sporcarsele, per poi autoassolversi se si viene beccati con le mani dentro lo stesso barattolo di marmellata con l’etichetta “concorrenza in bancarotta fraudolenta” o “abuso d’ufficio”. Sembra invece che i grillini siano una razza a parte anche sotto questo aspetto. Se sono loro a finire nel mirino delle Procure (è successo nella maggioranza delle amministrazioni locali che controllano), si tratta di giustizia a orologeria, manganellate giustizialiste, “reati minori”. Vito Crimi, ex presidente dei senatori pentastellati, sembra considerare una medaglia al petto l’avviso di garanzia al compagno di partito nonché Sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, per 33 assunzioni in un’azienda sull’orlo del baratro. Si può mai esser colpevoli, chiede Crimi, di “aver evitato a 33 famiglie di finire in mezzo a una strada?”. Eppure, in altri tempi e riferita ad avversari, l’assunzione di 33 persone in un’azienda municipalizzata che sta per fallire sarebbe stata definita proprio dai 5 Stelle “clientelismo”. I due pesi e due misure riguardano non soltanto i nemici, ma i compagni di cordata. Pizzarotti è sempre stato un mezzo dissidente rispetto ai vertici del partito, Nogarin no. Quindi Pizzarotti viene sospeso e Nogarin salvato (e difeso). Ma il problema non riguarda solo i pentastellati. Riguarda tutti noi. I 5 Stelle un giorno potrebbero avere i numeri per governare. Si tratta di un movimento rivoluzionario, guidato senza trasparenza, molto simile a una setta (spesso i rivoluzionari sono strutturalmente settari). Ma quando la setta incrocia il potere, diventa un pericolo per la democrazia. La verità è che i rivoluzionari, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi momento storico, hanno dimostrato di essere poi bravissimi a adattarsi alle poltrone e nicchie di potere, e di essere mediamente peggiori dei predecessori che si sono trovati a gestire un consenso che calava. I due pesi e due misure di direttorio e clan Casaleggio contraddicono in modo eclatante la supposta trasparenza delle origini (che in realtà non c’è mai stata). I terribili scontri intestini appartengono alla peggiore tradizione del variegato socialismo e comunismo sovietico. Specchio capovolto del populismo sbandierato dai parlamentari 5 Stelle. Populisti e giustizialisti in pubblico, esoterici e incontrollabili nel chiuso di “stanze delle tastiere” che hanno sostituito le “stanze dei bottoni”.
Come il giustizialista imputato diventa garantista. L'ex comunista Cioni a Firenze. I grillini Nogarin a Livorno e Pizzarotti a Parma. Prima giacobini, poi indagati: e oggi chiedono il rispetto delle regole dello Stato di diritto, scrive il 13 maggio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". "A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono". È bellissima e illuminante l'intervista di Graziano Cioni al Foglio di oggi. Cioni, 70 anni, è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Pd toscano, assessore alla Sicurezza e alla vivibilità di Firenze: nel novembre 2008, da candidato a sindaco della città, venne travolto politicamente e umanamente da un'inchiesta e poi da un processo per corruzione per un progetto urbanistico sull'area fiorentina di Castello. Quell'inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d'inferno. Oggi dice ad Annalisa Chirico, che lo intervista: "Io ero un giustizialista convinto. Che puttanata. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie? la presunzione d'innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione". Cioni ricorda il famoso discorso di Bettino Craxi: quello del luglio 1992, in piena Tangentopoli, quando in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti i segretari di partito, dichiarando "spergiuro" chi avesse negato un finanziamento illecito. "Io ero un anticraxiano di ferro" dice oggi Cioni. "Votai per l'autorizzazione a procedere. Oggi non lo rifarei. Pensavo che Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi". Oggi che cosa dice Cioni della giustizia? "Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L'assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?". È un uomo folgorato sulla via di un processo. Induce sincera compassione umana, Graziano Cioni. La vita con lui è stata durissima e crudele, non soltanto dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e paradossale, e intimamente giusto, scuote l'animo. Anche perché ormai incarna in sé gli echi di una sconcertante regolarità. Perché, esattamente come lui, proprio in questo periodo approdano alla sponda garantista tanti ex giustizialisti. Sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto saltano loro i nervi, diventano fragili, soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario. Filippo Nogarin, sindaco grillino di Livorno, e Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 stelle cui appartengono. Non si dimettono, dopo che il mantra grillino per anni è stato: "Fuori dallo Stato ogni indagato". Attenzione: qui nessuno s'indigna. Ed è in buona misura scorretto fare quel che fanno certi esponenti del Pd, che gridano strumentalmente allo scandalo per il cambio di fronte degli avversari grillini. Non pare corretta nemmeno la rivalsa di chi, nel centrodestra, osserva tacendo: come se fosse una consolazione, perché "ora tocca a loro". No, qui non si tratta nemmeno di contestare una doppia morale, o il doppiopesismo. Chi crede di avere davvero nel sangue il rispetto delle regole dello Stato di diritto, in realtà, si stupisce soltanto che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l'errore è umano, e che anche l'errore giudiziario lo è. E pertanto che non c'è alcuna certezza, né una Verità assoluta e insindacabile. Né in una chiesa, né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale. Il problema è che non si può attendere di subire un'esperienza giudiziaria per comprendere che la presunzione d'innocenza va davvero utilizzata come una regola superiore, stellare. Che l'arresto in carcere deve essere l'ultima istanza, davvero. Che i giornali non possono devastare l'immagine di una persona. Possono porre problemi, ma non dare certezze. Quelle le ha soltanto Dio, se esiste. Il problema è che il circuito mediatico-giudiziario, un unicum vergognoso, da Paese sottosviluppato, è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato. Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico (con la sua intervista anche Cioni lo conferma, esplicitamente). Ma di calcoli politici si può anche soccombere.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
Giustizia, 13 anni per arrivare in appello. Ex procuratore capo, cancelliere e altri 9 imputati prescritti. Gli imputati erano accusati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo, Alfredo Ormani, scrive Vincenzo Iurillo il 6 maggio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Ci volevano 13 anni per far estinguere i reati di cui erano accusati i principali imputati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, secondo l’accusa, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo. Ci volevano 13 anni eppure è successo: il colpo di spugna della prescrizione ha cancellato in appello le condanne a sei e cinque anni in primo grado dell’ex capo della Procura di Torre Annunziata Alfredo Ormanni e dell’ex supercancelliere Domenico Vernola. Entrambi erano alla sbarra a Roma – competente quando è implicato un magistrato del napoletano – in un processo con 21 imputati per reati che spaziavano dall’associazione a delinquere al peculato, falso e riciclaggio. La Corte d’Appello ha sentenziato 11 prescrizioni, 8 condanne per riciclaggio e 2 assoluzioni nel merito. Colpa dei tempi biblici di un processo di primo grado durante il quale il collegio giudicante è cambiato dieci volte. Spiega un avvocato: “Anche le accuse di riciclaggio aggravato dovrebbero prescriversi tra un mese, non faranno nemmeno in tempo a depositare le motivazioni: i giudici si sono presi 90 giorni di tempo per redigerle”. Basterà presentare un ricorso in Cassazione, e la prescrizione scatterà anche per molti dei condannati in appello. E così tanti saluti alle responsabilità penali di uno dei più colossali scandali della provincia napoletana del decennio scorso. Esplose violentissimo nel 2004, al termine di una ispezione ministeriale, che contestò a Vernola un giro fraudolento di rimborsi per spese di giustizia. Il cancelliere fu sospeso e allontanato, si aprì una indagine che coinvolse il procuratore Ormanni, firmatario di centinaia di mandati di pagamenti ritenuti fasulli, e i parenti di Vernola, sospettati di essersi fatti girare i soldi raccolti dal cancelliere tramite finti ‘mandati a se stesso’ per trasformarli in auto, case e beni di lusso. Nel mirino le spese di giustizia di alcune importanti indagini di Torre Annunziata: così finiscono sotto inchiesta a Roma anche alcuni esponenti delle forze di polizia giudiziaria che materialmente le condussero, presentando note spese ritenute anch’esse finte o gonfiate. Il Gup decreta il rinvio a giudizio il 25 maggio 2006. Ma il processo parte al rallentatore perché il collegio giudicante cambia in continuazione. Ed ogni volta si riparte da capo. Udienze celebrate solo per fissare rinvii. Senza istruttorie. Senza testimonianze. Un processo fermo. Partito in pratica solo nel 2012, quando finalmente il collegio si stabilizza. Quindi due anni di udienze per la sentenza di primo grado. E due per la fissazione dell’appello. Tempi normali, sui quali però ha pesato il lungo stop iniziale. Allora si stagliano come due eroi gli unici imputati che hanno rinunciato alla prescrizione per ottenere un’assoluzione piena. Si chiamano Emilia Salomone e Sergio Profeta, rispettivamente cancelliere a Torre Annunziata ed ispettore di polizia del commissariato di Sorrento. Assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Giuseppe Ferraro, il cancelliere e il poliziotto erano stati condannati in primo grado e licenziati in tronco. Ora avranno diritto al reintegro e alle spettanze perse. Gli anni smarriti nel lungo tunnel della giustizia, quelli no: sono persi per sempre.
Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:
1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!
2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge. Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.
3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.
Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!
Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)
Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.
Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!
Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.
“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.
Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma. Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia. 18 ottobre 2015
LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.
Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…
"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.
Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?
«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».
E questo nome, Il dubbio?
«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».
Sarà un nuovo Garantista?
«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».
Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.
«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».
Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?
«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».
Serve la famosa riforma.
«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».
In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.
«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».
Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio": "Non è un giornale contro i magistrati ma contro il giustizialismo e per i diritti", scrive Laura Eduati su L'Huffington Post il 07/04/2016. Un giornale garantista e battagliero in difesa dei diritti, senza padroni politici. Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio", il quotidiano che ha come editrice unica la Fondazione dell'Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che sarà in edicola e online dal 12 aprile. "Saremo la testata di riferimento per coloro che vorranno comprendere le ragioni della difesa e non soltanto quelle dell'accusa, ma non per questo saremo ossessionati dalla perfidia dei magistrati. Tanto è vero che ho invitato all'inaugurazione anche il procuratore Pignatone", spiega un po' scherzosamente l'ex cronista politico dell'Unità, già direttore di Liberazione, di Calabria Ora e del Garantista con la parentesi del settimanale Gli Altri. La squadra dei giornalisti è pronta. Le firme del politico e della cronaca giudiziaria comprendono l'ex notista storico del Messaggero Carlo Fusi, Davide Varì (ex vicedirettore di Calabria Ora) ed Enrico Novi (Indipendente, Liberal). Per il momento non esiste un vicedirettore, il ruolo di caporedattore centrale è affidato ad Angela Azzaro che dai tempi di Liberazione fa parte dei cronisti di fiducia di Sansonetti. Sono già 45mila gli abbonamenti attivati dagli avvocati in tutta Italia. Dodici le città dove sarà possibile trovare la versione cartacea: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Venezia, Bologna, Bari, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona. Un progetto ambizioso: 16 pagine a colori e un contenuto generalista che troverà nella politica e nella giustizia l'osso da mordere. L'obiettivo, spiega Sansonetti, non è tanto criticare l'operato della magistratura quanto "mettere in discussione la mentalità di un'Italia giustizialista che ritiene l'indagato immediatamente colpevole, trova giusta la pubblicazione delle intercettazioni private di Federica Guidi e scende in piazza per manifestare contro i giudici che hanno assolto i geologi processati per il terremoto dell'Aquila". "Perché agli italiani piacciono i processi di piazza", argomenta, "ma dimenticano che dei 4500 politici indagati per Tangentopoli ne sono stati condannati 800: moltissimi, anzi, troppi. Dobbiamo ricordare però che gli altri 3700 sono innocenti". C'è un altro esempio che Sansonetti ama citare per spiegare il clima contro il quale vorrebbe scrivere e fare cultura: il processo Cucchi. Gli agenti della polizia penitenziaria assolti in Cassazione eppure per anni additati come colpevoli: "Ora sono sotto inchiesta dei carabinieri per pestaggio. E' evidente che qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti". "La colpa di questa mentalità è più dei giornali che dei pubblici ministeri", osserva Sansonetti. "Il numero delle assoluzioni in realtà è altissimo e sono sicuro che molti magistrati la pensano come noi". A proposito della percezione che in realtà la macchina della giustizia sia lenta e non vi sia la certezza della pena, il direttore del "Dubbio" si trova quasi d'accordo ma con una precisazione statistica che rovescia in parte la credenza popolare: "Spesso si dice che per colpa della prescrizione i colpevoli non sono condannati. La verità è che il 70% delle prescrizioni avviene durante le indagini preliminari perciò non possiamo addossare la colpa della mancanza di giustizia agli avvocati, come se facessero di tutto per allungare i tempi". Da anni la battaglia di Sansonetti si concentra sulle storture dei processi. Non a caso il suo nuovo quotidiano prende il nome dall'articolo del codice penale secondo il quale il giudice deve condannare se ritiene l'imputato colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". Purtroppo, osserva, le condanne arrivano anche quando questo dubbio esiste ed è fondato: "Prendiamo Alberto Stasi. Il fatto che fosse stato assolto due volte doveva scalfire la certezza della sua colpevolezza. E invece si trova in prigione dopo l'ultimo passo alla Cassazione". Perché il pallino è la riforma della giustizia: "Sarei per eliminare l'appello se in primo grado ti assolvono. E naturalmente per la riforma delle carriere e in generale uno sveltimento dei procedimenti giudiziari per evitare di celebrare un processo anche otto anni dopo il fatto". Ma il governo è "timoroso": "Purtroppo nessuno è riuscito a far passare questa riforma e penso che nemmeno Andrea Orlando ce la farà, il potere della magistratura è ancora troppo forte. Matteo Renzi è un garantista timoroso. Ricordiamoci che è probabilmente il primo premier a non godere dell'immunità parlamentare, ciò significa che potrebbero arrestarlo senza passare dal Parlamento". Dopo la politica e la giustizia, "Il Dubbio" avrà una seconda missione: i diritti. "La nostra idea è che i diritti sociali e civili non possono essere influenzati dal mercato". A chi pensa che Sansonetti stia tornando al suo alveo politico originario (il Pci), arriva immediata la precisazione: "Il Dubbio non sarà un quotidiano anti-mercato, così come nemmeno io lo sono. Ma il mercato non può governare la società, a meno che non si vogliano schiacciare i diritti fondamentali e quelli acquisiti negli ultimi decenni in Occidente".
Poi ci sono i media giustizialisti che i garantisti non li possono sopportare ed ogni occasione è buona per infangare la loro reputazione.
Il Garantista, giornale di Sansonetti già in crisi. “Da cinque mesi non paga stipendi”. In un comunicato l'assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno annunciato lo sciopero delle firme, scattato il primo aprile contro la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti”, rappresentata dall'imprenditore Andrea Cuzzocrea, che edita il quotidiano nato appena nove mesi fa, scrive Lucio Musolino il 6 aprile 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Neanche un anno ed è già crisi per il quotidiano calabrese Cronache del Garantista. Da alcuni giorni è sciopero delle firme per i giornalisti assunti che lamentano 5 mesi di stipendio arretrato. Mentre i collaboratori esterni non vengono pagati da novembre, quando hanno ricevuto l’unico compenso dal giorno in cui il Garantista è in edicola. La protesta è scattata il primo aprile quando l’assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno fatto pubblicare un comunicato sindacale contro chi amministra la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti” che edita il giornale diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di Calabria Ora, il quotidiano fallito dopo la “storia dei cinghiali” e le pressioni subite da direttore Luciano Regolo, ma soprattutto dopo una bancarotta fraudolenta per la quale l’editore Piero Citrigno sarà presto processato davanti al tribunale di Cosenza. Giornali che falliscono, editori che non pagano e giornalisti costretti a prostituire la loro firma per miseri stipendi che poi non riescono a recuperare neanche se si rivolgono ai giudici del lavoro. È la storia della stampa calabrese che, da quasi 10 anni a questa parte, fa i conti con giornali in crisi che ricorrono ad ammortizzatori sociali, che licenziano senza preavviso o che costringono i loro giornalisti a firmare contratti capestri puntualmente denunciati dal sindacato Fnsi. Ritornando al Garantista, che ha debuttato lo scorso 18 giugno, i giornalisti assunti dopo essersi visti congelare le spettanze di novembre, dicembre, tredicesima mensilità e gennaio, per mancanza di liquidità, avrebbero dovuto ricevere quelle di febbraio e marzo grazie alla sottoscrizione del contratto di solidarietà difensiva nella misura del 40 per cento della riduzione dell’orario di lavoro. In questo modo sarebbe stato scongiurato il licenziamento collettivo di 23 lavoratori dichiarati in esubero su un organico di 57. Così non è stato. La Cooperativa, rappresentata dall’imprenditore Andrea Cuzzocrea (che è anche presidente di Confindustria Reggio Calabria) non ha pagato gli stipendi. D’altronde, il segretario regionale del sindacato Fnsi Carlo Parisi, prima dell’uscita del Garantista aveva espresso le sue perplessità sul progetto editoriale. Parisi, infatti, si dice “fortemente preoccupato dal precipitare degli eventi in una realtà editoriale nei confronti della quale, purtroppo, ancor prima del debutto, il sindacato dei giornalisti è stato facile profeta esprimendo serie riserve in materia di sostenibilità dell’impresa”. Anche il contratto di solidarietà non sta salvando il giornale di Sansonetti. “L’applicazione dell’ammortizzatore sociale – spiega ancora il segretario del sindacato – si è rivelata insufficiente a fronteggiare la crisi del giornale che, il 16 gennaio, aveva indotto la cooperativa ad avviare la procedura di licenziamento collettivo per riduzione di personale per 19 giornalisti dei 49 assunti con contratto nazionale Fnsi-Fieg e 4 poligrafici su 8. Dopo un mese di incontri e trattative la vertenza sembrava chiusa. Ma i giornalisti del “Garantista” hanno dovuto amaramente constatare che nulla è cambiato”. Da mesi circolano voci di nuovi soci in grado di mettere soldi freschi per scongiurare il blocco del giornale. Soci che non ci sono mentre quelli vecchi non intendono ricapitalizzare la cooperativa. Per descrivere il Garantista, infine, il sindacato ricorda le parole utilizzate dallo stesso Sansonetti in occasione della presentazione avvenuta a Roma, sul Tevere, a bordo del Barcone della Romana Nuoto: “Un’impresa folle e temeraria”. Il senso però è diverso per Parisi. Se da una parte in Calabria, per quanto riguarda le vendite, ilGarantista è riuscito ad avere “apprezzabili risconti con le circa 3500 copie in edicola, non è riuscito a raggiungere gli obiettivi anche minimi, di vendita e distribuzione, soprattutto a livello nazionale”. Già, perché il Garantista è un giornale nazionale, ma fuori dalla Calabria il quotidiano diretto da Sansonetti non supera qualche centinaio di copie pur avendo una redazione a Roma con costi esorbitanti che oggi rischiano di fare affondare il progetto editoriale.
Piero Sansonetti, nuovo giornale edito da fondazione Avvocatura. Ma i legali si spaccano e scrivono a Orlando. E' battaglia nella categoria sul nuovo quotidiano. Edito da una srl della Fai, la fondazione dell'Avvocatura. E avversato dall'Associazione nazionale forense. Che contesta opportunità e legittimità della pubblicazione. Scrivendo anche al ministro Orlando: "Faccia rispettare la legge", scrive Ilaria Proietti l'11 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Se si farà largo nelle edicole è presto per dirlo. Sicuramente si è già fatto strada tra i membri autorevoli dell’avvocatura italiana e in particolare dell’Anf, l’associazione guidata da Luigi Pansini, tra le più rappresentative degli avvocati. I quali, presi dal dubbio, il nome del nuovo quotidiano che il Consiglio nazionale forense (Cnf) sta tenendo a battesimo e da domani in edicola, si sono rivolti (vedere immagini in basso), con grande preoccupazione, prima al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. E, poi, direttamente all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). Chiedendo di essere ascoltati con urgenza e stoppare l’iniziativa. A creare così tanti problemi agli avvocati dell’Anf, è l’uscita della nuova testata ‘Il Dubbio’, diretta da Piero Sansonetti e patrocinata come editore dalla srl Edizioni Diritto e Ragione (Edr), società partecipata al 100 per cento dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana (Fai), ente costituito dal Cnf per la “promozione” e “l’aggiornamento della cultura giuridica e forense”, la “valorizzazione dell’avvocatura” e la “divulgazione dei diritti di difesa della persona”. Ma non solo. Può anche “pubblicare, diffondere e commercializzare articoli, riviste, giornali e dispense”. Ma non certo, almeno questa è la linea degli avvocati che sono sul piede di guerra, “un giornale di informazione, di discussione e di cultura”, “capace di informare su tutti gli argomenti di politica, di esteri, di cronaca, di spettacoli e di cultura”. E con l’ambizione di essere “competitivo su questi terreni con gli altri quotidiani” nelle “edicole delle principali città italiane”, come è stato spiegato dal presidente del Cnf Andrea Mascherin, che è anche presidente di Fai. Insomma un quotidiano generalista, ma soprattutto, fanno capire gli interessati, un giornale a carico delle casse degli stessi avvocati. Un’iniziativa ad alto rischio, che non solo non sarebbe in linea con i compiti che spettano al Fai per conto del Cnf, ma che starebbe già provocando guasti nel bilancio della categoria. Con un disavanzo preventivato per il2016 di quasi 1,6 milioni di euro. Da qui l’accorato grido di allarme che potrebbe stroncare sul nascere le ambizione del direttore designato Sansonetti. Rivolto dapprima il 10 febbraio scorso all’indirizzo del ministro Orlando, nella sua qualità “di soggetto preposto alla vigilanza sul Consiglio nazionale forense e sugli ordini circondariali”. E nel quale si sottolinea la necessità di “riflettere sull’opportunità e forse anche sulla legittimità dell’iniziativa editoriale del Consiglio nazionale forense”. Chiedendo poi “al ministro vigilante se un ente istituzionale, per di più con funzioni giurisdizionali e con sede presso il ministero della Giustizia, possa assumere, sia pure tramite una delle tante fondazioni facente capo al Cnf, l’iniziativa editoriale annunciata”. E auspicando da parte del Guardasigilli un “Suo intervento diretto al richiamo del rispetto della legge e delle funzioni istituzionali da parte del Cnf”, nonché a “ristabilire compiti e ruoli alla stregua della legge ordinamentale forense”. Da Orlando nessuna risposta. Almeno sinora. E da qui l’ulteriore iniziativa dell’Anf rivolta all’Agcom. Di cui si chiede l’intervento. All’Autorità Pansini chiede di essere ascoltato al più presto. E che soprattutto l’Agcom si attivi immediatamente affinchè “al fine della vigilanza sul settore, sia verificata l’effettiva idoneità dell’assetto proprietario e di controllo, all’esercizio dell’impresa editoriale, allo scopo di condizionarne l’effettivo svolgimento al pieno rispetto delle norme di legge”. Insomma, una stroncatura. E senza alcun dubbio.
Così il "metodo Travaglio" diventa un corso a pagamento. In cattedra un gip che spiega come trasformare un verbale in un articolo, scrive Felice Manti, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. La parabola si è compiuta. Il «metodo Travaglio» diventa materia di studio (a pagamento), i magistrati salgono in cattedra e diventano docenti di giornalismo. Sabato 30 aprile nella redazione del Fatto Quotidiano alla modica cifra di 85 euro ci si potrà finalmente abbeverare alla fonte di quella barbarie giustizialista di cui (finalmente) si sono accorti il premier Matteo Renzi e l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano dopo che le procure hanno dichiarato guerra a Palazzo Chigi. C'è bisogno di nuovi adepti, e la missione apostolare tocca ai giornalisti del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Sei un giornalista di giudiziaria e hai tra le mani delle intercettazioni scottanti (anche se penalmente irrilevanti) ma non sai come scrivere il pezzo? Beh, succede anche nei migliori quotidiani. Ma non ti preoccupare. Te lo spiega un giudice come fare. Al corso di giornalismo interverrà anche Stefano Aprile, Gip del Tribunale di Roma, che dalle 10 alle 11 terrà il modulo «Come usare le intercettazioni», subito dopo la lezione «Avvocati, magistrati, investigatori: i rapporti con le fonti». Aprile, dice il sito del Fatto sul corso a pagamento, si è occupato di importanti indagini. Quelle riportate sul sito, curiosamente, sono tutte contro il centrodestra. Come quella su Franco Fiorito detto Batman, ex capogruppo Pdl condannato per peculato, o quella sull'ex sindaco di Roma Gianni Alemanni e la «contestata tangente da 500 mila euro pagata per una commessa di 45 filobus», per finire alle indagini che portarono alla chiusura del sito Stormfront, quello dei cattivoni neofascisti. La lectio magistralis tocca invece alla cronista di giudiziaria del Fatto Valeria Pacelli, dal croccante titolo «Dai tribunali agli studi degli avvocati agli incontri con poliziotti e finanzieri: costruire e mantenere i rapporti giusti». Ma la teoria non basta, ci vuole esercizio. E dunque, compresa nel prezzo, c'è anche l'esercitazione pratica «Come trasformare un verbale in una notizia». È l'ultima metamorfosi del giornalismo giudiziario: non bastava aver trasformato i giornali in ciclostile delle Procure, adesso a scrivere gli articoli ci pensano direttamente i magistrati...
Renzi è tornato a parlare al Senato prima del voto di sfiducia del 19 aprile 2016. A parlato della magistratura e delle inchieste di Potenza che non sono mai arrivate a sentenza: «Io sono per la giustizia, ma non giustizialista. Per i tribunali, non per i tribuni. Io rispetto le sentenze dei giudici, non le veline che rompono il segreto istruttorio. Quando auspico che si arrivi a sentenza, non attacco la magistratura ma rispetto la Costituzione: un avviso di garanzia è stato per oltre 20 anni come una condanna definitiva. Vite di persone perbene sono state distrutte, ma un avviso di garanzia non è mai una condanna ed è per questo che non chiederemo le dimissioni del consigliere del Movimento 5 Stelle di Livorno, perché crediamo nella presunzione di innocenza. Questo paese ha conosciuto figure di giudici eroi che hanno perso la vita ma anche, negli ultimi 25 anni, pagine di autentica barbarie legata al giustizialismo dove l’avviso di garanzia è stata una sentenza mediatica definitiva. Io sono per la giustizia - è il distinguo del capo del governo - e non per i giustizialisti. L’avviso di garanzia in passato è stata una sentenza mediatica definitiva, vite di persone perbene sono state distrutte mentre i delinquenti avevano il loro guadagno nell’atteggiamento populista di chi faceva di tutta un’erba un fascio. L’avviso garanzia non è mai condanna».
Lo spettro di nuove inchieste dietro l'attacco di Renzi ai pm. L'affondo del premier in Senato è frutto di una strategia chiara: quando sente il fiato sul collo assume un atteggiamento di sfida. Quei presagi di un'estate calda, scrive Fabrizio De Feo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il giorno dopo il sonante «no alla barbarie giustizialista» conosciuta dal Paese negli ultimi venti anni, frase che di certo ha scosso le coscienze e fatto arricciare il naso a tanta parte della sinistra allevata a pane a manette, gli interrogativi sull'affondo pronunciato da Matteo Renzi nel suo discorso al Senato non mancano. E si muovono su un filo sottile che oscilla tra motivazioni politiche, sospetti di timori giudiziari e aspetti caratteriali e psicologici legati al personaggio. Sui social network si assiste alla prevedibile spaccatura tra difese d'ufficio della magistratura, applausi renziani e ironie sul neo-garantismo di convenienza. «Bravi a denunciare la barbarie giustizialista quando sono loro a farne le spese. Prima, dal '92 compreso, silenzio. Meglio tardi che mai», scrive su Twitter Pierluigi Battista. Contrapposizioni prevedibili in un Paese che sulla rivendicazione giustizialista ha visto fiorire prima formazioni minori come La Rete e l'Italia dei Valori, poi il Movimento 5 Stelle, capace di raccogliere un quarto dei consensi dell'elettorato. Nei palazzi, invece, ci si interroga sulla genesi di un attacco che come ha giustamente scritto su La Stampa, Fabio Martini, non è figlio di un accesso di ira o una frase dal sen fuggita, ma di una precisa volontà di pronunciare quelle parole.
Renzi e la tecnica del tergicristallo tra garantismo e giustizialismo, scrive il 21 aprile 2016 Emanuele Boffi su “Tempi”. Dice di credere «nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Ma mica sempre, dipende. Dipende da cosa gli conviene in quel momento. «Questo paese ha conosciuto anche negli ultimi venti, venticinque anni, pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». Come non essere d’accordo con le parole pronunciate martedì 19 aprile da Matteo Renzi? Respingendo la mozione di sfiducia in Senato, il presidente del Consiglio ha dato prova di autentico garantismo: «Un avviso di garanzia è stato per oltre vent’anni una sentenza mediatica definitiva (…). Io sono per la giustizia sempre, non per i giustizialisti. Credo nei tribunali, non nei tribuni. Credo nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Come non essere d’accordo? D’altronde Renzi si è sempre proclamato un garantista ed è questo uno degli aspetti che meno piace ai suoi avversari, come si poteva facilmente constatare ieri dando uno sguardo alla prima pagina del Fatto quotidiano: “Renzi come B.”, dove B. da quelle parti sta per Berlusconi, l’apogeo dell’insulto. E, giusto per ribadire la linea, sempre in prima pagina compariva una lunga e dura intervista del direttore Marco Travaglio a Piercamillo Davigo, uno degli eroi di Mani Pulite, fresco presidente dell’Anm, a certificare la continuità tra i governi precedenti e l’attuale: «Qualche differenza di linguaggio, ma niente più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti». Ma la verità è che Renzi è un garantista a targhe alterne. Ha sempre ondeggiato tra gli opposti come un tergicristallo: giustizialista quando gli faceva comodo, innocentista quando desiderava tirare l’applauso senza pagarne il fio. Non che sia l’unico, per carità. A parte qualche raro caso, è un doppiopesismo che caratterizza l’intera classe politica italiana. Il lettore ricorderà facilmente gli ultimi casi. Col ministro Federica Guidi, Renzi ha adottato una tattica simile a quella usata con Maurizio Lupi. Nessuna pressione ufficiale per le dimissioni, ma nemmeno una pubblica parola in loro difesa. Gli è stato sufficiente “non dire” per ottenere, pilatescamente, il doppio risultato di non contrariare la piazza né apparire un despota giacobino. Diverso è il caso se si tratta del ministro Maria Elena Boschi, e non occorre aggiungere altro. Quando non gli costa nulla, al garantista Renzi piace fare la ruota come un pavone. Alla Leopolda del 2013 disse che «la storia di Silvio ci dimostra in modo chiaro che dobbiamo fare la riforma della giustizia». Si riferiva a Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, ingiustamente accusato e finito in carcere; certamente, come scandì Renzi, un caso che dimostrava che «la riforma della giustizia è i-ne-lu-di-bi-le». Non che prima di Scaglia non ci fossero stati episodi che dimostrassero la medesima urgenza, il problema è che riguardavano “l’altro Silvio”. E, soprattutto, non è che quando Scaglia era nel mezzo della bufera mediatica e giudiziaria, Renzi si fosse speso in un’eroica battaglia a difesa delle garanzie a tutela dell’indagato. Facile essere garantisti dopo la sentenza d’assoluzione, il problema è esserlo prima. E su questo Renzi traccheggia a seconda della convenienze. In modo clamoroso lo si notò sul caso del ministro degli Interni del governo Letta, Annamaria Cancellieri, sbrigativamente invitata da Renzi a togliere il disturbo in base a un’intercettazione. E, caso forse di cui si è persa memoria, accade anche col suo predecessore a Palazzo Vecchio a Firenze, Leonardo Domenici. Vittima di un uso “disinvolto” (eufemismo) del materiale d’inchiesta da parte di magistrati e giornalisti, fu additato dall’Espresso come esempio di connubio (a sinistra) tra affari e politica. Domenici arrivò a incatenarsi davanti alla sede del giornale per denunciare il trattamento riservatogli. Era il 2008, il primo cittadino era a fine mandato e un certo Matteo Renzi sedeva sulla poltrona di presidente della Provincia. Non si ricordano sue battaglie garantiste in favore del compagno di partito, anzi. Quel che sappiamo è che Renzi diventò sindaco della città nel 2009 e segretario del Pd nel dicembre 2013, giusto un mese dopo che erano state rese note le motivazioni della sentenza d’assoluzione di Domenici.
Ecco la "barbarie giustizialista" che non ha indignato Re Giorgio. Napolitano oggi denuncia la malagiustizia, ma quante indagini flop sono passate sotto il suo silenzio, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il suo cruccio si chiama Loris D'Ambrosio. «Non posso dimenticare», ha scandito Giorgio Napolitano in Senato. Non si può archiviare la tragedia di un magistrato colto e preparato, morto di crepacuore dopo la pubblicazione delle sue conversazioni. Ora re Giorgio punta il dito accusatore. «C'è chi ha pagato prezzi altissimi al giustizialismo, grazie anche alla pubblicazione di intercettazioni manipolate. Come è successo al mio consigliere D'Ambrosio che ci ha rimesso la pelle». Oggi è tutto chiaro. Senza ombre e silenzi. Ma ieri non era così. Napolitano, Renzi e tanti altri tacevano, assecondavano, nascondevano dubbi e timori. Anzi, partecipavano, puntata dopo puntata, alla grande fiction giudiziaria e al rotolare di tante teste e dignità. Sì, meglio ricordare. Ecco Vittorio Emanuele. Le sue frasi, non proprio regali, hanno fatto il giro d'Italia. E così la storia gloriosa dei Savoia è diventata cronaca sporca, in un diluvio di intercettazioni. Per giorni e giorni le gesta del principe si sono trasformate in un penoso fumetto popolare, con un capitolo sui sardi e un altro sulle prostitute. L'opinione pubblica si è rimpinzata di dialoghi imbarazzanti, ma alla fine, nel frastuono generale, anche le accuse sono evaporate. Via i reati gravissimi, via le contestazioni e le tangenti, via l'associazione a delinquere e tante scuse per gli arresti. È il malcostume tricolore: sempre uguale da anni e anni. Arresti fra squilli di tromba, frasi a effetto atterrate al momento giusto sui giornali, capi d'imputazione chilometrici. Poi, col tempo, le nebbie della giustizia si diradano lasciando un paesaggio di rovine. Un copione che si rinnova maledettamente uguale. Roberto Salmoiraghi, sindaco forzista di Campione d'Italia, finisce nella rete stesa dall'allora pm di Potenza Henry John Woodcock intorno all'onnipresente Vittorio Emanuele. E segue la stessa umiliante trafila: le manette per, nientemeno, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Intanto, mentre lo portano a Potenza ascolta i giornali radio che ripetono il suo nome in una litania di presunti traditori del bene pubblico. Nessuno prova a ricordare che la presunzione di innocenza «non è un velo d'ipocrisia, ma un richiamo forte alla realtà concreta». E la realtà reclama la sua innocenza. Addirittura non deve nemmeno passare in aula per il processo perché il dibattimento si affloscia ancora prima di cominciare. Salmoiraghi si dimette da sindaco, il tempo gli restituisce l'onore. Del resto, in Italia hanno gettato la spugna primi cittadini e ministri, sgambettati da insidiosi avvisi di garanzia, vocaboli velenosi usciti da qualche faldone, contestazioni imponenti svanite nel nulla. Nel silenzio assordante dei tanti garantisti di oggi. Sempre pronti per troppi anni a battere le mani ad ogni stormire della magistratura, sempre alieni da critiche, sempre rapidi nel giustificare qualunque ricamo sulle vite degli indagati. Del resto il 16 gennaio 2008 lascia la sua scrivania di Guardasigilli Clemente Mastella, assediato dalle indagini, dai sospetti, dai pregiudizi. La moglie Sandra Lonardo va ai domiciliari, lui scappa da via Arenula e una settimana dopo è il governo Prodi a saltare: il già gracile esecutivo viene travolto: il solito partito trasversale mette al primo posto la questione morale. Non c'è spazio per altre considerazioni: l'indagato è colpevole a priori, anche se poi risulterà estraneo, e il marito condanna, con la sua vicinanza, la moglie e viceversa. Non c'è scampo e i vertici dello Stato dirigono il traffico senza se e senza ma. Oggi di quel groviglio di accuse non è rimasto nulla, ma ormai è andata così. I conti si fanno alla fine, ma le carriere vengono stroncate prima, ora il pm chiede l'assoluzione per il governatore Vincenzo De Luca, inquisito per l'indagine sul Sea Park di Salerno. Solo ieri De Luca era esposto ala gogna dell'Antimafia e passava per impresentabile. Dal Quirinale, e non solo, nemmeno l'accenno di un'obiezione.
GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?
COTA, MARINO, BERTOLASO, DE LUCA… TUTTI ASSOLTI, TRANNE LA GIUSTIZIA ITALIANA. Sono sempre di più i casi di assoluzioni per inchieste che sono, invece, ipermediatizzate. Qui il commento di Annalisa Chirico, presidente Fino a prova contraria. All’indomani della richiesta di 116 archiviazioni in Mafia Capitale, arrivano le assoluzioni di Roberto Cota e Ignazio Marino. Assolti Marino e Cota, come anche Guido Bertolaso ed Enzo de Luca nei giorni scorsi. Tutti assolti, tranne la giustizia italiana. I casi testé citati hanno diversi punti di contatto: sono inchieste ipermediatizzate, con pesanti ricadute politiche e nessun esito giudiziario. In ognuno di questi casi il teorema accusatorio, con i tempi dilatati della giustizia italiana, è sconfessato dall’assoluzione. Eppure è proprio la giustizia a non uscirne assolta: si tratta di personalità pubbliche che hanno subìto una lapidazione mediatica con gravi danni nella reputazione e nella carriera. In alcuni casi, sono saltati equilibri politici frutto del voto popolare. Il problema si conferma quello dei tempi: la lentezza determina uno iato eccessivo tra inizio dell’inchiesta e conclusione del procedimento. Con il risultato che, nelle more del dibattimento, il circo mediatico-giudiziario insinua nell’opinione pubblica un pregiudizio colpevolista difficilmente emendabile, anche a seguito di un’assoluzione.
Il frullatore delle indagini (a 25 anni da Mani pulite). Dal caso di Marino a quello di Cota: le assoluzioni avranno come conseguenza solo scuse retrodatate ma il danno personale e politico rimane, scrive Marco Imarisio il 7 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota appartengono ormai al passato. Nel frullatore sempre acceso della nostra politica non c’è tempo per voltarsi indietro. Le assoluzioni dei due amministratori per le cosiddette spese pazze con i soldi dei contribuenti avranno come unica conseguenza soltanto scuse retrodatate, spesso ipocrite come le frasi fatte sulla restituzione dell’onore ai diretti interessati. Il danno che hanno subìto a livello personale e politico rimane. Le cinquantasei cene del «marziano» salito al Campidoglio e le mutande verdi del leghista devoto a Umberto Bossi non sono state la causa principale della loro caduta. Il primo fu costretto a dimettersi perché il Pd, il suo partito, organizzò una raccolta di firme tra i consiglieri comunali per sfiduciarlo. Cota fu destituito da una sentenza del Tar per una vicenda di firme false che fin dall’inizio gravò sulla sua legislatura. Ma l’azione della magistratura venne usata dai loro avversari politici per accompagnare l’azione di delegittimazione dei due amministratori, per demolirli anche come persone additando all’elettorato la loro indegnità morale. La differenza tra l’eco mediatico prodotto dalle accuse e il verdetto finale non è prerogativa solo di queste due vicende. Forse le 116 richieste di archiviazione per politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati per Mafia Capitale non tolgono nulla all’inchiesta e alla sua ragion d’essere, ma giustificano le recriminazioni comunque vane di chi ha visto andare in fumo la propria carriera o ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni elettorali, come denunciato da alcuni esponenti della destra romana. Nel 2014 il presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani si dimise dopo una condanna per falso ideologico. Alla sua successione si candidarono Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, che pochi giorni dopo vennero indagati per le spese del gruppo consiliare della Regione. Il primo si ritirò dalle primarie, il secondo rimase e gli andò bene, perché la sua posizione venne subito archiviata. Errani e Richetti sono stati assolti quest’anno. L’ex governatore è stato nominato commissario per la ricostruzione nelle aree colpite dal terremoto del 24 agosto. I suoi detrattori ancora gli rinfacciano quelle accuse cadute nel vuoto, perché non sempre l’assoluzione porta via anche la maldicenza e il pregiudizio, almeno dalle nostre parti. Marino era ritenuto non adatto al ruolo, isolato, autoreferenziale. Ma onesto. Le cene pagate con la carta di credito del Comune fecero cadere l’ultimo bastione. «Mente anche sugli scontrini», dissero esponenti del Pd romano e nazionale sull’allora sindaco della Capitale. Le loro odierne professioni di garantismo, che in Italia viene sempre esercitato a giorni alterni e in base alle proprie appartenenze, sono un corollario penoso a una vicenda già triste di suo. Nel biennio 2012-2014 i dettagli sulle presunte spese pazze degli amministratori locali riempirono le pagine dei nostri giornali. Ovunque sono arrivate molte condanne e quasi altrettante assoluzioni. Può essere un segno del fatto che i giudici non hanno ceduto a un facile giustizialismo moralistico, distinguendo le responsabilità individuali tra dolo ed errori di vario tipo. Ma intanto, Cota, come Marino e con lui molti altri, sono stati umiliati e ridicolizzati a mezzo stampa. E infine messi da parte. Le mutande verdi divennero il simbolo dell’ingordigia dei consiglieri regionali, la più vituperata delle nostre classi dirigenti, spesso con solidi argomenti. In queste settimane di campagna referendaria sono state spesso citate da Matteo Renzi, l’ultima volta proprio ieri mattina dai microfoni di Radio anch’io. In questi anni è stato comunque in buona compagnia. Da destra a sinistra, passando per i nemici interni della Lega, lo hanno fatto tutti. Il ricorso continuo a quell’indumento intimo in attesa di giudizio come il suo proprietario è un altro indizio della subalternità della nostra classe dirigente a un immaginario di derivazione giudiziaria. Così come l’uso strumentale delle inchieste per affossare gli avversari dimostra come la politica italiana sia ancora succube della magistratura. A quasi 25 anni da Tangentopoli.
Alemanno, Cota, Marino, Zingaretti e il doloroso digiuno degli sciacalli, scrive l'8 ottobre 2016 Francesco Damato su "Formiche.net". Dev’essere doloroso il digiuno degli sciacalli. Lo si capisce dalla delusione, anzi dal livore con cui i giustizialisti in servizio permanente effettivo hanno accolto l’assoluzione dell’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota, deriso e condannato invece sulle piazze per la storia delle “mutande” verdi acquistate – si disse – a spese dei cittadini. Con uguale delusione e livore hanno reagito alla decisione della Procura di Roma di chiedere l’archiviazione delle indagini a carico di 116 persone coinvolte dalle deposizioni di Salvatore Buzzi e di Massimo Carminati nella vicenda giudiziaria chiamata Mafia Capitale. Lo scandalo per i critici e i protestatari, in quest’ultimo caso, non sta tanto nella richiesta di archiviazione quanto nel fatto che per una volta i nomi dei 116 indagati sono rimasti segreti sino alla fine degli accertamenti disposti dagli inquirenti e alla decisione di chiedere il proscioglimento. Come mai e perché – si sono chiesti gli sciacalli – costoro hanno potuto risparmiarsi la sorte generalmente riservata ad altri, che nel momento in cui finiscono sotto indagine approdano nei titoli e nelle cronache giornalistiche? Il fatto che fra questi privilegiati, ai quali la sorte ha riservato nient’altro che l’applicazione una volta tanto corretta delle norme del codice di procedura penale, ci siano il governatore della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, entrambi del Pd, ha reso le proteste più risentite. E gli umori più neri contro il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, del quale molti si sono ricordati l’occasione colta in un convegno promosso proprio dal Pd per dare a suo tempo l’annuncio che stavano maturando nei suoi uffici grosse iniziative giudiziarie. Che presero poi il nome di Mafia Capitale. La cui vicenda l’allora sindaco Ignazio Marino cavalcò con imprudenza, visto che sarebbe stata destinata ad anticipare anche la fine della sua avventura capitolina, fra accuse, sospetti, contraccuse, dimissioni reclamate, rifiutate, poi annunciate, poi ancora ritirate, in una sequenza più comica che politica. Lo stesso Marino finì indagato per una storia di scontrini relativi a spese sospette di ristoro con la carta di credito del Comune. Per fortuna il procedimento si è appena chiuso a suo favore con l’assoluzione, che gli ha dato la possibilità di processare a sua volta in una conferenza stampa il suo partito, difesosi sostenendo di averlo detronizzato non per gli scontrini ma per incapacità. La vicenda giudiziaria di Marino ha comunque confermato l’obbrobrio dei processi mediatici che si fanno col solito rito sommario all’annuncio delle sole indagini e vengono smentiti sempre troppo tardi dai processi veri, quelli che si svolgono nei tribunali. Era un processo mediatico anche quello cui si era aggrappato l’ex sindaco di Roma per puntellare la sua posizione politica e indebolire gli avversari, interni ed esterni al Pd. Proprio lui rimandò “nelle fogne da cui provengono i fascisti” del suo predecessore Gianni Alemanno, accusato di mafia e poi rimasto nel processo per altri reati, meno gravi. Se mi chiedete di fare i nomi di questi sciacalli rimasti una volta tanto a digiuno con quei 116 entrati e usciti indenni dalle indagini di Mafia Capitale – sciacalli che ora sperano che il giudice competente a decidere sulle richieste di archiviazione della Procura restituisca loro brandelli di carne su cui buttarsi – non vi posso seguire perché ne ho abbastanza di noie giudiziarie per l’esercizio della mia professione. Vi posso solo dire che questa categoria abietta ormai è politicamente trasversale, da destra a sinistra: a volte per vocazione, altre volte per ritorsione, altre volte ancora per bieche lotte politiche dentro e fuori casa: uno spettacolo ormai vomitevole.
La politica in tribunale. Quelle mutande comprate a Boston non erano mutande ma boxer da bagno e non erano neppure verdi ma color buccia di kiwi, scrive Giuliano Molossi il 9 ottobre 2016 su "Il Giorno". Quelle mutande comprate a Boston non erano mutande ma boxer da bagno e non erano neppure verdi ma color buccia di kiwi. Eppure quello scontrino da 40 dollari che l’ex governatore del Piemonte, il leghista Roberto Cota, aveva per errore inserito nella nota spese era diventato inevitabilmente il simbolo delle ruberie dei politici. Oggi, dopo quattro anni, Cota è stato assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto, dall’accusa di peculato. Ma nel frattempo, dopo aver perso la Regione anche per l’inchiesta sulle firme false, la sua carriera politica è stata distrutta. Quello del 7 ottobre è stato un venerdì nero per le Procure. Mentre a Torino veniva assolto Cota, a Roma vinceva la sua battaglia in tribunale l’ex sindaco Ignazio Marino, lui pure accusato di aver utilizzato soldi pubblici non per un paio di slip ma per 56 cene (13mila euro in totale) più private che di rappresentanza. Anche Marino, «licenziato» dal Pd, cadde sugli scontrini. Sono soltanto i due casi più clamorosi di una raffica di proscioglimenti. È curioso, piuttosto, che siano arrivati tutti insieme, nel giro di poche settimane. Prima di Cota e Marino era toccato a Penati, a Errani, a De Luca, a Podestà e ad Alemanno uscire puliti dalle loro disavventure giudiziarie. E colpisce anche la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma per 116 indagati di Mafia Capitale. Che succede? Ieri tutti ladri, oggi tutti angioletti? O forse la magistratura (che non è il Vangelo) può sbagliare come tutti, e forse prima di esporre qualcuno al pubblico ludibrio, alla gogna mediatico-giudiziaria, sarebbe il caso di essere più prudenti e di verificare i fatti con maggior rigore e serietà? Intendiamoci, anche i giornalisti hanno le loro colpe e spesso non si fanno scrupoli di «sbattere il mostro» in prima pagina, di enfatizzare e spettacolarizzare l’inchiesta contro un uomo politico. Ma senza le veline delle Procure, senza certi suggerimenti mirati, avrebbero molta meno carne al fuoco. Da Tangentopoli in poi basta un avviso di garanzia per distruggere la reputazione di qualcuno. E non di rado capita che quell’avviso nasca da un esposto presentato da un avversario politico. Così i partiti si servono della magistratura per vincere le loro battaglie. È molto più facile abbattere i rivali in questo modo subdolo che superarli nell’unico confronto lecito, quello delle elezioni. La lotta politica si fa più nei tribunali che in Parlamento. Ai più fanatici moralisti (ce ne sono parecchi, sia nella magistratura che nella stampa) basta pochissimo per mettere qualcuno sulla lista nera, per loro la parola indagato è sinonimo di condannato. I peggiori sono quelli che fanno i giustizialisti con i nemici e i garantisti con gli amici. A Roma l’assessore Muraro è indagata e non si dimette. Forse, ritenendosi estranea ai fatti, fa bene a resistere confidando in una archiviazione, ma se le elezioni le avesse vinte non la Raggi ma Giachetti e se ad essere indagato fosse stato un assessore del Pd, i grillini avrebbero avuto lo stesso atteggiamento di comprensione e di paziente attesa?
Senza mutande, scrive l'8-10-2016 Mauro del Bue su "L'Avanti on line". L’ex sindaco Marino non ha mai pranzato al Girarrosto toscano coi familiari, perché quel giorno i suoi familiari erano in Sicilia (come testimoniano i biglietti aerei di andata e ritorno). Si trattava di un pranzo istituzionale e dunque, secondo i magistrati, “il fatto non costituisce reato”, cosi come le altre cene per un ammontare di circa 13mila euro. L’ex governatore del Piemonte ha fatto solo spese regolari e quelle mutande verdi sulle quali si è tanto ironizzato non sono mai esistite. Dunque per i magistrati “il fatto non sussiste”. Aggiungiamo che 116 imputati nel processo di Mafia capitale sono stati prosciolti e che allo stesso Alemanno è stata cancellata l’imputazione più grave, quella di associazione mafiosa. Se aggiungiamo a tutto questo il caso dell’ex sindaco e attuale governatore della Campania De Luca, assolto dal reato che aveva spinto la Bindi a definirlo “impresentabile”, l’assoluzione di Vasco Errani dal reato per il quale in prima istanza era stato condannato e che lo aveva spinto a dimettersi e la regione Emilia-Romagna a convocare nuove elezioni, l’assoluzione del povero Penati, per anni sotto la gogna dell’ignominia e addirittura espulso dal suo partito, il Pd, non possiamo che tornare con un certo turbamento al perverso rapporto tra magistratura, informazione e politica. Ha ragione Luciano Violante a rimettere il dito sulla piaga e invitare gli inquisiti a non dimettersi perché un avviso di garanzia non è una condanna. Sono da anni convinto che le posizioni garantiste dell’ex presidente della Camera (compresa la dura condanna postuma per le monetine al Raphael) siano sincere e affondino le loro ragioni nel diverso atteggiamento che Violante assunse ai tempi di Tangentopoli, che costituisce il motivo della sua sofferta revisione. Resta il fatto che con un semplice avviso di garanzia, tra il 1992 e 1994, si è eliminata un’intera classe politica. Non posso dimenticare il furore giustizialista che animava la Lega e il Pds e la pretesa di immediate dimissioni per chiunque fosse solo sfiorato da un sospetto, una stretta di mano, una frequentazione, non parliamo di un provvedimento giudiziario. Mutatis mutandis. E a proposito di mutande, verdi, rosse o tricolori, non possiamo non ricordare le battute ricorrenti perfino del presidente del Consiglio, che farebbe bene a chiedere scusa a Cota, così come le scuse a Marino, a Roma e all’Italia dovrebbero chiederle quegli esponenti del Pd che hanno preteso le sue dimissioni proprio approfittando dell’inchiesta sugli scontrini. Anche a Roma, sì, perché oggi non sarebbero al potere i Cinque stelle, e all’Italia che non sarebbe privata dei vantaggi economici e d’immagine delle Olimpiadi. In politica si può sbagliare, ma bisogna essere onesti e riconoscere l’errore. Orfini ed Esposito adesso svelano che Marino è stato “dimesso” per incapacità politica. Resta il fatto che le sue dimissioni furono richieste e poi imposte a seguito delle supposte cene pazze. Il caso mi ricorda quello di un partigiano della mia provincia nell’immediato dopoguerra, accusato di avere ammazzato un prete. Un testimone lo scagionò perché nella stessa ora stava giocando a bocce con lui. Allora l’accusa lo trasformò nel mandante. Il Pd chieda scusa ed eviti di accusare altri se non se stesso.
LA GIUSTIZIA A CORRENTE ALTERNATA. Alemanno, Marino, Cota e Zingaretti: la legge non è uguale per tutti, scrive l'8/10/2016 “Il Giornale D’Italia. L'analisi di Francesco Storace sul frullatore delle indagini in cui sono finiti i politici del centrodestra e del centrosinistra. Dal caso di Marino e di Alemanno a quello di Cota. Le assoluzioni per il chirurgo e il leghista e la richiesta di archiviazione per l’ex sindaco del Pdl in Mafia Capitale avranno probabilmente come conseguenza solo scuse retrodatate ma il danno personale e politico rimane. Vittime della gogna mediatica per anni, che ha di fatto interrotto il loro percorso politico. Risultato? La loro immagine resterà macchiata per molti cittadini. Per loro la strada sarà tutta in salita. Avranno l’arduo compito di mettersi in carreggiata e gridare al mondo di essere usciti indenni dalle pesanti accuse. L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota sono finiti nel frullatore delle cosiddette spese pazze con i soldi dei contribuenti. Il primo è stato prosciolto ieri per la vicenda delle 56 cene per 12.700 euro pagate, secondo la procura, con la carta di credito del Campidoglio. Ma la sentenza di primo grado del gup Balestrieri è chiara: “Il fatto non sussiste”. Il politico leghista, invece, è finito nel calderone del biennio 2012-2014 sulle presunte spese pazze degli amministratori locali che riempirono le pagine dei nostri giornali. Assolto. Poi c’è Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, che ha da sempre preso le distanze dall’accusa di associazione di stampo mafioso quando è scoppiato lo scandalo Mafia Capitale. L’altro ieri, però, c’era anche il suo nome tra le 116 richieste di archiviazione per politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati per il cosiddetto “Mondo di mezzo”. Oltre ad Alemanno spunta anche il nome di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, al quale è stato risparmiato il “massacro mediatico”. Perché non si era a conoscenza della sua iscrizione nel registro degli indagati per corruzione e turbativa d’asta. Il primo reato riguarda le presunte donazioni di denaro da parte di Salvatore Buzzi, ras delle coop ed ex iscritto al Pd, ad uno stretto collaboratore del politico dem e destinate a finanziare la campagna elettorale. Inoltre ci sono i fondi versati per l’operazione legata all’acquisto della sede della Provincia di Roma, oggetto di una gara di appalto ad hoc. L’accusa di turbativa d’asta era legata alla gara per il servizio Cup (centro unico prenotazioni sanitarie) istituita nel 2014 dalla Regione Lazio. Intanto Marino, Cota e Alemanno, e con loro molti altri, sono stati umiliati e ridicolizzati a mezzo stampa. A porre l’accento è stato Francesco Storace, vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, che denunciò anzitempo le sue preoccupazioni sulla gara Cup. Anche lui ha dovuto convivere con pesanti accuse nel corso della sua carriera uscendone però con piene assoluzioni. “Fa piacere che ci siano politici, indagati da magistrati, massacrati dai media, scannati dai politici avversari, riabilitati da altri magistrati. Marino, Cota, Alemanno, tra i due e i tre anni sotto la gogna mediatica. Più fortunato Zingaretti, che ha sofferto una decina di minuti”, ha argomentato l’ex governatore del Lazio e ministro della Salute sulla sua pagina Facebook. “Io ho donato - ha ricordato - alla magistratura italiana ventitré anni, tra Laziogate, ricerca sanitaria e Napolitano. Appartengo alla casta dei puniti perché rimasti puliti. In Italia la coerenza è peggio di un reato, soprattutto quando ti permetti di essere sempre assolto. In questi quasi dieci anni di assenza dal Parlamento ho sentito solo chiacchiere sulla giustizia, usata come clava. Ma chi sbaglia continua a non pagare mai. E questo non mi fa piacere”, è la delusione di Storace.
Gogna a orologeria. Quei politici prima deposti, poi prosciolti senza scuse, scrive Davide Varì l'8 ottobre 2016 su “Il Dubbio”. Troppo lunga la lista dei politici indagati, processati sui giornali e cacciati da partiti e istituzioni senza neanche aspettare uno straccio di sentenza di primo grado. Davvero impossibile fare un elenco affidabile dei sindaci e dei governatori eletti dal popolo e deposti da un pm con un avviso di garanzia spedito mezzo stampa. E sì perché il caso del sindaco Marino è solo l'ultimo di una lunga serie. Poco prima di lui era toccato al governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani. Eletto dai cittadini emiliani, Errani fu travolto dall'accusa di falso ideologico nel processo d'appello bis per il caso "Terremerse". Errani fu inseguito da questa accusa per sei lunghi anni fino a che, nel 2014, quando era ancora governatore dell'Emilia Romagna capitolò e decise di dimettersi. A distanza di due anni, però, Errani è stato assolto. «Finalmente è finita - ha scritto su facebook appena saputo dell'assoluzione definitiva, nel giugno scorso - Con questa sentenza di assoluzione si chiude una lunga vicenda processuale che forse non avrebbe dovuto nemmeno aprirsi». Prima di lui fu la volta dell'ex presidente della provincia ed ex presidente del consiglio regionale lombardo, Filippo Penati. Individuato dai pm come il fulcro del presunto "sistema Sesto", Penati fu accusato di aver intascato soldi dall'imprenditore Piero Di Caterina, suo grande accusatore. Anche lui decise di lasciare la poltrona di presidente del Consiglio lombardo. Ma dopo quattro lunghi anni il tribunale stabilì che non ci fu alcuna corruzione né finanziamento illecito. Nulla di nulla. Il diretto interessato non disse nulla. Ci pensò Bersani a dire qualcosa: «Assolto Penati, ma quanti sono lunghi 4 anni però...». Vero: davvero troppi quattro anni di odissea giudiziaria e di silenzi di una classe politica annichilita e sotto scacco.
Penati: «La politica cede e i magistrati ti azzannano». Intervista di Errico Novi del 5 ottobre 2016 su “Il Dubbio”.
«Sono stato assolto dopo che il mio ex partito si era costituito parte civile contro di me: è questa resa incondizionata che convince i pm di dover salvare il Paese da tutti i suoi mali».
Onorevole Filippo Penati, allora lei torna nel Pd.
«No guardi, non intendo rinnovare l'iscrizione».
Come sarebbe a dire? Da ore circola la notizia che la commissione di Garanzia l'ha riammessa all'anagrafe degli iscritti per l'anno 2011.
«Appunto: per l'anno 2011. Quello in cui a causa dell'indagine venni ingiustamente cancellato, con atto unilaterale. Nonostante avessi pagato regolarmente la quota. Io ho solo chiesto che, a maggior ragione dopo l'assoluzione, il mio nome fosse inserito nell'elenco dei militanti per quell'anno. Non ho intenzione di rifare la tessera, per ora».
L'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati è nella storia della politica nazionale per due motivi: essere stato praticamente il solo esponente del centrosinistra milanese ad aver spezzato l'egemonia del centrodestra berlusconiano a inizio anni duemila, innanzitutto. Penati fu eletto presidente nel 2004, all'epoca in cui la capitale morale del Paese era inespugnabilmente presidiata dalle truppe forziste. L'altro motivo è che contro di lui si è consumato uno dei processi più incredibili che si ricordi nella storia delle inchieste sulla politica: assolto dall'accusa di corruzione e finanziamento illecito, nella sentenza scritta dal presidente del collegio Giuseppe Airò si irride addirittura la pubblica accusa. I pm di Monza neppure si degnarono di verificare che i proventi di mazzette esistite solo nella loro immaginazione erano semplicemente i canoni di locazione di case date in affitto da Penati e dai suoi familiari, o che erano giustificati da altre attività perfettamente lecite e assolutamente riscontrabili. La Procura di Monza preferì dare credito incondizionato a un accusatore, indagato dalla guardia di Finanza, che aveva dirottato gli investigatori sull'ex presidente della Provincia per alleggerire la pressione su se stesso.
«Tanto che Francesco Greco, oggi capo dei pm milanesi, capì subito l'antifona e lasciò dormire l'indagine per qualche mese, fino a un trasferimento per competenza da lui accolto come una liberazione».
Subentrano i colleghi di Monza che invece prendono tutto molto sul serio.
«Sì, provano ad arrestarmi ma il gip per fortuna si rende conto dell'infondatezza della richiesta. Arresteranno l'architetto Renato Sarno che poi in udienza dirà chiaramente: ho passato 6 mesi in galera, ho capito che l'unico modo per uscire era fare il nome di Penati, venire incontro alle aspettative degli inquirenti».
Ma secondo lei tanta foga nasce, nei magistrati, dal pregiudizio accecante secondo cui un politico è sicuramente un ladro?
«Be', intanto ho scoperto che il capo dei pm di Monza Walter Mapelli, nel periodo in cui conduceva indagini sul sottoscritto, pubblicava un libro sulla corruzione politica. Dopodiché in capo a un'indagine completamente franata alla prova del Tribunale lo stesso procuratore viene promosso, dal Csm, capo dei pm di Bergamo».
Solo ambizione insomma.
«No, c'è anche quello che dice lei. E l'aggressività nei confronti dei politici nasce anche dalla resa incondizionata che la magistratura trova nei loro partiti».
Si spieghi meglio.
«Ha presente che nel mio processo si sono costituiti parte civile i Ds? Parlo del 2013, di un'epoca in cui i Ds si erano sciolti già da sei anni, esistevano solo come fondazione. Hanno sentito il bisogno di entrare nel processo contro di me. Taccio, o meglio non faccio i nomi, per quel che riguarda gli esponenti del centrosinistra milanese che dopo essere stati vicini a me in passato non ci mettono nulla a liquidarmi. Molti hanno ritenuto di trarre vantaggio dalla mia vicenda giudiziaria».
E questo spettacolo incoraggia l'aggressività dei pm, diciamo.
«Inevitabilmente sì. Si rendono conto che la politica si ritira completamente e si sentono presi dalla loro missione di salvatori della patria. È chiaro che c'è anche questo».
Ora che è tutto alle spalle, lei ha rancore nei confronti del suo partito?
«Rancore no. Molta amarezza, questo è sicuro. Ho anche molta voglia di dare di nuovo un contributo a quel campo della politica che rappresenta la storia della mia vita. Ma non mi sento, o almeno non ancora, di farlo come iscritto al Pd. Non riesco a concepire un rientro solo, per così dire, burocratico. Ci sono altre forme per dare un apporto. Anche questa intervista è un modo per fare politica».
La reintegra decisa dalla commissione di garanzia del Pd non la interessa?
«Io mi sono limitato a chiedere di rimediare a quell'ingiusta cancellazione. Ottenere il riconoscimento dalla commissione di garanzia mi ha dato un sollievo quasi paragonabile a quello della sentenza. E aggiungo di essermi sentito davvero felice per le parole pronunciate da Renzi tre giorni fa: ha ricordato me ed altri che, come Vasco Errani e Enzo De Luca, sono stati assolti. Ha ricordato che abbiamo pagato tutti un prezzo alto e che le nostre famiglie hanno sofferto. Posso assicurare che se non mi sento almeno per ora di riprendere la tessera del Pd non è assolutamente per dissenso verso la linea di Renzi».
Cosa non dimenticherà, più di tutto, del processo?
«Intanto non dimentico che ci sarà anche un processo d'appello: i pm hanno impugnato la sentenza. Nonostante in dibattimento si sia arrivati al punto che sono stato io a chiedere che fossero fatte le rogatorie sui miei fantomatici conti all'estero. Il sostituto Franca Macchia si girò verso i cronisti e bisbigliò che tanto i conti, si sapeva, erano intestati a miei prestanomi».
Non si doveva deludere la platea.
«Spesso purtroppo i giornali fanno da megafono a quelle azioni giudiziarie ispirate proprio da un fraintendimento salvifico della funzione inquirente. Che dovrebbe essere solo quella di trovare i reati e i colpevoli. Tutta un'altra cosa rispetto a quanto hanno fatto a me».
Penati: «Lo strapotere dei pm? Colpa della sinistra». Parla l'ex leader del Pd lombardo, scrive Errico Novi il 25 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Vasco Errani suo malgrado è già un simbolo: personifica il Pd che ha perso la sintonia con le Procure. L'ex governatore dell'Emilia, assolto definitivamente dopo 7 anni, non rappresenta un caso isolato. Rispetto alla sua vicenda giudiziaria, quella dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati si distingue solo perché l'assoluzione, nel caso di quest'ultimo, non è ancora definitiva. I pm dell'inchiesta sul presunto "sistema Sesto" non si sono rassegnati e hanno fatto appello.
Onorevole Penati, qualcosa è cambiato per sempre, tra il Pd e i pm?
«Non vedo cambi di passo, a dire la verità. Bisognerebbe mettere mano a una riforma complessiva del sistema giudiziario, ma non mi pare in vista. Le inchieste su alcune personalità politiche si sono risolte in assoluzioni, questo dovrebbe porre il tema del rapporto tra politica e Procure».
Tra le personalità in questione c'è anche lei.
«Non è un fatto personale, il problema è complessivo e va risolto innanzitutto con il superamento di una distorsione: quella che induce a confondere i pm con i giudici, la magistratura inquirente con la magistratura giudicante. Le indagini dei pubblici ministeri vengono prese per sentenze inappellabili: sono solo ipotesi che vanno provate nel processo».
Chi è che fa confusione?
«Tutti, anche la sinistra. Se non si è ancora trovato l'equilibrio tra la politica e le magistratura la maggiore responsabilità è della sinistra».
Spieghi perché.
«Perché non poteva essere certo Berlusconi a riformare il sistema, lui che era un super indagato e per questo il meno credibile di tutti. La condizione di Berlusconi non può però nascondere il fatto che il sistema vada riformato».
Dove si deve intervenire?
«Su tempi delle indagini e del processo, responsabilità dei magistrati, separazione delle carriere. Una riforma di questo tipo richiede una condizione precisa: deve essere chiaro che chi spera di lucrare sulle vicende giudiziarie altrui è solo un illuso. A turno tocca a tutti».
Anche ai cinquestelle?
«Anche a loro. E intanto la sinistra dovrebbe aver avuto sufficienti lezioni per aprire gli occhi. I Ds sembrava fossero i soli eredi legittimi del sistema crollato con la fine della Prima Repubblica, poi si è visto che le inchieste hanno riguardato tutto lo spettro delle forze in campo».
Lei dice: la giustizia deve avere tempi più rapidi.
«Pensi a Errani: la sua vicenda è iniziata del 2009, è finita nel 2016. La mia parte nel 2010, sono passati 6 anni e abbiamo fatto solo il primo grado».
I pm hanno impugnato la sua assoluzione?
«Certo. Nonostante la sentenza che mi ha riconosciuto innocente contenga un duro attacco al modo in cui sono state condotte le indagini. Nonostante quel giudizio severo, uno dei pm che hanno sostenuto l'accusa contro di me, Walter Macchi, è stato appena promosso dal Csm».
Procuratore della Repubblica di Bergamo.
«Tra i temi di una riforma dovrebbe esserci anche il criterio di valutazione delle performances dei giudici. Criterio che potrebbe essere più scientifico. Perché possiamo conoscere in tempo reale le statistiche sulla prestazione di un calciatore e non è possibile raccogliere con tutta calma quelle relative al lavoro dei magistrati?»
Di recente il guardasigilli Orlando ha ipotizzato una riforma del Csm che limiti le correnti: dal Csm è arrivato un parere che fa a pezzi la proposta.
«La politica è debole e c'è il dilagare incontrollato di uno strapotere giudiziario: ma io non credo che la questione si possa risolvere con l'azione di un governo risoluto: ci vuole un patto più largo che coinvolga tutte le forze politiche. Si deve consentire e favorire l'azione tempestiva dei magistrati contro la corruzione, ma la politica non deve restare prigioniera. Mettono in mezzo la Raggi per una consulenza da 5mila euro all'Asl: cos'altro ci vuole per aprire gli occhi?»
I magistrati fanno fronte comune, i partiti no.
«E con la magistratura diventano normali prassi inconcepibili: penso al fatto che per nominare un magistrato della competenza indiscutibile come Francesco Greco alla Procura di Milano, ci sia voluto un accordo tra le correnti. Ma scherziamo?»
Lei davvero esclude di tornare alla politica attiva?
«Due giorni fa, per la prima volta dopo tanto tempo, ho partecipato a un dibattito pubblico a Milano, con i radicali. Se ci saranno delle proposte le valuterò ma le lancette non si spostano indietro. Un ritorno a ruoli come quelli avuti in passato non sta nei miei progetti. E poi in questo momento sono politicamente un homeless».
Che intende?
«Il Pd mi ha espulso nel 2011, dopo che sono stato assolto nessuno si è preso il disturbo di chiamarmi e dire senti, ti andrebbe di rientrare? '. Non lo dico perché sicuramente sarei tornato a far politica ma perché una telefonata mi avrebbe fatto piacere, non posso negarlo».
Se resta fuori riconosce un potere enorme ai pm.
«Io ho subito una cura che poteva uccidere un cavallo, è già tanto che sono ancora in piedi».
LA STORIA. Il geometra Micelotta, 3 arresti e 3 assoluzioni. L’ultima: il fatto non sussiste, scrive Ilario Ammendolia il 10 Ottobre 2016 06:43 su "ZoomSud". “Al cuore Ramon, mira al cuore.” Per tre volte Ramon ha alzato il fucile ed ha fatto fuoco mirando al cuore, e per tre volte il bersaglio colpito è finito a terra. Ma quella che vi racconteremo non è la scena di un film di Sergio Leone ma uno strano “duello” che non si combatte ad armi pari. Il bersaglio se pur si rialzasse, camminerà barcollando per il resto della vita. Per cui iniziamo con le parole di “Joe” rivolge a Ramon nella scena finale: “vediamo se è vero”. Vediamo se è vero che Vito Micelotta, tecnico del comune di Monasterace, è stato arrestato tre volte sostanzialmente con la stessa accusa, su iniziativa delle stesso PM e per tre volte è stato assolto. L’ultima assoluzione pochi giorni fa: “Perché il fatto non sussiste!” Tre arresti! Tre errori! I mandati di cattura, richiesti da uno dei PM tra i più conosciuti d’Italia, certamente il più famoso della Calabria che come Ramon del film “per un pugno di dollari” è noto perché non sbaglia mai un colpo: Nicola Gratteri. E nel 1994 i colpi partirono a raffica di mitraglia. Centodieci persone coinvolte nell’operazione “Stilaro”. Quasi tutti assolti ma cento innocenti rappresentano solo un danno collaterale. Tra questi il geometra Vito Micelotta accusato, come ci fa leggere nelle carte, “perché nella sua qualità di tecnico comunale, allo scopo di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale, affidava fittiziamente ad una ditta esponente della cosca mafiosa operante sul territorio di Monasterace, un lavoro di lire 600 mila.” Così “per un pugno di euro” il geometra trascorre in carcere 123 giorni. La notte sente vaneggiare un uomo accusato di aver assassinato tre persone con l’accetta. Il tempo scorre, anche la detenzione finisce e poi viene completamente scagionato. L’ accusa non regge già nella fase dell’indagini preliminari. Assolto da ogni accusa. Parafrasando Levi, oserei dire “voi che vivete tranquilli nelle vostre tiepide case, ditemi se quanto è successo è giusto! Giudicate voi se un innocente di appena 39 anni, con tre bambini piccoli, possa esser sbattuto in carcere, la sua abitazione perquisita, la sua vita sconvolta. Il marchio di galeotto impresso a fuoco sulla pelle! E tuttavia siamo ancora nella “normalità” calabrese. Vito Micelotta dovrà imparare a sue spese la consapevolezza di essere uni “presunto-innocente”. La sua vita non può essere più la stessa. Infatti, dopo appena quattro anni, è di nuovo sulle prime pagine dei giornali. Di nuovo in carcere sostanzialmente con la stessa accusa che in Calabria non si nega a nessuno: “concorso esterno in associazione mafiosa”. Quaranta giorni in carcere. Anche questa volta Micelotta verrà scagionato nella fase dell’indagine preliminari dopo una pronuncia del Tribunale della libertà che sancisce che non ci sarebbe stata ragione alcuna per arrestarlo. Se la Legge in Calabria avesse ancora un senso, qualcuno avrebbe dovuto interrogarsi come ciò è potuto succedere. Invece tutto è silenzio perché tutto è viltà ed ovunque è prepotenza! I calabresi devono portare sulle spalle il peso terribile della ndrangheta, la paura dei magistrati e vi assicuro che in molti casi c’è da aver paura. La viltà della politica e la codardia di tanta parte della “classe dirigente”. Infine, ma non ultima, la complicità di una bella fetta della stampa che ci marcia e/o ci campa. Nel 2010 Vito Micelotta è di nuovo in carcere sostanzialmente con la stessa accusa! Centodue giorni di carcere. Pochi giorni fa l’assoluzione certa, categorica, senza ombra di dubbio: assolto perché il fatto non sussiste! I suoi figli non sono più i bambini che nel 1994 videro il loro padre strappato alla famiglia e portato via. Sono ormai grandi ed hanno scelto di andar via dalla Calabria. Via da tutto ciò che la Calabria è diventata. E’ normale che ciò avvenga? Qualcuno dirà:” se l’hanno arrestato qualcosa ha fatto”! Non c’è affermazione più vile, più infame e più oltraggiosa di questa. Più offensiva per la Costituzione e per la Giustizia. Noi non siamo chiamati dare alcun giudizio sul geometra Vito Micelotta che ci ha raccontato la sua storia mostrandoci tutti i documenti e con le gli occhi velati di lacrime. Uno sguardo da cui traspare l’eterna solitudine di tanti calabresi che li porta ad una motivata sfiducia e successivamente ad una muta contrapposizione allo “Stato” in cui la ndrangheta ci sguazza. Il geometra di Monasterace può essere un galantuomo ma potrebbe essere il mostro di Loch Ness! Può essere antipatico o simpatico, corrotto o persona perbene. Una cosa però è certa “al di là di ogni ragionevole dubbio”: per tre volte è finito in galera da innocente. Potrebbe aver commesso mille crimini ma i “reati” per cui l’hanno portato tre volte in carcere non li ha mai commessi. Innocente Micelotta! Sostanzialmente “bufale” le tre operazioni riportate da tutti i giornali come fulgide pagine di storia contro la ndrangheta. In questo momento in tutta Italia ci sono tante persone mobilitate per il “sì” o per il “no” al referendum. Dice bene il professor Zagrebrelski quando afferma che anche Bokassa aveva fatto approvare una buona Costituzione. La Carta Costituzionale non è nulla se non vive ogni giorno nella vita dei cittadini. Invece, un po’ ovunque, ma certamente in Calabria, la Costituzione agonizza e muore ogni giorno! Ed io non credo a coloro che si affliggono per le modifiche alla Carta scritte con l’inchiostro e restano insensibili alle ferite inferte col sangue degli innocenti. Non credo una sola virgola delle parole dei Travaglio e dei tanti PM, e che, in questo momento, si agitano “in difesa della Costituzione. “Il caso che abbiamo appena riportato, al di là della persona, è un oltraggio alle carni vive della Costituzione destinato però a restare nell’ombra. E Quanti sono i casi Micelotta? Cento? Mille? Nessuna pietà per questi figli di un Dio minore che sono vittime di cui nessuno ricorderà mai il nome. Raccontare la loro storia non significa mettersi contro i magistrati, così come parlare della “malasanità” non significa mettersi contro i medici ma piuttosto “resistere” sulla trincea più esposta alle rappresaglie dei forti. E’ dura e ne faremmo volentieri a meno ma raccontare è Resistere! Riaffermare che nel territorio della Repubblica nessuno è la Legge altrimenti saremmo già nel contea del “giudice” Roy Bean che amministrava la giustizia dei sette capestri ed era la legge all’Ovest del Pecos.
Condannato all'ergastolo senza una prova storica, scrive Giuseppe Scuderi su "Il Dubbio" il 16 settembre 2016. "Il mio alibi si basa sul registro penitenziario di Val Militello, ma non si trova. Egregio direttore, sono il condannato all'ergastolo Scuderi Giuseppe, attualmente ristretto presso la Casa Circondariale del Nuovo Complesso maschile di Rebibbia e con la presente intendo portare a Sua conoscenza che sono stato condannato per omicidio volontario aggravato soltanto sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e senza alcuna prova storica di reità. Ho proposto due richieste di revisione che sono state rigettate e ritenute infondate dalla Corte di Appello di Messina e dalla Procura Generale di Catania. Nel mese di marzo di quest'anno ho dato incarico ai miei difensori di fiducia di formulare al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale per la Sicilia una richiesta per l'acquisizione della copia del registro Penitenziario della casa mandamentale di Val Militello di Catania del 1989 riguarda l'entrata e l'uscita dei detenuti sottoposti al regime di semilibertà, in quanto era tale la mia condizione di condannato per reati bagatellari. Intendevo acquisire il sopra citato documento per ripresentare una nuova istanza di revisione del giudicato di condanna, ed in tal senso, ho dato mandato ai miei legali di avanzare tale richiesta per provare l'alibi in quanto nel giorno e nell'ora del fatto 16.02.1989 stavo rientrando con la mia autovettura da Catania alla Casa mandamentale di Val Militello e, quindi, non potevo compartecipare all'esecuzione dell'omicidio. Dopo pochi giorni il Dap per la Sicilia comunicava che non vi era traccia dei registri di entrata e di uscita dei detenuti, probabilmente a seguito del trasloco dal vecchio al nuovo istituto penitenziario. e per questa carenza mi trovo nella impossibilità oggettiva di formulare la nuova istanza di revisione. Le sembra legittimo che in uno Stato Costituzionale di diritto un condannato innocente non possa comprovare il suo alibi a causa di un "non ritrovamento" di un importante Registro che doveva essere custodito dall'istituzione stessa e che è fondamentale per dimostrare l'innocenza di un uomo? Conoscendo le sue battaglie sui problemi della giustizia in Italia ed anche la sensibilità etico-culturale del quotidiano da Lei diretto La prego di voler pubblicare questa missiva che dimostra ancora di più come le contraddizioni dell'apparato amministrativo dello Stato non mettano in grado un condannato innocente di poter esercitare il diritto costituzionalmente garantito dalla revisione della sentenza penale di condanna, e quindi di permanere nello stato infernale della pena perpetua dell'ergastolo ostativo del "fine pena mai".
Accadde nel 600. Ma sembrano le cronache di oggi, scrive Piero Sansonetti il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Ecco perchè sul giornale pubblichiamo la "Storia della Colonna infame" di Alessandro Manzoni. Iniziamo la pubblicazione a puntate di una delle principali opere letterarie di Alessandro Manzoni: "Storia della Colonna Infame", pubblicata come appendice nell'ultima edizione, quella definitiva, dei Promessi Sposi. E' il racconto, commentato, di un avvenimento vero, accaduto nel 1630 ma - purtroppo - mai realmente concluso. Sette capitoli, più un'introduzione. Perché dico: mai realmente conclusa? Perché assomiglia maledettamente a tante storie di malagiustizia di oggi. La trama, riassunta in due righe, è questa: alcuni testimoni accusano un signore di avere sparso sui muri degli unguenti che diffondevano la peste. Questo signore viene arrestato e torturato e infine indotto ad accusare un secondo signore, un barbiere. I due vengono condannati a morte e prima al supplizio. Naturalmente sono innocenti, anche perché gli untori (cioè dei presunti mascalzoni che diffondevano la peste ungendo i muri) non esistono, non sono esistiti mai. Le testimonianze che hanno inchiodato i due poveretti, assomigliano tremendamente alle deposizioni dei pentiti moderni. O alle famose intercettazioni per sentito dire. La tortura, usata per estorcere confessioni assurde, assomiglia invece al carcere preventivo e all'uso che se ne fa oggi come strumento di indagine. La smania dei giudici del seicento di assecondare le credenze popolari sembra uguale alle smanie che oggi hanno i giudici di soddisfare lo spettacolo di massa. E Alessandro Manzoni, quando scriveva la sua furia per queste ignominie, era isolato e sbeffeggiato dalle classi dominanti dell'epoca, come succede oggi a chiunque voglia esprimere un punto di vista garantista. Untori, roba del seicento? E allora - chiedo - il processo agli scienziati che non seppero prevedere il terremoto dell'Aquila? E quello alla scienziata - Ilaria Capua - accusata di aver diffuso il morbo dell'aviaria per arricchirsi? "Storia della Colonna infame", ci è sembrato - più che una vecchia opera di letteratura - una riflessione, pacata e attualissima, sulla giustizia di oggi. Per questo vi consigliamo di leggerla.
Quando gli eredi di Don Camillo misero in carcere Guareschi. Fu recluso per 409 giorni nel carcere di Parma per aver pubblicato due lettere, attribuite a De Gasperi. La sua difesa presentò una perizia calligrafica, ma non fu ammessa. Condannato per diffamazione a 12 mesi rifiutò di fare ricorso: «Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume», scrive Luciano Lanna il 26 ago 2016 su “Il Dubbio”. Quando nel 1967 Luciano Secchi, più noto col nom de plume di Max Bunker e come creatore di Alan Ford, fonda la rivista Eureka ha l'idea di arruolare nello staff Giovannino Guareschi, uno scrittore e un vignettista che nei decenni precedenti aveva fatto epoca. Era stato una delle firme e delle matite del Bertoldo, aveva fondato e diretto Candido, i suoi romanzi su Don Camillo e Peppone erano stati tradotti in quasi tutte le lingue. Guareschi, prima di morire, nel 1968, pubblica infatti in esclusiva su Eureka - la rivista che lanciò in Italia Andy Capp e le Sturmtruppen - il suo bel racconto "Gerda". Tanto che Secchi, successivamente, ebbe modo di esprimere tutta la sua riconoscenza: «Guareschi non era di sinistra. Ma la sua colpa agli occhi di tanti intellettuali di elezione, e questa è una colpa anche maggiore e imperdonabile agli occhi dell'élite della jet-society della letteratura è quella di aver venduto parecchie migliaia e migliaia di copie dei suoi Don Camillo, tradotti praticamente in tutte le lingue politicamente occidentali ma anche in quelle che non rientrano in tale definizione. Uno scrittore lo si valuta per quello che ha dato e conveniamo - concludeva Secchi - che parte della critica si è invece lasciata deviare dalla sua obiettività proprio per una questione politica?». Una cosa è certa: Guareschi è stato uno degli scrittori italiani del '900 più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto in tutte le parti del globo. Certo, quando Giovannino morì d'infarto a soli 60 anni, in una mattina di luglio del '68, l'indomani L'Unità titolò: "È morto lo scrittore che non era mai sorto". Si trattava, senza tema di dubbio, dell'uomo che con le sue vignette anticomuniste sul Candido era stato determinante - sul piano propagandistico - per il risultato del '48. Eppure, paradossalmente, Guareschi dovette scontare tredici mesi di carcere per un eccesso di polemica antidemocristiana: «Giovannino - ha rievocato Carlo della Corte - si lasciò impegolare, nel trasporto polemico verso la Dc, persino nella persona di Alcide De Gasperi, in una vicenda di lettere apocrife, che egli pubblicò, attribuendo a De Gasperi varie colpe: tra cui quella di avere invocato sull'Italia i bombardamenti alleati per disfarsi di Mussolini». Insomma, in questo caso i comunisti non c'entrano proprio nulla. Fu infatti per via dei democristiani che Guareschi è stato l'unico giornalista nella storia dell'Italia repubblicana a finire in galera per avere attaccato il potere politico. Mai, infatti, si è arrivati da parte di un direttore di giornale agli oltre 400 giorni di carcere che l'autore di Don Camillo dovette scontare all'apice del successo. Giovannino entra nel carcere San Francesco di Parma il 26 maggio '54 per uscirne solo il 4 luglio dell'anno successivo, dopo ben 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. Cosa era successo? Sul Candido il 24 e il 31 gennaio '54 Guareschi aveva fatto pubblicare due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e che risultavano firmate da De Gasperi, il quale ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Si trattava di due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, "per infrangere l'ultima resistenza morale del popolo romano" nei confronti di fascisti e tedeschi. Il 15 aprile il processo arrivò alla sentenza, davvero a tempo di record e con un'intensa attività diplomatica parallela di cui solo recentemente abbiamo appreso. Al termine, Guareschi, a cui non fu concesso di mettere agli atti la perizia prodotta da quella che all'epoca era un'autorità della grafologia, Umberto Focaccia, venne dichiarato colpevole di diffamazione. Il giornalista rifiutò di fare ricorso o di chiedere la grazia: «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente». Molti dei risvolti di quella vicenda restano ancora misteriosi, a partire dall'origine delle lettere che appartenevano a uno strano faldone nascosto in Svizzera da un ex tenente della Rsi, Enrico De Toma, legato ad ambienti dei servizi segreti, così come recentemente è stato raccontato dallo storico Mimmo Franzinelli in Bombardate Roma! Indagine su un giallo della Prima Repubblica (Mondadori). Indro Montanelli, grande amico di Guareschi, era scettico su quelle lettere: «Io sapevo - ha raccontato - che non erano vere, e mi buttai in ginocchio da lui, e a un certo punto commisi anche una scorrettezza per cercare di impedirne la pubblicazione di cui prevedevo gli effetti nefasti. Andai da Rizzoli, che era il suo editore, ma anche l'editore dei miei libri, e glielo spiegai». Ma Rizzoli non si frappose: «Il direttore del giornale è lui, se lui lo ha deciso, pubblichi». E al riferimento delle conseguenze, aggiunse: «Pagheremo le conseguenze!». D'altra parte, Montanelli confermava la totale buona fede di Guareschi: «Lui era convinto dell'autenticità di quelle lettere. Ci voleva credere perché lui non poteva perdonare alla Dc l'ingratitudine. Guareschi era infatti un uomo assolutamente disinteressato, ma almeno un ringraziamento lo avrebbe meritato per la campagna del '48, gli spettava perché la vittoria si doveva in gran parte a lui?». Franzinelli ha spiegato alcuni retroscena di tutta quell'operazione: «Per De Gasperi la questione era fondamentale, di fronte ad un attacco del genere non aveva altra via che la querela. Appunti e riflessioni coeve al processo dimostrano che sul tema ci fu una sua intima sofferenza». E Franzinelli non ha dubbi sull'esistenza di manovratori occulti che misero la "polpetta avvelenata" nelle mani di Guareschi: «I servizi non erano un corpo omogeneo, c'erano cordate concorrenziali. Una di queste usò Guareschi per colpire De Gasperi». I due documenti, che il leader democristiano dichiarò falsi, facevano infatti parte di un voluminoso corpus di carteggi che comprendeva il famoso epistolario tra il Duce e Churchill. Fatto sta che gli inizi del febbraio '54 De Gasperi sporge querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a 12 mesi di carcere per diffamazione. Invano, nelle quattro udienze del processo, il direttore di Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un'altra d'ufficio. I giudici rispondono che non c'è n'è bisogno. «Mi hanno negato - protesterà lo scrittore - ogni prova che potesse servire a dimostrare che non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi. Il 15 aprile '54 comunque Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere ma si trova costretto a doverne scontare venti per l'aggiunta di un'altra diffamazione che ci riporta indietro di altri quattro anni. Sul numero 25 di Candido del '50 era infatti apparsa una vignetta che ritraeva il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un'etichetta con scritto "Nebiolo - Poderi del Senatore Luigi Einaudi". Si procedette per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Guareschi, direttore responsabile della testata. I due erano stati assolti in primo grado ma poi condannati in appello a otto mesi con la condizionale, che veniva annullata dalla nuova sentenza. Cominciano, certo, le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe forse accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e risponde sul Candido: "No, niente appello". Il 26 maggio 1954 prepara lo zaino, lo stesso che aveva nel lager tedesco in cui era stato deportato ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio '55 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca. Guareschi vittima in buona fede di una manovra ordita da altri? Molti ne sono convinti. Anche se Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Il Guareschi, uscito dalla galera - ammetterà Montanelli - non era più lui. Il suo fisico era già minato dal lungo campo di concentramento subito in Germania. In prigione era popolarissimo, gli offrivano qualche alleggerimento di pena. Ma lui no, non ne volle nessuno, volle essere trattato come il peggiore dei delinquenti rinchiusi lì dentro. Andò così, lui non fu più lo stesso dopo?». Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese di Leo Longanesi riuscì a scrivere qualche articolo. D'altra parte, come apprendiamo dai documenti desecretati e studiati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in Colonia Italia (Chiarelettere, 2015), De Gasperi dovette rivolgersi direttamente a Churchill per ottenere la certificazione dell'inautenticità di quelle lettere in un momento assai critico della sua parabola politica. Il 16 febbraio 1954, infatti, un suo emissario, il funzionario della Farnesina Paolo Canali, raggiunge subito la capitale britannica. Ma gli inglesi temporeggiano e fanno perdere tempo: «La loro tattica - si legge in Colonia Italia - è chiara: non potendo sbattere la porta in faccia al leader del maggior partito italiano, cercano di tenerlo sulla corda il più a lungo possibile. Forse sperano che si logori, nell'attesa che a Roma maturino le condizioni per una sua definitiva uscita di scena". A Londra Canali aspetta e aspetta. Solo a fine febbraio potrà rientrare a Roma con la documentazione che consentirà all'ex premier italiano De Gasperi di affrontare serenamente il processo contro Guareschi. Prima, però, Churchill ha convocato Canali al numero 10 di Downing Street, all'improvviso, a quattrocchi, lontano da occhi indiscreti: «Ma cosa? Alla data, gli archivi di Kew Gardens non conservano traccia alcuna sui contenuti di quel misterioso colloquio tra l'ottantenne Sir Winston e il giovane diplomatico della Farnesina. Sappiamo invece che qualche giorno dopo, il 3 marzo '54, da piazza del Gesù, De Gasperi invia una calorosa lettera di ringraziamento a Churchill». L'affaire si avvia comunque a conclusione solo dopo questi incontri: il 15 aprile, come abbiamo visto, a Milano, Guareschi viene condannato e l'onore del leader democristiano è salvo. «Ma la sua definitiva uscita di scena - è la conclusione del capitolo sul "processo Guareschi" di Colonia Italia - è ormai imminente. Prima dalla politica: sconfitto in giugno al Congresso della Dc, a Napoli, deve lasciare ad Amintore Fanfani la segreteria del partito. Poi dalla vita: in agosto muore per un attacco d'asma, malattia insorta qualche tempo prima. De Gasperi se ne va il 19 agosto, lo stesso giorno in cui, un anno prima, era stato deposto Mossadeq a Teheran».
Laura Antonelli. Il boom dell'erotismo, poi la caduta..., scrive Lanfranco Caminiti il 2 set 2016 su “Il Dubbio”. Con il film "Malizia" diventa il simbolo della libertà sessuale, del desiderio, della rivoluzione dei costumi. Nel 1991 l'arresto per detenzione e spaccio di cocaina. Assolta dopo nove anni, chiede e ottiene un risarcimento mai incassato. Muore nel 2015. Il 26 aprile 1991, nella sua casa di Cerveteri, Laura Antonelli viene arrestata. L'accusa: detenzione e spaccio di cocaina. Carcere femminile di Rebibbia, isolamento. Versione ufficiale: «La nota attrice Laura Antonelli è stata tratta in arresto dai militi della Legione Roma dell'Arma, nel corso di una più complessa operazione ancora in via di svolgimento e su cui nulla può esser detto». Come di prammatica, si mostrano le prove del crimine: su un tavolo, due sacchettini. Quanto pesano? Versione ufficiale: «Fate un po' voi». Presto, della "complessa operazione" si perdono le tracce: l'Antonelli era stata arrestata a casa sua, da sola, da un uomo che aveva accolto come amico e si era rivelato un carabiniere - Altolà. Fermi tutti. La cocaina era in una ciotola del salotto, l'ora tarda, l'Antonelli aveva accennato a qualche passo di danza, insomma una cosa privata. Macché: tre giorni di Rebibbia, poi gli arresti domiciliari. Passano cinque anni per arrivare al processo di primo grado, il 9 maggio 1996: condanna a tre anni e mezzo di carcere per illecita detenzione di stupefacenti e 24 milioni di lire di multa. Un milione per ogni grammo di cocaina, che alla fine questo era il peso del sacchetto a casa Antonelli. «Sono bassina, tondetta e con le gambe un po' corte. Chissà perché piaccio?» - chiedeva civettuola la Laura nazionale, quando sfolgorava. E come piaceva. «Per concludere: se qualcuno avesse da fare, qui a Milano, una rivoluzione, io ho un'idea da proporgli... Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati... Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro. Disposti ad attraversare via Manzoni in canottiera, a entrare in ditta con mezzora di ritardo, a uscire dopo l'orario... Mille uomini, dico, disposti a far all'amore la notte del lunedì, verso l'alba... Datemi questi mille spericolati, e vi prometto che in mezza giornata la città sarà nostra: bloccata, congelata, esterrefatta, intasata, allibita, come se dagli spazi celesti fossero calati i marziani». È un articolo di Luciano Bianciardi, del 1956, per l'Unità. E si intitola Rivoluzione a Milano. Bianciardi, anarchico spericolato, straordinario intellettuale e scrittore, non aveva ancora pubblicato La vita agra, che è del 1962, in cui si scagliava contro l'oppressione sociale di una vita regolata dalla dedizione e dall'ossessione del lavoro. Ma tutte le sue idee stanno già in quest'articolo. Anche quelle sul sesso, come via della liberazione - ne scriverà anche nella Vita agra. «Mille uomini, dico, disposti a far all'amore la notte del lunedì, verso l'alba...». Nell'articolo, per tornare sulla questione, citava - una delle sue paradossali invenzioni del momento, dette come fossero cose provate: «So di una giovane signora che al marito troppo espansivo un mercoledì sera, ebbe a dire: Ehilà, giovanotto, impazzisci? Siamo appena a mercoledì e domattina ho la nota di cassa!». Se si è schiavi del lavoro si uccide la vitalità, e la sessualità che la rappresenta, in nome della produttività economica. Lo stretto rapporto tra sessualità e rivolta venne sviluppato anche in Aprire il fuoco, che è il suo ultimo romanzo, in cui rivisita l'insurrezione antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano, situandola però nel marzo 1959, e mescolando realtà e finzione, passato e presente. Per dire: «Pare che vi fossero pubblici accoppiamenti nei giardini e nei parchi, verso mezzogiorno, ma questo non è del tutto sicuro, può anche essere che il Bianciardi abbia raccontato qualche balla». Per dire: «Secondo le statistiche del comune di Milano, approssimative per difetto, i casi di gravidanza salirono in quei giorni del settantadue per cento». Perché vi parlo di Luciano Bianciardi? Perché Il merlo maschio, film di Pasquale Festa Campanile, in cui Laura Antonelli appare per la prima volta nella sua sfolgorante bellezza, è tratto da un suo racconto, Il complesso di Loth. Siamo a Verona, e c'è un violoncellista, Niccolò Vivaldi, che si sente frustrato. Inizia a fotografare la moglie in pose sempre più audaci. Ne prova piacere. Mostra le foto della moglie ai colleghi. Lei ne è partecipe. Finché, in un'esibizione all'Arena, lei non appare sul palco, nuda, a suonare il violoncello. Vennero giù i cinema. La Antonelli era meravigliosa. Bianciardi volle fare una piccola particina nel film, e Lando Buzzanca - che era il protagonista maschile - lo ricorda sempre ubriaco e ossessionato dalle giovani fanciulle. Fedele alla linea. È vedendo Il merlo maschio che Samperi decide di affidare all'Antonelli - e alle sue generose forme - la parte della serva di casa in Malizia. Erano due anni che andava in giro con il copione pronto, ma non c'erano produttori convinti. Poi, uno decide di accettare ma vuole la Melato. Samperi non molla: Angela La Barbera - la serva che arriva il giorno del funerale della signora, e fa perdere la testa a tutti i maschi di casa, il padre e i due figli, e diventa, lei, "la signora" - è l'Antonelli. Samperi veniva da una buona e ricca famiglia, ma aveva incontrato il '68 e il movimento studentesco. Molla tutto e fa il regista. E il suo primo film è Grazie zia, con Lou Castel e Lisa Gastoni. Uno scandalo. Il film è del '68 e va a Cannes. Ma scoppia il maggio francese e il festival viene annullato. Magari avrebbe vinto la Palma d'oro, chissà. La famiglia, le sue ipocrisie, le sue viltà, i suoi rancori, i suoi tabù, sono al centro dei racconti di Samperi. Lo aveva già fatto con Grazie zia, lo ripete con Malizia. Sono al centro della vita di quegli anni. Sesso, famiglia, rivolta. È un'Italia ipocrita e piccola quella di quegli anni. Gli anni del boom e del miracolo economico, anni di lavatrici e di frigoriferi, di migrazioni e di vita agra, sono immediatamente alle spalle. Siamo diventati ricchi, col duro lavoro, con le miniere e non si affitta ai meridionali. Ma la testa è meschina. Forse è tempo di riposare. Forse è tempo di svariare. Forse è tempo di riprendersi la vita. E per magia tutte queste cose si incarnano in un volto e in un corpo: Laura Antonelli. È l'oggetto del desiderio degli italiani. Malizia si svolge nella Catania degli anni Cinquanta - la Milano del sud - ma potrebbe essere un posto qualunque della provincia italiana, un posto qualunque d'Italia. Non solo i siciliani sono affamati di sesso. Non solo i siciliani sono affamati di trasgressione. Non solo i siciliani sono affamati di rivolta - è da Avola che partì tutto. «È una prospera cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, al centro di una ricchissima zona di orti e di agrumeti. Fino a ieri era noto come il "posto delle mandorle", le buone, dolcissime, tenere mandorle di Avola. Da oggi non si potrà più nominare senza venir colti da un senso di sgomento e di profonda amarezza». Inizia così Volevano solo trecento lire in più, il pezzo di Mauro De Mauro - il giornalista che scomparirà a Palermo nel 1970 inaugurando la stagione dei misteri mai risolti - sui "fatti di Avola". C'era stato uno sciopero dei braccianti contro le gabbie salariali. Solo che non protestavano contro il fatto che ci fosse una differenza di salario tra Milano e Siracusa, ma contro il fatto che a Avola venissero pagati meno che a Lentini. C'era una Zona A e una Zona B. Avola era Zona B. E allora, sciopero. I grandi latifondisti non ne vogliono sapere di incontrare i rappresentanti dei braccianti. Lo sciopero continua. Si fanno i blocchi stradali. I latifondisti chiamano la polizia. La polizia arriva da Catania con le camionette. Hanno i candelotti fumogeni, hanno i mitra. Lunedì 2 dicembre, tutta Avola è bloccata. La strada statale è bloccata. Ci sono le motociclette e le biciclette dei braccianti. C'è un mucchio di pietre. I braccianti lanciano pietre contro la Celere. I poliziotti sparano i candelotti. Solo che il vento è contrario. E i fumogeni vanno verso la polizia. Non vedono nulla. Le pietre arrivano dal cielo. I poliziotti sparano. Due morti, quasi cinquanta feriti. Due chili di bossoli - qualcuno li raccolse e li pesò. È così che comincia il 1968. In Sicilia. In Sicilia, a Acireale, Samperi gira il suo Malizia. Chissà se lo ha fatto perché era a uno sputo da Avola. La Antonelli - un'istriana, nata a Pola, di cognome era Antonaz - recita in siciliano. Chi ci faceva caso? La sua parabola di vita - il desiderio collettivo, l'immaginazione accesa, l'erotismo come forma di democrazia popolare, e poi il lento declino, i disastri, i guai, il ritiro, il silenzio - sembra un po' la parabola di quegli anni e dell'Italia tutta. Era bella l'Italia tra la fine degli Sessanta e l'inizio dei Settanta. Era bella e desiderabile. Mai volgare. Bella e desiderabile come non lo è stata mai più. Mai volgare come è diventata poi. Nove anni dopo quella notte dell'arresto, il 16 marzo 2000 la Corte d'appello di Roma assolve l'attrice perché il fatto non era più previsto come reato. Niente spaccio, consumo privato - non ci voleva Sherlock Holmes per capirlo, ma. Gli avvocati allora chiedono un risarcimento: la vita della loro assistita era stata stravolta, la sua carriera professionale non ne parliamo. Certo, non era più l'attrice desiderata da tutti, ma ancora lavorava, faceva qualche particina. La Corte d'Appello di Perugia, nel 2006, considera effettivamente un po' troppini nove anni (dall'arresto del 1991 alla sentenza definitiva del 2000) perché la matassa si sbrogliasse. Le riconoscono un risarcimento di diecimila euro. Gli avvocati non ci stanno, ricorrono ancora. La Corte di Cassazione di Roma riconosce, nel 2007, che c'era stato un rapporto di causa/effetto tra l'arresto e il piano inclinato di vita e lavoro della Antonelli: nel 2003 era stata ordinata una perizia psichiatrica per stabilire se lo stato dell'attrice, all'epoca alle prese con deliri mistici e voci nella testa, fosse dovuto all'assunzione di cocaina nel periodo culminato con il suo arresto o se fosse configurabile un nesso di causalità con la durata del processo penale. Lo psichiatra dichiarò che la lunghezza della vicenda giudiziaria aveva «senz'altro influito in modo determinante sulla destabilizzazione psichica dell'Antonelli». La Cassazione stabilisce una nuova cifra: centomila euro. «Sono contenta, non me l'aspettavo», commentò l'Antonelli. E i suoi legali mostravano soddisfazione per la sentenza che stabiliva un importante precedente alla luce della cronica lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani. Qualche anno dopo, nel 2010, l'amico Lino Banfi si fece avanti per chiedere per l'Antonelli la legge Bacchelli, che riconosce un vitalizio a artisti italiani in stato di necessità. Banfi accennò pure al risarcimento stabilito dalla Cassazione: non s'era visto nulla.
Serena Grandi: «Pensavo di stare su Scherzi a parte e mi hanno rovinata», scrive Franco Insardà il 23 agosto 2016 su "Il Dubbio". «Roma non la reggevo più. Non sopportavo più il cinismo, il traffico, gli odori. Sono tornata a Rimini dopo aver girato il film di Sorrentino, che sono orgogliosa d'aver fatto, mi ha reso consapevole di tanta inutilità». «E' un'ex soubrette televisiva in completo disfacimento psicofisico». «E che cosa fa ora?». «Niente, che deve fare». Quante attrici avrebbero accettato un ruolo simile? Serena Grandi, invece l'ha interpretata alla "grande", come ha fatto con tutti i ruoli che le sono stati proposti nella sua carriera. «È stato un modo per liberarmi dai fantasmi della mia vita - ha dichiarato recentemente -. Ho voluto esorcizzare quella vicenda. E ci sono riuscita». Era il 2003 quando finì ai domiciliari per una storia di cocaina. Paolo Sorrentino ne La Grande Bellezza la dipinge in modo impietoso: è la festa di compleanno del personaggio di Toni Servillo, Jepp Gambardella, e lei, Serena Grandi-Lorena, esce da una torta di due metri, vestita con un mini abito di pietre preziose. Sui seni ha scritto 6 e 5, gli anni del protagonista, il re della mondanità perso in tristi baldorie. Quell'immagine decadente della Roma mondana extracafonal dalla quale Serena Grandi si è voluta allontanare per ritrovare se stessa e i suoi affetti più cari: su tutti suo figlio Edoardo («Il mio successo più bello. È il mio Oscar», ripete a ogni intervista). Si è ritirata, lei di Bologna ma romagnola nel modo di essere, a Rimini, dove ha gestito per qualche anno un ristorante "La Locanda di Miranda". Quel personaggio che Brass le ha costruito addosso le è rimasto incollato per sempre e per tutti lei è rimasta la generosa sensuale e ironica locandiera. Così spiega la sua fuga da Roma: «Roma non la reggevo più. Non sopportavo più il cinismo, il traffico, gli odori. Sono tornata a Rimini dopo aver girato il film di Sorrentino, che sono orgogliosa d'aver fatto, mi ha reso consapevole di tanta inutilità». Dalla Miranda di Tinto Brass alla Lorena di Paolo Sorrentino. E in mezzo tanti film, un amore tormentato, un figlio e quasi dieci anni di "Cleopatra". Purtroppo per lei non si tratta della messa in scena della storia della famosa regina egiziana, resa famosa dall'interpretazione di Liz Taylor, ma è solo il nome fantasioso che gli investigatori romani, coordinati dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, diedero all'inchiesta, con 19 ordini di custodia cautelare e 35 perquisizioni tra cinema, politica, imprenditoria. Tra loro anche lei, Serena Faggioli all'anagrafe, accusata di spaccio di droga. In manette finì anche un'altra scoperta di Tinto Brass: Lyudmila Derkach, ex Miss Ucraina, 26 anni, che avrebbe organizzato numerosi festini a base di sesso e cocaina. In quell'inchiesta "Cleopatra", ci finirono pure due finanzieri, Rocco Russillo e Stefano Donno, in servizio di scorta al senatore a vita Emilio Colombo. E altri due politici, Giuseppe Galati, Udc, sottosegretario alle Attività produttive e Bruno Petrella, An, vicepresidente del consiglio provinciale di Roma, vennero sfiorati, ma i due, così come Emilio Colombo, furono considerati solo consumatori di cocaina e non vennero accusati di alcun reato. L'elenco degli indagati si arricchì di altri nomi molto noti nei salotti romani: Alberto Quinzi 51 anni, contitolare di uno dei templi della gastronomia romana, il ristorante "Quinzi e Gabrieli", Armando De Bonis, direttore di divisione del ministero delle Attività produttive, l'avvocato Maurizio Tiberi, gli imprenditori Stefano Barbis, (edilizia), Francesco Ippolito (moda) e Maurizio Bigelli (opere pubbliche). Le accuse erano, a vario titolo, spaccio e favoreggiamento della prostituzione. In un attimo Serena Grandi venne trascinata in una storia che non le apparteneva. «Appena ho avuto modo di leggere il provvedimento mi resi subito che contro di lei non c'era nulla di penalmente rilevante», racconta a Il Dubbio l'avvocato Valerio Spigarelli, difensore dell'attrice. Serena Grandi qualche anno dopo raccontò: «Quando arrivò la polizia a casa mia, alle 5 del mattino, pensai di essere su Scherzi a parte. Ero innocente, mi sono ritrovata al centro di una congiura incredibile». Purtroppo non si trattava di uno scherzo: rimase 157 giorni agli arresti domiciliari. «L'hanno tenuta per circa sei mesi reclusa in casa - continua l'avvocato Spigarelli - sulla base di intercettazioni dalle quali non emergeva nulla. Colloqui tra amici per organizzare una colletta, con 50 euro a testa, per comprare della cocaina per uso personale. Cose che succedono spesso ancora oggi e a ogni livello: i famosi consumatori del sabato. Intanto la Grandi fu sbattuta in prima pagina, con tanto di foto segnaletiche. Presentammo varie istanze alle procura di Roma per la scarcerazione, anche il Riesame rigettò le nostre richieste. Fu necessaria la Cassazione per ottenere un provvedimento che era nelle carte, di fronte al quale il Riesame non potette fare altro che prendere atto. Non solo non c'era alcun bisogno della misura restrittiva, ma non esisteva alcun reato attribuibile alla mia assistita. Ci fu negata persino l'istanza per una visita ginecologica, come se si trattasse di una pericolosissima criminale». L'attrice più volte dichiarò: «Se non fossi Serena Grandi, ma Maria Rossi tutto questo non sarebbe successo». Ma l'avvocato Spigarelli, sempre in prima linea per la difesa dei diritti di tutti, amaramente commenta: «Purtroppo queste vicende non sono così rare e le tante Maria Rossi restano in carcere per mesi, con accuse che si basano sul nulla, senza che qualcuno si prenda la briga di valutare serenamente gli atti. Nella vicenda di Serena Grandi fummo noi a presentare un'istanza alla procura per farci ascoltare, dal momento che era così evidente l'insussistenza delle accuse». Finalmente gli stessi pm, Giancarlo Capaldo e Carlo Lasperanza, si convinsero delle ragioni esposte dall'avvocato Spigarelli e chiesero al gip l'archiviazione della posizione della Grandi. Non si arrivò mai a processo, ma ci vollero circa otto anni. Poi, ad aprile di quest'anno, dopo dodici anni e cinque mesi, il tribunale di Roma ha emesso la sentenza per gli altri indagati: tutti assolti per non aver commesso il fatto, ad eccezione di Giuseppe Martello, condannato a 5 anni di reclusione per spaccio di sostanze stupefacenti, e di Lyudmyla Derkach, 4 anni e 6 mesi per sfruttamento della prostituzione. La famosa inchiesta "Cleopatra", quindi, è crollata, lasciando però un danno di immagine incalcolabile alle persone coinvolte. Serena Grandi nel 2011 è stata risarcita per ingiusta detenzione con 60mila euro. L'avvocato Valerio Spigarelli nella sua istanza aveva richiesto un risarcimento di 500 mila euro per le conseguenze patite dalla sua assistita. I giudici hanno condiviso l'argomentazione del legale nella parte in cui evidenziava che la «detenzione ai domiciliari ha prodotto nell'attrice danni morali e materiali ingenti» e tra questi «danni psicofisici costituiti da uno scompenso ormonale di rilevante gravità e da uno stato di depressione acuta» oltre a danni conseguenti alla «lesione dell'immagine e della rispettabilità sociale nonché professionale, con riferimento particolare al mancato perfezionamento di numerose trattative, tra cui quella relativa alla partecipazione all'Isola dei famos». Secondo i giudici della quarta Sezione penale della Corte d'appello di Roma appaiono «rilevanti i danni morali conseguenti all'ingiusta detenzione, avuto soprattutto riguardo all'assoluta incensuratezza di Serena Grandi e alla gravità delle accuse», così come sono «altrettanto rilevanti i danni conseguiti alla lesione dell'immagine, anche per la notorietà acquisita dalla vicenda finita sugli organi di informazione». Sempre per i giudici «le intercettazioni telefoniche, su cui unicamente si fondavano le accuse a carico di Serena Grandi, hanno un contenuto inidoneo a supportare quel quadro indiziario necessario per l'emissione della misura cautelare». Peccato che la quantificazione del danno abbia differito di molto rispetto a quanto chiesto dal legale di Serena Grandi per quei 157 giorni di arresto. Un momento davvero difficile dopo una carriera piena di successi, prime pagine da protagonista delle feste e dei salotti romani, il matrimonio con il playboy e antiquario Beppe Ercole (ancora oggi, il 19 agosto, Serena Grandi lo definisce sulla pagina Facebook «un grande uomo il più simpatico di tutti...spero che faccia ridere tutti come hai sempre fatto nella tua vita»). Una storia finita, dopo una decina di anni, con il tombeur de femmes che conquista Corinne Clery, l'indimenticabile interprete di Historie d'O peraltro amica di Serena. Se fino ad allora tutto sembrava aver girato per il verso giusto, ecco che il mondo sembra esploderle intorno. Quel mondo che l'aveva consacrata negli anni 80 come una icona della bellezza italica: sensuale e affascinante. Nata a Bologna, classe 1958, Serena ha sempre desiderato recitare e così, appena le è stato possibile, si è trasferita a Roma. L'inizio della sua carriera è fatta di piccole parti (Tranquille donne di campagna, La compagna di viaggio, Teste di quoio), poi comincia a farsi conoscere e arrivano altri film (Pierino colpisce ancora, Pierino la peste alla riscossa), nei quali è già tra i protagonisti (Sturmtruppen 2 - Tutti al fronte, Acapulco, prima spiaggia... a sinistra e nell'episodio L'imbiancone della serie tv Sogni e bisogni di Sergio Citti in onda su Rai 2 in cui recita con Carlo Verdone). E ancora "Le avventure dell'incredibile Ercole" di Luigi Cozzi con Lou Ferrigno e l'horror Antropophagus di Joe D'Amato, divenuto un cult del genere horror. Serena Grandi con il suo fisico prorompente non passa inosservata e arriva in tv su Rai2 (Il cappello sulle ventitré), dove con i suoi striptease diventa il sogno proibito di tanti italiani. È ormai al top e, come ha raccontato, a lei si interessano in molti fino a ricevere le attenzioni e le telefonate di Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi. Arrivano i film di qualità, Tu mi turbi dove interpreta una cameriera e recita accanto a Benigni, e Malamore, dove diretta da Eriprando Visconti ha il piccolo ruolo di una prostituta di alto bordo. Ma è l'incontro con Tinto Brass nel 1985 a consacrala definitivamente. In Miranda è la locandiera che fa sognare gli italiani. Dino Risi vuole che sia Teresa, con l'esordiente Luca Barbareschi. Sergio Corbucci le scrive addosso Roba da ricchi e Rimini Rimini, in cui Serena è affiancata da Paolo Villaggio, e mostra la sua capacità di far sorridere e di essere perfetta per ruoli brillanti nelle commedie. Ma anche quando Lamberto Bava la fa recitare in un thriller, Le foto di Gioia, il suo personaggio lascia il segno. Luigi Magni le affida una parte accanto ad Alberto Sordi, nel film In nome del popolo sovrano. Cinema e tv la consacrano come una delle donne più ammirate degli anni 80, piace ed è simpatica anche alle donne che scoprono la sua genuina sensualità. E così sul piccolo schermo inanella una serie di successi: Donna d'Onore, per la quale vince pure un Telegatto, Piazza di Spagna, Il Prezzo della Vita, Pazza Famiglia, Anni '50, Ladri si nasce e Le ragazze di Piazza di Spagna. Nel 1998 Tinto Brass la richiama nel suo nuovo film Monella e Luciano Ligabue le fa interpretare la madre di Stefano Accoprsi in Radiofreccia. Purtroppo la parabola del successo subisce lo stop della vicenda "Cleopatra" Serena Grandi non è più l'attrice che i registi cercano e le sue curve sono diventate più abbondanti. «Sono stata risarcita dallo Stato - dichiara qualche anno dopo - ma era impossibile quantificare la mia disperazione, ho fatto una donazione. Dopo Miranda, non volevo cadere nel viale del tramonto, avevo paura di diventare la Laura Antonelli di turno. Non è facile volersi bene. Mi punivo mangiando. Ingrassavo, non mi curavo». Sulla sua strada, per fortuna, incontra un altro maestro del cinema italiano, Pupi Avati, bolognese come lei, che riesce a tirare fuori un lato dell'attrice poco conosciuto: la sua umanità. Ed eccola ne Il papà di Giovanna, e con esso arriva anche la scrittura nel cast della produzione televisiva Una madre per Rai1. Poi, due anni dopo, nel 2010, torna sul grande schermo con Una sconfinata giovinezza, sempre di Pupi Avati. Non è più l'icona sexy, ironica e sensuale che Tinto Brass le aveva cucito addosso, ma dopo tutto quello che le è accaduto, Serena ci ha fatto scoprire un lato artistico nuovo, quello della caratterista che ce l'ha riportata alla grande bellezza del cinema. Delle sua traversie giudiziarie, pagate a caro prezzo, Serena preferisce non parlare, abbiamo provato a contattarla, ma ha preferito chiudersi nel riserbo. E in fondo è giusto così. Lei, una delle poche sopravvissute tra le stelle a processo che vi abbiamo raccontato, è riuscita ad andare avanti lo stesso. A testimonianza di un grande carattere, e di uno spirito, nonostante tutto, ancora indomito.
Il cardiochirurgo Marcelletti: le accuse, il suicidio e un romanzo che lo riscatta, scrive Angela Azzaro il 30 ago 2016 su “Il Dubbio”. Per la serie estiva "Processo alle stelle" il caso del celebre medico dei bambini che accusato di pedofilia si toglie la vita La sua storia gloriosa e controversa finisce a Roma un 6 maggio qualsiasi del 2009 all'ospedale San Carlo di Nancy. La diagnosi iniziale è pacifica: morto per un malore al cuore. Ma a poco a poco emerge la verità. Una tristissima verità. Il più famoso cardiochirurgo italiano per l'infanzia, uno dei più famosi al mondo, si è tolto la vita ingerendo farmaci per il cuore in dose massiccia. Carlo Marcelletti si è suicidato dopo mesi di profonda depressione. Un anno prima era stato arrestato con l'accusa di truffa, peculato e concussione, ma soprattutto con l'accusa ancora più infamante di pedopornografia. Il Tribunale del Riesame gli permette di uscire di prigione e di tornare la lavoro, ma per lui è finita. Fino a quel giorno del 2008, quando su di lui si abbatté la mannaia mediatico-giudiziaria, era stata una sfilza di successi. Cardiochirurgo pediatra, aveva dalla sua numeri impressionanti: 25 mila bambini curati, 10 mila operati. È il 1986, quando in Italia, grazie a lui, si effettua il primo trapianto su un bambino. Le sue mani d'oro, assicurate per tre miliardi quando ancora c'erano le lire, erano il frutto di studio, fatica, coraggio che lo avevano portato a frequentare le più importanti università e i migliori ospedali del mondo. Lui era uno dei migliori, forse il migliore. Fino a quel maledetto giorno in cui, di fronte ad accuse così infamanti, non riuscì ad affrontare la vita con lo stesso coraggio. La forza che aveva messo in gioco per gli altri, non la trovò per se stesso. Lui, che aveva affrontato polemiche e liti, si chiuse nel suo mondo. Quando si uccise, erano lontani i giorni in cui senza tentennamenti difendeva la decisione di operare due gemelline siamesi per tentare di separarle. Sapeva che non sarebbero sopravvissute entrambe, ma almeno una la voleva salvare. Dopo qualche mese morirono tutte e due. Ma lui ci credeva, lo faceva per amore della medicina e della vita. Di quell'amore a maggio del 2009 non restava più niente. Era accusato dalla procura di Palermo di farsi dare i soldi per favorire i genitori dei bambini che dovevano essere operati. In cambio di denaro, secondo l'accusa, garantiva una corsia privilegiata. In tutto gli venivano contestati 5000 euro. Sommati con quelli che rientravano nel capitolo truffa, si arrivava a ventimila euro. Difficile credere che un uomo brillante e pieno di successo potesse rovinarsi la vita per questa cifra, ma il processo - che ragionevolmente lo avrebbe scagionato - non si tenne mai. L'arresto per molti era sufficiente a decretare che era colpevole. L'accusa peggiore era quella di pedofilia. Il cardiochirurgo, che all'epoca aveva 64 anni, ammise di aver avuto uno scambio di messaggi hard con la figlia tredicenne di una sua amante, ma sosteneva di non avere avuto con lei altro tipo di rapporti. Ma la macchina del fango era ormai scattata, la sentenza era stata emessa. E Marcelletti dimagrì 40 chili in pochi mesi. La storia però non finisce il 6 maggio del 2009. Questa volta no. Il fango non insabbia tutto, la gogna mediatica non cancella ogni traccia. Al posto di un giornalista si trova uno scrittore, uno dei migliori che c'è in circolazione. E la discesa agli inferi del cardiochirurgo, l'infamia che lo colpisce e che gli rovina la vita fino a spingerlo al suicidio, viene presa come spunto per pubblicare nel 2010 un grande romanzo dal titolo che non lascia scampo: Persecuzione, prima parte del dittico Fuoco amico dei ricordi. Lo scrive Alessandro Piperno che due anni dopo, con la seconda parte Inseparabili, vince meritatamente il Premio Strega. Persecuzione è la storia di Leo Pontecorvo, oncologo pediatra di successo che viene accusato di pedofilia. Per fuggire alla gogna mediatica e al giudizio dei famigliari - la moglie non gli parla più - si rifugia nella parte inferiore della casa. Non lo vedrà più nessuno. Gli lasciano il cibo là dove lui può andarlo a prendere senza essere avvistato e senza dare disturbo. Pur non avendo fatto niente, se non aver ceduto per un momento alle lusinghe di una ragazza molto giovane, si sente in colpa. Anche per Marcelletti è stato così. Oppresso dal senso di colpa, devastato dal giudizio che tutti ormai avevano su di lui, diceva: «Non trovo né giustificazioni, né attenuanti verso me stesso. Vorrei farmi perdonare dalle persone che ho deluso, prima di tutto dai bimbi che adesso non potrò più curare». Ma né lui, né il suo doppio letterario saranno perdonati. Pontecorvo uscirà dal sottosuolo della sua casa, solo quando a causa di un malore smetterà di vivere. Piperno con Persecuzione fa una cosa rarissima nella letteratura contemporanea italiana: prova a raccontare il presente. E lo racconta nel punto più dolente: il bivio che ogni giorno ci troviamo davanti tra civiltà e barbarie. La civiltà è lo Stato di diritto. La barbarie è il giustizialismo: quel combinato di gogna mediatica e giudizio anticipato che da anni sta minacciando il tessuto sociale e politico del Paese. Piperno lo racconta e fa anche un passaggio in più: lo fa diventare letteratura, grande letteratura. Quasi un classico, in un'epoca dove niente sembra poter assurgere a questa definizione. Persecuzione sì: è un romanzo che mette le mani in pasta nella storia dei nostri giorni facendola diventare lingua, immaginario, simbolico. Marcelletti forse non troverà mai il riscatto che merita. Non basterà un libro a salvare la sua memoria. Ma noi leggendo Persecuzione ci ricordiamo di lui, ci ricordiamo di noi: del tempo così complesso che stiamo attraversando spesso privi di guide e strumenti che ci conducano in salvo. Piperno per dare forza alla sua costruzione letteraria ha una trovata geniale: la discesa nella parte bassa della casa, trasforma Pontecorvo in Gregor Samsa, il protagonista de Le metamorfosi. Nel racconto di Franz Kafka la trasformazione è da umano a scarafaggio. Gregor è un grigio commesso viaggiatore che persa la sua identità, il desiderio di vivere, perde anche la sua umanità. Solo da insetto, quando tutti hanno paura di lui e si augurano la sua morte, capisce di essere importante, recupera se stesso. Pontecorvo si trasforma sotto i colpi dell'ingiustizia subìta. Perde la sua umanità per le mazzate di coloro che hanno decretato la sua condanna. Striscia, si nutre recuperando di nascosto il cibo che gli viene lasciato quando la porta è chiusa. Pontecorvo è Gregor Samsa, è Marcelletti. E' chi, perdendo tutto, ci racconta quanto ingiustamente possa soffrire un essere umano. Nel passaggio dalla cronaca alla letteratura, chi ci resta in mezzo è il lavoro dei giornalisti. Sono i primi che spesso non hanno pietà, sono i primi che scagliano la prima pietra contro chi viene accusato, più o meno ingiustamente, di qualcosa. Sono i primi che pretendono di sostituirsi ai giudici e che non consentono appelli o cassazioni. La letteratura, almeno una certa letteratura che ancora per fortuna sopravvive, conserva la pietà. Usa la lingua non per condannare, ma per capire. Usa la narrazione non per mettere alla gogna, ma per farci identificare con chi sbaglia, impedendoci di sentirci perfetti o migliori. Ma oggi la buona letteratura la leggono in pochi.
Arrestato, umiliato e messo al bando: l'infarto fu casuale? Scrive Franco Insardà il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Le accuse per Gigi Sabani furono archiviate, ma lo scandalo distrusse la sua carriera. Tra la sua ex e il pm Chionna, che lo indagava, scoppiò il classico colpo di fulmine e lui commentò: "Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore". «Che mi hanno combinato! Così mi diceva Gigi da quella finestra, in quella casa dove era ai domiciliari, quando mi vedeva passare in strada. Io cercavo di rincuorarlo dicendogli di stare tranquillo, che presto sarebbe finito tutto. Tredici giorni in casa che, per uno come lui abituato a stare sempre in mezzo alla gente, sono stati una vera sofferenza». Edy, gestore dal 1990 con la moglie Francesca di un bar in largo Tassoni, ricorda bene quei giorni che hanno segnato per sempre la vita del suo amico Gigi Sabani, che viveva nell'appartamento a pochi passi dalla sua attività in via dei Banchi Nuovi. Alla cassa del bar fa bella mostra di sé una foto con Gigi sorridente come al solito, che lo abbraccia, più piccoli altri due scatti: uno sempre con Sabani e un altro che ritrae un arzillo vecchietto. «È Aristide, aveva un'osteria qui a fianco. Quando chiudeva veniva qui e cantava stornelli e canzoni romanesche e Gigi si divertiva tanto», ricorda Edy. Quando furono revocati gli arresti domiciliari per il quartiere fu una festa. «Tutti si riunirono qui in piazza Tassoni, ognuno portava una bottiglia per brindare, per Gigi fu un'iniezione di vita. Io cercavo di stemperare l'entusiasmo, anche nei giorni successivi, ma lui mi diceva: lasciali fare». Aveva bisogno dell'affetto del suo pubblico per riprendersi da quella brutta avventura. La sua era una carriera che fino a quel momento non aveva conosciuto stop: tanti spettacoli, programmi televisivi anche da conduttore, premi. Una vita sulla cresta dell'onda che viene bruscamente interrotta con un danno di immagine incalcolabile. In poche ore Sabani si ritrovò nella polvere, travolto da un'accusa falsa e infamante. La prima Vallettopoli - la seconda è legata al pm di Napoli, all'epoca a Potenza, Henry John Woodcock - era partita da Biella con l'inchiesta sulla scuola per modelle "Celebrità", che avrebbe ospitato incontri privati fra le ragazze e uomini di spettacolo con l'obiettivo di ottenere contratti al cinema o in tv. L'accusa per Gigi Sabani fu di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione e per questo il 18 giugno del 1996 fu arrestato. A metterlo nei guai furono le dichiarazioni dell'allora minorenne Katia Duso, aspirante showgirl, che raccontò al pm Alessandro Chionna di approcci sessuali con Sabani, a Roma, nell'estate 1995, in cambio della promessa di un aiuto per lavorare nello spettacolo. Edy ricorda bene quel giorno: «Gigi stava sempre qui da noi. Mi disse di far mangiare una ragazza che avrebbe dovuto accompagnare a fare un provino. Era andata a prenderla alla stazione Beppe Pagano (ex factotum e autista di Sabani per anni, diventato uno degli accusatori) la portò al bar, poi arrivò Gigi e insieme andarono all'Hilton per i provini. In serata mi telefonò e mi disse che stava facendo fare un giro in macchina alla ragazza, prima di accompagnarla a prendere il treno. Tutto qui». In quella vicenda insieme a Sabani furono coinvolti anche Valerio Merola e Raffaella Zardo. Il primo diventato per tutti il "Merolone", perché la difesa dell'avvocato si basò anche sulle presunte "grandi dimensioni" del pene del suo assistito che non avrebbero potuto rendere possibile la violenza di cui era accusato (induzione alla prostituzione, atti di libidine violenta e violenza carnale) fu rinchiuso per dieci giorni nel carcere a Regina Coeli. La Zardo fu indagata e messa agli arresti domiciliari durante le indagini, con l'accusa di aver indotto tre ragazze alla prostituzione. L'indagine del pm Chionna si allargò anche a Gianni Boncompagni, al quale venne notificato un avviso di garanzia con la contestazione da parte del pm biellese dell'accusa di induzione alla prostituzione. Per tutta l'estate i pm Chionna e Serianni interrogarono decine di ragazze che in quegli anni avevano avuto un ruolo nella trasmissione Non è la Rai, poi chiesero l'archiviazione per l'inventore di Alto gradimento e di tante altre trasmissioni di successo. Gigi Sabani, difeso dall'avvocato Vincenzo Siniscalchi, venne scarcerato il 1 luglio e presentò una denuncia per abuso d'ufficio nei confronti di Chionna. L'inchiesta fu trasferita a Roma per "incompetenza territoriale" del foro di Biella e il 13 febbraio 1997 arrivò la richiesta di archiviazione del pm Pasquale Lapadura, accolta dal gip il 18 febbraio 1997. Per l'ingiusta detenzione Sabani ottenne il risarcimento di 24 milioni di lire. La quarta sezione della Corte di appello di Roma sentenziò: «Posto che la detenzione si riferisce al giugno sembra che il calo degli introiti netti del '97 (154 milioni di lire rispetto ai 400 dell'anno precedente) non sia ad essa correlata direttamente e che dipenda da altre ragioni: esistenza del procedimento penale a carico, che non è produttiva di diritti alla riparazione; e diffusione, tramite i mezzi di comunicazione, delle notizie circa la posizione di Sabani con riferimento a suoi interrogatori». «Il discredito sociale riparabile - hanno rilevato i giudici - è solo quello dipendente dalla detenzione e non dalla imputazione», e «la detenzione si svolse tutta agli arresti domiciliari, regime meno afflittivo di quello della custodia cautelare in carcere». Ma Sabani più volte commentò amaramente: «I giudici sono gli unici che non pagano mai anche se sbagliano». Vittorio Sgarbi, un personaggio che non le manda a dire, sulla figura di Sabani tombeur de femmes espresse all'epoca un'opinione molto precisa: «È un'accusa ridicola. Si tratta del tipico non trombatore. Sabani che molesta? Andiamo. Lo incontravo sempre al ristorante Matriciano, verso l'una di notte, circondato da un codazzo di semi gorilla e altri personaggi... ». Un ruolo confermato anche dall'amico del cuore di Gigi: «Dopo la separazione dalla moglie comprò l'appartamento di via dei Banchi Nuovi da Amy Stewart e, se non era in giro per fare spettacoli, stava sempre qui al bar. Eravamo la sua famiglia. Quando aveva qualche lieve malanno mia moglie gli preparava una semplice minestrina, ma per lui era una cosa eccezionale. Spesso veniva suo figlio Simone che è diventato amico di mio figlio: un rapporto che continua anche oggi». Quello di Gigi e le donne è un capitolo particolare perché dalle cronache e dai racconti emerge il ritratto di un uomo semplice, al quale piaceva stare in mezzo alla gente, farsi fotografare con i suoi fan, ma che è stato nella sua vita spesso solo. Dopo la separazione dalla moglie, Rita Imperi, dalla quale ha avuto il figlio Simone, Gigi ha avuto altre donne che, ognuna a suo modo, hanno segnato la sua vita. Anita Ceccariglia, sua fidanzata per quattro anni, ex di Non è la Rai, fu convocata alla procura di Biella come testimone dal pm Chionna, all'epoca 29enne. Quell'incontro fu galeotto. Tra la ragazza e il pm, appassionato anche di motori tanto da disputare gare del Campionato italiano velocità turismo, scoccò la scintilla. Il dottor Chionna lasciò l'inchiesta, ma Gigi Sabani chiosò: «Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore». E Valerio Merola aggiunse amaramente: «Se i primi incontri fra i due si fossero svolti mentre l'inchiesta era ancora nelle mani di Chionna, ci sarebbe da meditare». Alla fine della vicenda biellese Gigi si fidanzò con Fabiana Savi e decise di andare via dall'appartamento di via dei Banchi Nuovi. «Per me e per tutti noi che gli siamo stati vicini in questi anni - racconta oggi Edy - è stato quasi un tradimento. Gigi mi diede tutte le targhe e i Telegatto che aveva vinto nella sua carriera: "Tienili tu mi disse, so che ti fa piacere". E io li conservo come fossero reliquie del mio amico. Queste sono le chiavi dell'appartamento di via dei Banchi Nuovi e questi i doppioni di una delle sue macchine, una Mercedes decappottabile. Dopo il trasferimento è venuto sempre qui al bar, ma spesso era triste, soprattutto per quel marchio che si portava addosso, nonostante fosse tutto finito». Dopo sei anni anche quella storia giunse all'epilogo. Poi ci fu l'ultimo amore della sua vita, scoppiato un anno prima della morte. È Gabriella Ponzo, un'attrice che dopo un inizio nel cinema (Il corpo dell'anima e Quartetto di Salvatore Piscicelli, un piccolo ruolo in Gangs of New York di Martin Scorsese, protagonista con Tinto Brass in Fallo), ha continuato la sua carriera anche in teatro. Qualche giorno dopo la morte di Gigi, Gabriella Ponzo ha scoperto di aspettare un bambino: il 19 maggio 2008 nacque Gabriele Sabani. Gigi Sabani non amava ricordare quella vicenda che gli aveva sconvolto la vita e per la quale tanti che riteneva amici lo avevano tradito o gli avevano girato le spalle. Nel libro di Antonello Sarno Al cuor non si comanda - Vallettopoli 1 si sfogò: «Come morire a occhi aperti. Vedi quello che ti succede e non puoi farci niente. Anzi, una cosa la puoi fare: conti i buoni, pochissimi. La famiglia, poi Lino Banfi, Gianni Morandi, Arbore, Celentano, Cutugno e Maurizio, sì Costanzo, più degli altri. Poi i cattivi, cioè quasi tutti. Perché l'ambiente è una merda». Poi una sera, dopo dieci anni da quella brutta storia, Gigi è casa della sorella Isabella, nel quartiere Prenestino dove è cresciuto. Ha bisogno di stare un po' in famiglia, ha ritrovato l'amore di una donna, non ha mai perso l'affetto del suo pubblico, ma stenta a rientrare nel giro grosso della tv. Addirittura alcune trasmissioni ideate e nate per lui vengono affidate ad altri che neanche lo invitano. Quella sera, il 4 settembre 2007, verso le 20 non si sente bene, chiamano il medico di famiglia che lo visita ed esclude complicazioni. Ma dopo qualche ora di dura lotta, purtroppo, il suo cuore non ce la fa. Ai suoi funerali ci sono tante persone semplici che lo hanno conosciuto e gli amici e i colleghi più cari. Merola, l'amico coinvolto insieme a lui nell'inchiesta ha parole durissime: «Questa morte ha una firma. Le ingiustizie alla fine danno questi risultati». Maurizio Costanzo ribadisce: «Il mio ricordo va a quando, con il Maurizio Costanzo Show, cercai di ridargli forza perché fu travolto da uno scandalo finto, che non lo riguardava». Un altro che lo conosceva bene, Pippo Baudo, di Sabani disse: «Ha avuto un grande, meritato successo. Era un buono e ha sofferto tantissimo quando è stato accusato ingiustamente. Quella cosa lo ha ferito, non se lo era mai dimenticato». Un giudizio simile lo diede anche Giancarlo Magalli: «La vicenda lo aveva danneggiato umanamente e artisticamente. Aveva un forte senso dell'amicizia, vide molti sparire e ci rimase male, io gli restai vicino, ma chi fa questo lavoro vive anche dell'amore e della fiducia del pubblico. Chissà se quello che è successo non sia la conseguenza di tante angosce che si è tenuto dentro».
Tortora, storia di un perseguitato senza pace. Trent'anni fa veniva scarcerato Tortora. Ma il suo incubo prosegue ancora oggi. Tra giudici che rifiutano di pentirsi e mascalzoni che si paragonano a lui, scrive Massimo Del Papa il 15 Settembre 2016 su "Lettera 43". Enzo Tortora, stella di prima grandezza del giornalismo e dell'intrattenimento televisivo, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l'opinione pubblica: la sua storia impossibile (guarda le foto) diventerà un modo di dire, usurpato da fior di mascalzoni che, appena inchiodati, puntualmente proclamano: «Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora». Non è quello che avrebbe voluto la vittima del «più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese», come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca. Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli pur tra qualche caduta di stile - proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il crucifige, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera, fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione. Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”. Era una buona compagnia: dare addosso a Tortora è facile, la stampa si scatena, moltissimi opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, dimostreranno carognesca superficialità: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto». E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi 'commissari torturatori'. È difficile, in quella temperie, considerare Tortora innocente, e scriverlo. Si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono. Il calvario: 1.768 giorni dall'arresto alla morte. Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando Tortora verrà riabilitato, saranno visti piangere come lui, insieme a lui. Il calvario di Enzo Tortora dura 1.768 giorni, dal quello dell'arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8). Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell'impotenza sembrano non avere mai fine. Alla vigilia dell'arresto di Tortora, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente, con tanto di nome forte, uno della televisione. Uno grosso. Chi? «Uno che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto». Quella giusta è la “T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, attacca e non ci pensa più. Lo andranno a prendere poche ore dopo. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e sfatta. Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: «Tortora ha confessato». Quando, dove? L'accusa: una partita di droga che il presentatore si sarebbe intascato. Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Un antipatico. Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle. Scriveva su la Nazione del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n'è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella. Quando la madre Silvia si reca in chiesa, trova sempre lo stesso bigliettino, grondante carità cristiana: «Tuo figlio spaccia la droga». E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto Applausi e sputi. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta. Un bel giorno Tortora si scoccia: «Se lei continua ad insistere», risponde, «passerò la faccenda all'ufficio legale della Rai». I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800 mila lire più per pietà che per altro. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari. Sarebbe la prima prova d'accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati «a scrivere è un altro Barbaro», un omonimo. Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "o Giappone", sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l'agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, «Provate a chiamà, dottore...». Cinque mesi ci mettono, i giudici, a "provare". Gli accusatori: da un serial killer all'altro. Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ha tentato senza successo di annientare i parenti: padre, madre e fidanzata. «Schizoide e paranoico» per i medici, bocca della verità per i giudici. È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero cittadino. Non migliore è Pasquale Barra, detto 'o "animale", serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è morto in carcere, sotto regime privilegiato, con uno speciale programma di protezione. Il più appariscente però è Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", aspetto di cialtronesca, volgare ricercatezza, da cantante da crociera. Già libero, è tornato in galera qualche anno fa per sfruttamento della prostituzione. Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, puntualmente messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino. Dirà Melluso, ma solo nel 2010, in una intervista all'Espresso: «Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla, l'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie». Replicherà Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi». Un altro che lo accusa di spacciare negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti: anche lui, a giochi fatti, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo. Il primo grado: condanna a 10 anni e 50 milioni di multa. Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo. Accusa risibile, che infatti suscita ironia allo stesso supercriminale: nel carcere dell'Asinara, dove sconta l'ergastolo, don Rafaé incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare. Il breve dialogo che ne consegue, è surreale: «Dunque, io sarei il suo luogotenente». Poi porge la destra: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente». La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cosa che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l'altro discordanti fra loro, costruiscono il loro castello accusatorio. I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito il Maradona del diritto, e Felice Di Persia. Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191). Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa, ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento europeo. Il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine, in sei tomi, uno dei quali appositamente su Tortora, per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l'inversione dell'onere della prova. Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: «Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria». L'appello: la Corte di Napoli smonta il castello accusatorio. Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile. Già eletto a Strasburgo per i Radicali, prontamente si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Nel frattempo è cambiato, ha maturato una consapevolezza nuova, l'impegno totale in favore dei carcerati: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito». Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere, fino alla fine. «Io sono innocente», dice ai giudici. «Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi». Gli credono, finalmente. Il 15 settembre 1986 la Corte d'Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, «Dove eravamo rimasti?». Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella. Lo hanno spezzato. Racconterà la figlia Silvia: «Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia, incontrandomi mi disse: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no». I giudici coinvolti: «Ma di cosa ci dovremmo vergognare?» Già malato terminale, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire. Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, nato sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65%, i sì sono l'80%, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca. Nel frattempo la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette. L'ultima intervista, al programma Il Testimone di Giuliano Ferrara (che poi rimedierà una querela da tre giudici), è atroce. Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: «Mi disse allora: "Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei...". E io dissi: 'Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo...'». Poi non riesce più a parlare, stava già morendo. «Ma di che cosa ci dovremmo scusare, noi?», ha ringhiato ancora di recente uno dei giudici coinvolti - e premiati - in questo splatter giudiziario. «CHE NON SIA UN'ILLUSIONE». Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti, che recentemente le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare. Resta l'impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Pannella. Se volete andare a trovare Tortora, sta al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Qualcuno ha infilato l'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: «Uno che ti chiede scusa». Sotto l'urna, che dietro il vetro sembra ricordare a tutti un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: «Che non sia un'illusione».
Tortora dalla prigione: «L'uomo qui è niente, ricordatevelo», scrive Valter Vecellio il 14 set 2016 su "Il Dubbio". Il presentatore viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri della presenza di tv e giornali. Muore il 18 maggio del 1988, stroncato da un tumore. Dopo sette mesi di ingiusto carcere e arresti domiciliari Enzo Tortora viene definitivamente assolto dalle accuse di associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È il 15 settembre di trent'anni fa. Un calvario che lo segna in modo indelebile. Il 18 maggio del 1988 muore, stroncato da un tumore, conseguenza - non è arbitrario sostenerlo - anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell'operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c'era molto che non andava; e fin dalle prime ore. Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Sarebbe interessante sapere chi dà quell'ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Rileggo ancora con emozione, indignazione, sgomento le lettere che Enzo mi invia dal carcere; e ancora corre un brivido lungo la schiena. Credo sia utile, necessarie, rileggerle, in giorni in cui tanti, mostrano di aver smarrito la memoria di quello che è stato.
16 settembre 1983 «Da tempo volevo dirti grazie? Hai "scommesso" su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua "puntata". Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il "caso Tortora è il caso Italia". Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non "onorevoli"? Se dal mio male può venire un po' di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo».
2 maggio 1984 «Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l'Italia "ha abolito la pena di morte". Abbiamo un boia in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in "attesa" di un giudizio che non arriva mai. L'uomo qui è niente, ricordatevelo. L'uomo qui può, anzi deve attendere. L'uomo qui è una "pratica" che va "evasa" con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale?».
15 luglio 1985 «In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell'obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s'è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d'ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente».
7 ottobre 1985 «Sono stato condannato e processato dalla Ngo, Nuova giustizia organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita?».
2 aprile 1986 «Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all'estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano?».
17 agosto 1987 «Siamo molti? Ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l'incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito? Sono ancora lì, al loro posto? Staremo a vedere?».
Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: perché? Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell'Italia di questi anni: il rapimento dell'assessore all'urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.
Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per "riscattarlo". Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova. Durante la strada parte è "stornato", non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c'è chi si prende la "stecca". A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c'è un "ritorno". Il "ritorno" si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, «mai più ritrovato». Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora "brucia". Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. «Cinico mercante di morte», lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: «Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza». Le "prove" erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto 'o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l'intestino? Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti "pentiti": curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro "perché? " e al "contesto". A legare il riscatto per Cirillo raccolto ai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati "pentiti a orologeria"; per distogliere l'attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E' in questo contesto che nasce "il venerdì nero della camorra", che in realtà si rivelerà il "venerdì nero della giustizia": 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104? Documenti ufficiali, non congetture. Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l'autorizzazione a procedere, che invece all'unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all'autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la "sua" ossessione. Nessuno dei "pentiti" che lo accusa è chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell'inchiesta fanno tutti carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Un errore, ed insieme un orrore, l'affaire Tortora. Un orrore per quello che è stato, che implica, fa intuire; e definirlo un errore è forse troppo semplice, perfino assolutorio; che quella patita da Tortora è stata un'ingiustizia che, manzonianamente, poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, «un trasgredir le regole ammesso anche da loro». E si torna al punto di partenza: perché è accaduto, perché si è voluto accadesse. Né si possono assolvere dicendo che non sapevano quello che facevano: se davvero non sapevano è perché decisero consapevolmente, di non sapere. Insomma, una colpa, se possibile, ancora più grave. Ora tutti riconoscono che l'intero castello accusatorio era più fragile di un castello di sabbia; e che Tortora era una persona perbene. Enzo diceva sempre che non era, il "suo" il "caso Tortora", ma "il caso Italia"; che resta, rimane, a cominciare dalla situazione delle carceri, e dall'irragionevole durata dei processi. Lo avevano ben compreso Marco Pannella, suo amico di sempre, che per lui si batte come un leone; e Leonardo Sciascia, che fin da subito si dichiara certo della sua innocenza? Sarà per questo che assistiamo a tante celebrazioni post mortem e alla memoria, molte certo in buona fede (altre se ne però lecitamente dubitare), senza che i radicali vengano mai invitati, tacitati, esclusi?
Enzo Tortora, trentatré anni fa l’arresto a “orologeria”, scrive Valter Vecellio il 16 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ventotto anni fa, stroncato da un tumore che forse ci sarebbe stato ugualmente, ma che certamente è esploso per via del calvario patito, Enzo Tortora ci lasciava. Tortora lo incrocio a Bologna, quando ancora pasticcio di giornalismo, e divido il mio tempo tra esami di legge e in quello che ancora oggi credo sia chiamato angòl di cretén o cantàn d’inbezéll a raccogliere firme per referendum radicali che i bolognesi sottoscrivono a migliaia, in barba al Pci di allora che li boicotta. Tra i giornali, allora come ora, Il Resto del Carlino e per un po’ Il Foglio, che non è quello di Giuliano Ferrara, ma lo sfortunato tentativo editoriale di Luigi Pedrazzi ed Ermanno Gorrieri, per rompere appunto il monopolio del Carlino; e contemporaneamente nasce Il Nuovo Quotidiano, anch’esso effimero; e diretto appunto da Tortora. Un periodo di schermaglie e polemiche, perché Il Nuovo Quotidiano è addirittura più conservatore del Carlino. Poi altre storie ed esperienze, fino al giorno dell’arresto, con quelle accuse infamanti: affiliazione alla camorra, spaccio di cocaina. Di quell’“affaire” mi sono occupato fin dal primo momento; e fin dal primo momento, senza dubbi ed esitazioni, innocentista, con pochissimi altri: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini… “Affaire Tortora”, ma non solo: che in realtà si tratta di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che sono finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo; ma no: si è voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi per il Tg2, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del Pubblico Ministero che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?». E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? N-E-S-S-U-N-O. E per capirci: nessuno significa nessuno. Che fosse qualcosa di simile allo scespiriano regno di Danimarca lo si capisce fin dalle prime ore: lo arrestano nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. E veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il Tg2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo, sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino. Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno. C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un sì o con un no alle mie domande. Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro? «No». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, con che prove? «Nessuna». Chi lo ha scritto è stato poi condannato? Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». A legare il riscatto raccolto per Cirillo, i costruttori, compensati poi con gli appalti, e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Anni dopo il pubblico ministero accusatore di Tortora dice di aver agito in buona fede e chiede scusa. Diamo pure credito alla “buona fede”, anche se subito viene in mente quella terrificante figura di magistrato magistralmente descritta da Leonardo Sciascia in Una storia semplice; forse, quel pubblico ministero è ferrato in italiano come il magistrato di Sciascia. La questione, comunque, va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Sta a noi fare in modo che non lo sia.
Pezzuto: «Enzo, la condanna e quel giorno nero che non è mai finito», scrive Errico Novi il 16 set 2016 su "Il Dubbio". Parla il biografo di Tortora: «Il 17 settembre 1985 il Tribunale pronunciò la sentenza di primo grado: dieci anni di carcere. Da allora altri 25mila italiani innocenti sono finiti in galera. E a pagare sono stati, in tutto, 7 magistrati» «Quel 17 settembre nero della giustizia non finisce mai». Quel giorno di 31 anni fa il Tribunale di Napoli condannò Enzo Tortora in primo grado a dieci anni di carcere. È una data che fa parte di una tragica cronologia cabalistica ricostruita dal giornalista Vittorio Pezzuto nel suo Applausi e sputi, per diversi anni l'unico libro ad aver esplorato la mostruosa vicenda giudiziaria che travolse il presentatore».
Pezzuto, perché l'ingiustizia di quel giorno non è mai finita?
«Dal '92 a oggi si sono contati altri 25mila casi Tortora: è il numero dei cittadini innocenti sbattuti in carcere, per i quali hanno pagato solo sette magistrati, quelli per i quali si sono chiuse azioni di responsabilità civile. Vicende come quella di Tortora si verificano ancora e nel frattempo si è ridotta di molto la cultura garantista».
Davvero quel processo non ha cambiato nulla nella giustizia italiana?
«Se qualcosa è cambiato, rispetto all'idea di giustizia prevalente nel Paese, è cambiato in peggio. Davvero possiamo dire che la maggioranza degli italiani crede nella presunzione di non colpevolezza? Non scherziamo. Oggi l'opinione pubblica che finge di commuoversi per la vicenda Tortora considera sicuro colpevole chi ha ricevuto un avviso di garanzia. Ed è evidente come riflessi di questo atteggiamento si irradino anche sulle scelte normative».
A cosa si riferisce?
«Al fatto che chi mormora 'ah, povero Tortora' spesso poi approva l'ipotesi di allungare i tempi della prescrizione. Senza rendersi conto che così facendo si condannerebbero decine di migliaia di imputati a una sorta di limbo giudiziario in cui dopo un eventuale condanna in primo grado devi aspettare anni prima di una sentenza definitiva».
Probabilmente nemmeno all'epoca delle deliranti tesi accusatorie contro Tortora c'era il furore giustizialista di oggi.
«Tortora condannato in primo grado per associazione mafiosa e spaccio di droga oggi sarebbe massacrato sul web con decine di migliaia di insulti e con decine di articoli che istigherebbero a insultare ancora».
Perché i pentiti scelsero Tortora?
«A dare l'innesco è una scintilla di follia. I primi due camorristi a fare il nome di Tortora sono Pasquale Barra e Giovanni Pandico, entrambi noti per gli impressionanti risultati delle perizie psichiatriche effettuate a loro carico. Il primo aveva addentato le viscere ancora calde del boss milanese Francis Turatello dopo averlo ucciso, il secondo aveva ammazzato tre impiegati del comune di Nola perché tardavano a rilasciargli un certificato. Entrambi fanno il nome di Tortora come affiliato alla Nuova camorra, ma collocandolo nelle retrovie».
Da lì l'ordine di arresto.
«Quella è la parte della mostruosa vicenda che ancora può essere rubricata come clamoroso errore professionale e non, come è invece doveroso per le fasi successive, sotto la voce dolo e colpa grave. Il punto di svolta è nella cosiddetta prova, il numero telefonico di Tortora trovato nell'agendina di un camorrista ucciso, Salvatore Puca. Si scopre che era di un certo Enzo Tortona. È lì che Tortora commenta: non sono vittima di un errore giudiziario, sono un refuso».
Sarebbe dovuta finire lì.
«Il presidente del Tribunale prova a non arrendersi all'evidenza. A questo Tortona, che è in Aula, dice: 'E dov'è la prova che il numero appartiene proprio a lei? '. E quello risponde: 'Facite 'o nummero... '. Gli inquirenti nemmeno avevano verificato con una semplice telefonata se davvero quell'utenza fosse di Tortora».
Da lì si scivola nel dolo.
«Da lì inizia il il tiro a Tortora, agevolato da alcuni, diciamo così, accorgimenti. Diversi camorristi si rendono conto che chiamare in causa il presentatore significa essere trasferiti dal carcere alla caserma Pastrengo di Napoli, dove si può avere vitto migliore, donnine compiacenti, e la sera ci si può riunire per meglio concordare le dichiarazioni da rendere al processo».
Che si chiude appunto con una sentenza di condanna pronunciata il 17 settembre 1985.
«La tesi accusatoria accolta dal Tribunale ha un carattere quantitativo: ci si richiama non alla consistenza delle accuse ma al numero di persone da cui le accuse provengono. Che è appunto elevatissimo. Quella data, quel numero non irrilevante nella smorfia napoletana, il 17, non risuonò solo alla condanna di primo grado».
A cosa si riferisce?
«Il 17 è la data che ha segnato le tappe più importanti di quella che in Applausi e sputi definisco la seconda vita di Enzo Tortora. Il 17 giugno 1983 c'è l'arresto. Il 17 gennaio 1984 la concessione molto faticosa e a lungo ostacolata degli arresti domiciliari. Il 17 giugno 1984 l'elezione al Parlamento europeo con il Partito radicale. Il 17 luglio 1984 il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio. Fino appunto alla condanna in primo grado, emessa alle ore 17 del 17 settembre 1985».
Perché i giudici non si fermarono?
«Perché Tortora era diventato il simbolo del maxiblitz contro la Nco, e il sacco delle accuse che ogni volta veniva svuotato dai suoi avvocati doveva essere necessariamente riempito con nuove incredibili altre accuse. Se cadeva l'imputazione contro Tortora crollava tutta l'impalcatura processuale».
E perché la sua posizione divenne così determinante?
«Nello stesso giorno in cui arrestarono Tortora finirono in manette 856 persone. Di queste, 117 finirono dentro per omonimia. L'impalcatura scricchiolava fin dall'inizio, tanto che alla fine dei tre gradi di giudizio gran parte degli imputati venne riconosciuta innocente. I magistrati si resero conto presto che l'unica era puntare tutto sul clamore assicurato dalle accuse a Tortora».
Pensa ci sia chi crede in quelle accuse ancora oggi?
«No. Il caso Tortora serve oggi ad alcuni come pretesto per dire che quella vicenda è stata unica e irripetibile. E per negare così la verità: ovvero che continua a esserci strage di giustizia e ancora nuovi Enzo Tortora».
E l’accusatore di Tortora disse: anche il Califfo è un camorrista, scrive Valter Vecellio il 2 agosto 2016 su "Il Duggio”. Una villetta a Primavalle a Roma, lui in giardino passeggia e gesticola. Parla a un telefono cellulare, con la mano fa cenno di entrare… Con qualcuno parla di canzoni, di un disco da fare, di come farlo; e intanto fa cenno di entrare in casa. C’è un salone, divani immacolati, poltrone, su un lungo tavolo riviste, giornali; alle pareti quadri astratti, dischi d’oro incorniciati, fotografie in abbondanza, piante ben curate. «Scusate, ma era una telefonata di lavoro, bisogna pur campare, non si vive d’aria…». Indica il cellulare, e ride: «Pensa che coglioni. Sono agli arresti domiciliari, e va bene; non posso uscire, al massimo passeggio in giardino, e va bene; una volta al giorno passa la polizia per un controllo, sempre alla stessa ora. Mi hanno disattivato il telefono, perché non devo avere contatti con l’esterno, vai a capire che pericolo pensano sia, e va bene anche questo. E poi mi lasciano il cellulare? ». Eccolo, Franco Califano. Fino a qualche mese fa, solo un cantante e a volte un attore con qualche disavventura giudiziaria, anche il carcere, per uscirne comunque sempre assolto, pulito. Alla radio ascolti le sue canzoni, sui giornali dei suoi tanti amori… Poi arriva uno che dice di essere un pentito di camorra, che lo accusa di essere un “cumpariello”. Lo arrestano, un filone della stessa mega-inchiesta napoletana definita “il venerdì nero della camorra”, che ha già portato in carcere Enzo Tortora, e con lui centinaia di altre persone (tantissime poi dichiarate innocenti, arrestati per omonimia o assolti per non aver commesso il fatto imputato). Quando è in carcere, prima a Poggioreale a Napoli, poi a Rebibbia a Roma, gli scrivo per capire meglio in che pasticcio si è venuto a trovare. In quelle lettere si sfoga con amara ironia; a volte inveisce, e puntiglioso spiega che sì, in passato ha consumato cocaina, non l’ha mai nascosto; non ha neppure ha mai nascosto la sua amicizia con il gangster milanese Francis Turatello, ma che con la camorra non ha niente a che fare… «Vuoi bere qualcosa? ». Coca Cola. «Astemio?». Birra e pochissimo vino, balbetto. «E allora meglio la birra; che poi la Coca Cola non ce l’ho neppure…Io mi faccio un caffè, stanotte voglio lavorare sui testi di alcune canzoni». Lo osservo mentre traffica in cucina con la moka, spiega che è sua madre ad avergli insegnato come farlo. La madre che lo ha fatto nascere per caso a Tripoli di Libia: incinta, era partita da Johannesburg per Roma, «ma le acque si sono rotte prima, atterraggio d’emergenza, così nasco a Tripoli. Ma a me della Libia non me ne importa nulla». Mi blocco: stavo per dirgli che anch’io faccio parte dei “tripolini”. Parla come se ci si conosca da sempre; al contrario, è la prima volta che ci si vede: «Sai, non sono tanti ad aver avuto il coraggio di difendermi, non sono cose che si dimenticano…». Ti sei fatta un’idea di come sei finito in questo tritacarne? «Secondo me hanno fatto una specie di cambio: hanno cominciato con Tortora, però più andavano avanti, più si infognavano, si rendevano conto che il teorema non reggeva, e allora mettono in mezzo me. Come colpevole sono molto più credibile. Altrimenti non si spiega perché vengo arrestato dopo un anno dall’apertura dell’istruttoria. Ma ti pare che questi pentiti si ricordano di me dopo un anno? Ahò, non sono mica Mario Rossi… Franco Califano camorrista te lo ricordi dopo un anno, e non lo dici subito? Dopo un anno mi hanno tirato in ballo…». Mentre parla, penso che c’è una logica: il Tortora alle vette del suo successo professionale, ascolti record con il suo Portobello, è l’immagine dell’Italia “buona” e “per bene”, “l’insospettabile”; e c’è chi comincia a chiedersi con troppa insistenza che Tortora non sia il “mostro” che si dice sia. In tanti cominciano a domandarsi perplessi: «E se fosse innocente?». Così entra in scena “il Califfo”: lui ha quella che si dice la faccia del colpevole; lui sì, in quel giro di “cumparielli” ci può stare; Califano insomma può rendere credibile il teorema che comincia a traballare. Fantasie da inguaribile sospettoso che non si fida neppure della sua ombra e ogni volta che un magistrato o un poliziotto ti fa un “favore” si chiede: qual è il suo guadagno? Chissà. Restiamo ai fatti…L’imputazione è grave: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico di droga; già che ci sono ci mettono anche detenzione di armi. Ride amaro: «Mi trovo dichiarato camorrista da un giorno all’altro. Una follia. Non conosco nessuno dei miei coimputati o accusatori. Ho fatto spettacoli ovunque, non posso escludere di averne fatto uno anche per dei camorristi. Vai a capire con quali prestanome, magari in qualche locale di proprietà di camorristi, ma come pensi che lo possa sapere? Io bado soltanto ai contratti, ai soldi, e canto». Che mi dici delle accuse di Gianni Melluso che dopo aver calunniato Tortora racconta di vostri mirabolanti incontri… «Questo Melluso che mi accusa l’ho visto per la prima volta quando hanno organizzato un confronto. Io lo guardo e dico: “Ma chi è questo, che vuole?”, e lui: “Franchino, dì la verità, che è meglio…”. Franchino a me… Dice di avermi consegnato non so quanti chili di “roba” a casa mia, a corso Francia, nel sottoscala del numero 84. Io a corso Francia non ci ho mai abitato, e all’84 non esiste alcun sottoscala. Ma vuoi fare una verifica, prima di mettere uno in galera? Vuoi vedere le carte? Tre pagine di istruttoria, che non stanno né in cielo né in terra. Almeno a Tortora hanno riservato centocinquanta pagine…». Non avertene a male, l’hai detto anche tu: come colpevole di queste cose ci stai tutto: amico di Turatello…la droga che non hai mai negato di aver usato, i precedenti arresti… «I precedenti arresti si sono conclusi con proscioglimenti. La cocaina l’ho usata. Ma farsi di cocaina non significa spacciarla, significa che parte dei miei soldi li ho buttati via in quel modo lì, come tanti altri li ho usato per beneficenza; chiedi alla gente di questa borgata, che mi vuole bene e te lo può raccontare. Di Turatello e della nostra amicizia si sa tutto da sempre, sai certo che suo figlio l’ho messo nella copertina di un mio disco, “Tutto il resto è noia”». Come nasce questa tua amicizia con Turatello? «A Milano. Ero stato in carcere, mi ero comportato da uomo, senza rompe li cojoni, non mi lamentavo. Mi stimava per questo, diventiamo amici. Voleva aprire una società di produzione cinematografica intestata proprio al figlio e a me, ma poi morì e nun se ne fece nulla. Lo sai, vero, chi ha ucciso Turatello in carcere?». Pasquale Barra, detto ‘o animale. Per sfregio gli ha addentato le viscere… «Quello era un camorrista. E ti pare che io posso essere affiliato personaggi come quella bestia?». Dillo ai magistrati, non a me… «Uno schifo di paese, quello in cui ti puoi trovare in queste macellerie… Davvero è incredibile che possano aver creduto a uno come Melluso». E in carcere? «Se non dai fastidio, ti lasciano in pace. Vivi e lascia vivere. Poi certo, io sono sempre “il Califfo”…». C’è chi ne è uscito schiantato: Lelio Luttazzi, hai voglia a dirgli dopo che ci si è sbagliati, intanto il mondo ti crolla addosso… «Ognuno reagisce a modo suo. Io la mia rabbia e la mia amarezza l’ho trasferita in alcune canzoni per un nuovo disco, si intitola “Impronte digitali”». Prende la chitarra, la voce è quella roca di sempre, impasto di whisky e mille sigarette fumate; canta e strimpella: «Impronte digitali sulla stessa carta. / E il cuore ricucito un po’ così così, trapasso quella porta. / M’hanno stracciato i pensieri. / Non certo uomini seri. / Sono solo da tempo e la mia vita mi costa tanto. / Ma non rallento il passo, continuo la salita. /Vedo innocenze ferite con le lacrime agli occhi. / Che tristezza la vita. /Io cerco amore da sempre, vendo solo canzoni. / Non spaccio altro e in ciò che vendo non trovi che emozioni / difficile spiegare che sei uno pulito / quelli che non sanno bene come hai sempre vissuto / se la legano al dito. / Il cuore mio sta pagando chi l’ha colpito nell’ombra. / Vorrei portarlo più in alto / e certe leggi sbagliate scavalcare in un salto. / Io volto pagina e cammino. / E anche se alle volte sono andato contromano. / Non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / andare sempre più lontano. / Sono ancora solo con il mio destino / vado sempre dritto / ma questo sembra sia un delitto. / Impronte digitali, foto contro il muro. / Un numero sul petto ed i colori addio, diventa tutto nero. / Quando comincia è finita, si paga tutta la vita. / Sei in alto mare e non hai niente nemmeno un salvagente. / Io volto pagina e cammino / e anche se alle volte sono andato contromano / non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / Andare sempre più lontano / sono ancora solo con il mio destino. / Vado sempre dritto / Ma questo sembra sia un delitto…». Quando finalmente si celebra il processo, come Tortora, come tanti altri, anche Califano viene assolto: si riconosce che è assolutamente estraneo ai fatti che gli sono stati addebitati. Esce a testa alta dal carcere, è vero. Il problema è che ci entri a testa bassa, e passano settimane, mesi, prima che riconoscano di essersi sbagliati… E dopo averlo fatto, come il magistrato di Detenuto in attesa di giudizio, il vecchio film di Nanni Loy con Alberto Sordi, ti guardano aspettandosi che gli dici «grazie». Grazie per aver riconosciuto che si sono sbagliati…Finora mi sono limitato a trascrivere “in bella” frettolosi appunti presi su taccuini ingialliti dal tempo. Il ricordo però è ben vivo. Fummo davvero in pochi, all’epoca, a osservare che anche per quel che riguardava “il Califfo” i conti non tornavano. Il primo è Gino Paoli: scrive un accorato appello al presidente della Repubblica, per richiamare l’attenzione su Califano, detenuto da mesi, e malato. Scrivo i primi articoli nei quali esprimo qualche dubbio, qualche perplessità; convinco un deputato del Partito Radicale ad accompagnarmi nel carcere di Rebibbia in visita. La consegna, ferrea, è guardare, ma non parlare con nessuno. L’unica cosa che si può fare è lasciare un recapito per chi eventualmente ci vuole scrivere. Qualche giorno dopo arriva una lettera di Califano: «Sono frastornato e distrutto, perché un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile… Ho in testa brutte cose…venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così…». Califano racconta che le accuse vengono soprattutto da due “pentiti”, Pasquale D’Amico e Melluso. D’Amico poi ritratta. Melluso rincara le accuse. Una fantasia galoppante: Califano, in compagnia di camorristi avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen, ma forse era una Maserati, comunque era di sua proprietà. Peccato che Califano in vita sua non abbia mai avuto una Citroen, e neppure una Maserati. Per accertarlo non bisogna essere Sherlock Holmes o Hercule Poirot, ma nessuno si prende la briga di farlo. Queste le indagini; per come state condotte non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, per tanti altri. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Furono pochi a vedere per tempo quello che poteva essere visto da tutti; magra consolazione aver fatto parte di quei “pochi”.
Il Pm accusatore di Tortora perseguita un altro innocente, scrive Errico Novi il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. È il 25 febbraio dell'anno scorso. «Sono innocente signor giudice, sono finito in un incubo da quattro anni, mi accusano di spaccio di droga ma io non ho mai commesso un reato, tutto per l'assurda interpretazione data ad alcune cose che ho detto al telefono». Francesco Raiola quel giorno ha 34 anni. È nel tunnel dal 21 settembre 2011, giorno dell'arresto per spaccio di droga. Parla con passione, si difende davanti al gup di Nocera Inferiore senza che i suoi avvocati aprano bocca. Dice una cosa forse decisiva nell'indurre il magistrato a credergli: «Finalmente ho l'onore di parlare con un giudice che abbia effettiva competenza sul mio caso». Fino a quel momento coincidenze, carambole e difetti di giurisdizione lo hanno trascinato in una gimkana di sostituti e interrogatori a vuoto. Alla fine dell'esame in udienza Francesco legge negli occhi del gup e dei cancellieri «il rammarico di chi crede alla mia innocenza e vede la tortura che ho passato». L'avvocato Andrea Castaldo lo guarda e gli dice: «Come hai fatto a non piangere?». Non lo sa nemmeno lui. Verrà prosciolto a poco più di un mese di distanza «perché il fatto non sussiste». «Le mie parole hanno suscitato l'attenzione del giudice, quel mio incipit gli ha spalancato gli occhi». Peccato non sia avvenuto lo stesso quattro anni prima, con la Procura di Torre Annunziata. Da lì è partita l'indagine, operazione su un traffico di stupefacenti denominata "Alieno". Al vertice dell'ufficio inquirente di Torre Annunziata non c'è un magistrato qualsiasi: il procuratore della Repubblica è Diego Marmo. Sì, proprio lui, l'accusatore di Tortora. La toga che diede a Enzo del «cinico mercante di morte». E che trent'anni dopo si sarebbe cosparso il capo di cenere in un'intervista a Francesco Lo Dico sul Garantista: «Chiedo scusa ai familiari di Tortora», disse. Tre anni prima di quell'ammissione Marmo non si era accorto del caso di Francesco Raiola. Da capo della Procura di Torre Annunziata non si era reso conto che nelle maglie dell'indagine affidata ai suoi sostituti era finito anche questo caporal maggiore dell'esercito, allora 30enne, originario di Scafati, provincia di Salerno, e di stanza a Barletta. Una ragazzo di valore: due missioni in Kossovo, una in Afghanistan con l'82esimo reggimento fanteria. Pilota di mezzi corazzati e, quando ancora non aveva ottenuto l'arruolamento definitivo nelle forze armate, già esperto nella guida dei carrarmati di ultima generazione. Prima della folle vicenda giudiziaria Francesco seguiva la specializzazione per i Vbm, i mezzi per i quali la Difesa aveva speso decine di milioni di euro e che si era deciso di sperimentare proprio nell'area di crisi afghana. Un uomo forte, integro, con la passione per la vita militare, accusato - forse giustamente in questo caso - dalla moglie di «aver sacrificato troppo per le forze armate», tanto da rinviare tre volte la data delle nozze pur di rispondere alla chiamata per le missioni. Tutto precipita per una telefonata in cui Francesco parla di televisioni. «Allora non preoccuparti, te la porto io in caserma, la prendo dalle mie parti». Si tratta di una tv full hd che Filippo, l'interlocutore, commilitone della stessa caserma a Barletta, non troverebbe dalle sue parti. Non a un prezzo competitivo: ad Altamura non ci sono grossi centri commerciali. A Scafati sì e si risparmia. Ma invece che di hi-tech, i carabinieri incaricati dalla Procura di Torre pensano che Francesco parli di carichi di droga. E che faccia da intermediario con i trafficanti campani finiti nell'inchiesta per portare grosse quantità di stupefacenti in Puglia, dove svolge l'attività di militare. In una delle conversazioni il caporal maggiore parla di una «partita». È quella che l'amico vorrebbe vedere su uno schermo piatto con inserimento diretto della scheda pay tv. I carabinieri che trascrivono i brogliacci pensano che la «partita» sia una partita di droga: cocaina e marijuana. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. Arriva l'alba del 21 settembre, l'arresto per spaccio. Francesco viene prelevato a Barletta, direttamente in caserma. Tre settimane in carcere a Santa Maria Capua Vetere, in isolamento, poi gli arresti domiciliari, revocati dal gip di Napoli oltre quattro mesi dopo. L'avvocato Guido Sciacca comincia ad andare in processione periodica dal pm di Torre a cui Marmo ha chiesto di condurre le indagini. L'errore è chiaro. Le certezze del magistrato trascolorano in dubbi. Ma né lui né il suo capo, Diego Marmo, hanno il coraggio di confutare il teorema dei carabinieri. Ci vorrà un'istanza per incompetenza territoriale e il passaggio del procedimento al Tribunale di Nocera Inferiore. C'è un'altra Procura, un altro gup. In mezzo anche molti rinvii, perché l'inchiesta è grossa, 73 indagati, una sessantina di misure cautelari, e la Dia di Salerno chiede gli atti. Francesco è - parole sue - «in un tritacarne che non finisce mai». Fino a quella mattina davanti al giudice per l'udienza preliminare di Nocera, «allo sfogo in cui ho tirato fuori tutto, anni di sofferenze». Pochi giorni dopo l'udienza e prima della sentenza di proscioglimento, al militare di Scafati viene diagnosticato un melanoma. Operazione d'urgenza al Pascale, mesi con l'incubo delle metastasi. Che per fortuna non ci sono, ma intanto Francesco neppure pensa più alla fine dell'incubo giudiziario, non si scrolla di dosso l'angoscia per la malattia. La moglie, i due figli piccoli, il padre in questi mesi riescono a scuoterlo. A spingerlo ad occuparsi delle istanze per essere reintegrato nell'esercito, che avranno esito forse in autunno. «Sono stati più di cinque anni, cominciati prima dell'arresto, con appostamenti, perquisizioni improvvise, che nemmeno capivo da dove venissero: andavo a comprare giubbotti al mercatino di via Irno, a Salerno, e le gazzelle mi fermavano armi in pugno, con i carabinieri convinti che dentro la borsa nascondessi chili di droga». Verifiche andate tutte a vuoto: neppure questo ha scalfito l'atarassia dei pm e del loro capo Marmo, contagiati da un'ostinazione che ricorda purtroppo quella terribile sfoderata dallo stesso magistrato trent'anni prima contro Enzo Tortora. Il Tribunale di Nocera ha riconosciuto 41mila euro d'indennizzo per errore giudiziario, «ma io ne ho spesi 32mila per gli avvocati e il resto». Il vicepresidente del Copasir Peppe Esposito, senatore campano di lungo corso, ha presentato un'interrogazione ai ministri della Giustizia e della Difesa, oltre che a Renzi. Francesco Raiola, soldato, marito, padre, e uomo ancora in piedi dopo il calvario dice di credere ancora nella giustizia: «Perché ho trovato magistrati che mi hanno ascoltato, creduto e si sono messi a cercare nelle carte riscontri della mia innocenza che io non avevo tirato fuori. Agli innocenti come me dico di non mollare». Altri magistrati sono distratti. Qualcuno che se ne accorge, corregge e fa giustizia, prima o poi arriva.
"Io, messo in croce dai pm che si sentono come Dio". Il francescano condannato ingiustamente per lo stupro di una suora: "Dopo 10 anni di incubo la Cassazione mi ha assolto. Ma ora chi pagherà?", scrive Nino Materi, Lunedì 8/08/2016 su "Il Giornale". Il suo è l'assessorato col nome più lungo nella storia degli assessorati italiani: Contrasto alle povertà, al disagio, alla miseria umana e materiale, al pregiudizio razziale e religioso, alla discriminazione sociale degli invisibili e degli ultimi. In sintesi: assessorato alla povertà. Per ricoprire la pauperistica carica nella nuova Giunta comunale di Cosenza il sindaco Mario Occhiuto (lungimirante primo cittadino del capoluogo calabrese), ha scelto padre Fedele Bisceglia. L'anno prossimo il frate compirà 80 anni, gli ultimi dieci li ha trascorsi difendendosi da un'accusa infamante: aver violentato una suora. Accusa infondata, considerato che due mesi fa la Cassazione ha sancito la piena innocenza di padre Fedele. Ma prima di arrivare al lieto fine, fra' Bisceglia ne ha passate di tutte i colori: prima il carcere, poi gli arresti domiciliari in uno sperduto monastero. Per lui un curriculum giudiziario movimentatissimo: condanna in primo grado a 9 anni, confermata in appello; verdetto annullato dalla Suprema corte che dispone un appello bis; assolto nel nuovo processo d'appello, ma questa volta a ricorrere in Cassazione è la Procura di Cosenza, cui gli ermellini danno definitivamente torto. Sentenza passata in giudicato: assolto per non aver commesso il fatto.
Padre Fedele, ci sono voluti 10 anni. Ma oggi la sua innocenza è stata accertata. È più felice o amareggiato?
"Avrei preferito morire con un colpo di lupara piuttosto che essere vittima di una tortura psicologica durata dal 2006 al 2016. Un vero martirio, considerato che la mia estraneità ai fatti poteva - e doveva - emergere fin dall'inizio".
E perché questo non è avvenuto?
"Me lo sono chiesto ogni giorno per dieci anni. Ma senza trovare risposta".
Un'idea, però, se la sarà fatta.
"Quella povera suora che mi ha accusato era sicuramente manovrata da qualcuno".
Da chi?
"Dalla chiesa. Dai giudici. E da chissà chi altro".
E perché la chiesa dovrebbe avercela con lei?
"Chi come me intende il sacerdozio come missione al servizio dei poveri, non sempre è visto di buon occhio".
Tanto da organizzare un complotto contro di lei, accusandola di aver stuprato una suora?
"Non ho prove per sostenerlo".
E le prove del complotto dei giudici, ce le ha?
"No".
Definisce la sua accusatrice "povera suora". Quindi non le serba rancore?
"L'ho perdonata. Ma spero che anche lei chieda perdono alla Madonna per quanto ha fatto. Per le sofferenze che mi ha inflitto senza motivo".
Ha perdonato anche i giudici?
"No, loro non li perdono. Dovevano scagionarmi subito. Contro di me non c'era nulla. Ma i giudici si sentivano Dio. Ora chi pagherà per i loro sbagli?".
Nel 2006 mass media e opinione pubblica si schierarono contro di lei dopo la diffusione di intercettazioni con varie donne. Se lo ricorda, vero?
"Eccome se me lo ricordo. Fu uno sbaglio parlare al telefono in quel modo. Mi pentii subito. Ma quelle frasi non c'entravano nulla con le accuse assurde che mi furono poi rivolte e per le quali ho pagato un prezzo indicibile".
Cosa l'ha aiutata a superare i momenti più difficili?
"Il ricordo di mia madre. L'ho persa quando avevo poco più di 5 anni e lei appena 33. Era una donna molto religiosa".
Con lei ha imparato le prime preghiere?
"Mi baciava sulla guancia e mi diceva che così avrei sentito l'alito dell'amore di Gesù".
Cosa l'ha fatta più soffrire nella sua odissea giudiziaria?
"Tante cose. Ma la pugnalata più sanguinosa l'ha inferta il tribunale della chiesa, proibendomi di dire messa e di impartire i sacramenti. Ho scritto anche al Papa, per supplicarlo di restituirmi la gioia di celebrare l'eucarestia".
È stato costretto ad appendere il saio al chiodo.
"No. Il saio è la mia pelle. Non potranno togliermelo neppure quando sarò morto".
Continua la sua battaglia per essere riaccolto in quella "sacra famiglia" che seguita a considerarla un reprobo.
"È una sensazione terribile. Mi sento come un pesce che boccheggia in riva al mare".
Un pesce che boccheggia, ma che intanto è stato promosso "assessore".
"Macché assessore. Resto solo padre Fedele. Non mi sono mai montato la testa io".
Neppure quando era un habitué dei salotti televisivi?
"Ogni strumento è buono, se il fine è aiutare il prossimo".
Da oggi dovrà occuparsi, "istituzionalmente", dell'assessorato alla povertà.
"Ma sono 60 anni che io mi occupo dei poveri. La mia vita non cambia dopo questa nomina".
Una nomina che si aspettava?
"No, non me l'aspettavo. Si figuri che il sindaco è di centrodestra, mentre io alle ultime amministrative ho votato per la sinistra".
E, nonostante questo, il sindaco l'ha voluta in giunta?
"Sì, una scelta che ha sorpreso anche me".
Quali sono le sue priorità "politiche"?
"Non voglio più vedere gente che rovista tra i rifiuti per cercare qualcosa da mangiare. E tutti devono avere un letto al coperto, nessuno deve dormire sotto i ponti. Io l'ho fatto per mesi e so cosa si prova".
Ha dormito sotto i ponti?
"Sì, insieme ai barboni. Ero il loro confessore. Mi consideravano un amico".
Quanto guadagnerà da assessore?
"Neanche un euro. Se mi daranno qualcosa la devolverò ai poveri. Anche loro hanno diritto a un reddito minimo di cittadinanza".
Che fa, copia i Cinque stelle?
"I Cinque che?".
I Cinque stelle, il partito di Grillo.
"Io di stelle conosco solo quelle che compongono la corona della Madonna".
È ancora capo ultrà dei tifosi del Cosenza Calcio?
"Certo. La fede calcistica fa parte della mia vita. Inoltre tanti giovani conosciuti nelle curve degli stadi si sono trasformati in meravigliosi assistenti che mi accompagnano e mi sostengono nelle mie missioni in varie parti del mondo".
Ultrà che usano le mani non per picchiare i tifosi avversari, ma per soccorrere i più bisognosi. Praticamente un miracolo.
"È la conferma che i miracoli si compiono davvero. In Africa con questi ragazzi ci siamo ammalati insieme di malaria. Insieme siamo guariti e insieme abbiamo alleviato le sofferenze dei più bisognosi. Ma sa qual è il mio orgoglio più grande?".
Quale?
"Sapere che quei ragazzi che sono venuti con me in Africa, oggi continuano a fare volontariato a fianco degli ultimi, dei diseredati. Giovani che non hanno paura di sacrificarsi e che continuano ad andare nel Terzo mondo anche senza di me".
Lei è riuscito a redimere perfino la pornostar Luana Borgia.
"Se è per quello ho frequentato anche i festival erotici per raccogliere fondi per i bambini africani".
Pornostar e festival erotici. Non proprio ambienti adeguati a un sant'uomo.
"Gli ambienti raffinati non fanno per me. Preferisco le prostitute per salvarle dalla strada; i black bloc per convincerli a non essere violenti; i drogati per aiutarli a uscire dalla schiavitù del buco. Da medico (padre Fedele è laureato, oltre che in Teologia, anche in Medicina, ndr) sono rimasto a fianco delle donne che volevano abortire, cercando di far capire loro che avevano in grembo il più grande dono di Dio. Quanto poi al sant'uomo...".
Ora a quale progetto sta lavorando?
"Alla costruzione di un piccolo ospedale pediatrico in Madagascar. Chiunque voglia darmi una mano può fare un versamento, anche di pochi euro, sul conto corrente postale 87615076 intestato a Il paradiso dei poveri".
Quando l'ospedale sarà terminato ci mandi una fotografia.
"Promesso. Parola di collega".
In che senso "collega"?
"Anch'io sono giornalista. E i giornalisti sono missionari".
"Missionari" di cosa?
"Missionari della verità".
E lei la verità l'ha detta sempre?
"Quasi sempre".
Luttazzi, la vita distrutta per una telefonata sbagliata, scrive Valter Vecellio il 27 luglio 2016 su “Il Dubbio”. È un caldo giorno di giugno di quarantasei anni fa; un poliedrico artista di successo, attore, cantante, direttore di orchestra, musicista, regista, scrittore, showman, conduttore televisivo e radiofonico senza sapere neppure perché si trova ammanettato e gettato in galera. Quell’artista si chiama Lelio Luttazzi; viene arrestato assieme a un altro attore all’apice del suo successo, Walter Chiari. Le accuse parlano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Poi si saprà che tutto si regge su un qualcosa di incredibile: un giorno, non si ricorda neppure quando, si è limitato a “girare” a uno sconosciuto, che poi si scopre essere uno spacciatore, un messaggio che gli ha affidato l’amico Walter Chiari. Non ha fatto altro: qualcosa tipo: «Walter dice che…». Per quel “messaggio” trascorre trentatré giorni in carcere; poi, finalmente lo rilasciano: la sua posizione chiarita. Si rendono conto che è innocente, colpevole di nulla, estraneo a tutto. Insomma, un clamoroso errore giudiziario; nel frattempo qualcosa “dentro” si rompe, nulla più è come prima. Luttazzi si ritira: quello che patisce non si sana, è irrisarcibile, quello che si è incrinato, è incrinato per sempre. Ne deve passare del tempo, prima che riesca a trovare la forza e la voglia per apparire in qualche rara trasmissione televisiva, di incidere qualche cd con musiche come l’amato swing. Perché ricordare questa vicenda? Intanto perché è sempre serbarne la memoria, il nostro è un paese dal facile crucifige, dove spesso colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, poi si rivelano innocenti. Quei trentatré giorni di prigione, quel macroscopico errore giudiziario, per concludere che le accuse sono senza fondamento per Luttazzi sono una ferita irrimarginabile, la vita cambia e nulla è più come prima. «Pesa. Ci faccio i conti in continuazione», racconta. Parte di quel trauma è raccontato in un libro, Operazione Montecristo (Mursia editore). Lo definisce «uno sfogo e un modo per sopravvivere. Stavo in galera, chiuso in una celletta d’isolamento piccolissima, bugliolo, secchio. Come le bestie. Avevo ottenuto dei quaderni e delle matite. Uno sfogo e un passatempo». Uno sfogo e un passatempo… Il tempo, si dice, placa e attutisce. Luttazzi conferma e insieme smentisce: «Il rancore si è stemperato negli anni. Però per l’ingiustizia subita ho ancora parecchio fastidio. Proprio io che sono sempre stato contrario alle droghe, mai una prova che l’avessi presa perché non l’ho mai presa in vita mia. E poi, Walter. Tutti lo dicevano, ma io lo difendevo, non l’ho mai visto fare queste cose. E stavamo sempre insieme. Certo era sfrenato, sempre sopra le righe anche in casa, avrei dovuto capire…». Il pensiero poi corre a Enzo Tortora: «Poveraccio, l’hanno assassinato. Andai a trovarlo in ospedale, e ho pianto. Ecco se con qualcuno devo ancora avercela, è con i giudici che neanche nel caso Tortora capirono…». Capirono… Più propriamente non vollero capire: perché capire si poteva e doveva subito; e in particolare avrebbero dovuto e potuto capire proprio i magistrati. Una vita cambiata, stravolta: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il Pubblico Ministero che mi aveva interrogato, e non mi aveva creduto». Luttazzi non viene creduto. Irrilevante ci siano o no delle prove, lo si sbatte in carcere perché, “semplicemente”, non viene creduto…Uscito dal carcere. Luttazzi si ritira. La tempra del tenace triestino gli consente di resistere, in qualche modo aiuta; e infatti, ogni tanto, lo si ritrova: una serie di concerti jazz di cui è grande appassionato; uno, al Teatro all’aperto a Villa Margherita, è memorabile, gli viene conferito il premio “Una vita per il Jazz”. Dopo un lungo silenzio, nel 2005 esce il cd “Lelio Luttazzi and Rai Orchestra 1954”: sono le registrazioni storiche della radio degli anni ‘50, trasmesse dalla radio appunto nel 1954; sono brani suoi, ma anche interpretazioni di Parlami d’amore Mariù, di Vittorio De Sica, un omaggio a Cole Porter, e un duetto con Gorni Kramer. Poi, eccolo ospite d’onore, nell’ottobre 2006, di Fiorello Viva Radio2, che in quell’occasione va in onda contemporaneamente alla radio e in televisione. Due anni dopo va da Fabio Fazio, a Che tempo che fa; e il 19 febbraio del 2009 partecipa al Festival di Sanremo condotto da Paolo Bonolis; in quell’occasione accompagna al pianoforte Arisa, che canta Sincerità. Da un anno è tornato a vivere, definitivamente, a Trieste assieme alla moglie Rossana. Per l’occasione Pupi Avati gira un film-documentario, Rai5 lo manda in onda il 30 ottobre 2011. Luttazzi, “El can de Trieste”, è già morto. Una lunga malattia, l’8 luglio 2010, lo stronca. Ha 87 anni. Stile impeccabile, colto, elegante e scanzonato conduttore di una storica trasmissione radio, Hit Parade, ma anche tantissime altre cose… Per dire: è lui che scrive le colonne sonore di alcuni film che sono “classici”, come Totò, Peppino e la Malafemmina; e forse non tutti sanno che ha avuto anche esperienze di attore. Per esempio ne L’Ombrellone di Dino Risi; ma anche L’avventura di Michelangelo Antonioni; Oggi, domani, dopodomani di Marco Ferreri, Luciano Salce, Eduardo De Filippo; L’illazione che anche dirige. E l’impegno politico? C’è stato anche questo. Rigorosamente laico con venature anticlericali, gli si accredita una fama di craxiano. «Tutto cominciò - spiega - perché portavo un garofano all’occhiello come Cole Porter, e allora mi avvicinai a quel partito». Certo non di destra, “senza fanatismi”; e diffidente d’istinto quando sente parlare di “patria”: «Io mi sono fatto tutto il fascismo, con quella parola usata come scusa per uccidere la libertà». Si iscrive anche al Partito Radicale. Marco Pannella lancia la campagna: “Diecimila iscritti entro il 31 dicembre del 1986”, pena lo scioglimento. In quell’occasione, per restare ai soli personaggi dello spettacolo, si iscrivono, “perché il Partito Radicale viva”, Dario Argento e Liliana Cavani, Damiano Damiani e Giorgio Albertazzi; Pino Caruso e Carlo Giuffré, Enrico Maria Salerno e Mario Scaccia, Ugo Tognazzi Roberto Herlitza, Domenico Modugno, Claudio Villa, Rita Pavone e Teddy Reno… e tra loro, appunto, Luttazzi.
Errori giudiziari, in 24 anni 24 mila innocenti in cella. Costa: «Numeri patologici». Docufilm dall’idea di due giornalisti e un avvocato. Cifre sconcertanti: dal 1992 lo Stato ha pagato 630 milioni per ingiusta detenzione. A Napoli record-indennizzi: 144 casi nel 2015. A Torino «solo» 26. Le disavventure di gente famosa e cittadini sconosciuti, scrive Alessandro Fulloni il 30 giugno 2016 su "Il Corriere della Sera". Nomi e cognomi. Condanne. Poi il dietrofront: ci siamo sbagliati, siete liberi. In Italia è successo 24 mila volte a partire dal 1992, quando venne introdotto l’istituto per la riparazione per ingiusta detenzione. In cella tanti sconosciuti: Fabrizio Bottaro, designer di moda, accusato di rapina, un mese in carcere, 9 ai domiciliari: assolto perché il fatto non sussiste. Daniela Candeloro, commercialista, 4 mesi e mezzo in carcere, 7 e mezzo ai domiciliari per bancarotta fraudolenta: assolta con formula piena dopo un processo di 6 anni. Lucia Fiumberti, dipendente provinciale, arrestata per falso in atto pubblico, 22 giorni di custodia cautelare: assolta per non aver commesso il fatto. Vittorio Raffaele Gallo, dipendente delle Poste, 5 mesi di carcere, 7 ai domiciliari per rapina: assolto per non aver commesso il fatto dopo 13 anni. Antonio Lattanzi, assessore comunale, arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio 4 volte nel giro di due mesi, 83 giorni di carcere: sempre assolto. Non mancano volti noti, se non celeberrimi: Enzo Tortora, Lelio Luttazzi, le attrici Serena Grandi e Gioia Scola. Bisogna partire da questo sconfinato elenco per inquadrare «Non voltarti indietro», un docufilm presentato ai festival di Pesaro e di Ischia, incentrato sulle storie di 5 vittime di errori giudiziari, scelte fra le centinaia e centinaia di casi che ogni anno si verificano in Italia. «Numeri patologici» li definisce il ministro agli Affari Regionali Enrico Costa che li ha resi noti annualmente, sin da quando era vice ministro alla Giustizia sempre nel governo Renzi. I loro nomi e le accuse compaiono alla fine, prima dei titoli di coda. Perché in fondo la sostanza di quelle accuse è falsa, non esiste. Esiste, invece, il viaggio materiale, psicologico e umano che una persona che sa di essere innocente compie quando è privata della libertà. Un’esperienza che chiede di non voltarsi indietro, appunto, anche se certi segni - l’ansia per gli spazi chiusi, alla vista di un furgone della penitenziaria o del lampeggiante di una sirena - non si possono cancellare. Storie che sono tratte dal sito errorigiudiziari.com curato da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, e un avvocato, Stefano Oliva. Tutte e tre romani. Tutti e tre sulla cinquantina. E tutti liceali negli stessi anni nello stesso classico, il Giulio Cesare di Roma: amici che si appassionarono al caso che vide ingiustamente arrestato per la violenza nei confronti della figlia, una bimbetta di anni, un professore di matematica, Lanfranco Schillaci. Era il 23 aprile 1989. Si scoprì poi che quei lividi sul corpicino della piccola erano dovuti a una patologia tumorale che ne causò la morte tempo dopo. E non ad abusi. Una vicenda di cui si parlò nelle case di tutta Italia. Prima per il delitto commesso dal presunto mostro. Poi per le conseguenze del clamoroso abbaglio giudiziario. Lattanzi e Maimone successivamente raccolsero le storie in un saggio edito da Mursia - «Cento volte ingiustizia» - poi «aggiornato» nel sito, divenuto un imponente e aggiornatissimo database che non ha eguali in Europa. Ma prima del film ci sono i numeri. Sconcertanti. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione. Il docufilm, attraverso le storie dei protagonisti, racconta tutte e due le facce della medaglia. Dove non arrivano le immagini 8girate da Francesco Del Grosso che ha diretto il docufilm) nelle carceri e le interviste, scelte e montate con ritmo narrativo e supportate dalle musiche originali di Emanuele Arnone, sono i disegni di Luca Esposito a ricostruire le vicende di malagiustizia.
Gli errori giudiziari, da Enzo Tortora a Giuseppe Gulotta.
Giuseppe Gulotta. Il più clamoroso errore giudiziario della storia repubblicana: 22 anni in carcere da innocente con l’accusa di aver ucciso due carabinieri ad Alcamo Marina, nel 1976. Aveva confessato sotto tortura. E’ stato risarcito con 6,5 milioni ad aprile di quest’anno. Ma i suoi avvocati, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, hanno fatto ricorso perché i giudici non hanno calcolato i danni morali ed esistenziali: chiedono 56 milioni di euro.
Daniele Barillà. Scambiato nel ’92 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un’auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Sette anni e mezzo in carcere. Risarcito con 4,6 milioni di euro.
Domenico Morrone. Accusato nel 1991 dell’omicidio di due minorenni, in realtà uccisi dal figlio di una donna che i ragazzi avevano scippato pochi giorni prima. Sconta 15 anni di ingiusta detenzione (di cui 11 e mezzo in carcere e il resto in regime di semilibertà). Risarcito con 4,5 milioni di euro.
Melchiorre Contena. Passa quasi trent’anni in carcere con l’accusa di sequestro di persona e omicidio del rapito che risale al 1977. Incastrato da un presunto testimone (con 30 denunce per falsa testimonianza, furto e simulazione), in realtà è innocente. Ma sconterà tutta la pena, prima di essere prosciolto dopo un processo di revisione nel 2008.
Giancarlo Noto. Un testimone oculare giura di averlo riconosciuto come autore di una rapina ai danni di un’anziana. Ma il test del Dna su indumenti e passamontagna lasciati dai banditi sul luogo del reato lo scagiona completamente. Dopo aver passato un anno e tre giorni in carcere da innocente, viene risarcito nel 2014 con 85 mila euro.
Claudio Ribelli. Accusato di essere stato il complice di una rapina nel 2010 da una donna che prima lo scagiona e poi ci ripensa. Assolto grazie a una telecamera di sorveglianza: aveva solo incontrato il bandito la mattina al bar. Risarcito con 91 mila euro.
Serena Grandi. Nel 2003 è costretta agli arresti domiciliari per quasi sei mesi, coinvolta in un’inchiesta su un giro di droga e prostituzione. «Mi hanno rovinato la vita, annientato la carriera. Ho passato mesi a letto», dirà in seguito. Nel 2009 la sua posizione viene archiviata. Ha avuto 60 mila euro per ingiusta detenzione.
Gigi Sabani. Accusato di induzione alla prostituzione nei confronti di due aspiranti soubrette, nel 1996 viene messo agli arresti domiciliari per 13 giorni. Sette mesi dopo, viene disposta l’archiviazione nei suoi confronti. Ottiene 24 milioni di lire come riparazione per ingiusta detenzione. Dieci anni dopo morirà per un infarto.
Gioia Scola. «Mi arrestarono sulla base dei racconti di un pentito il 7 giugno ’95. Mi contestavano di essere la mente di un traffico internazionale di stupefacenti fra il Brasile e l’Italia». Lei era davvero stata a Rio de Janeiro, nel ’92, per un intervento di chirurgia estetica nella celeberrima clinica di Ivo Pitanguy, e lì aveva avuto un fugace flirt con Vincenzo Buondonno, poi ammanettato perché trafficante. Nient’altro. Per dimostrarlo ci sono voluti 12 anni. Ha avuto 62 mila euro per ingiusta detenzione.
Lelio Luttazzi. Nel giugno del ’70, all’apice del successo, viene arrestato con Walter Chiari per spaccio di droga. Tutto per colpa dell’intercettazione di una telefonata in cui si era limitato a girare a uno sconosciuto, che si rivelò poi uno spacciatore, un messaggio di Chiari. Dopo 27 giorni in cella viene rilasciato, la sua posizione processuale stralciata.
Enzo Tortora. Errore giudiziario epocale. Fu accusato di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; fu per questo arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Dopo 7 mesi di reclusione la sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta e venne infine definitivamente assolto. Durante questo periodo, Tortora fu eletto eurodeputato per il Partito Radicale, di cui divenne anche presidente. Tortora morì poco dopo la sentenza che metteva fine al suo calvario.
Lo sfregio dell'ex pm Grasso: negato il Senato per Tortora. Il presidente vieta l'incontro: fuori da fini istituzionali Poi tira fuori la par condicio: la compagna di Tortora è candidata, scrive Patricia Tagliaferri, Sabato, 18/06/2016, su "Il Giornale". La vicenda del protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi della nostra storia, di un uomo che ha saputo trasformare la sua sofferenza di innocente stritolato da una giustizia ferma al Medioevo e dall'assenza di diritto in una battaglia per una giustizia giusta, «non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». Almeno non è lo per chi, da quando non è più magistrato, il Senato lo presiede, Pietro Grasso, il quale non ha concesso alla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti, una delle sale di Palazzo Madama per presentare «Lettere a Francesca», il libro che raccoglie una selezione delle struggenti missive scritte in carcere dal conduttore Tv ammanettato nel giugno del 1983 e divenute ora testimonianza della battaglia politica che Tortora ha combattuto fino all'ultimo insieme al partito Radicale per l'affermazione della responsabilità civile dei magistrati, della terzietà del giudice e della separazione delle carriere. A 33 anni dal suo arresto sulla base di false accuse per associazione camorristica e spaccio di droga, Tortora fa ancora discutere. La polemica la solleva la stessa Scopelliti presentando il libro insieme al presidente dell'Unione delle Camere penali, Beniamino Migliucci. Presentazione che dopo l'illustre «sfratto» è avvenuta al Tempio di Adriano, con Emma Bonino e Giuliano Ferrara. È lei a raccontare che l'incontro si sarebbe dovuto tenere nel Palazzo della Minerva, nella biblioteca del Senato, sede che aveva chiesto come ex senatrice e che le era stata concessa, tanto che erano già partiti i primi inviti con quell'indicazione. Mancava solo il sigillo della presidenza. Ma gli uffici di Grasso hanno detto no, anche se ora corrono ai ripari ponendo una questione di par condicio: per il portavoce del presidente la sala è stata negata perché la Scopelliti è candidata al consiglio comunale di Milano e l'evento di ieri era troppo a ridosso del ballottaggio. È del 7 giugno la lettera in cui la coordinatrice della segreteria del presidente Grasso scrive che «la presentazione del libro non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». La Scopelliti legge e non riesce a credere che esuli dalle finalità del Senato il racconto di un uomo che ha trasformato l'infamia subita in una battaglia non tanto per dimostrare la sua innocenza ma per parlare del «caso Italia». Un paese dove, come scriveva Tortora, «solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini» e dove un uomo onesto può diventare «bersaglio» della «miserabile vanità di due Autorevoli che non possono per definizione sbagliare». La risposta della Scopelliti arriva il 16 giugno. In essa elenca i motivi per i quali le lettere avrebbero dovuto avere la giusta attenzione del Senato. «Il libro - spiega a Grasso - parla di un uomo perbene, accusato da alcuni magistrati per male che nonostante questo hanno fatto carriera, denuncia il nostro sistema penale che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere e il nostro sistema carcerario più volte denunciato dall'Europa». La compagna di Tortora si chiede se tutto questo possa non rispecchiare le finalità istituzionali del Senato. «Spero che la decisione - gli dice - non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla sua attuale veste di seconda carica del Paese». Nel motivare la sua assenza alla presentazione del libro il senatore Giorgio Napolitano parla del caso Tortora come «esemplare di indagini e sanzioni penali non fondate su basi probatorie adeguate né rispettose d garanzie basilari della libertà e dei diritti delle persone». «Problemi di sistema ancora aperti», ammette.
L'Italia umilia ancora Enzo Tortora: sfregio al Senato, scatta la denuncia, scrive di Roberta Catania il 18 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. L'ex procuratore Piero Grasso, nella veste di presidente del Senato, ha valutato il caso di Enzo Tortora «scollegato da finalità istituzionali» e ha negato al comitato organizzativo un'aula di Palazzo Madama per la presentazione di un libro sul presentatore televisivo vittima della magistratura. La vicenda che 33 anni fa portò in carcere il presentatore di Portobello è stata ripercorsa in un volume in cui la sua compagna dell'epoca, Francesca Scopelliti, ha dato voce a Enzo, rendendo note 45 lettere che Tortora le scrisse dal carcere. Missive «spietate», in cui il giornalista scriveva degli inquirenti: «Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati». Dalle lettere viene fuori la rabbia per essere stato tradito dal suo Paese, dagli amici, dai colleghi: «Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza. Questo Paese non è più il mio», e ancora: «Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano. È merda pura». I 33 anni dall' arresto ricorrevano ieri e per allora era stata fissata la presentazione del libro Lettere a Francesca, ma Grasso ha negato il consenso. Eppure il suo via libera avrebbe dovuto essere un semplice proforma. «Tutti gli uffici mi avevano dato la disponibilità», racconta a Libero la Scopelliti, che aggiunge: «Sembrava cosa fatta, tanto che avevo già fatto preparare gli inviti con il logo del Senato. Oltretutto mi avevano concesso l'aula a titolo gratuito per "l'iniziativa meritevole", ma all' ultimo è arrivata la comunicazione del presidente Grasso che bloccava tutto». La presentazione c' è stata comunque, ma altrove: al Tempio di Adriano, nella centralissima piazza di Pietra, dove sono intervenuti - tra gli altri- Giuliano Ferrara e Emma Bonino. La vedova di Tortora non ha però rinunciato, con la stessa schiettezza dell'ex compagno, a rispondere alla lettera con cui Gabriella Persi, la segretaria del presidente del Senato, informava del diniego di Grasso a offrire il palazzo istituzionale come teatro della presentazione. «Il libro denuncia il nostro sistema penale», aveva quindi replicato la Scopelliti, «che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere, cosa che invece accade ancora. Così come denuncia il nostro sistema carcerario più volte e aspramente denunciato dall' Europa perché non corrispondente ai parametri di civiltà e di rispetto dell'uomo. Il libro parla di un uomo che, a dispetto di chi lo voleva vittima, si è fatto protagonista di una nobile battaglia per la giustizia diventando così un grande leader politico, in Italia e in Europa. Se tutti questi argomenti», ha concluso la donna, «non rispecchiano «le finalità istituzionali del Senato», allora mi deve spiegare quali sono e come giustifica tante altre iniziative che hanno invece ottenuto il «sigillo» senatoriale. Naturalmente rispetto la decisione del Presidente del Senato ma - mi si perdonerà la franchezza - spero non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla attuale veste di seconda carica istituzionale del Paese. Sarebbe un'ulteriore ferita per Enzo Tortora. Una lesione per le nostre povere istituzioni. Un affronto». A cose fatte, la Scopelliti ha scoperto che come ex segretario del Senato avrebbe avuto diritto a fare la presentazione a Palazzo Madama, ma «alla fine sono stata felice di essere stata accolta nel Tempio di Adriano, che fu un grande imperatore».
OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA. Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere, scrive Roberto Paciucci su “Fino a Prova Contraria” il 18 giugno 2016. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero. Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare.
La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.
La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.
La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.
Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.
Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).
All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:
Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;
Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;
Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;
Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;
Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;
Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;
Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;
Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;
Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;
Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;
L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.
Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea.
La colpa è sempre degli altri. Se i pm hanno deciso per la condanna, perché svolgere i processi: pena immediata in carcere, senza difesa, e buttiamo via la chiave. "I processi durano un'infinità perché ce ne sono troppi. Nella mia esperienza di 38 anni di servizio fin da subito sono stato contrario a questo codice di procedura penale perché irragionevole. Già nel 1988 sollevavo le mie perplessità sulla durata dei processi". Così Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione e presidente dell'Associazione nazionale magistrati, interviene alla giornata di studio promossa a Roma da Unitelma Sapienza il 17 giugno 2016. "Mi si rispondeva allora che si sarebbero fatti i riti alternativi. Ma in questo paese se uno chiede un patteggiamento, invece di aspettare un indulto o una amnistia, ci si chiede se ci sia un problema di mente. In Usa - ha ricordato - il 90% degli imputati si dichiara colpevole. Vuol dire che lì il processo è avvertito come qualcosa di serio e la condanna come inesorabile. Da noi le aule di giustizia assomigliano a un suk arabo, mentre nel processo anglosassone c'è un religioso silenzio. Tra prescrizione, abolitio criminis, e vicende assortite si ha sempre la speranza di non scontare la pena. Continuiamo ad avere un numero sterminato di processi con il risultato che il processo non può avere l'immediatezza. Scriveranno che Davigo dice che l'oralità segna il ritorno al neolitico. Sì lo dico. In larga parte il nostro processo è già diventato scritto. La prova orale è la più debole, in anni di lavoro mi sono convinto che la parte più pericolosa è la prova fornita dai testimoni oculari. E' la prova debole, quindi il processo è basato su prove scritte, come le intercettazioni telefoniche che sono peraltro trascritte".
E se poi si arriva a sentenza, nonostante, anche, per il lassismo di certi magistrati? Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini che incontrando i giornalisti a Napoli il 17 giugno 2017 dopo un incontro con i responsabili degli uffici giudiziari sulla carenza di personale amministrativo, ha detto che "nel Distretto di Napoli restano ineseguite attualmente 50mila sentenze definitive, 30mila delle quali di condanna e 20mila di assoluzione". “Dodicimila delle 50mila sentenze definitive non eseguite - hanno precisato fonti del Csm - riguardano persone da arrestare.” “Ai provvedimenti restrittivi si uniscono - ha sottolineato il procuratore generale di Napoli Luigi Riello - i mancati sequestri di beni.”
E se finisci giudicato da uno così? Un danno per la magistratura, scrive Piero Sansonetti il 22 aprile 2016 su “Il Dubbio”. L'intervista rilasciata da Piercamillo Davigo al “Corriere della Sera” apre due problemi. Uno molto pratico e l’altro di tipo ideale. Il problema pratico è questo: se a un cittadino qualunque capita - e capiterà - di aspettare una sentenza della Corte di Cassazione che deve essere emessa da una sezione della quale fa parte Piercamillo Davigo, come si sentirà questo povero cittadino? Potrà ricusare Davigo, o invece dovrà accettare di essere giudicato da un magistrato il quale afferma e ribadisce che “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”? E se per caso questo cittadino fosse uno che fa o ha fatto politica, come si sentirà a farsi giudicare da un magistrato il quale sostiene che i politici - tout court - rubano? Non è un problema “virtuale” è un problema concretissimo. E porta con se un secondo problema: è evidente che Davigo non rappresenta tutta la magistratura italiana, e che anzi la maggior parte dei magistrati hanno idee ed esprimono posizioni del tutto diverse e non in contrasto con la Costituzione Repubblicana, come sono le idee di Davigo. Però è pur vero che Davigo è stato di recente eletto a capo dell’associazione nazionale magistrati, e questo può farci immaginare che esista comunque un numero significativo di magistrati che la pensano come lui. Qualunque cittadino che dovesse finire sotto processo è autorizzato a temere che il magistrato che lo giudicherà la pensi come Davigo. Vedete, il danno che il presidente dell’Anm ha creato alla giustizia italiana con questa intervista è grande. Perché finisce col minare la credibilità non tanto di un singolo giudice, ma di tutta l’istituzione. Del resto che questo pericolo sia molto serio lo ha immediatamente avvertito il dottor Luca Palamara, che oggi fa parte del Csm e qualche anno fa ricoprì l’incarico di presidente dell’Anm. Palamara ieri mattina, appena letta la pagina del Corriere, è immediatamente intervenuto per tentare di limitare i danni. Ha fatto benissimo. Ma l’impresa è complicata, perché ormai l’intervista è stampata. E lo sfregio che ha recato all’immagine della magistratura e di tanti valorosi magistrati è irreversibile. Il secondo problema è quello dei rapporti tra giustizia e politica. Davigo non è certo uno sprovveduto. E’ un giurista molto colto, ha studiato, è sapiente. Il suo unico difetto è quello di avere una visione della giustizia e del diritto un po’ precedente all’esplosione, in Europa - nel settecento - dell’illuminismo. E dunque di essere, nelle sue idee, molto lontano dalla Costituzione Repubblicana (dal suo spirito e dalla sua lettera). La domanda è questa: se i rapporti tra politica e giustizia sono nelle mani di un leader dei magistrati che ha le idee di Davigo, come si può pensare che questi rapporti si risolvano in qualcosa diversa da una guerra? Mi pare che questa prospettiva sia temuta anche dal dottor Palamara, ma non credo che possa essere cambiata se non scendono in campo quei pezzi di magistratura, moderni e filo-Costituzione, che ci sono, sono molto grandi, ma anche, francamente, piuttosto silenziosi.
Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Il garante dei detenuti: ridurre le misure di custodia cautelare. Gli avvocati: separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. 630 milioni. La cifra pagata dal 1992 dal ministero del Tesoro per indennizzi da ingiusta detenzione. L’anno scorso sono stati 36 milioni, scrive il 24 aprile 2016 Andrea Malaguti su “La Stampa”. «Credevano che fossi il Padrino e non un uomo perbene. Così in attesa dei processi ho fatto 23 giorni di galera e un anno e mezzo ai domiciliari. Dopo di che mi hanno assolto con formula piena in primo grado, in appello e in cassazione. Eppure non è finita». Secondo la Procura di Palermo, Francesco Lena, ottantenne imprenditore di San Giuseppe Jato, titolare dello spettacolare relais Abbazia di Sant’Anastasia nel parco delle Madonie, era un prestanome di Bernardo Provenzano. Così cinque anni e mezzo fa, all’alba, le forze dell’ordine hanno bussato alla sua porta: «Venga con noi». «È per il permesso di soggiorno del ragazzo che sto assumendo?». «No, mafia». La moglie è sbiancata, lui si è sentito mancare e il suo mondo è andato in pezzi. Che cosa è successo da quel momento in avanti? «Mi hanno massacrato, trattandomi come il colletto bianco della cosca dell’Uditore e io l’Uditore non so neanche dove sia». Gogna mediatica e custodia cautelare in attesa di tre gradi di giudizio che avrebbero stabilito la sua innocenza, un destino paradossalmente non insolito. «Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro», spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari «Articolo643». Lo Stato sbaglia, dunque. E sbaglia tanto. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei «25 anni di barbarie giustizialiste» (parla alle procure, ai media, ai suoi colleghi o a tutti e tre?) e la magistratura non sostenesse - come ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che «la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici» e che «i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più», sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia. Ma perché Francesco Lena sostiene che la sua vita è ancora sospesa? L’imprenditore siciliano precipita in fondo al suo pozzo giudiziario perché un gruppo di mafiosi parla di lui al telefono - «Di me e mai “con” me», chiarisce - ma nei suoi confronti non c’è nient’altro, perciò i processi finiscono in nulla. Eppure la sua proprietà viene sequestrata nel 2011 dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo guidata dall’ormai ex presidente Silvana Saguto, accusata oggi di corruzione e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Il sequestro avviene pochi mesi prima che la Cassazione scagioni Lena in via definitiva. A danno si aggiunge danno. «Della magistratura ho una altissima stima. Ci sono persone di grande valore, ma anche uomini e donne capaci di distruggere una comunità o una persona. Io vivo di fianco all’Abbazia e quando vedo come l’hanno trattata mi si crepa il cuore. Su 60 ettari di vigne, 30 sono stati abbandonati. Non l’hanno ancora distrutta, ma prima era un’altra cosa. Sono vittima dell’antimafia e delle gelosie, però resisto, pensando che a Enzo Tortora è andata peggio di così», spiega Lena e dal fondo della gola gli esce un suono a metà tra il sospiro e il gemito. Il 26 di maggio una sentenza dovrebbe restituirgli ciò che è suo. Nel caso di Lena è possibile dire che le misure cautelari non abbiano inciso sulla sua vita sociale? E allo stesso tempo è possibile non pensare che nelle regioni in cui comanda la criminalità organizzata il lavoro dei magistrati sia più duro e complesso e il rischio di errore più alto? Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, «correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no». Per questo Migliucci, sostenuto dal suo ordine, ha pronta una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare in ottobre. «Bisognerebbe ricordarsi della presunzione di innocenza, che non è un fatto interno al processo come ritiene Davigo e dunque l’associazione nazionale magistrati. Volere sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie». È evidente che siamo alla vigilia di un nuovo scontro frontale. Eppure un punto di equilibrio tra la posizione di Migliucci e quella dell’Anm, che propone operazioni sotto copertura con poliziotti che offrono denaro a politici ed amministratori pubblici per vedere come reagiscono al tentativo di corruzione o l’introduzione di una norma che aumenti automaticamente la pena a chi ricorre in Appello e perde, presumibilmente esiste. «La separazione delle carriere, che non mi scandalizzerebbe, di fatto già esiste. Ma ritenere che le mie sentenze possano essere condizionate dal fatto che prendo il caffè con un pm è ridicolo. Io decido solo secondo scienza e coscienza, come ho fatto nel caso della Commissione Grandi Rischi, quando, qui a L’Aquila, ho mandato assolti sei scienziati che in primo grado erano stati condannati per omicidio colposo e lesioni. Sentenza, la mia, confermata dalla Cassazione». Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. «Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno». Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. «Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro». In questi giorni a Francabandera è capitato di indennizzare un uomo arrestato in una discoteca con un sacchetto pieno di palline di ecstasy. Che fosse uno spacciatore era fuori discussione. Eppure, a una analisi successiva, è risultato che le palline non erano ecstasy ma zucchero. Questo perché lo spacciatore era stato truffato. Morale: rispedito a casa e indennizzato per ingiusta detenzione. «Naturalmente gli ho liquidato una cifra bassa, perché con il suo comportamento aveva causato il comportamento degli inquirenti». Il complicato e infinito balletto tra guardie e ladri, che non riguarda solo noi, ma l’Europa. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. «La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro». Anche i numeri sono simili? «Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare». Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? «Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine». Barbarie magari no, ma incomprensibile accanimento qualche volta sì. È il caso di Antonio Lattanzi, ex assessore di Martinsicuro, in provincia di Teramo, arrestato quattro volte nel giro di quattro mesi con l’accusa di tentata concussione e abuso di ufficio a seguito della chiamata in correità di un architetto che lo stesso Lattanzi aveva denunciato qualche anno prima. La Procura si intestardisce in un dinamismo irritante caratterizzato dall’incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. «Sono stato assolto in ogni grado di giudizio con formula piena. Ma ho fatto 83 giorni di prigione. Non ho capito perché abbiano usato questa durezza nei miei confronti. Dopo il primo arresto i miei avvocati hanno impugnato il provvedimento e sono stato rimandato a casa. Ma passati pochi giorni i carabinieri sono tornati a prendermi. Stavolta davanti ai miei figli. In carcere l’idea del suicidio mi ha accompagnato ogni giorno e se non fosse stato per mia moglie non so che cosa sarebbe successo. Comunque abbiamo impugnato anche il secondo provvedimento e anche questa volta mi hanno rimandato a casa». Quando sono andati a prenderlo per la terza volta racconta di avere avuto l’impressione che l’anima avesse lasciato il corpo strappato. Anche il terzo provvedimento è stato impugnato, ma il giorno prima che il tribunale per il riesame lo annullasse il giudice per le indagini preliminari ne ha emesso un quarto. «Una follia. Ma ho combattuto e vinto». Ha anche ricevuto un indennizzo, che non è bastato a pagare la metà delle spese legate al processo. «Non importa. Volevo che la mia innocenza fosse riconosciuta a tutto tondo. La prima notte in carcere è un disastro. Io però dormivo con i pantaloni e con la maglietta. Mai con il pigiama. Era il modo per dirmi: non mi piegherò mai a questo stato di cose, sono un uomo libero». Ogni anno in Italia ci sono 7000 casi Lattanzi - «tutti fratelli che vorrei abbracciare» - fisiologia o patologia del sistema giudiziario?
Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 5 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
«Quattro volte in carcere in tre mesi, ma ero innocente». Ha ottenuto 55 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. La sua vicenda è diventata un docufilm, presentato oggi al Doc Fest di Pesaro, scrive Franco Insardà il 23 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il suo incubo ora è sul grande schermo. “Non voltarti indietro”, docufilm di Alessandro Del Grosso, racconta cinque gravi errori giudiziari tra i quali quello subito da Antonio Lattanzi: è finalista del Pesaro Doc Fest – Hai Visto Mai?, concorso internazionale di documentari provenienti da tutto il mondo su temi sociali, con la direzione artistica di Luca Zingaretti, che inizia oggi. A dispetto del titolo, Antonio Lattanzi, però, si volta indietro e rilegge tutta la sua storia con lucidità e amarezza. Una delle cose che lo hanno colpito di più è la frase pronunciata dall’avvocato dello Stato nel processo in Corte d’Appello, nel quale si discuteva della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: «È vero, ci sono stati degli errori, ma il fatto di non essere stato condannato ha riparato a questi errori». Antonio Lattanzi proprio non riesce a mandare giù queste parole e sbotta: «È assurdo. Sono stato arrestato quattro volte, sono stato in cella 83 giorni e per dieci anni sono stato imputato. Finalmente vengo assolto, chiedo il risarcimento e mi sento dire che l’assoluzione mi dovrebbe ripagare per questo calvario». È un fiume in piena quando racconta la sua incredibile vicenda. Ricorda perfettamente date, processi, pm, gip e giudici che lo hanno accompagnato per dieci anni.
Un incubo iniziato quando?
«Il 21 gennaio del 2002. Alle quattro di mattina i carabinieri sono venuti a casa e mi hanno notificato il mandato di arresto. Sono caduto dalle nuvole. All’epoca avevo due figli di 4 e 2 anni ed essere portato via sotto i loro occhi è stato bruttissimo. Non riuscivo a guardarli in faccia, mi sentivo addosso il loro sguardo indagatore e quello di mia moglie. Era incredula, non riusciva a capire quello che stava succedendo».
Di che cosa era accusato e da chi?
«Di concorso in tentata concussione e abuso di ufficio. All’epoca ero assessore ai Lavori pubblici del comune di Martinsicuro. Il tutto era partito dalle dichiarazioni di Pierluigi Lunghi, l’architetto responsabile del settore tecnico del comune, arrestato in flagranza di reato nel luglio del 2001. Raccontò di aver chiesto dei soldi ad alcuni imprenditori, e, a un certo punto, mi tirò in ballo dicendo che il tramite sarei stato io. Lunghi nel 1996 fu indagato, dopo una mia denuncia, per un reato di falso in atto pubblico e condannato a 14 mesi. Fu arrestato in flagranza di reato il 26 luglio 2001 e di nuovo il 22 agosto 2001».
Come si conclusero le indagini?
«Il pm, Bruno Auriemma, chiese l’archiviazione, ma poi Elena Tomassini, alla quale era passato il fascicolo del primo procedimento, chiese l’emissione dell’ordinanza di arresto al gip Giovanni Cirillo. E così quel 21 gennaio si aprirono per me le porte del carcere di Teramo».
Quanti giorni ci rimase?
«Ventidue giorni, perché il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare, ritenendo che non vi fossero i gravi indizi di colpevolezza e non ricorressero le esigenze cautelari. E così il 12 febbraio potei tornare a riabbracciare i miei figli».
A quel punto pensò che l’incubo fosse finito?
«Sì. Ma quella sensazione durò pochissimo: solo otto giorni. Il 20 febbraio i carabinieri vennero di nuovo per portarmi in carcere. L’accusa era la stessa, stavolta per un nuovo episodio di tentata concussione. Un altro pm Domenico Castellani chiese sempre allo stesso gip Cirillo una nuova ordinanza di arresto. Anche questa volta il Tribunale del Riesame, l’11 marzo, annullò l’ordinanza di custodia cautelare».
Di nuovo libero.
«Questa volta solo per tre giorni. Era il 14 marzo 2002. L’accusa, tanto per cambiare, era di tentata concussione in concorso con l’architetto Lunghi. Il Tribunale del Riesame, il 29 marzo 2002, annullò l’ennesima misura cautelare».
Finalmente libero.
«Non mi hanno neanche fatto uscire dal carcere di Teramo. Il giorno prima, il 28 marzo, mi hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per un quarto tentativo di concussione. Stesso pm e stesso gip. E, tanto per cambiare il Tribunale del Riesame ordinò la scarcerazione. Era il 22 aprile del 2002».
Quale spiegazione si dà per questo accanimento?
«Penso che alcuni magistrati non vogliano ammettere di aver sbagliato in una valutazione e cercano ossessivamente gli elementi per sostenere la loro tesi accusatoria. Nella mia vicenda c’è stato il combinato disposto tra il mio accusatore, che voleva vendicarsi, e i magistrati che gli hanno creduto e sono voluti andare caparbiamente avanti, senza valutare serenamente i fatti. Se lo avessero fatto non sarei stato arrestato quattro volte, non avrei fatto 83 giorni di carcere e i processi».
Infatti nel 2003 sono iniziati i processi.
«Il 14 gennaio del 2006 sono stato assolto in primo grado, ma il pm fece ricorso per Cassazione, perché all’epoca era in vigore la “legge Pecorella”. Nel 2012 il procuratore generale nel processo di Appello all’Aquila chiese di non procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma io e i miei legali chiedemmo di procedere. Volevo avere una sentenza. Eravamo sicuri e abbiamo avuto ragione. Sono stato pienamente assolto».
Quando è entrato per la prima volta in carcere che cosa ha pensato?
«Sono cresciuto con un insegnamento chiaro: se non si fa nulla non bisogna avere paura. Purtroppo oggi devo dire che non è vero. Sono stato sbattuto in carcere senza che avessi fatto niente. Quando sono stato arrestato è stato disposto il divieto di incontrare gli avvocati prima dell’interrogatorio di garanzia. Sono passati otto giorni prima che mi facessero vedere mia moglie. Neanche fossi il peggiore assassino».
Parliamo di sua moglie.
«È una donna straordinaria. Senza di lei non sarei riuscito a venire fuori da questo incubo. Mi è stata vicina sin dal primo momento, mi ha sostenuto sempre. A ogni arresto e a ogni scarcerazione. Quel 22 aprile 2002, il giorno della mia libertà, le chiesi di venire con il nostro fuoristrada perché dalla finestrella della cella potevo intravederne il tettuccio, e quindi quella mattina sono stato a guardare fuori. Sembravo un leone in gabbia, ma mi calmai solo quando vidi spuntare la macchina».
Prima raccontava dello sguardo dei suoi figli quando sono venuti ad arrestarlo. E poi?
«All’epoca avevo due figli, di 4 e 2 anni, che grazie a mia moglie sono cresciuti tranquilli. La più grande ha un carattere forte. Durante la carcerazione con mia moglie decidemmo che ci saremmo fatti un regalo: un altro figlio. Nel 2005 è nata Francesca. La nostra famiglia oggi è ancora più unita. Io volevo cambiare paese, ma mia moglie mi ha convinto a rimanere».
E i suoi amici?
«Martinsicuro si è diviso. I veri amici hanno creduto in me e mi sono stati ancora più vicini, altri mi hanno deluso e si sono allontanati. Va bene così».
Chi è Antonio Lattanzi?
«Sono un ottico professionista, ho 55 anni, sono nato a Giulianova e vivo con la mia famiglia a Martinsicuro, in provincia di Teramo, e sin da ragazzo ho sempre voluto impegnarmi in politica. Nel 1993 sono stato eletto consigliere comunale ed ero all’opposizione. Nel 1997 sono stato rieletto e nominato assessore ai Lavori pubblici. Poi quel 21 gennaio 2002…»
L’assessorato ai Lavori pubblici è una poltrona che scotta. Che cosa ha realizzato?
«Su tutto l’avvio dei lavori per la sistemazione del lungomare e la realizzazione del porticciolo. Opere ferme da quel 2002. Quella poltrona per me non scottava, forse ho dato fastidio a qualcuno che si è voluto vendicare».
Dopo questa esperienza ha chiuso con la politica?
«Assolutamente no. Mi chiedono di candidarmi a sindaco. I cittadini di Martinsicuro vogliono che metta a disposizione del paese la mia esperienza amministrativa e la mia determinazione. Questa vicenda mi ha rafforzato».
Come sono stati questi 83 giorni in cella?
«Sono stato trattato bene dai miei compagni di sventura e dagli agenti penitenziari. Ho visto da vicino un mondo che non immaginavo e un sistema che va senza alcun dubbio migliorato, nel rispetto del dettato costituzionale».
È stato risarcito per quella detenzione?
«Risarcito è una parola grossa. Mi sono stati riconosciuti 55mila euro, ma tenga presente che ho speso circa 200mila euro per difendermi. Senza contare tutto quello che è significata questa storia dal punto di vista psicologico per me e per la mia famiglia. Ora sento di dover davvero chiudere il capitolo. Senza voltarmi indietro».
Pelaggi, l’avvocato innocente scagionato solo dopo tre anni. La Procura della Cassazione avvia un’indagine disciplinare sui magistrati. Luigi Pelaggi, una carriera brillante prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, scrive Paolo Colonnello l'11 giugno 2016 su "La Stampa”. Ci sono voluti tre anni, 32 mila pagine da leggere, cinque mesi di prigione, un figlio piccolo da ingannare («Dov’è papà?» «All’estero…») e una moglie da consolare, prima che un tribunale, questa volta di Roma, iniziasse a rendere giustizia a Luigi Pelaggi, avvocato granitico, una carriera brillantissima prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, stroncata una fredda mattina del gennaio 2014 da un ordine di cattura richiesto dalla Procura di Milano per un’accusa di corruzione rivelatasi completamente inesistente. E i cui estremi d’insussistenza erano già contenuti nelle stesse carte dell’inchiesta, un gigantesco faldone composto appunto da 32 mila pagine, all’interno del quale campeggiava una relazione della Guardia di finanza di “appena” 800 pagine dove era chiarissimo che i 700 mila euro di corruzione di cui veniva accusato Pelaggi non erano mai finiti a lui ma erano semplicemente il frutto di una manovra finanziaria infragruppo tra privati. Pelaggi aveva avuto la disgrazia di finire in un’intercettazione nella quale il suo nome veniva incautamente accostato ad una cifra: «700». Ora la Procura generale della Cassazione sul caso ha aperto un procedimento. Si vuole capire come mai, pur agli atti, la relazione della Gdf che proscioglieva Pelaggi, non sia mai stata presa in considerazione dai magistrati e dai giudici che si sono succeduti nella trattazione del caso: dai 4 pm milanesi che hanno svolto l’inchiesta, ovvero l’allora aggiunto Robledo e i sostituti Basiloni, Filippini e Pirrotta, ai gip che hanno emesso il provvedimento restrittivo e lo hanno convalidato (respingendo ben tre richieste di scarcerazione) ai giudici del tribunale del Riesame. Eppure al pm romano Paolo Ielo, che alla fine lo ha prosciolto chiedendone l’archiviazione confermata un anno fa dal gip, non c’è voluto molto: gli è bastato ascoltare le ragioni di questo avvocato, leggere la relazione che gli veniva segnalata e procedere. Avrebbero potuto fare così anche i pm di Milano ai quali Pelaggi, prima di essere arrestato, aveva chiesto (inutilmente) per ben 5 volte di essere ascoltato. In tutto sono 9 i magistrati che hanno ritenuto evidentemente più pregnante una intercettazione nella quale i responsabili di una società incaricata della bonifica del sito a Pioltello dell’ex area Sisas, la Daneco, parlavano di 700 mila euro e poi di Pelaggi: «I 700 poi sai dove vanno?». «Lo so, lo so…questo commissario è fantastico». Chiacchierata suggestiva ma, si è poi dimostrato, priva di sostanza, dato che i “700” cui facevano riferimento non erano affatto destinati a Pelaggi. Ma chi è Pelaggi? L’avvocato venne nominato Commissario Straordinario del sito di Pioltello con l’incarico di portare a termine la bonifica di un’area di oltre 300 mila metri quadri, con la rimozione e lo smaltimento di 300 mila tonnellate di rifiuti speciali, sospesa dopo l’arresto di uno dei vincitori dell’appalto originario (Giuseppe Grossi). Un’operazione che il Commissario portò a termine in un anno (maggio 2010-giugno 2011) riuscendo così ad ottenere l’archiviazione della condanna dello Stato italiano da parte della commissione europea ad una molta per oltre 670 milioni di euro. Vicenda per la quale, paradosso nel paradosso, ora Pelaggi è accusato di truffa nei confronti dello Stato. Ma il legale si sente sicuro e tranquillo di poter dimostrare anche questa assurdità. Intanto ha perso 5 mesi di vita, si è visto rovinare una notevole carriera e ha avuto seri problemi famigliari. Ora sarebbe bello che qualcuno gli restituisse un po’ di giustizia.
PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.
Vogliono rubarci la libertà di pensiero. Fermiamo le intercettazioni selvagge e la stampa spazzatura ...scrive Gennaro Ruggiero. «Il pensiero è il fiore, il linguaggio il boccio, l'azione il frutto dietro di esso.» (Ralph Waldo Emerson). Perchè dico no al comunismo, dico no al giustizialismo, dico no alle intercettazioni selvagge, dico no allo strapotere dei magistrati politicizzati, dico no alla stampa spazzatura di "Repubblica/L'Espresso/L'Unità/Il Fatto/Annozero/La7/RAI3 ed altri similari. Perchè voglio la libertà di pensiero, di essere libero di dire ciò che voglio al telefono, nel massimo rispetto delle persone. Oggi vige il "libertinaggio", l'abuso della libertà, l'anarchia e un sistema filosovietico all'interno di certa magistratura al soldo degli occulti registi di sinistra che inventano teoremi e gettano fango sulle persone perbene per meri interessi di potere. Essi non riuscendo a vincere sul terreno libero del consenso popolare, usano la manipolazione di pensiero. Il mio pensiero deve essere libero, perchè è pulito, ed è quello della stragrande maggioranza della popolazione. Nessuno si deve permettere di spiare la mia vita privata e rubare e manipolare il mio pensiero sbattendolo sulla stampa. Scientificamente, come dice Wikipedia, l'enciclopedia del web: Il pensiero è un processo mentale che consente agli esseri umani di farsi una certa raffigurazione del mondo, permettendo loro di conseguenza di agire secondo i propri obiettivi, piani, fini e desideri. Concetti collegati a questo sono: coscienza, idea ed immaginazione. Il pensiero implica la elaborazione di informazioni al fine di dar luogo a dei concetti, da utilizzare per prendere decisioni e per risolvere problemi. Quindi dobbiamo pensare a risolvere i problemi, di parlarne, di confrontarci, esprimere liberamente il nostro PENSIERO, e dare il nostro piccolo e modesto contributo. Non solo problemi, ma anche, il nostro pensiero deve legarsi a micro o macroeconomie che si vanno a collegare a tutta una serie di interessi su cui poi influiscono grandi movimenti di pensiero, che possono determinare, o meglio determinano le economie e di conseguenze le scelte politiche di un paese, o anche le manipolazioni politiche ed intellettuali di un paese, di una popolazione. Non restare chiuso qui pensiero riempiti di sole e vai nel cielo cerca la tua casa e poi sul muro scrivi tutto ciò che sai, che è vero (I POOH). Anche i Pooh avevano detto chiaramente che il pensiero si deve riempire di sole (di pulizia e chiarezza) e scrivere sul muro ciò che è vero, e non le "zozzerie" non vere e non utili che hanno sporcato questa stagione di veleni iniziata da una stampa sul libro paga della "Cricca De Benedetti-Di Pietro-Sinistra-Toghe Rosse-Grillo-M5S". Quindi è necessaria una stretta con la legge sulle intercettazioni e la limitazione di pubblicare sulla stampa bugie e falsità. Ciò che noi scriviamo deve essere vero e non frutto di una strategia politica al soldo di "poteri forti o occulti" e farla finita di ascoltare la vita privata dei cittadini che nulla hanno a che vedere con indagini per scovare crimini e criminali. La legge deve passare, e bisogna continuare sulla strada della libertà riformando la giustizia e una parte della costituzione che limita la libertà di pensiero e azione. Bisogna ricordare l'insegnamento: "La mia libertà finisce dove comincia la vostra (Martin Luther King) e "La libertà equivale alla mia vita" (Bettino Craxi). Ma evidentemente alcuni magistrati e giornalisti, non lo sanno. Ed essi sono tutti degni di essere arrestati.
Capriola di "Repubblica": tuonava contro il bavaglio adesso scopre la privacy. Centinaia di articoli contro la legge del Cav che doveva mettere un freno alla pubblicazione delle conversazioni Ora, con i ministri renziani coinvolti, invoca un filtro, scrive Luca Fazzo, Lunedì 11/04/2016, su "Il Giornale". Bastava una parola, una parolina soltanto: bavaglio. È la parola che da decenni faceva irruzione sulle pagine dei giornali, Repubblica in testa - commenti, titoloni, editoriali, retroscena - ogni qualvolta qualche sciagurato di politico si sognava di invocare un argine alla diffusione di intercettazioni che nulla avevano a che fare con le inchieste, e che invece venivano zelantemente trascritte, puntualmente depositate, immediatamente consegnate ai giornali e spudoratamente pubblicate. «Legge bavaglio», veniva definito qualunque tentativo di mettere argine alla gogna. Ecco, quella parola oggi è tabù. Adesso che alla gogna finiscono gli uomini di Matteo Renzi, gli stessi giornali e gli stessi giornalisti che fino all'altro ieri gridavano al bavaglio hanno rimosso la parola dal dizionario. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla rassegna stampa di questi giorni, e in particolare alla stampa più vicina al premier. Ieri sul tema si esibisce una cronista che alla parola bavaglio è affezionata: negli ultimi anni i suoi articoli hanno contenuto questa parola la bellezza di 360 volte, e sempre con riferimento ai tentativi di mettere argine alle intercettazioni irrilevanti. Quasi un tic lessicale, verrebbe da dire. Ebbene, adesso che si tratta di parlare dell'inchiesta di Potenza, e di come fatti privati siano finiti invano ai giornalisti, e di come si potrebbe combattere questo malcostume - e l'articolo lo fa, va detto, con precisione e buon senso - la parola «bavaglio» non compare mai, nemmeno una volta. Quando i brogliacci servivano a dileggiare i nemici, chi si opponeva era marchiato come il sicario di un nuovo Minculpop. Adesso che la stessa sorte tocca ai ministri renziani, della possibilità di imporre per legge un filtro al diluvio si parla laicamente, magari cautamente, un colpo al cerchio dei pm e uno alla botte dei politici amici. Ma quella parola-anatema, «bavaglio», non compare più. Sarebbe un esercizio quasi cinico, andare a spulciare negli archivi degli stessi giornali oggi folgorati sulla via della privacy per computare le volte in cui sulle loro pagine le intercettazioni sono state usate per guardare nel buco della serratura: basti per tutti il messaggio di Anna Falchi a Stefano Ricucci («Sono la donna più felice del mondo perché ho te amore mio grande ti amooo, capito? Sono tua per sempre ricordalo!») che segnò forse il punto più alto di queste incursioni nelle camere da letto: al punto che, caso più unico che raro, dovette intervenire il Garante per la privacy. Ma un libro che raccogliesse il peggio del peggio, di quanto in questi decenni è stato offerto alla curiosità un po' morbosa del pubblico sarebbe un tomo voluminoso. Si va dal cantante Gigi D'Alessio, trascritto e pubblicato per dare lustro a una inchiesta altrimenti di zero appeal mediatico, a Paola Barale infangata gratuitamente da un'intercettazione su due spacciatori. Però più recentemente i guai hanno toccato anche vertici della sinistra. Come Massimo D'Alema i cui vini vennero additati al pubblico ludibrio grazie a un brogliaccio dell'inchiesta Cpl Concordia; e nella stessa indagine vennero depositati «per errore» le intercettazioni in cui Renzi dava dell'«incapace» al suo predecessore Enrico Letta. Adesso insomma tocca al governo di centrosinistra assaggiare il fiele dei brogliacci: così delle opzioni per distruggere le conversazioni private, sui giornali di area si parla tranquillamente, senza impugnare il vessillo dell'articolo 21 della Costituzione. Certo, magari senza entusiasmo, perché certe passionacce sono dure a morire; e guardandosi bene dal chiedere al nuovo leader dei magistrati, Piercamillo Davigo, perché nel 1995 ritenne giusto depositare l'intercettazione in cui la giornalista Alda d'Eusanio diceva a Craxi, latitante ad Hammamet, «ti do un bacio sulla bua», rovinandole vita e carriera.
Legnini (Csm) sferza i Pm "basta dare ai giornali intercettazioni selvagge", scrive Errico Novi su "Il Dubbio" del 15 aprile 2016. In fondo si era capito che ci avrebbe pensato la magistratura. Che la riforma delle intercettazioni avrebbe continuato a galleggiare in Senato e che le circolari diramate dai capi delle Procure più importanti non potevano essere liquidate come eccessi di protagonismo. Da ieri c'è la conferma: a scrivere le nuove norme sugli ascolti sarà il Csm, non il Parlamento. Lo annuncia il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Un politico, certo, che però parla a nome delle toghe. Che si sia arrivati allo snodo decisivo lo si comprende da un particolare passaggio dell'intervento pronunciato ieri da Legnini: "Le frequenti indebite divulgazioni di conversazioni estranee ai temi d'indagine e relative alla vita privata di cittadini spesso neanche indagati rischiano di compromettere il prestigio e l'immagine dei titolari dell'azione penale e della polizia giudiziaria". Parole gravi, che dal vertice del Consiglio superiore non si erano mai sentite. Legnini sceglie l'incontro con i procuratori generali presso le Corti d'Appello, organizzato dalla Procura generale di Cassazione, in Aula magna. La sua è un'accusa, ma anche la premessa al programma operativo del Csm. Ecco di che si tratta: "La settima commissione, su impulso del comitato di presidenza, dopo aver acquisito le circolari adottate dalle Procure di Roma, Torino e Napoli ha già avviato il lavoro di definizione delle linee guida sul delicato tema delle intercettazioni telefoniche". Ci sarà dunque "un atto di regolamentazione" assunto non dai capi di singoli uffici ma dall'organo di autogoverno della magistratura. Certo saranno valorizzate le "positive e innovative misure organizzative adottate dai procuratori Pignatone, Spataro e Colangelo", spiega Legnini. Non fa in tempo a inserire nel "fascicolo" la circolare inviata nelle ultime ore anche da Giuseppe Creazzo, procuratore della Repubblica a Firenze: contenuti simili a quelli proposti dai colleghi. Il vicepresidente del Csm non entra nello specifico delle misure, si limita a dire che le iniziative assunte dai capi dei singoli uffici saranno portate a sintesi e integrate "con i contributi della commissione", la Settima di Palazzo dei Marescialli, appunto, "e dell'intero Csm". Una riforma vera e propria. Ma di quale portata? Le direttrici scelte a Milano, Roma, Napoli, e ora a Firenze, sono chiare: per la polizia giudiziaria che ascolta materialmente le telefonate, divieto di trascrizione per le conversazioni non rilevanti ai fini dell'individuazione della prova; per i pm, conseguente "divieto" di allegare alle richieste di misure cautelari le conversazioni penalmente irrilevanti. C'è poi una zona ibrida, quella relativa alle intercettazioni che non contengono riferimenti ai reati commessi ma che, per usare proprio le parole del procuratore di Firenze, sono comunque "pertinenti, utili per la verifica dibattimentale". Si tratta insomma della terra di nessuno, della categoria di intercettazioni più controversa: quella che i pm considerano utile a definire il "contesto", come dice Armando Spataro. Ecco, in quei casi, per il procuratore Creazzo, la "valutazione della pertinenza e della rilevanza" delle intercettazioni dovrà essere "maggiormente rigorosa". In particolare quando il contenuto sia "riferibile ai dati sensibili per i quali il codice della privacy disegna uno statuto di protezione più marcata". E si dovrà stare attenti, dice sempre il capo dei pm fiorentini, "nelle ipotesi di captazione di conversazioni nelle quali siano coinvolti soggetti estranei ai fatti di indagine". Quello che non serve, o che lede la privacy senza fornire elementi utili alla prova del reato, dovrà essere "distrutto", si legge nelle circolari diramate dai vertici delle Procure. Il vero punto è che tutte queste linee guida sono ispirate a un criterio: è sempre il pm l'autorità a cui spetta stabilire cosa può essere allegato alle richieste di arresto, e dunque alle ordinanze dei gip, e che quindi può essere messo a disposizione della difesa e diventare "pubblico". Salta quel passaggio chiave che due anni fa il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva immaginato: l'udienza filtro, in cui la rilevanza delle intercettazioni non viene stabilita in via esclusiva dall'inquirente ma da un esame congiunto delle parti, davanti al gip. Naturalmente le linee guida del Csm saranno un vademecum, non inderogabile. Ma Legnini ricorda: "Se le misure sono utili a realizzare il rispetto dei valori costituzionali coinvolti non vi è ragione di sottrarsi al dovere di mettere a disposizione di tutte le Procure un atto di autoregolamentazione uniforme cui ciascun magistrato inquirente potrà attenersi o ispirarsi". Non sarà dunque invaso il "potere" dei procuratori: ma il Consiglio, spiega Legnini ha il dovere di "contribuire a definire buone prassi applicative per individuare un possibile equilibrio tra l'impiego dell'irrinunciabile strumento investigativo delle intercettazioni e i valori costituzionali sottesi al diritto alla riservatezza, a una corretta informazione e al diritto di difesa". Intenzioni giustissime. Che però prefigurano un Parlamento di fatto esautorato su dossier chiave per la giustizia.
Intercettazioni i Pm si pentono dopo anni di buio, scrive Annalisa Chirico, Mercoledì 17/02/2016, su “Il Giornale”. Di colpo le procure d'Italia scoprono lo scandalo intercettazioni, e lo fanno in nome di un'autoregolamentazione che ha i tratti dell'autodenuncia. In gergo tribunalizio sarebbe una «confessione tardiva». L'apripista è Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, che lo scorso novembre impartisce a polizia giudiziaria e pm istruzioni dettagliate per «evitare» di inserire nei provvedimenti il «contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine». Adesso la stretta arriva dall'omologo di Torino, Armando Spataro, che con una circolare interna raccomanda di non trascrivere nei brogliacci «eventuali intercettazioni e dati inutilizzabili perché riguardano conversazioni dell'imputato con il suo difensore, perché attengono agli 007, perché ricadono in quelle proibite dal codice del Garante della privacy». E va bene il riferimento ai servizi segreti (Spataro era pm nel processo Abu Omar, quello in cui conversazioni e utenze telefoniche di decine di agenti italiani e statunitensi furono squadernate sui giornali, caso unico al mondo). E passi pure il silenzio dei Travaglio e delle Guzzanti, neanche un tweet contro la circolare «ammazza intercettazioni». Come si cambia per non morire. Ma quel che colpisce al punto da lasciare increduli è che da Roma a Torino, da Firenze a Napoli, i capi delle procure si prendano la briga di ribadire quanto già oggi è espressamente vietato dalla legge. Che cos'è questa se non l'implicita ammissione delle violazioni di legge regolarmente coperte? Si riconosce così l'esistenza di una zona franca, coincidente con il perimetro di certi uffici giudiziari, dove la legge è di fatto sospesa in nome di superiori e improrogabili esigenze giurisdizionali. Mentre la politica si azzuffa attorno alla legge Orlando che verrà, forse sì forse no, chissà come, le procure si autoregolano, come fanno da sempre, e nessuno solleva una seppur lieve critica. Viene da chiedersi se i procuratori capi che oggi mettono in riga polizia e pm abbiano mai denunciato in passato presunti abusi e irregolarità. Viene da chiedersi quanti siano i procedimenti avviati a seguito delle fuoriuscite giornalistiche di notizie riservate. Non si ha memoria di magistrati condannati per violazione del segreto istruttorio. Reato per il quale invece è stato condannato Silvio Berlusconi. A proposito di paradossi, sentite le parole di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano all'epoca del processo Ruby: «Sin dal 2010 abbiamo definito due punti: la polizia doveva impedire che già nei brogliacci si desse conto di intercettazioni private, poi invitai esplicitamente i pm a evitare riferimenti a conversazioni private irrilevanti». Vi ricordate le paginate sui giornaloni nazionali dense di dettagli anatomici e voluttà sensoriali? C'è da pensare che siano stati gli avvocati del Cav a trasmettere i contenuti a luci rosse alla stampa. Citofonare Ghedini.
Quando l'intercettazione è ambigua. Telefoniche o ambientali, sono sempre più un elemento chiave delle indagini. Grazie a loro sono stati scoperti scandali e sventati attentati, ma la storia giudiziaria è ricca purtroppo anche di clamorosi errori. L'importanza di avere analisi scientifiche su voci e suoni realizzate da esperti affidabili appare infatti sottovalutata e tutt'oggi manca ancora un albo ufficiale dei periti. Eppure decifrare i contenuti delle conversazioni "rubate" spesso non è affatto semplice: lingue straniere, dialetti e rumori di fondo mandano spesso gli investigatori fuori strada, come dimostra la sequenza di file audio che vi proponiamo, scrive il 13 aprile 2016 “La Repubblica”.
Un terzo dei periti non usa metodi scientifici, scrive Michele Catanzaro, Philipp Hummel, Elisabetta Tola ed Astrid Viciano. C'è il caso di un lavamacchine la cui voce viene confusa con quella di un narcotrafficante. O quello di un’imputata a cui viene attribuita una voce tre volte più acuta di quella della Callas. Ci sono perizie fatte da DJ o da fonici audio, realizzate su registrazioni di appena 3 secondi, o sotto l’influsso di "miraggi acustici collettivi". Le storie sull'uso della voce in tribunale assumono spesso toni grotteschi. Gli esperti in fonetica forense sono preoccupati per la qualità delle perizie usate nei processi, un problema aggravato dalla mancanza di un albo di esperti accreditati, combinato con i tagli alla giustizia. D’altro canto la domanda cresce sempre di più per il significativo aumento nell’uso delle intercettazioni. "La confusione regna sovrana: nei tribunali si vedono ipotesi di lavoro ridicole", denunciava mesi fa Andrea Paoloni, ricercatore presso la Fondazione Ugo Bordoni e patriarca della fonetica forense italiana, scomparso nel novembre 2015. Luciano Romito, professore di fonetica all’Università della Calabria e uno degli esperti più autorevoli in Italia, ricorda episodi sconcertanti. "In un’intercettazione, dei calabresi parlavano di granate: il perito pensava che fossero bombe, ma si riferivano a melograni, in dialetto", racconta. Le conseguenze degli errori possono essere gravi. Nel 2011 lo spagnolo Óscar Sánchez venne condannato a 15 anni in seguito all’identificazione della sua voce nelle intercettazioni di un narcotrafficante che ne aveva assunto fittiziamente l'identità. A eseguire la perizia era stato il tecnico Roberto Porto. Solo dopo due anni in carcere e mezza dozzina di perizie di altri esperti, il giudice riconobbe che la voce delle intercettazioni non era quella di Sánchez e che c'era macroscopica differenza fra il suo accento e quello del narco latinoamericano intercettato. Porto aveva ricevuto quell’incarico nonostante nel 2010 avesse presentato due perizie con misure identiche per le voci di un napoletano e di un albanese, in due processi senza alcuna relazione fra loro. Quando si scoprì, l’albanese venne assolto. “Ho commesso un errore di copia e incolla, in buona fede”, ha dichiarato Porto in un’intervista concessa a uno degli autori di quest’inchiesta nel 2013. Effettivamente, il procedimento contro di lui è stato archiviato. Gli errori in fonetica forense non sono aneddoti isolati. Un sondaggio realizzato dal professor Romito nel 2007 interpellando una cinquantina di periti italiani ha svelato che il 35% di loro utilizzava metodi non scientifici, secondo le linee guida fissate dalla International Association for Forensic Phonetics and Acoustics (IAFPA). Tra queste, il semplice ascolto, la screditata tecnica delvoiceprint (impronta digitale vocale o confronto di sonogrammi) e una serie di altri metodi bollati come "indefinibili". Il problema non è esclusivamente italiano. Un questionario realizzato dall’Interpol l’anno scorso su 44 periti appartenenti a corpi di polizia di tutto il mondo ha trovato che ben il 48% di loro utilizza, fra le altre tecniche, varianti del voiceprint (la percentuale è del 36% fra i 22 esperti Europei). Secondo le stime degli esperti (un registro delle perizie non esiste), i periti fonici intervengono in centinaia di processi l’anno. Si chiede loro d’identificare interlocutori anonimi intercettati o di verificare l’autenticità delle registrazioni. Molto più spesso viene richiesta anche la trascrizione delle intercettazioni. "La semplice trascrizione presenta problematiche enormi: dalla qualità del segnale (per esempio, la registrazione di una telefonata rumorosa, frammentaria, o vecchia di anni, ndr) agli aspetti dialettali", afferma Davide Zavattaro, comandante della sezione di fonica e grafica del Ris dei Carabinieri di Roma. Non mancano gli esempi di errori attribuibili a queste difficoltà. Nel 2014, nel processo alla cosiddetta "Lady Asl" in cui l’imputata era la ex direttrice sanitaria dell’Asl di Bari, Lea Cosentino, un perito scrisse la frase "li prendiamo per fessi a tutti e due" al posto di "li firmiamo per evitare tutti i problemi". Nel 2005, in un dibattimento contro svoltosi a Reggio Calabria, un gruppo di tecnici realizzò la trascrizione di un’intercettazione successivamente qualificata come "inintellegibile". Il Tribunale di Lucca, chiamato ad occuparsi del caso, concluse che questi "esperti" erano stati preda di un "miraggio acustico collettivo". "Il brogliaccio della polizia giudiziaria viene usato dal perito come base per la sua trascrizione, e questa a sua volta viene poi usata da altri periti e consulenti: così gli errori si amplificano”, spiegava ancora Paoloni. "Investiamo enormi risorse per intercettare, ma molto meno per lavorarci dopo", osserva Romito. Confrontare le voci è ancora più complicato. L'affidabilità di questa pratica in Italia è controversa fin dai suoi albori, quando il professore padovano Toni Negri, vicino all'area di Potere Operaio, fu in un primo momento identificato con il telefonista delle Br del caso Moro per mezzo della tecnica delvoiceprint ritenuta oggi priva di base scientifica. "La voce non è come il Dna o l'impronta digitale: basti pensare come cambia se si parla a un bambino o a un adulto", afferma Juana Gil, coordinatrice di un prestigioso master in fonetica forense a Madrid. Per questo, i periti più rigorosi parlano di similitudini fra parlatori, non d’identificazione. Ciò nonostante, in diversi casi di errore giudiziario le perizie presentano i risultati in termini d’identificazione positiva o negativa. In più, la similitudine non dimostra nulla di per sé. "Anche se trovassi due voci molto simili, dovrei domandarmi: quanto sono frequenti altre voci altrettanto simili?", spiega Geoffrey Morrison, professore di linguistica all’Università di Alberta (Canada) e portabandiera dell’uso di metodi più rigorosi nella fonetica forense. Nel luglio 2015, la European Network of Forensic Sciences Institutes (Enfsi) ha raccomandato di usare basi di dati di voci per rispondere a questa domanda, per mezzo di un metodo statistico chiamato “rapporto di verosimiglianza”. Ma secondo il sondaggio di Romito, solo il 13% degli tecnici italiani usa questo standard internazionale. Il sondaggio internazionale dell’Interpol, realizzato solo su esperti dei corpi di polizia, rivela che il 41% presenta i suoi risultati per mezzo di rapporti di verosimiglianza (oltre ad altri formati). “Il problema è che non esiste un albo di esperti, né un organismo che certifichi l’attività del perito fonico", denuncia Marco Zonaro, perito con sede a Roma. Il giudice nomina il perito in base ad un rapporto fiduciario. Ma il 43% dei periti del sondaggio di Romito non sono laureati, e il 6% ha solo la licenza media. "Questo è eclatante in una disciplina che richiede competenze molto elevate", commenta Romito. Il ricercatore cita ad esempio l’intervento di un perito, titolare di un’impresa dedicata alla formazione di DJ, nel processo a Pietro Paolo Melis, un pastore condannato per sequestro in base a una perizia che Romito considera sbagliata. Uno dei fattori che influisce sulla disponibilità di esperti per i tribunali è la scarsa retribuzione. Attualmente, un’ora di lavoro di un perito fonico viene pagata dallo stato 4,08 euro lordi (a fronte dei 60-90 euro che si pagano in Austria o dei 150-250 nel Regno Unito, secondo gli esperti consultati). "Chi pensa di vivere di questo deve lavorare per la difesa: a disposizione dei tribunali e delle procure rimangono persone o fortemente motivate o molto impreparate”, conclude Romito. "La qualità delle perizie è una delle questioni sistemiche segnalate dalle camere penali: denunce di problemi ne riceviamo in continuazione”, afferma l’avvocato Valerio Spigarelli, presidente fino al 2014 dell’Unione delle Camere Penali Italiane. "Non c’è dubbio - aggiunge - che la qualità delle trascrizioni lascia a desiderare". Rinunciarvi, secondo gli inquirenti, è però impensabile. "L’intercettazione telefonica è uno strumento indispensabile”, replica Maurizio Carbone, sostituto procuratore presso la procura di Taranto e segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati. "Vanno usate però con la massima attenzione - mette in guardia il pm - l’attività dei periti è delicata e deve essere sottoposta a vaglio critico".
Effetto Csi, solo in tv basta la soluzione tecnica, scrive Michele Catanzaro, Philipp Hummel, Elisabetta Tola ed Astrid Viciano. I periti forensi delle serie televisive, come CSI, Bones o Criminal Minds, sono avvolti da un’aura di onnipotenza. Quest’immagine è penetrata nella mente degli inquirenti, creando quello che nel settore è noto come "effetto CSI". "Gli investigatori hanno aspettative eccessive rispetto al potere probatorio delle consulenze scientifico-tecniche”, spiega Juana Gil, coordinatrice di un prestigioso master di fonetica forense a Madrid. “Si tende a considerare la prova scientifica come una prova regina, ma questo può essere un rischio: è necessario corroborarla con altre prove", afferma Maurizio Carbone, pubblico ministero e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. "I giudici dovrebbero avere la consapevolezza della relatività degli strumenti forensi con cui operano: non bisogna pensare che si possa risolvere tutto sul piano tecnico”, concorda Livio Pepino, che è stato pubblico ministero, presidente di Magistratura Democratica e membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia, Pepino solleva un dubbio. "Un pericolo è che il magistrato si adagi sul giudizio del tecnico, e che correlativamente l’esperto possa forzare la tecnica per cercare di sostenere la tesi che convalida l’impianto accusatorio”, osserva. "Questo è più frequente di quanto si creda”, metteva in guardia Andrea Paoloni, patriarca della fonetica forense italiana. "Il pubblico ministero - ricordava - dice al suo consulente che sa chi è il colpevole e il consulente deve solo confermare. Un magistrato di Roma mi disse: faccia la perizia, ma non si preoccupi, che l'intercettato è stato visto col telefono in mano". "Il perito ci tiene a rimanere sul mercato, e quindi può arrivare ad agire così per far contento il pm”, concorda Romito. “Non deve essere assolutamente così”, risponde Carbone. “Sono pubblico ministero da vent’anni e prima di dare un incarico premetto che il lavoro serve per accertare una verità, non per confortare un’ipotesi. Non ne avrei l’interesse, perché ho tutte le motivazioni per evitare che si sostenga un’ipotesi che poi cadrebbe in fase dibattimentale”, conclude.
Da Bain a Pistorius, gli audio dei casi famosi. Gli esempi qui sotto permettono di verificare la complessità di operazioni apparentemente immediate come la trascrizione di un’intercettazione, il confronto fra due voci, o il riconoscimento di un rumore. In alcuni di questi casi, si verifica un fenomeno che gli esperti chiamano priming. È un processo mentale per cui il cervello si convince dell’esistenza di una frase che non c’è, o che è diversa da quella realmente pronunciata. È lo stesso fenomeno che si verifica, per esempio, in numerosi casi di supposti “messaggi satanici” nascosti nelle canzoni rock.
Una storia vera, il caso Bain. Nel giugno 1994, il neozelandese David Bain chiama la polizia sotto shock per comunicare che tutta la sua famiglia è stata uccisa. Ascolta un minuto della sua chiamata facendo click sul file audio. Nel 1995, Bain viene condannato per quella carneficina. Nel 2007, nel processo d’appello, la polizia presenta come prova questo frammento della telefonata originale. Ascoltalo facendo clic sul file audio. Cosa dice Bain? La trascrizione proposta dalla polizia è "I shot the prick" ("ho ucciso quello stronzo"). Nel 2009, la corte suprema della Nuova Zelanda rifiuta questa prova e, grazie ad altre evidenze, assolve Bain, che ha comunque nel frattempo passato 13 anni in prigione. Una possibile trascrizione alternativa (non necessariamente quella autentica) è "I cannot breath" ("non riesco a respirare"). Puoi sentire questa frase nella registrazione? Se hai sentito queste frasi, il tuo cervello è stato vittima di un fenomeno di "priming". (Fonte: H. Fraser)
Dubbi anche nel processo Pistorius. Nel Febbraio 2013, l’alteta Oscar Pistiorius uccise con un’arma da fuoco la sua fidanzata, Reeva Steenkamp, in Sudafrica. Pistorius disse di averla scambiata per un intruso. Durante la sua dichiarazione nel processo, pronunciò la frase che puoi sentire facendo clic sul file audio. Cosa dice Pistorius fra le lacrime? I media pubblicarono una trascrizione della testimonianza che conteneva la seguente frase: "She wasn’t breathing" ("non respirava"). L’esperta australiana Helen Fraser ha proposto una trascrizione alternativa: "She was everything" ("lei era tutto"). Questo è un aspetto minore del processo di Pistorius. Tuttavia, la versione suggerita dalla stampa sarebbe contraddittoria con un’altra parte della dichiarazione di Pistorius, in cui l’atleta chiariva che quando riconobbe Steenkamp, questa era ancora viva. (Fonte: H. Fraser)
Urla la vittima o l'assassino? La vicenda Trayvon Martin. Nel Febbraio 2012, il vigilante George Zimmerman uccise con un colpo di pistola a Sanford, in Florida, un adolescente afroamericano chiamato Trayvon Martin. Il momento dello sparo è stato registrato in diverse chiamate di vicini ai servizi d’emergenza. Nelle chiamate, si sente il rumore di fondo del litigio fra il vigilante e Martin. Zimmerman disse che era lui che stava gridando, perché Martin lo stava aggredendo. La famiglia di Martin sostenne che chi gridava era il giovane, spaventato dalla pistola del vigilante. Dopo una polemica perizia che deduceva l’età e le parole pronunciate dalla persona che gridava, il giudice arrivò alla conclusione che era impossibile trarre conclusioni da una registrazione così confusa. (Fonte: H. Fraser)
Raffiche di mitra? Un esempio da manuale. Si tratta di un’intercettazione ambientale realizzata in un’automobile. Secondo la polizia giudiziaria, si trattava del caricamento di un’arma, seguito da una sventagliata di un mitra fuori dal finestrino. In realtà, il suono era l’apertura e chiusura del lettore CD dell’auto, e la "sventagliata" era probabilmente un passaggio della vettura su un terreno sconnesso, come i listelli di un passaggio a livello. (Fonte: D. Zavattaro)
Troppe zone grigie, è ora di investire, scrive Gianluca Di Feo. Sbiancato o sbancato? In Parlamento e sui giornali, il dibattito su quella i è andato avanti per mesi, perché intorno alla trascrizione di una singola parola intercettata ruotava gran parte dell'inchiesta che nel 1996 fece dimettere Antonio Di Pietro dal ministero dei Lavori pubblici. Il pm aveva “sbiancato” – ossia terrorizzato – un imputato o lo aveva “sbancato” facendosi consegnare mazzette? Da una sola lettera dipendeva il destino del magistrato più famoso – poi prosciolto dalle accuse – e in qualche maniera la credibilità di tutta la storica operazione Mani Pulite. Ma le frasi captate dalle microspie all'interno di uffici affollati di ogni rumore o di vetture che sobbalzano nel traffico sono sempre rebus di difficile interpretazione. E lo stesso accade con le registrazioni dei cellulari, dove anche senza l'uso del “vivavoce” finiscono spesso brandelli di altre conversazioni, in un intreccio corale ingarbugliato come un canto gregoriano. Oggi nessuno mette in dubbio il ruolo delle intercettazioni in tutti i settori di indagine, con stanziamenti cospicui per realizzare gli ascolti e tecnologie di spionaggio sempre più avanzate, ma le perizie che devono trasformare le voci in verbali e quindi in prove vengono gestite in una zona grigia che spesso assomiglia a un far west. Le cronache giudiziarie degli ultimi vent'anni sono popolate di trascrizioni approssimative, che snaturano il senso delle frasi captate dai microfoni. E se accade con i fili audio dei colletti bianchi, che parlano spesso in un italiano altrettanto immacolato, figuratevi cosa avviene con le trattative nei vernacoli meridionali delle mafie. Una situazione che può assumere connotati paradossali nelle inchieste sulla criminalità straniera - con ore di conversazioni in dialetto albanese, macedone, kosovaro, georgiano, cinese, nigeriano – o in quelle sul terrorismo jihadista. Proprio su quest'ultimo fronte negli anni immediatamente successivi all'11 settembre 2001 ci sono stati errori giudiziari clamorosi, dovuti alla fallace verbalizzazione degli audio. I problemi sono noti da vent'anni, ma le risposte tardano ad arrivare. Perché richiedono investimenti, non solo nei compensi ai periti e a gli interpreti in modo da rendere questa attività remunerativa anche per i veri professionisti, ma anche nello stabilire finalmente delle linee guida che introducano standard di qualità in tutte le perizie giudiziarie. Intercettazioni e prove "scientifiche" - dal Dna alle impronte digitali fino alle tracce informatiche - sono ormai protagoniste dei processi, ma sulle persone a cui viene affidata la formazione di questi elementi fondamentali non ci sono regole. Fino al paradosso. Come il superperito comparso in una fase dell'inchiesta sul delitto Cogne che aveva falsificato indizi, curriculum e persino il titolo nobiliare con cui si presentava ai clienti e ai giudici.
La storia del Giornale e di Emma Marcegaglia, scrive Francesco Costa su “Il Post” l’8 ottobre 2010. Un guaio in cui persino le abituali fazioni si trovano spaesate. Come raccontano oggi tutti i quotidiani italiani, ieri mattina venti carabinieri del Nucleo operativo ecologico – sì, è strano, ci arriveremo – hanno perquisito le redazioni di Milano e Roma del Giornale, nonché le abitazioni private del condirettore del Giornale, Alessandro Sallusti, e del vicedirettore Nicola Porro. I due risultano sotto indagine per “concorso in violenza privata” ai danni di Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, e gli inquirenti hanno sequestrato gli hard disk dei loro computer. La storia ha varie sfaccettature, ve la raccontiamo dall’inizio. Cominciamo da una guida ai protagonisti della vicenda: alcuni sono piuttosto noti, altri lo sono molto meno. Vittorio Feltri è il direttore editoriale del Giornale, Alessandro Sallusti ne è il direttore responsabile, Nicola Porro il vicedirettore. Emma Marcegaglia è la presidente di Confindustria. Fin qui ci siamo. Gli altri protagonisti di questa storia sono Rinaldo Arpisella, portavoce e segretario particolare di Emma Marcegaglia, Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, e Mauro Crippa, responsabile comunicazione di Mediaset. I magistrati di Napoli che dirigono l’inchiesta sono Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock. Giandomenico Lepore è il procuratore capo di Napoli. Nicola Porro ha 41 anni, per il Giornale scrive molto di economia, e si occupa spesso di Confindustria. I suoi editoriali sono spesso molto critici nei confronti degli industriali e della loro presidente, Emma Marcegaglia, che a sua volta da diversi mesi non perde occasione per criticare le politiche economiche del governo e implicitamente il Giornale stesso. Il 15 settembre Marcegaglia fa riferimento alla «politica brutta che parla di cognati, amanti, appartamenti che non interessano a nessuno», e al governo «che forse non ha più una maggioranza». La presidente di Confindustria rincara la dose il 24 settembre, a Viareggio: «Dalla crisi non usciremo meglio degli altri. Anzi». Il Giornale continua a criticare Emma Marcegaglia e il 27 settembre sul suo blog lo stesso Nicola Porro racconta che “un portavoce” di Marcegaglia si lamenta dei suoi attacchi. Lui gli aveva chiesto di intervistare Marcegaglia e quello aveva risposto che “non possiamo, perché altrimenti la Signora apparirebbe ancora più berlusconiana di quanto lo sia. Se parlasse con il Giornale il gioco diventerebbe scoperto”. Oggi sappiamo che il portavoce a cui fa riferimento Porro è Rinaldo Arpisella, che lo stesso Porro dice di “sentire regolarmente” da oltre dieci anni e col quale dice di avere sempre avuto “un rapporto amicale”. Il resto ce lo raccontano le intercettazioni delle loro comunicazioni, perché c’è di mezzo un’inchiesta che non riguarda direttamente loro. Spiega oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera che i telefoni del Giornale non sarebbero mai stati sotto controllo (nei giorni scorsi Sallusti aveva scritto un editoriale protestando che il Giornale era sorvegliato da due procure). L’intercettato era Rinaldo Arpisella, il portavoce di Emma Marcegaglia, nell’ambito di un’indagine sul traffico di rifiuti: per questo ieri è intervenuta la procura di Napoli anche se i presunti reati sarebbero stati compiuti a Roma e Milano, per questo (i rifiuti) la perquisizione viene effettuata dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico. Sul cellulare di Arpisella, quindi, gli inquirenti leggono gli sms di Porro. È il 16 settembre, uno di questi recita: “Ciao Rinaldo domani super pezzo giudiziario sugli affaire della family Marcegaglia”. Dopo un’ora Arpisella telefona a Porro, che gli dice: “Spostati i segugi da Montecarlo a Mantova” (Mantova è la città di Emma Marcegaglia). Secondo i verbali delle intercettazioni Arpisella si mette a ridere. Poi Porro dice che “Adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo”. A quel punto Porro fa un’altra battuta, il cui tono si può decifrare solo ascoltando l’audio delle conversazioni. Ricorderete che Arpisella aveva detto a Porro che Marcegaglia non poteva farsi intervistare dal Giornale, per non “sembrare troppo berlusconiana”. Allora Porro dice che il Giornale sta per pubblicare il “super pezzo giudiziario” per farle “un favore”, “come dicevi tu”, così “non sembra berlusconiana”. Per quel che riguarda l’inchiesta in corso, la conversazione si chiude lì (c’è un altro passo su Riotta e i suoi rapporti col governo che non ha niente a che vedere con le indagini né con la storia, ma tutti i giornali lo pubblicano senza farsi troppi problemi). Se dalla trascrizione delle intercettazioni Arpisella non sembra affatto turbato (“ride”, dicono i verbali), la sua reazione invece sembra essere stata molto diversa. Arpisella dirà ai magistrati che aveva “paura questo avvertimento si realizzasse con la pubblicazione di un dossier che avrebbe potuto deturpare l’immagine di Emma Marcegaglia”. Solo che Arpisella non si rivolge alla magistratura, non denuncia Porro per violenza privata. Ma alza il telefono e chiama Mauro Crippa, responsabile comunicazione di Mediaset. Il quale gli dice di “chiamare Confalonieri adesso”. Emma Marcegaglia dirà ai magistrati di aver chiamato personalmente Confalonieri, raccontandogli della sua “preoccupazione” e del suo “allarme”. Confalonieri le disse che ci avrebbe pensato lui e infatti dopo pochi minuti la richiamò dicendo che aveva messo tutto a posto: Feltri non avrebbe scritto niente. Confalonieri le consigliò però di dare l’intervista al Giornale. Arpisella richiama Porro, che non è contento della scelta di far intervenire Confalonieri: “Secondo te è una cosa intelligente, dal punto di vista di Feltri, farlo chiamare da Confalonieri? Feltri è il padrone del suo giornale, finché non lo cacciano”. Poi il vice direttore del Giornale rilancia sull’intervista, dicendo ad Arpisella che “dobbiamo trovare un accordo, perché se no non si finisce più qui”. L’ipotesi di reato avanzata dai magistrati è violenza privata. Nel decreto di perquisizione, i pm scrivono che “il giornalista ha il diritto di criticare e di farlo in modo anche duro, pungente e veemente”, ma non può “utilizzare i propri scritti e le proprie pubblicazioni, o meglio la loro prospettazione, al solo scopo di coartare la volontà altrui”. Ed Emma Marcegaglia, parlando ai pm, ha utilizzato esattamente queste parole: “Non mi era mai capitata una cosa simile, e cioè che un quotidiano ovvero qualsivoglia altro giornale tentasse di coartare la mia volontà”. E poi: “Dopo il racconto che Arpisella mi fece, ho sicuramente percepito l’avvertimento di Porro come un rischio reale e concreto per la mia persona e la mia immagine”. Qui finiscono i fatti e cominciano le domande relative a questa storia. Il vicedirettore del Giornale, Nicola Porro, sostiene che il tono delle sue comunicazioni con Arpisella era innocuo e scherzoso. «Le frasi sono vere ma il tono era chiaramente di cazzeggio. Vorrei che Woodcock pubblicasse tutti gli audio. Chi parla di minacce non ha capito nulla. E comunque sì, ho detto una cazzata al telefono. Di Arpisella ho cancellato il numero». Ascoltare gli audio può essere utile a capire quale fosse il tono di Porro, che non è possibile evincere dai testi, per quanto sia evidente il sarcasmo del vice direttore del Giornale. Quel è che è certo è che Arpisella riferisce a Marcegaglia le conversazioni in un modo tale da allarmare la presidente di Confindustria e portarla a cercare aiuto in Fedele Confalonieri. Un’altra cosa non chiara, fino a questo momento, è l’oggetto dell’articolo la cui pubblicazione è annunciata ad Arpisella da Porro via sms. Marcegaglia ha detto ai magistrati di presumere che potesse riguardare “taluni problemi giudiziari” che suo fratello ha avuto nel 2004. Altri hanno ipotizzato un riferimento ai presunti conflitti di interesse esistenti tra l’azienda di famiglia di Emma Marcegaglia e il suo incarico in Confindustria. Oggi comunque il Fatto dedica una lunga inchiesta proprio ai “guai giudiziari” di Emma Marcegaglia e di suo fratello. Il Giornale ha annunciato che domani pubblicherà un’inchiesta di quattro pagine su Emma Marcegaglia. Altra cosa poco chiara: qual è la differenza tra un’inchiesta giornalistica e un’operazione di cosiddetto dossieraggio? Il giornalismo d’inchiesta è basato sulla ricerca di informazioni riservate, sui tentativi di reperire informazioni e documenti non pubblici, allo scopo di far venire alla luce fatti meritevoli di attenzione e visibilità: notizie. Alcuni dei giornalisti più celebrati e popolari in Italia si vantano di avere interminabili archivi su questo o quel personaggio politico, così da tenere traccia di ogni affermazione e documento che lo riguardi: è giornalismo o dossieraggio? Quello che fa Wikileaks è giornalismo o dossieraggio? Claudio Cerasa scrive sul Foglio che “se davvero il Giornale avesse avuto, o avesse trovato, delle notizie interessanti intorno alla famiglia Marcegaglia e avesse deciso di pubblicare queste notizie anche con una tempistica discutibile (ovvero giusto dopo le critiche della Marcegaglia al governo) io credo che Feltri avrebbe avuto tutto il diritto a mettere in pagina quelle notizie lì”. Abbiamo detto dell’inchiesta pubblicata oggi dal Fatto, che ripercorre i “guai giudiziari” di Emma Marcegaglia, del padre, del fratello: è giornalismo o dossieraggio? I problemi nel comportamento del Giornale possono essere la veridicità delle eventuali notizie, il miscuglio tra le opinioni dei giornalisti e gli interessi degli editori, la ricerca più approfondita verso i propri avversari politici e non verso i propri alleati: ma fosse così allora l’accusa di dossieraggio sarebbe da allargare alla quasi totalità dei giornali italiani, e sarebbe probabilmente più opportuno trovarle un altro nome. Il nodo è semmai l’utilizzo delle notizie come arma di ricatto, ed è su questa ipotesi di reato che indagano i magistrati. Come avrete notato, l’unica persona del Giornale coinvolta nei fatti a questo punto è Nicola Porro. Nonostante questo, anche Alessandro Sallusti è indagato per violenza privata. Il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore, parlando della perquisizione, ha inizialmente dichiarato che i pm si sono resi conto “che i colloqui tra i giornalisti del Giornale Alessandro Sallusti e Nicola Porro con il segretario del presidente di Confindustria Emma Marcegaglia erano tesi a far cambiare atteggiamento al presidente degli industriali”. Solo che di colloqui di Sallusti con Arpisella non se ne trovano: Sallusti dice di non aver mai avuto alcun rapporto con nessun membro dello staff del presidente di Confindustria e ha querelato Lepore per diffamazione. Lepore ha poi rettificato: “Non mi riferivo alle telefonate di Sallusti con il segretario della Marcegaglia ma ad altre conversazioni”. Quali siano queste altre conversazioni non si sa. Quello che si sa è che nel decreto di perquisizione firmato da Woodcock non si menziona alcuna telefonata o conversazione di Sallusti – la cui abitazione è stata perquisita – bensì solo tre righe di un editoriale, in cui il condirettore del Giornale accenna alle posizioni di Marcegaglia sul caso di Montecarlo e scrive: “Con buona pace della Marcegaglia, i sondaggi dicono che i cittadini non si rassegnano ai silenzi e alle bugie sull’affaire monegasco”. Nient’altro. “Una minaccia, questa?”, scrive il Giornale, “eppure è l’unico elemento a carico di Sallusti evidenziato dal decreto dei pm”. Uno dei due pm che dirigono l’inchiesta è un nome particolarmente noto alle cronache giudiziarie degli ultimi anni, perché protagonista di inchieste di grande clamore e visibilità risoltesi poi quasi tutte con archiviazioni e assoluzioni. L’ultima delle tante è relativa a Vittorio Emanuele di Savoia e si è conclusa poche settimane fa. In quell’occasione il Giornale dedicò un articolo alla “lunga serie di inchieste fallimentari” del pm, riproposto poi stamattina. Nel 2006 Gianfranco Fini definì Woodcock “un signore che in un paese serio avrebbe già cambiato mestiere”. Felice Manti, del Comitato di redazione del Giornale, ha detto che la perquisizione è “un attacco alla nostra libertà”. Il direttore Vittorio Feltri ha detto che “non c’era in corso nessuna inchiesta sulla Marcegaglia e non abbiamo nulla da temere” e che “Confalonieri si informava ma mai si sarebbe sognato di intervenire”. Il segretario della Federazione nazionale della Stampa Franco Siddi ha parlato di “grave inquietudine” per le perquisizioni ai giornalisti, dicendo che “non vorremmo che gli interventi in atto assumessero i caratteri del controllo preventivo sulla stampa”. Giuseppe Giulietti, leader dell’associazione Articolo 21 e deputato dell’Italia dei Valori, ha detto che “non mi sono mai piaciute le perquisizioni ai giornali e non mi piace neanche questa”. Il centrodestra si è schierato compatto a difesa del Giornale, mentre nel centrosinistra lo scenario è più frastagliato. Molti hanno condannato l’operato del quotidiano diretto da Vittorio Feltri, parlando appunto di “dossieraggio” e facendo notare l’ennesima grave distorsione al sistema democratico apportata dal conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Altri hanno reagito diversamente. Concita De Gregorio sull’Unità di oggi scrive che “non ci piace affatto che la redazione di un giornale venga perquisita, che si cerchino prove delle intenzioni. Vale per il Giornale come per tutti”. Persino Antonio Di Pietro ha commentato con qualche cautela. “Non conosco i fatti ma non voglio tappare la bocca a nessuno, neanche ai miei avversari, neanche a chi come il Giornale mi ha diffamato tante volte ed è stato condannato”.
Clinton, Mastella, Berlusconi, Ricucci: se l’intercettazione fa scoppiare la coppia. Rotture, sofferenze, reputazioni distrutte. La pubblicazione di sms e telefonate, anche quelle senza «rilevanza penale», ha un effetto devastante, umano e sentimentale, scrive "Il Corriere della Sera" il 10 aprile 2016.
1. Quando l’inchiesta fa crollare la coppia. L’ultimo caso, quello alla ribalta mediatica, è quello di Federica Guidi. Ma prima di lei, c’erano stati altri nomi e volti illustri della politica e non solo a vedere la vita privata finire in pasto all’opinione pubblica per una telefonata, una battuta, un tradimento, una parola di troppo. Dal caso Clinton a Fini a Veronica Lario, quando l’intercettazione (e l’inchiesta) fa scoppiare la coppia.
2. Guidi - Gemelli. Al di là del rilievo penale della vicenda, le dinamiche interne al rapporto (del tutto privato) fra l’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il compagno Gianluca Gemelli è diventato di dominio pubblico. Quello che resta, nell’immaginario di molti, è quell’intercettazione, e il ministro (ora ex) che dice «per te valgo meno di zero, mi tratti come una sguattera del Guatemala».
3. Falchi - Ricucci. Succede spesso così. Succede sempre più spesso così. Succede oramai quasi sempre così. Quando le inchieste, grazie alla formidabile narrativa invadente e oltraggiosa delle intercettazioni telefoniche, si fanno partitura verbale di rotture, scenate, dolori, allora cambia completamente lo scenario emotivo. Era inimmaginabile un sms d’amore di Anna Falchi a Stefano Ricucci pubblicato sui giornali e preso in prestito dalle carte giudiziarie: e invece è accaduto. Era il 2005 e i due erano sposati «Solo per dirti che sono la donna più felice del mondo perché ho te amore mio grande, ti amooo, capito? Sono tua per sempre ricordalo» scriveva la Falchi. E se l’inchiesta, seguita dal carcere, ha rotto quella coppia, ma quel messaggio telefonico è rimasto.
4. Mastella-Lonardo. E una famiglia poteva disintegrarsi sotto il peso di un’inchiesta giudiziaria, quella dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, e con una dose di cinismo supplementare gli inquirenti avevano stabilito come misura cautelare per la signora Lonardo Mastella il divieto di dimora in Campania, vicino alla sua famiglia: lì la famiglia non si ruppe, ma il colpo fu micidiale. La vicenda era quella degli appalti dell’Arpac, l’Agenzia regionale campana per la protezione dell’ambiente.
5. Fini-Tulliani. E i giornali che attaccavano Gianfranco Fini per via della casa di Montecarlo data al cognato non risparmiarono nulla sul conto della compagna Elisabetta Tulliani e subito dalla pianta del gossip spuntarono voci di micidiali rinfacciamenti, urla, addirittura separazioni.
6. Salvo Sottile. Al portavoce di Fini, Salvatore Sottile, capitò anche di peggio nel corso dell’inchiesta Vallettopoli a Potenza, e la dimensione sentimentale venne messa a dura prova dalla propalazione di intercettazioni impudiche. Coinvolta anche quella che sarebbe poi diventata la moglie di Flavio Briatore, Elisabetta Gregoraci. «Vieni qua, poi ti faccio fare una trasmissione» diceva lui, che poi fu accusato di concussione sessuale.
7. Berlusconi - Lario. Con Veronica Lario lo schema si era addirittura rovesciato: furono le parole dell’allora moglie di Silvio Berlusconi contro il «drago» a cui venivano «offerte figure di vergini» a innescare le note vicende giudiziarie a carico del suo allora marito, ma quelle vicende giudiziarie, grazie alle intercettazioni, furono quelle con più successo di pubblico. «Aiutatelo, è malato e va curato» aveva scritto la Lario in una lettera, dopo che sui giornali erano rimbalzate le foto di lui al 18esimo compleanno di Noemi Letizia: giovane, bella, bionda, che lo chiamava «papi». E se Federica Guidi si lamentava con Gemelli che era diventato «marito a tutti gli effetti» di essere ridotta a «meno di zero», la Lario scelse l’allusione letteraria al titolo di un romanzo della scrittrice irlandese Catherine Dunne: La metà di niente.
8. Bill e Hillary Clinton. Ma ancora prima, e di là dall’Oceano, la vicenda che aveva fatto scuola era stata quella che aveva coinvolto (fino all’impeachment), il presidente americano Bill Clinton, la stagista Monica Lewinsky e la di lui moglie Hillary. Il «sexgate», così come è stato poi ribattezzato.
9. Strauss-Kahn e Sinclair. E se la signora Clinton ha dovuto fare i conti con i dettagli di quello che accadeva nello «Studio ovale», non è toccato compito più semplice alla (all’epoca) moglie di Dominique Strauss-Kahn di Annie Sinclair con le accuse di violenza sessuale da parte della cameriera Nafissatou Diallo. Lei lo difese pubblicamente dichiarandosi certa della sua innocenza. Un anno dopo però annunciò la separazione.
10. Il peso delle intercettazioni. Insomma, le intercettazioni, anche se non hanno «rilevanza penale», hanno una devastante rilevanza umana e sentimentale. Nel suo romanzo Persecuzione, lo scrittore Alessandro Piperno racconta di come Leo, messo sotto accusa e sentendosi un «paria della società», cominci a odiare la moglie «Rachel con tutto se stesso» perché lei non ascolta le sue ragioni, non è travolta dal fatto che suo marito «viene quotidianamente maciullato». Lo lascia solo. Vale meno di zero, la metà di niente. Il reato sta sullo sfondo, l’inchiesta giudiziaria parla di arresti e indagini, le vite degli altri parlano invece di rotture, sofferenze, reputazioni calpestate. La più crudele di tutte le sentenze.
Intercettazioni e privacy, in vent’anni meno di 20 casi di violazione. Ecco perché la nuova legge serve solo alla politica. Gli sms della Ferilli e quelli della Falchi, le avances di Alessandra Necci e quelle di Moggi junior, le telefonate dei sacerdoti fiorentini e la sentenza europea su Craxi: sono le cosiddette “intercettazioni selvagge”, che invadono la vita privata di persone coinvolte dalle inchieste della magistratura. Quelle che hanno sollecitato governi di ogni colore ad intervenire sulla questione. Eppure negli ultimi vent'anni emergono meno di 20 circostanze, una dozzina di momenti in cui fatti privati sono finiti sui giornali: un po' poco per sollecitare una riforma, scrive Giuseppe Pipitone il 18 settembre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Gli sms di Sabrina Ferilli e quelli di Anna Falchi, le avances di Alessandra Necci e quelle di Alessandro Moggi, le intercettazioni dei sacerdoti fiorentini e la sentenza europea su Craxi, citata perfino in un tribunale di Nuova Delhi. Poi nient’altro, o poco più. Il totale? Meno di venti casi negli ultimi due decenni di storia italiana. Eccole qui le cosiddette “intercettazioni selvagge”, quelle che violano la privacy, invadendo ogni campo della vita privata di persone coinvolte dalle inchieste della magistratura e che poi finiscono pubblicate sui giornali senza che abbiano niente a che vedere con i reati contestati. Eccoli qui i casi in cui il garante della privacy è dovuto intervenire perché il limite era stato oltrepassato, ed occorreva mettere un freno a quotidiani e periodici che, con la scusa delle intercettazioni, “spiavano dal buco della serratura” di vip e personaggi pubblici. Ed è proprio per questi casi che, da quasi vent’anni, governi di ogni colore politico cercano di fabbricare una legge che vieti drasticamente la pubblicazione di quelle intercettazioni. E adesso che alla Camera è in discussione la riforma del processo penale, compreso l’emendamento Pagano (in calendario martedì prossimo), quello che nella filosofia del governo Renzi dovrebbe finalmente mettere un freno alla presunta violazione della privacy, una domanda è legittima: in quanti casi, davvero, i giornali hanno violato la sfera personale, pubblicando intercettazioni che nulla hanno a che vedere con i reati contestati, con le inchieste in corso, con l’interesse dell’opinione pubblica? Incrociando il database del garante per la protezione della privacy con le notizie pubblicate dai giornali emergono meno di 20 circostanze, per la precisione 12 casi, una dozzina di momenti in cui fatti privati, che a volte coinvolgevano persone estranee alle indagini, finivano pubblicati sui giornali perché contenute nelle intercettazioni ordinate dall‘autorità giudiziaria. Ovviamente si tratta solo dei casi rintracciati dal fattoquotidiano.it, ma anche a voler arrotondare per eccesso quella cifra, raddoppiandola o triplicandola, l’impressione è che siano davvero poche le fattispecie di violazione per giustificare il continuo allarme lanciato dalla classe politica, visto anche che, secondo l’Eurispes, sono ben 140 mila le utenze telefoniche intercettate dagli uffici giudiziari italiani ogni dodici mesi per un totale di 180 milioni di eventi telefonici (sms e chiamate). Ovviamente non si tratta del numero di persone sotto intercettazione, visto che in realtà ogni soggetto ha a sua disposizione più utenze, che vengono registrate solo per alcuni giorni.
Le baby squillo dei Parioli. Uno degli ultimi casi in cui il garante della privacy è dovuto intervenire per strigliare i media è quello delle baby squillo dei Parioli. Al centro dell’inchiesta il fotografo Furio Fusco, accusato di adescamento di minori, pornografia minorile aggravata e prostituzione minorile. I giornali rendono note le intercettazioni dell’inchiesta (che coinvolge anche Mauro Florani, marito di Alessandra Mussolini), ma il garante fa notare come siano stati pubblicati “dettagli che potrebbero rendere identificabili alcune delle ragazze coinvolte (che sono minorenni ndr) e ledere la loro dignità, in violazione della carta di Treviso e del codice deontologico dei giornalisti”.
Gli sms della Ferilli. Non violano i diritti di minorenni ma non andavano comunque pubblicati gli sms di Sabrina Ferilli all’ex amico Francesco Testi. L’attrice romana era stata querelata dall’ex partecipante del Grande Fratello, perché in un’intervista aveva negato l’esistenza di una liason, dandogli velatamente dell’omosessuale. Testi la trascinò in tribunale, producendo come presunta prova gli sms ricevuti dalla Ferilli. Il garante però intervenne ordinando a periodici e giornali di “astenersi dalla pubblicazione di sms eventualmente idonei a rivelare abitudini sessuali”.
I “ti amo” della Falchi a Ricucci. Erano intercettati dalla procura di Milano nell’ambito delle indagini sulla scalata Antonveneta. Nei brogliacci però finirono anche le effusioni telefoniche tra Anna Falchi e il marito, il “furbetto del quartierino” Stefano Ricucci. “Solo per dirti che sono la donna più felice del mondo, perché ho te amore mio grande, ti amo. Capito? Sono tua per sempre. Ricordalo”, scriveva in un sms la showgirl di origine finlandese. Un “evento telefonico” intercettato e finito poi agli atti dell’inchiesta che però nulla aveva a che vedere con l’interesse pubblico, come poi confermato dal garante. È anche vero, però, che all’epoca il rapporto tra Falchi e Ricucci era noto da tempo: i due si erano sposati un mese prima dell’intercettazione in questione. La privacy violata, in questo caso, non sarebbe altro che la pubblicazione di effusioni tra marito e moglie.
Il primo caso: Necci – Pacini Battaglia. Di tutt’altro tenore invece lo scambio tra Alessandra Necci, la figlia dell’ex numero uno delle Ferrovie dello Stato Lorenzo, e il banchiere Francesco Pacini Battaglia. “Hai visto come sono sexy? Mi trovi un lavoro?” chiede la Necci a Pacini Battaglia, indagato dai pm della procura di Milano: è forse uno dei primi casi in cui inchieste della magistratura hanno invaso la vita privata degli indagati. Siamo, infatti, nel 1996 e l’onorevole Enzo Fragalà di Alleanza Nazionale ha appena chiesto per la prima volta una legge sulla intercettazioni. Fragalà sarà assassinato a colpi di bastone 14 anni dopo, e le intercettazioni telefoniche saranno fondamentali per individuare i suoi presunti killer: questa però è un’altra storia.
Calciopoli e l’esempio D’Amico. Rappresenta un caso da manuale invece l’inchiesta su Calciopoli. Luciano Moggi aveva lamentato inutilmente (e senza alcun presupposto giuridico) l’invasione della sua privacy per le centinaia di intercettazioni che lo riguardavano. Nell’inchiesta sull’ex dg della Juventus, però, spunta anche il nome di Ilaria D’Amico. La giornalista era citata nell’indagine perché era l’oggetto delle avances di Alessandro Moggi, il figlio di Luciano. “Ho speso 10mila euro per portarla a Parigi, ho preso un aereo privato, albergo di lusso, ristorante favoloso”, diceva Moggi junior intercettato. Il nome della conduttrice Sky, dunque, era finito sui giornali senza che fosse minimamente coinvolta in alcun filone dell’indagine: che l’emendamento Pagano arrivi dunque per tutelare i casi come quello della D’Amico? La diretta interessata ha già smentito con il suo commento in diretta televisiva. “Certo, mi ha dato fastidio – ha detto – ma non per questo chiedo il bavaglio alle intercettazioni”. Chapeau.
Il caso di padre Bisceglia e le minacce all’arcivescovo di Firenze. Repentino l’intervento del garante dopo l’arresto di padre Fedele Bisceglia, accusato di aver violentato una suora: “l’Autorità – scrivono i garanti – richiama gli organi di informazione alla necessità di evitare la divulgazione di elementi non indispensabili. La vicenda in questione, in particolare, vede coinvolte oltre all’interessato altre persone e la stessa presunta vittima della violenza sessuale, la quale potrebbe risultare lesa nella sua dignità dalla diffusione di particolari e dettagli sui fatti che la riguardano”. Dopo l’annullamento della condanna a 9 anni e 3 mesi da parte della Cassazione il francescano è stato assolto nel secondo processo d’appello. Lamentavano la violazione della privacy anche all’arcidiocesi di Firenze, dopo che vennero pubblicate alcune conversazioni telefoniche in cui l’arcivescovo Giuseppe Betori parlava di un incontro con il Papa. Intercettazioni realizzate durante l’inchiesta della procura aperta per fare luce sul ferimento a colpi di pistola di un sacerdote, don Paolo Brogi, e sulla conseguente minaccia, con l’arma puntata alla testa, dello stesso arcivescovo.
Le chiamate di Bettino e gli indiani. Nel 2003, invece, era arrivata addirittura da Strasburgo la condanna per l’Italia, colpevole di aver violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata. Il motivo? Le intercettazioni eseguite dalla procura di Milano nei confronti di Bettino Craxi. L’ex leader socialista aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per la pubblicazione sui giornali delle registrazioni telefoniche di carattere privato operate nell’inchiesta sulla “Metropolitana Milanese” sulla sua utenza di Hammamet, in Tunisia, dove era latitante. La sentenza di Strasburgo fece talmente scalpore che dieci anni dopo, nel 2013, l’uomo d’affari indiano Ratan Tata è comparso davanti alla Corte Suprema di New Delhi, durante un’udienza su intercettazioni telefoniche a carico di personalità del Paese, invocando la difesa della sua privacy citando proprio il caso Craxi.
“Non pubblicate quelle mail”. Ma erano utili: il caso Garlasco. Non erano intercettazioni ma avevano attirato l’attenzione del garante le e-mail tra Alberto Stasi e la fidanzata Chiara Poggi. “La pubblicazione delle e-mail una inutile lesione della sfera più intima dei due giovani”. Quelle mail però erano importanti per gli inquirenti, che accusavano Stasi di aver ucciso la fidanzata. E dopo la cancellazione da parte della Cassazione di due assoluzioni, il 16 dicembre 2014 la corte d’Assise d’Appello di Milano ha inflitto una condanna a 16 anni di carcere a Stasi.
Vallettopoli, il caso Sottile e le intercettazioni di Potenza. Hanno lamentato la violazione della privacy anche le varie showgirl coinvolte in Vallettopoli l’inchiesta che ha travolto Salvatore Sottile, ex potentissimo portavoce di Gianfranco Fini ai tempi della Farnesina, poi condannato a 8 mesi di detenzione per peculato. Le prestazioni sessuali in cambio di lavori in televisione, però, erano una parte importante dell’inchiesta. Addirittura nel caso del verbale d’interrogatorio di Elisabetta Gregoraci, è lo stesso legale della futura moglie di Flavio Briatore ad auspicare che “la fonoregistrazione venga resa pubblica in modo da accertare modalità e contenuti dell’interrogatorio”. Furono bollate come “inutilizzabili”, invece le intercettazioni disposte dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti della Federconsorzi, una costola del filone “holding del malaffare” nel quale finirono indagati personaggi eccellenti come Franco Marini, Sergio D’Antoni, Flavio Briatore, Tony Renis, Emilio Colombo, Luciano Gaucci, l’ambasciatore Umberto Vattani. Per la Cassazione si era in presenza di “assoluta mancanza di motivazione, in un contesto caratterizzato da un coacervo di iniziative investigative coinvolgenti un grande numero di indagabili per fatti diversi e scollegati tra loro”.
Gli inutili allarmi di B, il caso Ruby. Silvio Berlusconi detiene probabilmente il record degli allarmi lanciati a difesa della privacy. Ma invece che invadere la sua sfera privata, quelle registrazioni servivano soltanto ad accertare fattispecie di reato. Impossibile fare l’elenco degli inutili strilli dell’ex cavaliere negli ultimi vent’anni. Il caso Ruby fa però da cartina di tornasole: per l’ex premier quello che succedeva ad Arcore erano solo cene eleganti e private: gli inquirenti però indagavano su un caso di favoreggiamento e induzione prostituzione minorile. E anche se alla fine il leader di Forza Italia è uscito assolto dal primo processo Ruby (dopo la condanna in primo grado), quell’inchiesta è costata una condanna in appello perEmilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora, mentre alle battute iniziali il terzo processo nato da quell’inchiesta con 33 persone indagate più lo stesso ex premier, accusati di reati che vanno dalla corruzione in atti giudiziari alla falsa testimonianza.
La raccomandazione in Rai? Non parlatene. L’ex cavaliere aveva lamentato una presunta violazione della sua privacy anche per le intercettazioni con Agostino Saccà: gli segnalava nomi di ragazze da far lavorare in Rai. “Sai che poi ti ricambierò quando sarai dall’altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore: Mi impegno a darti un grande sostegno’”, prometteva l’ex premier. Per la procura di Roma, però, alla fine l’accusa di corruzione, mossa in un primo momento dai pm napoletani e poi passata agli inquirenti capitolini per competenza, era da archiviare. E alla fine i pm Sergio Colaiocco e Angelantonio Racanelli avevano chiesto la distruzione di migliaia di brogliacci “per assicurare il massimo della tutela possibile alla riservatezza dei soggetti coinvolti’”. E per questo motivo che, dopo la distruzione, Saccà ha annunciato di voler denunciare tutti coloro che avessero ancora pubblicato il contenuto di quelle telefonate. “Per proteggere la mia privacy”, diceva il direttore di Rai Fiction. Eppure non si capisce perché l’opinione pubblica non dovrebbe essere messa a conoscenza del fatto che un ex e futuro presidente del consiglio (i fatti risalgono al 2007) intervenga per far lavorare sue personali amiche in trasmissioni televisive pagate con soldi pubblici. O forse si capisce benissimo. E a ben pensarci è lo stesso motivo per cui da vent’anni si invoca quella legge sulle intercettazioni agitando lo spettro della privacy violata.
La riforma delle intercettazioni? “La facciamo per la gente normale”. “Perché facciamo questa riforma? Per la gente normale che ogni giorno finisce in pasto all’opinione pubblica nelle gazzette locali? Chi ne difende il buon nome?”, diceva nel marzo del 2015 l’ex segretario dem Pierluigi Bersani. Eppure con la nuova legge in vigore, quella ideato per proteggere la privacy dei cittadini, sarebbe stato impossibile per un ex funzionario dell’Asl di Benevento, registrare segretamente la voce di Nunzia De Girolamo nel 2012, quando l’ex ministra aveva riunito i vertici dell’Asl a casa del padre per discutere dell’appalto del 118 e di nuove sedi ospedaliere. E sconosciuta ai cittadini sarebbe anche l’intercettazione in cui il numero due della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, parlava di Giorgio Napolitano, sostenendo che “l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro ed (Enrico, ndr) Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio (il figlio dell’ex presidente della Repubblica ndr). Ecco quale è il vero motivo che sta alla base della voglia di bavaglio: solo che con la dozzina di casi di violazione della privacy registrati negli ultimi vent’anni c’entra poco. Anzi nulla.
PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.
Ma il Pubblico Ministero può offendere l'imputato?
Leggo sul sito di Repubblica che il PM durante la requisitoria nel processo contro l'ex comandante della Concordia Francesco Schettino ha definito lo stesso come un "incauto idiota". Ora non voglio difendere Schettino, è giusto che paghi per la sua irresponsabilità, ma un PM può offendere palesemente un imputato? L'avvocato dell'imputato può segnalare questa condotta al CSM e presentare querela contro lo stesso PM? A me sembra che chi amministri la giustizia deve essere il primo a dare il buon esempio di rispetto delle leggi, o no?
SENTENZA N. 380 ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 343 e dell’art. 598 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 26 settembre 1997 dal Pretore di Brescia nel procedimento penale a carico di Marcello Campisani, iscritta al n. 556 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1999 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento penale promosso, con l’imputazione di oltraggio a un magistrato in udienza, nei confronti di un avvocato che nella discussione finale del dibattimento avrebbe pronunciato frasi ritenute offensive nei confronti del pubblico ministero, il Pretore di Brescia, con ordinanza emessa il 26 settembre 1997, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 343 del codice penale, nella parte in cui prevede che le offese arrecate nel corso del dibattimento dal difensore al pubblico ministero integrino il reato di oltraggio a un magistrato in udienza. Questa previsione di reato violerebbe gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, perchè non sarebbe giustificato il differente trattamento sanzionatorio delle offese arrecate dal difensore al pubblico ministero, rispetto al trattamento delle offese arrecate nelle medesime circostanze dal pubblico ministero al difensore, le quali integrano, invece, il meno grave delitto di ingiuria (art. 594 cod. pen.). Si tratterebbe, difatti, di condotte identiche, tenute da soggetti che si trovano in condizioni di parità, giacchè nell’udienza il pubblico ministero ed il difensore rivestirebbero la medesima qualifica di "parte" e parteciperebbero al processo penale "su basi di parità" (art. 2, comma 1, numero 3, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, di delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). Posta questa sostanziale identità di posizione e di poteri, non troverebbe ragionevole giustificazione il differente trattamento sanzionatorio del pubblico ministero e del difensore, i quali hanno tenuto identiche condotte, non potendo avere rilievo la loro diversa qualificazione soggettiva (il pubblico ministero é considerato pubblico ufficiale, mentre il difensore esercita un servizio di pubblica necessità);
b) in subordine, dell’art. 598 del codice penale, nella parte in cui non prevede la non punibilità, stabilita per le offese contenute negli scritti o discorsi difensivi delle parti o dei loro patrocinatori, anche per le offese verso il pubblico ministero in interventi del difensore nel corso di una udienza penale. La mancata estensione dell’esimente anche a questo caso violerebbe sia il principio di eguaglianza sia il diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), giacchè sarebbe consentito al pubblico ministero pronunciare affermazioni che ledono l’onore dell’imputato o del suo difensore, godendo della immunità, mentre il difensore, nell’ambito della stessa udienza penale e nell’esercizio del mandato difensivo, se pronuncia le stesse frasi nei confronti del pubblico ministero non solo incorrerebbe nel reato di oltraggio, ma non godrebbe neppure dell’esimente prevista all’art. 598 cod. pen. Questo sistema sarebbe del tutto incoerente, perchè alla libertà del dibattito in giudizio potrebbe essere sacrificato l’onore o la reputazione della persona, che é un bene di rango costituzionale, ma non il prestigio della pubblica amministrazione, che sarebbe un bene estraneo alla Costituzione.
Ritenuto in diritto
bla...bla...bla...
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara:
a) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 343 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Brescia con l’ordinanza indicata in epigrafe;
b) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 598 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Brescia con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Cesare MIRABELLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 7 ottobre 1999.
A questo punto ci si chiede: l'art. 3 della Costituzione è solo una presa per il culo?
Questo è quanto, salvo poi i paradossi dell’essere condannati per errore per ebbrezza.
Milano, il giudice si confonde e condanna il pm: guida in stato di ebbrezza, ma non ha neanche l'auto. Otto mesi di reclusione e a 2.800 euro di ammenda, dopo lo scambio di nomi. Fissata l'udienza riparatoria, scrive Franco Vanni il 19 febbraio 2016 su "La Repubblica". Condannato al posto dell'imputato, per un errore di trascrizione da parte del giudice. È successo al pubblico ministero Angelo Renna. Il giudice, che nel dispositivo di condanna ha scambiato i due nomi, accortosi della svista ha dovuto fissare una camera di consiglio straordinaria per rimediare. A Palazzo di Giustizia di Milano, la voce della "udienza riparatoria" è corsa in fretta, di avvocato in avvocato, fino agli uffici della Procura. "Guida in stato di ebbrezza - scherzava un magistrato, mentre la camera di consiglio era in corso - Da Renna non me l'aspettavo!". Lo stupore è comprensibile: il pm non ha nemmeno l'automobile, difficile abbia guidato ubriaco. A firmare il dispositivo, emesso il 20 gennaio, è stato il giudice Maria Pia Bianchi della V sezione penale del tribunale. Il sostituto procuratore Renna era titolare di un fascicolo a carico di un uomo accusato di avere guidato ubriaco il 15 aprile 2012. E poi condannato a otto mesi di reclusione e a 2.800 euro di ammenda, per guida in stato di ebbrezza e altri reati commessi al momento dei controlli da parte delle forze dell'ordine. Il condannato, come il pm, di nome fa Angelo. Questo potrebbe spiegare la confusione del giudice, nonostante fra i cognomi non vi sia alcuna assonanza. Quando al tribunale fu segnalato l'errore, il giudice ha dovuto fissare la camera di consiglio per rettificare la svista, condannare l'imputato ed evitare così ogni grana futura al pubblico ministero, che in città si sposta con mezzi pubblici e bicicletta. L'udienza straordinaria si è tenuta nel pomeriggio di mercoledì scorso. "Con ogni evidenza si è trattato di un piccolo errore materiale, come ne possono capitare nei procedimenti penali - ha detto il giudice Maria Pia Bianchi, una volta uscita dall'aula - il processo si è svolto in modo del tutto regolare, sempre alla presenza dell'imputato e dei suoi legali. E una volta realizzato di avere sbagliato, abbiamo subito posto rimedio". A discolpa del giudice Bianchi c'è da dire che in aula il pm Renna non era presente, quindi non aveva modo di associare al nome un volto. A sostenere l'accusa in aula è stata infatti Mariangela Caputo, vice procuratore onorario. "Escludo che il pubblico ministero possa avere avuto un danno da questa vicenda", dice Bianchi. Non è dato sapere se il legale del condannato (quello vero, non il pm Renna) cercherà di fare valere l'errore materiale del tribunale a vantaggio del proprio cliente, in vista di un probabile ricorso in appello.
PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.
Ferrulli, chiesti 7 anni e 8 mesi per gli agenti: quella sera “non doveva essere arrestato”. Dure le parole del sostituto procuratore Tiziano Masini: fu un arresto "illegale e arbitrario". E durante quell'arresto Michele Ferrulli morì. In primo grado gli agenti erano tutti stati assolti, scrive Carmine Ranieri Guarino su "Milano Today" il 10 marzo 2016. Ferrulli morì il 30 giugno 2011. Le manette attorno ai suoi polsi non sarebbero mai dovute scattare. Quel suo corpo un po’ troppo grande e per nulla agile non sarebbe mai dovuto finire sull’asfalto. Perché, nonostante in quella tragica sera fosse “alticcio e arrogante”, lui - Michele Ferrulli, il manovale cinquantunenne morto il 30 giugno 2011 per un infarto durante un arresto in via Varsavia - non doveva essere arrestato. A riscrivere la storia, dopo un processo di primo grado che ha assolto tutti e quattro gli agenti imputati, è il sostituto procuratore generale di Milano, Tiziano Masini, che giovedì, durante il processo d’Appello, ha chiesto sette anni e otto mesi per due poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale e diciotto e sedici mesi per altri due agenti, la cui ipotesi di reato è stata derubricata da omicidio colposo a eccesso colposo. Per Francesco Ercoli e Michele Lucchetti il pg ha mantenuto l’accusa di omicidio preterintenzionale, la stessa dalla quale erano stati accolti in primo grado. Mentre, per Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo il reato ipotizzato è “solo” di eccesso colposo nell’uso dei mezzi di coazione fisica, perché arrivati “in soccorso” solo in un secondo momento. Il problema, secondo il pg, è che quella sera non ci sarebbe dovuto essere né un primo, né un secondo momento. “L’arresto di Michele Ferrulli fu un atto illegale e arbitrario - la tesi del procuratore - perché ad un oltraggio a pubblico ufficiale, per cui non è previsto il provvedimento, non possono seguire addirittura violenze da parte delle forze dell’ordine”. Per il pg, Ferrulli quella sera “certamente alticcio e arrogante doveva essere solo denunciato per oltraggio e tutto sarebbe finito lì”. Invece a finire lì quella sera è stata la vita di Ferrulli. A dare il là al dramma erano stati alcuni schiamazzi di cui la stessa vittima e due suoi amici, entrambi romeni, si erano resi responsabili in strada. Ma, sempre per la tesi del pg, gli agenti in quel caso non avrebbero avuto nemmeno “la necessità di identificare i presenti” perché il gruppo aveva subito spento la musica. L’unico reato che avrebbe commesso successivamente il manovale sarebbe stato quello di oltraggio a pubblico ufficiale e non di resistenza - per cui è previsto l’arresto - perché - parole del pg Masini - “vi è la prova che Ferrulli gesticolò soltanto e insultò gli agenti, ma non li minacciò né usò violenza contro di loro”. Anzi, ad alzare le mani per primi sarebbero stati proprio gli agenti, con “Ferrulli - secondo la ricostruzione del pg - che subì uno schiaffo da Ercoli e reagì con una spallata, a cui seguì un arresto illegale” con la presa a terra e le richieste di aiuto urlate dalla vittima. Proprio durante quell’arresto Ferrulli si spense. A ucciderlo, almeno secondo i risultati dell’ultima perizia medico legale, non sarebbero state quelle lesioni ritrovate sul suo corpo, “lievi” e causate più dall’impatto con l’asfalto che non dalle manganellate. A ucciderlo, questa la verità a cui si è finora arrivati, è stato un arresto cardiaco. Una "tempesta emotiva" arrivata durante un arresto che - secondo il pg - non sarebbe mai dovuto esistere.
E poi...
Caso Uva: sanzionati i pm che coordinarono l'inchiesta. Per Agostino Abate le conseguenze più gravi: perdita di anzianità di due mesi e trasferimento a Como, dove era già stato spostato nell'ambito di un altro procedimento, scrive “Il Giorno” il 7 giugno 2016. Agostino Abate e Sara Arduini, i magistrati titolari del fascicolo sulla morte di Giuseppe Uva, deceduto all'ospedale di Circolo di Varese il 14 giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma di via Saffi, sono stati sanzionati dalla sezione disciplinare del Csm. Il tribunale delle toghe ha emesso la sanzione della censura, la meno grave, per Sara Arduini, tuttora pm a Varese, mentre per Agostino Abate la sanzione è la perdita di anzianità di due mesi e il trasferimento con la funzione di giudice a Como, dove era già stato trasferito lo scorso novembre nell'ambito di un altro procedimento. La decisione è stata presa dopo circa 3 ore di camera di consiglio. Arduini e Abate erano entrambi accusati di aver violato "i doveri di diligenza, laboriosità e correttezza, omettendo o ritardando il componenti di atti". E in particolare di aver trascurato la denuncia di Alberto Bigioggero, l'uomo portato assieme ad Uva in caserma, che aveva parlato di lesioni e percosse, e - dopo l'assoluzione dei sanitari e la trasmissione degli atti da parte del Tribunale - di aver ritardato per alcuni mesi l'iscrizione nel registro degli indagati di sette appartenenti alle forze dell'ordine. Secondo il sostituto pg della Cassazione Giulio Romano è stata "una notizia di reato finita in un limbo". Nella requisitoria, tenuta nell'udienza di ieri, il pg ha sottolineato che "non si tratta di valutare l'ambito decisionale del pm ma la correttezza delle procedure, che ad avviso dell'ufficio non c'è stata", con la conseguenza che "le forze dell'ordine sono state esposte ad una accusa dalla quale non si potevano difendere compiutamente, mentre altri hanno sospettato che questi ritardi, questa renitenza, nascondessero chissà che cosa". Il 15 aprile la Corte d'Assise di Varese aveva assolto carabinieri e poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale.
Sanzionati dal Csm i pm Abate e Arduini. Entrambi i pm, che indagarono sulla morte di Uva, si sono difesi da soli e hanno respinto le accuse. Ora hanno quindici giorni per il ricorso, scrive Simona Carnaghi l’8 giugno su “La Provincia di Varese”. Perdita di due mesi di anzianità e trasferimento a Como. È questa la sanzione comminata dal Consiglio Superiore della Magistratura al pm Agostino Abate, il primo magistrato che indagò sulla morte di Giuseppe Uva, avvenuta il 14 giugno del 2008, l’artigiano che fu fermato con l’amico Alberto Biggiogero in via Dandolo mentre, ubriaco, spostava delle transenne in mezzo alla strada. Uva fu portato nella caserma carabinieri di via Saffi dove rimase, lo ha stabilito il processo, circa 15 minuti, e morì alcune ore dopo all’ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Anche il pubblico ministero, Sara Arduini, è stata sanzionata dal Csm per il modo in cui ha condotto quell’inchiesta, e per lei è infatti arrivata una censura. I due pubblici ministeri indagarono insieme su quella morte mandando a giudizio i medici che ebbero in cura Uva. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha sostanzialmente accolto la richiesta avanzata dal sostituto procuratore generale della Cassazione Giulio Romano, davanti alla disciplinare del Csm, presieduta dal consigliere Antonio Leone. Il pg ha chiesto la sanzione della censura per il pm Arduini mentre per Abate, che al momento svolge funzioni di giudice a Como, la perdita di anzianità di 6 mesi e il trasferimento ad altro ufficio. I due magistrati - che davanti al tribunale delle toghe hanno deciso di difendersi da soli, e hanno respinto ogni accusa - sono finiti sotto processo disciplinare per essere «venuti meno ai doveri di diligenza, laboriosità e correttezza - si legge nell’atto di incolpazione formulato dalla Procura generale della Cassazione - omettendo e ritardando il compimento di atti relativi all’esercizio delle loro funzioni». Nell’ambito del processo penale sul caso Uva, la Corte d’assise di Varese aveva assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale sei poliziotti e due carabinieri «perché il fatto non sussiste». «Non si tratta di entrare nel merito delle valutazioni discrezionali del pm - ha detto il pg Romano - non ci interessano gli esiti processuali, ma a nostro parere non vi è stata correttezza nel seguire le norme procedurali». Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha da sempre sostenuto che il fratello fu picchiato a morte da poliziotti e carabinieri. Dal processo non è emerso nulla che facesse ipotizzare un simile scenario. Uva, tra l’altro, non presentava lesioni. Nulla che potesse indicare che fosse stato picchiato morte. Sul banco dei testimoni sono sfilati medici, infermieri, personale del 118: tutti hanno spiegato come Uva non presentasse segni di pestaggio, descrivendolo come estremamente agitato. Tre anni fa il procuratore facente funzione di Varese, Felice Isnardi, ripercorse l’intera inchiesta facendo nuove indagini e ascoltando nuovi testimoni. Quindi, come Arduini e Abate prima di lui, chiese l’archiviazione per i sei poliziotti e i due carabinieri sotto inchiesta. Il procuratore, Daniela Borgonovo, chiese, in sede di requisitoria processuale, l’assoluzione con formula piena per gli imputati. I pm Agostino Abate e Sara Arduini hanno 15 giorni per il ricorso in Cassazione. La Massima Corte avrà quindi un anno di tempo per decidere se accogliere o rigettare il ricorso. Allo stato attuale il pm Abate resterà a Como dove è stato trasferito qualche mese fa.
Caso Uva, invece di indagare sequestrano documentari, scrive Elisabetta Reguitti l'8 giugno 2013. “Appare pertanto opportuno che venga disposto, con assoluta urgenza, unitamente al sequestro probatorio del corpo del reato, anche di quello preventivo, su tutto il territorio nazionale, del predetto filmato…” Il corpo del reato in questione è il film-documentario ‘Nei secoli fedele – il caso Giuseppe Uva‘ proiettato a Roma al centro sociale Auroemarco di Spinaceto forse per l’ultima volta, se la notifica e la richiesta di sequestro pervenute in questi giorni agli autori verranno accolte. Gli esposti per la verità sono diversi a cominciare dalla denuncia per diffamazione nei confronti della sorella di Giuseppe per le dichiarazioni rilasciate alla trasmissione Le Iene. Ma ora sotto accusa sono finiti anche Adriano Chiarelli e Francesco Menghini che, secondo i querelanti, con la loro opera avrebbero leso il “prestigio e la reputazione” dei carabinieri autori dell’arresto di Giuseppe Uva avvenuto a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Come un brutto déjà vu torna alla memoria la richiesta di sequestro di un altro documentario, quello su Federico Aldrovandi 18enne massacrato da poliziotti a Ferrara. Il torto è sempre lo stesso: aver ricostruito sulla base degli atti processuali una brutta storia ancora tutta da scrivere. “Usano la parola allusione come se il nostro film fosse di per sé un processo. Noi ci siamo invece limitati a tradurre in immagini le parole e le descrizioni riportate nel processo. Compresi i nomi e le diverse testimonianze a cominciare da Lucia Uva e l’amico Alberto Biggioggero che condivise l’ultima notte dentro la caserma di Varese dove furono condotti per schiamazzi” commenta Chiarelli autore, tra l’altro, del saggio-inchiesta Malapolizia edito da Newton Compton anche questo oggetto di una querela per diffamazione aggravata presentata giusto un anno fa alla Procura di Varese, testo citato anche in questo ultimo atto giudiziario sul film in cui si legge: “Risulta travalicato, da parte dell’autore e del regista del documentario, il legittimo esercizio del diritto di cronaca, con conseguenti effetti diffamatori in danno ai querelanti”. Per il senatore Pd Luigi Manconi dell’associazione A buon diritto il fatto inquietante è che un fascicolo che porta la scritta “atti relativi alla morte di Giuseppe Uva si traduca in un’azione giudiziaria solo per diffamazione aggravata contro la sorella della vittima e giornalisti e scrittori che hanno voluto dare voce alla richiesta di giustizia e verità”. Rimane da stabilire di cosa sia morto Giuseppe. Non certo a causa dell’intervento (o errore) sanitario, come peraltro stabilito dalla sentenza dell’aprile di un anno fa in cui il dottor Fraticelli è stato prosciolto dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”. Il giudice in quella stessa sede aveva poi imposto di restituire gli atti alla Procura di Varese obbligandola ad indagare su quanto avvenuto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, nel lasso di tempo intercorso tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo all’interno della caserma. Ma tutto si è fermato alla diffamazione e al sequestro di un film.
Caso Uva; Polizia e Carabinieri contro il film “Nei secoli fedeli”, ne chiedono il sequestro, scrive il 7 giugno 2013 “Articolo 21”. “Meglio non sapere, meglio girarsi dall’altra parte, meglio che tutti si girino dall’altra parte. Dopo la querela agli autori, arriva anche la richiesta di sequestro per il documentario “Nei secoli fedele” di Adriano Chiarelli e Francesco Menghini sulla storia di Giuseppe Uva, morto a Varese nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo aver passato tre misteriose ore in caserma con militari dell’arma e agenti di polizia”. A scriverlo è Mario Di Vito su “Il Manifesto”, di oggi. Notizia ripresa poi dal sito dei Radicali italiani. “Le querele arrivate in procura, a Varese, sono tre” – prosegue l’articolo: “la prima risale al 18 dicembre 2012, sporta dai carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco; la seconda è datata 18 aprile, e firmata dai poliziotti Gioacchino Rubino, Pierfrancesco Colucci e Luigi Empirio; la terza è del 3maggio, a nome di Francesco Focarelli Barone, agente di polizia anche lui. Tutti in servizio nella cittadina lombarda. Tutti, quella notte d’inizio estate, ebbero a che fare con Giuseppe, tutti assistiti dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl in Lombardia, tra l’altro. I tre documenti sono uguali tra loro: “Nel filmato – si legge – sono arbitrariamente ricostruiti, alla luce della documentazione acquisita dagli autori del documentario e di talune deposizioni testimoniali, le fasi della vicenda riguardante l’arresto di Uva, la sua immediata traduzione nella caserma dei carabinieri di Varese per gli accertamenti di rito, il successivo Tso disposto dal sindaco di Varese, il trasferimento dello stesso presso l’ospedale di Circolo per le necessarie cure sanitarie, seguito da morte intervenuta per cause ancora in corso di accertamenti”. “Cause che – prosegue l’articolo – stando alla sentenza dell’aprile di un anno fa, non sono da attribuire a un errore medico. Il giudice Orazio Muscato, infatti, ha assolto il dottor Fraticelli dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”, con tanto di atti rimandati in procura per fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, cioè tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo dentro la caserma di via Saffi. Momenti durante i quali un testimone, Alberto Biggiogero, sentì urla e lamenti provenienti dalla stanza vicina e decise di chiamare il 118: “Stanno massacrando un ragazzo”, disse all’operatore con voce di terrore. Il caso, adesso, corre a gran velocità verso la prescrizione e così, salvo clamorose svolte, la morte di Giuseppe Uva rimarrà un mistero insoluto, almeno agli occhi della giustizia. “A me – dice la sorella, Lucia – basta sapere che lui non è morto di farmaci. E questo è un fatto”. Adesso, però, non è in gioco la verità giudiziaria, ma un lavoro d’inchiesta giornalistica, un documentario nel quale tutta la vicenda viene ricostruita attraverso documenti, perizie e interviste alle persone coinvolte. “È una cosa vergognosa – attacca Lucia Uva -, questi signori vogliono decidere cosa far vedere e cosa no. Fosse dipeso da loro, di questa storia non si sarebbe saputo niente: se riusciamo a parlarne è solo grazie alla nostra, come dire, prepotenza nel coinvolgere tutti e spiegare come stanno le cose. Adesso vogliono impedirci di fare pure questo”. La sorella di Giuseppe Uva, però, non si dà per vinta, anche se l’inchiesta della procura è incanalata in un binario morto: “Non importa, davvero. Io continuo per la mia strada, a lottare insieme alle altre madri e sorelle di vittime dello Stato. Lo abbiamo visto ieri (mercoledì, ndr) al processo per Stefano Cucchi: c’è un muro di omertà enorme, ma dobbiamo andare avanti e continuare a farci sentire, ogni goccia di verità in più sarà una goccia di giustizia per Giuseppe, Stefano e tutti gli altri”. Adriano Chiarelli, autore oltre che del documentario anche del saggio Malapolizia che raccoglie tutti i casi di chi, dal G8 di Genova in poi, ha trovato la morte dopo essersi imbattuto in una divisa, non si scompone troppo: “Se i querelanti hanno ravvisato delle allusioni ai loro comportamenti in un’opera documentaristica che si limita a ricostruire la storia in base agli atti prodotti durante il processo, il problema rimane esclusivamente loro, non certo nostro”. La risposta, comunque, non si ferma qui: il centro sociale Auroemarco di Roma ha organizzato per questa sera una proiezione proprio di Nei secoli fedele”.
Un documentario per raccontare il caso di Giuseppe Uva, scrive “Articolo 21” il 13 settembre 2012. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008, a Varese, i carabinieri fermano e arrestano Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero. Uva morirà in ospedale la mattina seguente al suo arresto. Che cosa è accaduto quella drammatica notte? Il documentario Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva, che verrà proiettato domani in anteprima a Roma presso il Cinema Aquila… racconta le vicende legate alla tragica morte del quarantaduenne in seguito al suo arresto. Una rigorosa indagine su un decesso ancora inspiegabile e inspiegato, realizzata attraverso un’accurata raccolta di testimonianze e documenti inediti. Dopo aver trascorso tre ore in una caserma dell’Arma di Varese, sotto la custodia di otto tra poliziotti e carabinieri, Giuseppe Uva viene trasportato in ospedale in condizioni critiche. Nel volgere della notte l’uomo troverà la morte. Le cause del decesso restano ad oggi tutte da chiarire. L’unico processo celebrato finora, ha riguardato l’ipotesi di morte per colpe mediche, ma è stato dimostrato – con sentenza di primo grado – che i medici che hanno tenuto in cura Uva dopo l’arresto, non hanno alcuna colpa. Dopo un supplemento di perizia, sempre disposto dal giudice, è stato scientificamente provato che le cause del decesso coincidono con un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni. La domanda torna a ripetersi: cosa è accaduto in quelle ore? Allo stato attuale nessun nuovo processo è in corso, ma il giudice estensore della sentenza ha disposto ulteriori indagini sull’arco di tempo che la vittima ha trascorso in caserma e sulle reali cause di morte. In quelle ore è racchiusa la verità. La stampa si occupò del caso, poco noto all’opinione pubblica se non fosse stato per un servizio del programma “Le Iene” che costò al giornalista e alla sorella Lucia Uva, una querela per diffamazione da parte degli agenti coinvolti, sollevando diversi interrogativi. Il lavoro di ricostruzione di Adriano Chiarelli su quanto accaduto, vuole far luce sull’ennesimo caso di “Vittime di Stato” come li hanno definiti i familiari di Cucchi, Aldrovandi e altri che come Uva hanno visto morire i loro cari in circostanze non troppo diverse. “Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito”. Sono state le parole della sorella Lucia dopo aver visto il corpo straziato del fratello. La donna continua a battersi per la verità, convinta, come dichiara nelle interviste raccolte nel documentario, di poter restituire a suo fratello almeno la sua dignità. «Nei secoli fedele – IL CASO DI GIUSEPPE UVA, un’operazione di verità per portare a galla una storia scomoda per quanto assurda, una di quelle vicende in cui la banalità del male si mischia con la nebbia dei tribunali senza soluzione di continuità.» Mario Di Vito – Contropiano
Giuseppe Uva, assolta la sorella accusata di diffamazione: rischiava 14 mesi di carcere, scrive Sandro De Riccardis il 18 aprile 2016 su "La Repubblica". A processo contro i sei poliziotti e i due carabinieri scagionati per la morte dell'uomo, deceduto dopo il fermo in caserma. La donna doveva rispondere delle dichiarazioni rilasciate sui fatti di quella notte. Lucia Uva è stata assolta dall'accusa di diffamazione verso i due carabinieri e i sei poliziotti che avevano trattenuto il fratello, Giuseppe Uva, in caserma a Varese, la notte del 14 giugno del 2008, poi morto in ospedale. I giudici del tribunale di Varese non hanno accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Giulia Troina, che aveva chiesto la condanna a un anno e due mesi di carcere e una multa di 458 euro. La sorella era imputata per le accuse mandate in onda nell'ottobre 2011 nel corso del programma tv Le Iene, per alcune frasi scritte su Fb e per un'intervista inserita nel documentario "Nei secoli fedele". Lucia Uva, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm aveva sottolineato che l'ipotesi di uno stupro è "frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo" contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all'epoca dell'intervista. Venerdì scorso gli uomini delle forze dell'ordine imputati nel processo sono stati assolti dall'accusa di omicidio preterintenzionale, sequestro e abuso di autorità per la morte dell'operaio, 43 anni, che quella sera girava ubriaco in centro a Varese col suo amico Alberto Biggioggero, unico testimone in caserma, interrogato per la prima volta soltanto dopo cinque anni dalla tragedia. "Le dichiarazioni di Lucia Uva erano giustificate da quanto emerso nella perizia - ha commentato l'avvocato Fabio Ambrosetti, che assiste la sorella di Giuseppe Uva - per le dichiarazioni nel film, Lucia ha tutto il diritto di pensare che suo fratello è stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità".
Lucia Uva assolta dall’accusa di diffamazione: “Chiedo scusa alla divisa, non agli agenti”. Era accusata per alcune dichiarazioni e frasi su Facebook contro i poliziotti e i carabinieri assolti nel processo sulla morte del fratello, scrive "la Stampa" il 18/04/2016. Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva, l’uomo morto nel giugno del 2008 all’ospedale di Varese dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri, è stata assolta dall’accusa di diffamazione aggravata «perché il fatto non costituisce reato». Al centro del processo alcune dichiarazioni mandate in onda nell’ottobre 2011 nel programma televisivo Le Iene, frasi scritte su Facebook e un’intervista del documentario «Nei secoli fedele». Il pm di Varese aveva chiesto un anno e due mesi di carcere. «Chiedo scusa alle divise, che ho sempre rispettato, non agli uomini», sono state le prime parole dell’imputata dopo l’assoluzione. «So di avere sbagliato, di avere detto delle cose troppo forti in un momento di sconforto, ma non sono felice per questa assoluzione - ha proseguito - dopo otto anni lo Stato non mi ha ancora detto perché Giuseppe è morto e continuerò a chiedere la verità». Il processo è scaturito da una querela presentata in passato dai due carabinieri e dai sei poliziotti che venerdì scorso sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte di Giuseppe Uva. Nel documentario «Nei secoli fedele - Il caso Giuseppe Uva» la sorella dell’uomo, secondo le accuse, ha affermato «con le dichiarazioni contenute nel video in più passaggi che i querelanti avevano ripetutamente colpito con violenza Giuseppe Uva cagionandogli lesioni». Su Facebook aveva inoltre definito «delinquenti» e «assassini» i carabinieri e i poliziotti che intervennero quella notte. Inoltre, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1 nell’ottobre 2011, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm stamani, nel corso della sua requisitoria, aveva sottolineato che l’ipotesi di uno stupro è «frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo» contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all’epoca dell’intervista. Inoltre, secondo il pm, «non vi era alcun elemento per consentire all’imputata di affermare con certezza la sussistenza di botte o violenze perpetrate nella caserma» che, anche in questo caso, erano una «mera congettura». Nelle interviste e su Facebook, quindi, «sono stati affermati come veri fatti non desumibili da dati processuali per additare poliziotti e carabinieri, a distanza di anni, come stupratori e barbari picchiatori di persone indifese». I legali di carabinieri e poliziotti, parti civili nel processo, stamani avevano chiesto un risarcimento di alcune migliaia di euro. «Prendiamo atto della decisione del giudice - ha spiegato uno dei legali, l’avvocato Fabio Schembri - ci auguriamo che in futuro, dopo l’assoluzione di carabinieri e poliziotti, vengano moderati i toni. Non tollereremo più che vengano reiterati gli attacchi e le offese infamanti».
Caso Uva, assolti carabinieri e poliziotti. Sorella: Processo farsa. Deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale di Varese, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. La Corte d'Assise di Varese ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti responsabili dell'arresto di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale del capoluogo lariano, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. Lo ha confermato a LaPresse il 15 aprile 2016 l'avvocato Fabio Ambrosetti, difensore della sorella della vittima, Lucia Uva e dei familiari. "L'arresto illegale è stato riqualificato in sequestro di persona - ha spiegato il legale - e carabinieri e poliziotti sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Possiamo ipotizzare che i giudici abbiano ritenuto carente l'elemento soggettivo, ma capiremo meglio il perché della loro decisione tra 90 giorni, quando leggeremo le motivazioni". Affranta e indignata la sorella della vittima, Lucia Uva: "Me l'aspettavo che sarebbero stati assolti. Questo processo è stato fin dall'inizio una farsa. Invece che farlo agli imputati, si è fatto un processo a sorella, ai testimoni, alla famiglia ma non ai presunti colpevoli". "Abbiamo un governo vergognoso, una giustizia vergognosa", dice Lucia Uva. La sorella aggiunge: "Io mi chiedo, se non sono stati poliziotti e carabinieri o i medici, come è morto mio fratello? Aspetto motivazioni, ma questa giustizia deve cambiare. La sentenza è stata anticipata perché non volevano ci fossero tutte le famiglie delle vittime. Dovevano esserci i familiari di Aldrovani, Cucchi, Buldroni, Ferrulli... Ma, assicuro, continuerò la mia battaglia per una verità".
Testi inattendibili, perizie e bugie. Il gran pasticcio del caso Uva. Chiesta l'assoluzione per gli agenti finiti nei guai. La sorella: "Ora so che Giuseppe è morto di freddo", scrive Silvia Mancinelli il 17 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Il 4 gennaio scorso Lucia Uva pubblicò sulla propria pagina Facebook la foto di Luigi Empirio, uno dei poliziotti coinvolti nell’inchiesta sulla morte del fratello Giuseppe. Undici giorni dopo per quel poliziotto e per gli altri sette imputati nel processo, è arrivata la richiesta di assoluzione da tutte le accuse. Una decisione non certo in controtendenza, quella presa dal procuratore capo di Varese, Daniela Borgonovo, e comunque in linea con l’archiviazione e il non luogo a procedere già sollecitati dai colleghi nelle fasi precedenti. Soddisfazione è stata espressa da parte del sindacato di Polizia Sap: «Il caso Uva - commenta il segretario generale, Gianni Tonelli - passerà alla storia come una delle più grosse patacche italiane. E lo dimostrerò». In attesa della sentenza di primo grado, prevista per il prossimo 29 gennaio, ecco tutti i «pasticci» del caso Uva. «Almeno ora so, grazie al pm Daniela Borgonovo, che Giuseppe è morto di freddo», ha scritto sulla propria bacheca Lucia Uva in merito alla richiesta di assoluzione. Una richiesta avanzata anche per il poliziotto imputato insieme a cinque colleghi e a due carabinieri, del quale la donna pubblicò una foto a petto nudo: «Questo si chiama Luigi Empirio, era presente in caserma», scriveva il 4 gennaio scorso a corredo dell’immagine. «Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello? Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...». Una battaglia graffiante, forte, tenace, quella di Lucia Uva, combattuta grazie al social network per ribadire la tesi degli abusi da lei sempre sostenuta. Era stata la sorella di Stefano, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini durante la custodia cautelare, a pubblicare il giorno prima la foto di uno dei carabinieri indagati nell’inchiesta bis della procura di Roma sul pestaggio del fratello. «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene», aveva scritto la donna, rivolgendosi allo stesso militare. L’avvocato di Davide Tedesco, «presentato» all’opinione pubblica pure lui in costume e sorridente, ha denunciato Ilaria Cucchi per diffamazione. Sarebbero alla base del processo-pasticcio, secondo i legali della difesa. I sei agenti e i due carabinieri sono passati attraverso una prima richiesta di archiviazione da parte dei pm Abate e Arduini, un’altra di non luogo a procedere avanzata dal procuratore della Repubblica Isnardi facente funzioni, quindi per quella di assoluzione del pm Borgonovo. Gli avvocati parlano di un’insistenza nonostante ci fossero già tutti gli elementi per appurare le mancate responsabilità. L’istruttoria dibattimentale viene definita monumentale, «sono stati sentiti tutti coloro che avevano qualcosa da dire». L’accusa di calunnia potrebbe ribaltare l’esito di un processo orientato verso un finale obbligato, sebbene già tre pubblici ministeri si siano pronunciati in modo identico e in netta opposizione rispetto alle accuse avanzate dai familiari della vittima. «È stata disposta dal gip l’imputazione coatta – dice Tonelli - Sono stati forzatamente rinviati a giudizio gli otto tra poliziotti e carabinieri, nonostante agli atti non ci fosse nulla e anzi la relazione dell’autopsia controfirmata dal perito di parte abbia rilevato l’assenza di lesioni. La famiglia ha cambiato tre esperti, perché tutti incapaci di sovvertire i fatti. Le macchie ipostatiche presenti sul corpo dell’uomo sono conseguenti al decesso e non possono essere trasformate in ematomi. Le ipotesi presentate dagli stessi periti di famiglia parlano di una malformazione cardiaca, di forte assunzione di alcol, di grosso stress e dell'interazione dei farmaci somministrati per il trattamento sanitario obbligatorio (tesi quest’ultima poi accantonata) come cause della morte. Perfino l’avvocato Anselmo, ben consapevole che non c’era trippa per gatti, abbandonò la difesa. Non ha seguito il campo e il processo è stato celebrato con altri legali». È lo stesso segretario generale del Sap, con il quale sia la sorella di Uva che quella di Cucchi hanno avuto un recente confronto televisivo, a parlare di spettacolarizzazione della vicenda. «Gli atti sono secretati e si continuano a sparare baggianate a raffica – insiste Tonelli - I familiari delle vittime raccontano ogni giorno attraverso il circuito mediatico la loro personalissima versione, mentre ai nostri uomini non viene data la possibilità di difendersi per motivi professionali agli occhi degli spettatori che, in questo modo, sentono una sola campana. Ci siamo trovati ad assistere a una gogna mediatica, nonostante nessuno sia giudicabile colpevole fino a prova contraria, e oggi se provassimo a fare un test tra la gente, la maggior parte sosterrebbe con convinzione l’ipotesi dell’abuso da parte degli operatori della sicurezza. Tra l’altro il dipartimento della Polizia di Stato ha espresso vicinanza agli agenti imputati solo dopo la richiesta di assoluzione, mentre prima nessuno si era fatto vivo. In ogni fase del processo è stato presente un ufficiale dei carabinieri, mai uno dei nostri. Cerchiamo la verità, non diffamiamo sui social network uomini che potrebbero essere prosciolti da ogni accusa». Al vaglio degli inquirenti anche le testimonianze di personale ospedaliero e della Polizia Penitenziaria sulla freddezza e le chiamate rispedite al mittente da parte dei familiari di Giuseppe Uva. «Un uomo già abbandonato – dice Tonelli – nei suoi frequenti ricoveri in ospedale per le percosse ricevute, frequentando tossicodipendenti. E oggi pianto da tutti».
GIUSEPPE UVA, CARABINIERI E POLIZIOTTI ASSOLTI: “IL FATTO NON SUSSISTE”. Tutti assolti perché il “fatto non sussiste”. Questo ha deciso ieri la Corte d’assise di Varese in merito alla morte di Giuseppe Uva, morto nel 2008 presso l’ospedale di Varese. 2 carabinieri e 6 poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, possono tirare un sospiro di sollievo, scrive il Blog Uomini e Donne il 16 aprile 2016. Nel giugno 2008, Giuseppe Uva venne arrestato dai carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero. I due trascorsero diverse ore in caserma, dove verosimilmente vennero picchiati dai militari, quelli che nelle ultime ore sono stati assolti; poi furono trasportati in ospedale. Giuseppe Uva spirò proprio nel nosocomio di Varese. Una vittima dello Stato? No, per i giudici carabinieri e poliziotti non sono responsabili della morte di Uva, e neanche i medici dell’ospedale di Varese, accusati di aver somministrato una dose di farmaci errata. Allora chi è l’artefice del decesso di Giuseppe Uva? Alla fine diranno che l’uomo si è suicidato? Mah. Ieri, dopo la lettura della sentenza, gli imputati hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono abbracciati. Tanta amarezza, invece, hanno provato i parenti di Giuseppe: una nipote è uscita dall’Aula urlando “Maledetti”. Il caso Uva ricorda molto il caso Cucchi; anche il geometra romano venne portato in caserma e, successivamente, fece tappa in ospedale per le numerose ferite provocate dagli abusi dei militari. Tornando al caso Uva, dobbiamo sottolineare che già diversi mesi fa il procuratore di Varese, Daniela Borgonovo, aveva reclamato l’assoluzione per poliziotti e carabinieri, che per molti aggredirono brutalmente Uva, finito poi nel reparto psichiatrico del nosocomio di Varese. Nessuno sa, come realmente, andarono le cose. Quello che sappiamo è che la testimonianza dell’amico di Uva non venne presa in considerazione dalla magistratura perché l’uomo era ubriaco. Ieri, la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, è entrata in Aula con una maglietta su cui campeggiava la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Lucia non demorde e promette che continuerà a combattere in nome di suo fratello. Il carabiniere Stefano Del Bosco, imputato insieme al militare Paolo Righetto e ai poliziotti Luigi Empirio, Gioacchino Rubino, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario, Pierfrancesco Colucci e Vito Capuano, ha detto dopo l’assoluzione: “Finalmente è stata fatta giustizia. Eravamo tranquilli perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente”. Piero Porciani, uno dei legali degli imputati, tutti felici per l’assoluzione dei loro assistiti, ha asserito: “Ora carabinieri e poliziotti possono tornare a casa e guardare i figli negli occhi e possono continuare a fare il loro dovere”. Biggiogero ha raccontato che, quella maledetta notte del 2008, dopo aver visto una partita della Nazionale assieme a Uva, fu avvicinato da alcuni carabinieri. C’è da dire che, mentre rincasavano, i due avevano spostato alcune transenne, ostacolando il traffico. Un carabiniere, allora, si rivolse a Giuseppe con queste parole: “Non te la faccio passare liscia, stavolta te la faccio pagare”. Quel carabiniere conosceva bene Giuseppe Uva perché sembra che quest’ultimo avesse avuto una storia con la moglie. L’amico di Uva ha riferito che, dopo il fermo, vennero trasportati in caserma e divisi: sentiva Giuseppe urlare in una stanza e chiedere aiuto. I carabinieri e alcuni poliziotti, evidentemente, stavano pestando l’uomo. I familiari di Giuseppe Uva sono certi che il loro caro venne massacrato dai carabinieri e poliziotti; i giudici, invece, la pensano diversamente.
Caso Uva, per i giudici non ci furono percosse da parte di forze dell’ordine. Gli imputati - sei poliziotti e due carabinieri assolti dall’accusa di omicidio nei confronti dell’operaio, morto dopo una notte in caserma - non avevano coscienza né volontà di percuotere Uva, scrive il 14 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. I giudici della Corte d’assise di Varese hanno ritenuto «l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere» Giuseppe Uva da parte delle forze dell’ordine. È un passaggio delle motivazioni, in possesso dell’agenzia Ansa, della sentenza con la quale sei poliziotti e due carabinieri sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nei confronti dell’operaio, morto nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in caserma a Varese. «La perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti - scrivono i giudici in relazione all’accusa di omicidio preterintenzionale - consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva». Per i giudici, «il fattore stressogeno, da taluni dei consulenti ritenuto causale o concausale di uno stress psicofisico, non può essere attribuito alla condotta degli imputati», che «non avevano la coscienza e la volontà di percuotere o di ledere Giuseppe Uva». In riferimento al reato di abbandono di incapace, i giudici spiegano che «non risulta sufficientemente provata la sussistenza del delitto» perché «l’abbandono della persona incapace deve determinare uno stato di pericolo sia pure potenziale per l’incolumità del soggetto» mentre «Giuseppe Uva non versava in un pregresso stato di incapacità di provvedere a se stesso per malattia di mente o di corpo (tale non potendosi considerare lo stato di ubriachezza)» e «non è ravvisabile una posizione di garanzia degli imputati (non avevano questi ultimi obblighi di cura o di custodia) nel confronti di Giuseppe Uva». Riguardo l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, gli imputati vanno assolti perché «ai fini dell’integrazione del delitto è necessario che le restrizioni abusive vengano adottate quali modalità della custodia, cagionando così una lesione ulteriore della libertà intesa in senso stretto», mentre Giuseppe Uva non si trovava in stato di arresto, di fermo o di detenzione e, conseguentemente, non si ravvisano gli elementi oggettivo e soggettivo del delitto contestato». Ad aprile Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, è stata assolta dall’accusa di diffamazione contro poliziotti e carabinieri. La Uva, nel 2011, aveva affermato durante una trasmissione dello show «Le Iene» che il fratello Giuseppe era stato violentato dalle forze dell’ordine. Inoltre aveva scritto su Facebook una serie di commenti accusatori, sempre nei confronti degli 8 indagati per la morte del fratello. La vicenda si trascina da qualche anno, ma è giunta a sentenza lunedì 18 aprile, a tre giorni di distanza dall’assoluzione degli 8 agenti sancita dalla Corte d’Assise di Varese, che ha stabilito l’innocenza delle forze dell’ordine riguardo al presunto pestaggio.
POLIZIOTTI E CARABINIERI ASSOLTI AL PROCESSO DUE VERSIONI OPPOSTE PER LA MORTE DI GIUSEPPE UVA, scrive Rai News il 15 aprile 2016. Arrestato la notte del 14 giugno 2008, ubriaco, dopo diverse ore passate nella caserma dei carabinieri morirà al mattino nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese Tweet Morto in un reparto di psichiatria a Varese, dopo aver passato la notte in caserma in stato di fermo. Giuseppe Uva, 43 anni, è ubriaco la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008, quando una pattuglia dei Carabinieri lo ferma mentre con un amico rovescia in strada cassonetti dell'immondizia. I due vengono portati in caserma, in via Saffi, e cosa succede da quel momento è affidato alle carte e alle testimonianze raccolte in un processo durato quasi 8 anni. Due sono le versioni: il pestaggio di Uva da parte dei carabinieri, sostenuto dalla famiglia e dall'amico, Alberto Biggiogero, e atti di autolesionismo dell'uomo che secondo i carabinieri era ubriaco e fuori controllo. Biggiogero sostiene di aver sentito grida di aiuto provenire dalla stanza in cui era stato chiuso Uva e quella notte chiama il 118 per chiedere aiuto. All'alba del 14 giugno i militari dispongono il ricovero di Uva nel reparto psichiatrico dell'ospedale con un Tso (trattamento sanitario obbligatorio). Uva morirà alle 11 di mattina. In una prima fase del processo, l'accusa sostiene che i medici avrebbero somministrato a Uva farmaci incompatibili con il suo stato etilico. Ma i tre imputati usciranno assolti con formula piena. Il dibattimento riprende in Corte d'assise il 20 ottobre 2014 e si conclude oggi con l'assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti a processo con l'accusa a vario titolo di abuso d'autorità su un arrestato, abbandono d'incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale.
Processo Uva, morto dopo il fermo in caserma: assolti poliziotti e carabinieri. L'operaio di 43 anni morto nel 2008. Gli imputati si abbracciano in aula, la famiglia dell'uomo grida "maledetti". La sorella con il volto del fratello sulle due t-shirt che indossa per la sentenza: "Continueremo la nostra battaglia", scrive Sandro De Riccardis il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. Sono stati assolti i sei poliziotti e i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni, l'uomo morto nell'ospedale di Circolo di Varese nel giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Era stato lo stesso titolare dell'accusa, il procuratore capo di Varese Daniela Borgonovo a chiedere l'assoluzione per tutti. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, mentre una parente dell'uomo è uscita dall'aula gridando "maledetti". "Continueremo la nostra battaglia", ha promesso la sorella di Uva, Lucia. In tribunale si è presentata con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta 'Giuseppe Uva-aspetto giustizia'. Dopo la sentenza, ha indossato un'altra t-shirt con la scritta 'assolti perché il fatto non sussiste'. Come a dire, se l'aspettava. Sollevati invece gli assolti. "Finalmente è stata fatta giustizia", è stato il commento di Stefano Dal Bosco, uno dei due carabinieri. "Eravamo tranquilli - ha spiegato - perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente". Con lui sono stati assolti il collega Paolo Righetto, e sei poliziotti: Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano). Secondo l'accusa, nonostante le gravi lacune dell'indagine - di cui era titolare il pm Agostino Abate, poi trasferito a Como dal Csm - gli indizi a sostegno della tesi del pestaggio in caserma erano fragili. "Non ci sono prove di comportamenti illegali", aveva detto il pm nella scorsa udienza. E l'unico testimone di quella notte, Alberto Biggiogero, l'amico portato in caserma insieme a Uva quella notte, è stato considerato dalla stessa accusa inattendibile. Tesi fatta propria dai giudici della Corte d'Assise di Varese che hanno assolto tutti i sei appartenenti alle forze dell'ordine. Giuseppe Uva era stato fermato ubriaco per strada. "Un clochard sporco e puzzolente" che "viveva di espedienti" lo aveva descritto l'avvocato Luciano Di Pardo, del collegio difensivo delle divise nel corso della sua arringa, scatenando l'indignazione della sorella. La donna, nelle scorse settimane aveva imitato Ilaria Cucchi con cui è da tempo in contatto, e aveva pubblicato su Facebook una foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. In più, insieme agli altri familiari dell'uomo, aveva chiesto un risarcimento simbolico di 4 euro, uno per ogni capo d'accusa (omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità). "Non ci interessano i risarcimenti - aveva spiegato - ma capire che cosa è successo quella notte". La famiglia è convinta che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all'uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Ma lo stesso procuratore aveva definito "assolutamente legittima la condotta di carabinieri e poliziotti intervenuti nel tentativo di contenere Uva che, insieme all'amico stava dando in escandescenze". Secondo la rappresentante della pubblica accusa, le forze dell'ordine, quella sera, "non hanno fatto altro che il loro dovere", si sono comportati in modo "proporzionato" alla situazione e soprattutto "conforme alla legge". Diverse le reazioni politiche. Il segretario della Lega Matteo Salvini si è detto felice per l'assoluzione, "troppo fango su chi indossa una divisa". Concetto ribadito dal senatore di Fi Maurizio Gasparri: "Basta criminalizzazioni". Ma il senatore del Pd Luigi Manconi parla di "processo condizionato da un'indagine condotta in maniera pedestre, fino all'altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com'era fatale che si concludesse". "Abate - ha spiegato Manconi sottolineando "la certezza dell'illegalità del fermo e del trattenimento per ore in una caserma" - ha dominato l'intera vicenda giudiziaria dal 2008 ad oggi con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all'assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l'altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. "Ora - è la sua conclusione - la verità si fa ancora più lontana".
Caso Uva, cronaca di un’assoluzione annunciata, scrive il 15 aprile 2016 Checchino Antonini su “Popoffquotidiano”. Colpo di spugna sulla verità a Varese. Tutti assolti i due carabinieri e i e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva. La corte d’assise di Varese ha appena assolto i due carabinieri e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva, deceduto all’ospedale di circolo di Varese nel giugno 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei Carabinieri. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, esultando, mentre una parente dell’uomo è uscita dall’aula gridando. Assolti perfino dall’accusa di arresto illegale, nel frattempo riqualificata in sequestro di persona, e piuttosto semplice da dimostrare. «Hanno cercato e ottenuto l’assoluzione piena e più ampia possibile», commenta a caldo Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva al termine di una giornata di attesa tesissima. Fra novanta giorni le motivazioni e subito dopo il deposito dell’appello da parte della famiglia Uva. «Un’assoluzione largamente annunciata – commentano a caldo gli attivisti di Acad che da tempo seguono il caso- continueremo a sostenere la lotta di Lucia per verità e giustizia». Infatti, Il pubblico ministero, non aveva tenuto conto, nella sua requisitoria delle dichiarazioni della dottoressa Finazzi. A lei, prima di morire in ospedale, Giuseppe Uva ha confidato che uno dei carabinieri, quella sera, al momento del fermo, disse: «Uva, era proprio te che cercavo». Proprio come ha sempre sostenuto Alberto Biggiogero. Il pm, secondo la parte civile, non ha voluto distinguere tra le macchie ipostatiche e i segni delle lesioni, certificati dall’autopsia e dalla Tac eseguite dopo la riesumazione del cadavere. Giuseppe Uva non è morto di botte, secondo la parte civile, è morto per una serie di concause, tra cui le percosse che ha ricevuto in caserma quella notte. E che hanno contribuito a scatenare la tempesta emotiva che gli ha fatto fermare il cuore. Il pm ha perfino messo in dubbio che i pantaloni consegnati da Lucia Uva dopo la morte di Giuseppe fossero quelli effettivamente indossati dal fratello la notte in cui è stato portato in caserma. All’altezza del cavallo, su quei pantaloni, c’è una grossa macchia di sangue, composta da cellule di origine anale. Com’è possibile ipotizzare che non fossero quelli indossati da Giuseppe nella sua ultima notte di vita? «Continueremo la nostra battaglia», dice Lucia, scossa dalla sentenza. Si è presentata in aula con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Dopo la sentenza ne ha indossato un’altra: "assolti perché il fatto non sussiste". Secondo i familiari, parti civili nel processo, Uva avrebbe subito violenze da parte delle forze dell’ordine, dopo essere stato fermato assieme all’amico Alberto Biggiogero mentre, in stato d’ebrezza, spostava alcune transenne nel centro di Varese. La Procura di Varese non ha riscontrato comportamenti scorretti da parte delle forze dell’ordine e, nelle scorse udienze, il procuratore Daniela Borgonovo aveva chiesto l’assoluzione. Un’istanza analoga è stata avanzata dalle difese. Tutto ciò a quasi otto anni dai fatti e dopo una faticosissima battaglia legale per smontare la prima versione ufficiale della morte per malasanità sostenuta con ostinazione dal pm Abate, poi rimosso dall’incarico e visibilmente ostile alla famiglia Uva. In aula, con la sorella di Giuseppe, Lucia Uva c’erano la madre di Stefano Gugliotta, pestato dalla polizia a Roma senza alcun motivo e Domenica Ferrulli, figlia di Michele, ucciso durante le concitate fasi di un violentissimo arresto. Il processo d’appello è in corso a Milano.
E poi…
Filippo Facci su Libero Quotidiano del 5 gennaio 2016 e la foto boomerang di Ilaria Cucchi: "Perché passa dalla parte del torto". Si tratta di spiegare ciò che è indelicato spiegare, cioè quanto Ilaria Cucchi sia riuscita a sfracassare le scatole anche al più robusto dei garantisti, col rischio serio che tutta la sua battaglia - che non appartiene solo a lei - finisca in malora. È brutto da dire, ma ha stufato lei e ha stufato anche quella foto del fratello mummificato che si porta dietro come una coperta di Linus, quella foto riproposta milioni di volte e che è divenuta un feticcio e un lasciapassare per le pagine della cronaca. A quella foto si deve tutto: nel tardo ottobre 2009 la notizia sui maltrattamenti a Stefano Cucchi era disponibile da giorni, snobbata dai più, ma d' un tratto spuntarono le foto: ed ecco che i grandi quotidiani si avventarono su una notizia che già c'era, «Morto dopo l'arresto, diffuse le foto shock» titolò per esempio il Corriere, purché fosse chiaro che la notizia non era «Morto dopo l'arresto» bensì «diffuse le foto shock». Il destino delle immagini ormai è questo: riesumare delle notizie di cui ai giornalisti altrimenti non sarebbe fregato niente. Quelle immagini furono dirompenti, perché la loro eloquenza baipassò qualsiasi valutazione di tipo medico o periziale: qualcosa era successo, lo pensiamo tutti ancor oggi. Viva quelle foto, dunque. Ma anche basta. Nei giorni scorsi - l'avete già letto - Ilaria Cucchi è riuscita a far incazzare persino i giornaloni più moderati, quelli che prima di muoverle un rilievo ogni volta premettono per ottanta righe che lei «chiede soltanto la verità», come se altri - compresi noi, e la magistratura, e le forze dell'ordine per bene - chiedessero menzogne. La Cucchi ha pubblicato su Facebook la foto di uno dei carabinieri indagati (in costume da bagno e addominali in vista, sorta di indizio di colpa) e l'ha data in pasto al qualunquismo mascherato della Rete: e del teatrino che ne è seguito, con smentite e riconferme, non andrebbe dato conto. Peccato che l'idea abbia fatto proseliti. Ieri Lucia Uva da Varese - sorella di un uomo che nel 2008 morì in ospedale dopo essere stato portato in caserma da ubriaco - ha pubblicato pure lei la foto di uno dei carabinieri coinvolti nell' inchiesta sulla morte del fratello: anche lui con gli addominali in bella vista, ormai le palestre sono diventate un'aggravante. Nota personale: nel 1996 pubblicai un intero libro dedicato per buona parte a maltrattamenti subiti da gente incarcerata: ma di tecniche di comunicazione, evidentemente, non capivo nulla. Ieri mattina, per capirci, Ilaria Cucchi era stata invitata a un talkshow: forse ha ragione lei. E aveva ragione, forse, anche quando divenne inviata di Raitre per un programma di prima serata: del resto la sua professione precedente era amministratrice di condominio. Ma sin lì si poteva anche capire: occorre avere rispetto di chiunque cerchi a suo modo di sfangarla. La notorietà di Ilaria Cucchi era e resta dovuta alla sua campagna mediatica per Stefano: è per questo che Ingroia la candidò alle politiche, è per questo che la presero per un breve periodo a Raitre. E ci va anche bene, comunque sia finita. È lecito chiedersi, però, sin dove possa arrivare l'eterno rilancio del caso Cucchi. Da garantista, Ilaria Cucchi io la ringrazio. Il suo attivismo, sgangherato ma pervicace, penso abbia contribuito a far emergere altri casi paragonabili a quello del fratello. Ci hanno fatto dei libri, dei documentari, su wikipedia si segnalano venti brani musicali dedicati a Stefano. E il punto non è alzare il sopracciglio di fronte all' attivismo discutibile di Ilaria Cucchi, il punto è che la sua missione è riuscita. Da tempo. La sua missione non consisteva nel mettere alla gogna o in galera chi pensa o pensava lei, ma nel rimettere il caso Cucchi nei doverosi binari giudiziari cui era destinato: senza le inerzie che purtroppo caratterizzano migliaia di altri casi non propriamente al centro dell'attenzione mediatica. Ci è riuscita. Da tempo. In parte ha gettato un faro sulle carceri. Ma non è che la campagna per suo fratello possa diventare una professione a vita, non è che possa lottare per la «verità» fottendosene della verità giudiziaria e sino al giorno in cui non vadano in galera tutti i carabinieri con gli addominali scolpiti, e segnatamente da lei indicati. Ancor oggi, giornali e televisioni - pur stufi, e si vede - ogni tanto ripompano il caso Cucchi come se l'inchiesta e il processo non si fossero mai fatti: mancava la Cassazione, ma a dicembre ha sancito che debbano andare a processo anche alcuni medici precedentemente assolti. Insomma, si va avanti, ma a Ilaria non basta. Nel Paese in cui le sentenze peggiori spesso sono sbattute sui giornali, Ilaria verga le sue: e senza elaborarne granché le motivazioni. Ieri Ilaria ha scritto: «Non è stata una scelta della famiglia Cucchi, quella di essere processata insieme al loro caro per sei anni». Bugia. Vittimismo. Se processo c' è stato, è stato di beatificazione. Perché la gente - come i giornali - è volubile, giudica e assolve e condanna in fretta. E Ilaria Cucchi sta facendo molto, sta facendo di tutto per passare dall' altra parte della vetrina.
Stefano Cucchi: la sorella Ilaria ci ricorda le tante crepe della nostra giustizia, scrive Davide Grassi il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Quando ho visto il post di Ilaria Cucchi sulla sua bacheca di Facebook con la fotografia del carabiniere indagato per la morte di suo fratello Stefano, ne ho compreso il motivo. Non aveva un fine illecito, ovviamente, né sperava nelle reazioni violente di alcuni commentatori. La fotografia era stata estrapolata dal profilo pubblico dell’uomo e chi conosce Facebook sa che non esiste privacy per chi decide di esporsi in questa piazza virtuale. I giornalisti, è da lì che attingono notizie sulla vita privata di personaggi pubblici o persone inevitabilmente oggetto di attenzione da parte dei media. E Facebook è utile anche per chi vuole svolgere delle indagini. Ilaria ha deciso di pubblicare la fotografia del militare in questi giorni in cui è presa dalla lettura delle intercettazioni delle conversazioni che inchioderebbero chi avrebbe pestato suo fratello. Conversazioni che per lei devono essere pura sofferenza. Con quel post Ilaria ci ha reso partecipi del suo dolore e dell’indignazione nei confronti di uno Stato latitante da tempo su certi argomenti. Che potesse diventare un pretesto di alcuni per fomentare odio era prevedibile ma non spetta di certo a Ilaria censurare e perseguire questi ultimi. “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene.” La didascalia sulla fotografia postata da Ilaria (che vive nel ricordo del proprio caro senza vita e pieno di lividi e con il volto tumefatto)grida giustizia (quella dei tribunali e non di certo rappresaglia) dopo che le motivazioni della Corte d’Assise di Appello di Roma (quella che ha assolto gli agenti della penitenziaria, i medici e gli infermieri per la morte di Stefano) suggeriscono una probabile strada da percorrere nell’indagine sul pestaggio di suo fratello Stefano: “(…) le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, che può essere consistita anche in una semplice spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento”. Esiste per Costituzione la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, è vero. Tuttavia, quei quotidiani (e quei politici) che oggi accusano Ilaria di aver messo alla gogna il carabiniere postandone la fotografia sulla sua bacheca sono i primi ad abusare spesso di quel principio. Sto con Ilaria perché non c’è nulla di più difficile (anzi è impossibile) dell’accettare la morte di un fratello per mano dello Stato. E sto con Ilaria perché grazie alla sua tenacia e al suo modo di rendere pubblica ogni vicenda che ruota attorno al caso di Stefano ci ricorda che sono ancora molte le crepe nel nostro sistema giudiziario.
La madre di Cucchi: "Mio figlio? Un delinquente". La donna a chi le consigliava di affidarsi a un avvocato rispondeva: "Non spendo altri soldi per quel delinquente", scrive Chiara Sarra, Sabato 30/01/2016, su “Il Giornale”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". In un'intercettazione agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi e rivelata da “Il Tempo”, il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi, svela un retroscena finora inedito. Nella registrazione, infatti, Mandolini parla con un consulente legale del Sap a Vibo Valentia, sostenendo che al procuratore dichiarerà di aver "omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". E cioè che dopo l'arresto per spaccio avvenuto nel 2009, i carabinieri avevano suggerito ai familiari di contattare un avvocato di fiducia, ricevendo in riposta solo insulti per Stefano. "Quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere", ha aggiunto Roberto Mandolini, "La sorella pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla". Vero o falso? Toccherà ai giudici stabilirlo.
"Cosa pensavano davvero di Cucchi". Intercettazione choc di madre e sorella, scrive “Libero Quotidiano”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Lo rivela in una intercettazione - riportata dal Tempo - agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (deceduto a 31 anni all'ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) del maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità "per il violentissimo pestaggio" che avrebbe subito Cucchi. Il 17 luglio 2015, Mandolini (che il giorno prima ha ricevuto l'invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio) chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia, e le dice che al gip dirà: "Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". Lei lo incalza e lui continua: "Quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Il maresciallo aggiunge che "quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere". Difficile dire se quello che dichiara il carabiniere sia vero visto che queste intercettazioni sono fra quelle che lo hanno inguaiato. Tant'è. Mandolini continua: "La sorella (Ilaria, ndr) pseudo -giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla".
Cucchi, i familiari e le accuse al telefono. Le intercettazioni del carabiniere indagato nell’inchiesta sulla morte di Stefano "La madre ci disse che il figlio era un delinquente". Disposta una nuova perizia, scrive Valeria Di Corrado il 30 gennaio 2016 su “Il Tempo”. «Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». A rivelarlo in una intercettazione agli atti dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (il 31enne deceduto all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) è il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio presso la stazione Appia, sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità «per il violentissimo pestaggio» che avrebbe subito Cucchi. È il 17 luglio 2015, Mandolini ha ricevuto da un giorno l’invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio (in quell’occasione si è avvalso della facoltà di non rispondere). L'ex vice comandante della stazione Appia chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia e attivista in varie associazioni antimafia. Le confida che quando il procuratore gli domanderà se ha omesso qualcosa, gli risponderà: «Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia. Questo, questo e quell’altro». A quel punto la donna si incuriosisce e gli chiede cosa abbia detto il ragazzo. Mandolini si sfoga spiegando che «quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». Il maresciallo spiega inoltre che «quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere». Vero? Falso? Queste intercettazioni fanno parte dello stesso «blocco» che ha inguaiato di recente questo carabiniere. L’interlocutrice del militare consiglia di riferire tutto nell’interrogatorio. Mandolini, evidentemente scottato dalla battaglia della sorella di Stefano Cucchi per l’accertamento della verità, conclude così: «La sorella (Ilaria, ndr) pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla». Dalle stesse intercettazioni raccolte dalla Squadra Mobile nel corso dell’attività investigativa emerge però che il maresciallo si rapporta con un pregiudicato che chiama «fratello» e con il quale si incontra per scambiarsi oggetti d’oro. La svolta investigativa arriva quando Anna Carino, ex moglie di D’Alessandro, gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (...) che te ne vantavi pure... che te davi le arie». La frase intercettata viene confermata dalla donna quando il 19 ottobre scorso è stata sentita dal pm. La sua deposizione è finita nell’informativa finale della Mobile: «Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento». Per appurare se il pestaggio abbia causato la morte di Cucchi la Procura ha chiesto un nuovo accertamento medico-legale. Il gip ha nominato 4 periti che dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Il giudice ha respinto, ritenendola infondata, un’istanza di ricusazione di Francesco Introna presentata dal legale della famiglia Cucchi per i rapporti di inimicizia con il suo consulente Vittorio Fineschi.
Stefano Cucchi, di prescrizione in prescrizione verso la proscrizione della memoria, scrive Beppe Giulietti il 6 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Il presidente del collegio dei periti incaricato da tribunale di Roma di rispondere a una serie di quesiti sulle modalità del decesso, il 22 ottobre del 2009, di Stefano Cucchi ha chiesto una proroga di 90 giorni. (In effetti l’incarico è stato dato dal GIP Elvira Tamburelli nel procedimento a carico dei cinque carabinieri indagati, nda). La notizia è stata accolta con legittima indignazione dai familiari e dai difensori della famiglia Cucchi che già avevano contestato la nomina del professor Francesco Introna, da loro accusato di essere massone e troppo legato ai comandi militari e ai carabinieri. Lo stesso giudice per l’udienza preliminare ha ridotto da 90 a 30 giorni la richiesta dei periti, anche perché lo slittamento dei tempi avvicina sempre più l’ipotesi della prescrizione. Sono passati sette anni da quel pestaggio e dalla morte di Stefano. Depistaggi, omissioni, perizie contraddittorie, hanno determinato l’apparente paradosso per il quale Stefano è morto in seguito alle botte ricevute, ma nessuno avrebbe ordinato ed eseguito il pestaggio. Per fortuna che non hanno ancora avuto il coraggio di seguire la pista del suicidio…Di perizia in perizia, di rinvio in rinvio, la ricerca della verità e della giustizia si allontana sempre più, mentre si avvicinano i tempi della prescrizione e della cancellazione delle responsabilità. Se così dovesse accadere spetterà a tutti noi continuare a sostenere le ragioni della famiglia di Stefano e impedire che la prescrizione possa trasformarsi anche nella proscrizione della sua memoria e delle responsabilità di chi ha causato la sua morte, anche perché “quello che è accaduto una volta può sempre ripetersi”.
Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm. Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.
Intanto il pg Rubolino l'8 giugno 2016, parlando per 3 ore, chiede cinque condanne per omicidio colposo. Il processo che si celebra oggi è stato disposto dalla Corte di Cassazione che il 15 dicembre dello scorso anno annullò la sentenza con la quale la Corte d’Assise d’Appello mandò assolti i sanitari che ebbero in cura Cucchi. Ha chiesto 4 anni di reclusione per il primario Aldo Fierro, 3 anni e 6 mesi per i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite. Stefano Cucchi morì il 22 ottobre del 2009 nel reparto di medicina protetta dell'ospedale Sandro Pertini, dove era stato ricoverato, una settimana prima, dopo il suo arresto. I cinque camici bianchi, dopo la condanna in primo grado, erano stati assolti in secondo. Giudizio, quest'ultimo, annullato dalla Cassazione e dunque tornato in aula davanti alla Corte d'Assise d'Appello. Per Rubolino, i cinque imputati non possono meritare la concessione delle attenuanti generiche, anche se sono incensurati. «Pure Stefano Cucchi era un ragazzo incensurato, anche se era stato giustamente arrestato per la prima volta - ha osservato il sostituto Pg -. La realtà è che questa vicenda presenta profili di colpa ai confini di un dolo eventuale, una colpa con previsione, una colpa gravissima. Chi lavora in un reparto protetto come quello del Pertini dovrebbe avere un'attenzione e una preparazione maggiore nel riconoscere nei pazienti una sindrome da inanizione (malnutrizione) attribuita a Cucchi; chi lavora lì dovrebbe essere abituato a quei detenuti che spesso fanno lo sciopero della fame per rivendicare chissà quali pretese giudiziarie. E invece - ha proseguito Rubolino - Cucchi è stato trascurato durante la sua degenza, non è stato per nulla curato. Gli imputati potevano e dovevano intervenire e invece fino all'ultimo al ragazzo è stata somministrata solo dell'acqua, quando ormai era già cominciato quello che i periti hanno definito un catabolismo proteico catastrofico. Stefano, cioé, si stava nutrendo delle sue stesse cellule e stava perdendo un kg al giorno. Al momento del decesso il suo peso si aggirava intorno ai 37 kg. Per Cucchi quell'ospedale era l'equivalente di un lager. La sua morte orribile e tragica ricorda per certi versi quella di Giulio Regeni. Io non vorrei che Stefano Cucchi morisse per la terza volta - ha affermato Rubolino -: una prima volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilirne il colore, la seconda volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in camice bianco. La Cassazione, annullando l'assoluzione dei medici, ha evitato che sulla vicenda calasse una pietra tombale. Già all'ingresso al Pertini sono state riportate circostanze chiaramente false sulla cartella clinica di Cucchi: era un bradicardico patologico, con 40 battiti cardiaci al minuto (rispetto ai 60 fisiologici) eppure i medici non gli hanno mai preso il polso. Presentava una frattura alla vertebra sacrale per il pestaggio avvenuto nelle fasi successive all'arresto, aveva un trauma sopraccigliare con scorrimento del sangue, per migrazione, sotto gli occhi, aveva un forte dolore fisico in conseguenza di quell'aggressione, eppure al Pertini gli è stato solo somministrato un antidolorifico che ha contribuito a rallentare il cuore, muscolo già indebolito perché non irrorato. L'apparato muscolare nel suo complesso, in quella cartella clinica fasulla, venne definito tonico e trofico ma il paziente non aveva neppure i glutei per poter avere una iniezione. Cucchi rifiutava le terapie e non mangiava perchè nessuno lo metteva in contatto col suo avvocato. Nessuno si è preoccupato di riferire ad altri le sue esigenze. La sua morte è arrivata dopo cinque giorni di vera agonia». Per la Procura Generale, poteva bastare un farmaco che desse vigore al battito del suo cuore, poteva bastare un po' di acqua con zucchero, forse, per migliorare una situazione gravemente compromessa. E invece niente di tutto ciò. «Cucchi - ha concluso Rubolino - non doveva stare in quel reparto perchè non era stabilizzato. Eppure si è fatto in modo che venisse ricoverato lì, in quella struttura protetta lontana da occhi e orecchi indiscreti". Intanto la prima sezione penale della Corte d'appello di Roma ha nuovamente assolto (con la formula perchè il fatto non sussiste) Claudio Marchiandi, il funzionario del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, coinvolto nell'inchiesta. Per Marchiandi questo era il secondo processo d'appello: condannato a due anni nel 2012 in abbreviato dal gup Rosalba Liso per falso ideologico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, il funzionario del Prap venne assolto nel giudizio di secondo grado l'anno successivo. Sentenza poi annullata nel 2014 dalla Cassazione che ordinò un nuovo processo.
Cucchi, Cassazione: «Per i testimoni fu picchiato dai carabinieri». La sentenza di 57 pagine depositata dalla Suprema Corte sintetizza le testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso del geometra morto nel 2009 al Pertini durante la custodia cautelare, scrive Ilaria Sacchettoni su "Il Corriere della Sera” il 9 marzo 2016. C'erano testimonianze che portavano ai carabinieri, ma non si sono ascoltate. C'era superficialità nella perizia medica che, «parcellizzando» le lesioni, ne ridimensionava il valore «probatorio», ma nessuno ci fece caso. E c'erano testimoni delle lesioni e della sofferenza di Stefano Cucchi durante la convalida dell'arresto, ma, nella prima inchiesta, nessuno le considerò. Stefano Cucchi «sarebbe stato aggredito da appartenenti all’Arma dei carabinieri», prima di essere «preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria poi rinviati a giudizio». Lo scrive la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza depositata oggi, ricordando alcune testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso Cucchi. Nel bocciare la prima inchiesta sulla vicenda Cucchi, i giudici della Cassazione osservano che furono trascurate diverse testimonianze. Versioni che smentivano le parole di Samura Yaya, il testimone «uditivo» al quale i pm della prima inchiesta si erano affidati completamente e che accusava la penitenziaria del pestaggio nei confronti di Cucchi. La Cassazione li elenca. C'era il carabiniere Mario Cirillo che, vigilando sul corridoio davanti alle celle, non vide nessun movimento attorno a quella di Cucchi. E che dunque portava ad escludere la tesi del pestaggio in cella. C'era la donna in attesa della convalida del proprio arresto, Anna Maria Costanzo, che parlando con Cucchi apprese che era stato picchiato «dagli agenti che l'avevano arrestato». E c'erano altri due detenuti, Stefano Colangeli e Vilbert Lamaj, che, nelle stesse celle, «non hanno riferito di alcuna aggressione ma solo di aver sentito Cucchi lamentarsi e accusare dolori già prima dell'ora in cui sarebbero avvenuti i fatti descritti da Samura Yaya». Infine, come sottolineato dal pg Nello Rossi nella sua requisizione di dicembre scorso, c'era la testimonianza di altri carabinieri. In particolare quella di Pietro Schirone che «con disarmante sicurezza e semplicità» testimoniò: «Era chiaro che era stato menato». Infine c'erano le parole degli assistenti di polizia penitenziaria Bruno Mastrogiacomo e Mauro Cantone che essendosi occupati di Cucchi durante la detenzione iniziale a Regina Coeli riferirono di aver appreso dallo stesso Cucchi di essere stato picchiato dai carabinieri. Versione confermata anche dall'infermiera del Pertini Silvia Porcelli. Alla luce di tutto ciò anche «il battibecco non consono all'aula» condito da insulti rivolti da Cucchi ai carabinieri in divisa nell'aula del gip si spiega meglio: è la rabbia di chi sentiva di aver subito un'ingiustizia.
Stefano Cucchi, Cassazione: “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. A scriverlo sono i giudici nelle motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell'ospedale Pertini dove nel 2009 il ragazzo è morto dopo una settimana di ricovero, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 marzo 2016. “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. E inoltre “non sono state fornite spiegazioni esaustive e convincenti del decesso di Stefano Cucchi”. Sono queste le motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell’ospedale Pertini. Erano stati invece definitivamente assolti invece tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto procedimento. Secondo la Cassazione, si legge nel testo, i medici dell’ospedale Pertini avevano una “posizione di garanzia” a tutela della salute di Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare “con precisione” la sua patologia anche in presenza di una “situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico”. Nelle 57 pagine depositate mercoledì 9 marzo dai giudici, sono contenute anche le motivazioni del proscioglimento dei tre agenti penitenziari coinvolti nella vicenda: secondo i giudici infatti viste le “plurime deposizioni di fondamentale importanza” secondo cui il giovane “sarebbe stato aggredito da appartenenti all’arma dei carabinieri” e “quindi prima di essere preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria tratti a giudizio” è da escludere il coinvolgimento degli agenti del penitenziario. Nel documento si sottolinea poi che non sono state fornite “spiegazioni esaustive e convincenti del decesso”, motivo per cui nel processo bis assieme alle cause della morte, dovrà essere accertata anche “la concreata organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza e ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella vicenda”. Il tutto “senza dimenticare che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti”. Coinvolti nel processo bis il primario Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. Secondo il verdetto, gli stati patologici di Cucchi, preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato, avrebbero dovuto imporre “maggiore attenzione ed approfondimento”, con ricorso alla “diagnosi differenziale”. I giudici inoltre scrivono che è di “manifesta illogicità” la decisione con la quale la Corte di assise di Appello di Roma nel processo per la morte di Stefano Cucchi, “ha escluso di procedere ad un nuovo accertamento peritale” sostenendo che “non residuano aspetti delle condizioni fisiche di Cucchi che non siano stati già esplorati e valutati dagli esperti nominati”. Quindi un nuovo accertamento “per l’imponente mole del materiale probatorio acquisito agli atti” si sarebbe potuto svolgere sugli atti stessi, “giovandosi anche dei contributi forniti dai diversi esperti” e non può essere impedito dalla solo “affermata” – dai giudici dell’appello – “impossibilità di effettuare riscontri sulla salma di Cucchi”. Sulle cause della morte di Cucchi, scrive la Cassazione condividendo le parole usate nella sua requisitoria dal Pg Nello Rossi, non può esserci “una sorta di ‘resa cognitiva'”. Ad avviso dei giudici era ben argomentata, dai giudici di primo grado che avevano condannato i medici del Pertini, l’individuazione della causa della morte del giovane nella sindrome da inanizione, decesso per mancanza di nutrimento in un soggetto già sottopeso e politraumatizzato.
Caso Cucchi, Ilaria: "Finalmente la verità", in un video di Mariacristina Massaro su "Repubblica Tv" l'11 marzo 2016. "La giustizia non poteva far finta di nulla e alzare le spalle di fronte a una mancata causa di morte", Ilaria Cucchi commenta così le motivazioni della Cassazione sulla sentenza del 15 dicembre 2015. Lo scorso 9 marzo, infatti, sono state depositate 57 pagine in cui vengono spiegati i motivi per cui a dicembre furono annullate le assoluzione dei cinque medici che avrebbero dovuto curare Stefano Cucchi, morto nel 2009 dopo una settimana di ricovero. “Quello che sta succedendo ora mi dà enorme speranza e fiducia: so che finalmente siamo di fronte a un percorso di verità rispetto a quello che accadde a mio fratello Stefano”, ha ammesso Ilaria Cucchi, anche se ancora timorosa. “Chiaramente rimane la preoccupazione di fronte a meccanismi che fino a sei anni fa ignoravo'', ha aggiunto, ''ma che oggi conosco bene. Ho capito con quanta facilità periti e consulenti possono distorcere e capovolgere la realtà dei fatti senza nemmeno porsi il problema di rendere credibile quello che dicono".
Da Cucchi a Budroni, le "vittime della tortura di Stato" arrivano a Bruxelles. Il prossimo 15 marzo una folta delegazione di familiari, l'eurodeputata Eleonora Forenza, e alcuni rappresentanti dell'associazione Acad saranno ascoltati presso la sede del Parlamento Europeo, scrive Ylenia Sina, Giornalista di RomaToday, l'11 marzo 2016. Cucchi, Bianzino, Budroni, Magherini, Uva, Ferrulli, Mastrogiovanni, Casalnuovo. Le “vittime della tortura di stato” arrivano al Parlamento Europeo. È questa infatti la delegazione che, insieme all'eurodeputata de L'Altra Europa Eleonora Forenza, ad alcuni rappresentanti dell'Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad) e con l'avvocato Fabio Anselmi verranno ascoltati a Bruxelles il prossimo 15 marzo. Il lavoro è stato presentato oggi pomeriggio nel corso di una conferenza stampa presso la sede romana del Parlamento Europeo, in via IV Novembre. “Vogliamo portare quella che definiamo 'l'anomalia Italia' all'attenzione del parlamento europeo e dell'opinione pubblica” ha spiegato Luca Blasi di Acad. Alle spalle due pannelli con i volti, e le storie, di chi questo 'caso italiano', suo malgrado, lo rappresenta. “Non parliamo delle vittime di alcune mele marce ma di un vero e proprio sistema, che troppo spesso gode di copertura mediatica e politica”. “Tante vicende che nascondono famiglie spesso abbandonate a loro stesse, nel disinteresse generale. Famiglie che si sono ritrovate troppe volte di fronte all'evidenza che i loro morti non valgono niente” racconta Ilaria Cucchi, tra i familiari della delegazione che andrà a Bruxelles. Ilaria rompe il silenzio e continua un elenco “che potrei continuare all'infinito: Savia, Perna, Ronzi, Bifolco”. Così la 'missione' al parlamento europeo rappresenta un “atto di speranza” ma anche di “disperazione” il secondo l'avvocato Fabio Anselmo, “perché l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica ha giocato spesso un ruolo fondamentale nei processi per le vittime di questo genere di abusi”. I nomi citati aumentano nel corso della conferenza stampa. Ricorda il caso Aldrovandi: “Se non se ne fosse parlato sui giornali saremmo arrivati con difficoltà in tribunale”. Ricorda quello Rasman: “Per il suo caso, in seguito ad un'interrogazione parlamentare, venne revocata la richiesta di archiviazione”. E ancora la vicenda di Rachid che da anni denuncia i maltrattamenti e gli abusi che subisce in carcere, anche tramite delle registrazioni ambientali. “Ecco come si presenta in tribunale” ha spiegato l'avvocato mostrando i segni delle violenze sul corpo dell'uomo. L'Italia, sintetizza Anselmi, “non ha abbastanza anticorpi”. Lo spiega Forenza: “Certamente il tema della repressione è europeo ma in Italia registriamo anomalie pesantissime in termini di mancanza di rispetto dei diritti”. Ne è un esempio “il fatto che non esista il reato di tortura e che la polizia italiana non abbia, come invece accade in altri paesi, i numeri identificativi”. Per l'eurodeputata “è una questione che spesso rimane sotto traccia ma che riguarda la vita delle persone che spesso restano senza giustizia”. L'eurodeputata ricorda “Davide Rosci, detenuto per un reato assurdo a cui va tutta la mia solidarietà”. Conclude Forenza: “Speriamo che questa audizione contribuisca a fare in modo che le istituzioni italiane vengano sollecitate a prendere le misure che vanno verso il pieno riconoscimento dei diritti umani”.
«Abusi in divisa»: i familiari delle vittime in missione a Bruxelles.
Tortura. Al parlamento Ue con il dossier sul «caso Italia», scrive Giuliano Santoro il 12.03.2016 su il “Manifesto”. Sono i familiari delle vittime di abusi polizieschi. Le istituzioni dovrebbero chiedere loro scusa. Ma per avere udienza, dovranno oltrepassare i confini nazionali e arrivare fino a Bruxelles. Lo faranno il 15 marzo prossimo, quando – in occasione della Giornata internazionale contro la violenza poliziesca – una nutrita delegazione porterà al Parlamento europeo le storie di mala polizia. Le ha raccolte in un dossier Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che organizza la missione belga assieme all’eurodeputata della Sinistra unitaria europea Eleonora Forenza. Ci saranno i volti e le storie tragiche dei parenti delle vittime, che hanno dovuto sfidare il silenzio per rivendicare giustizia: Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Lucia Uva (sorella di Giuseppe), Claudia Budroni (sorella di Dino), Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni), Domenica Ferrulli (figlia di Michele), Andrea Magherini (fratello di Riccardo) e Osvaldo Casalnuovo (padre di Massimo). «Vogliamo portare in Europa quella che chiamiamo l’anomalia italiana – spiega Luca Blasi di Acad – fatta di torture, alimentata da un sistema penale sbilanciato, coltivata dalle emergenze permanenti. I casi che in questi anni abbiamo seguito non sono opera di qualche mela marcia ma sintomo di un deficit strutturale nei corpi di polizia e nella macchina delle giustizia. Chi calpesta i diritti gode di appoggi mediatici, coperture giuridiche e sostegno politico. Prova ne è la mancanza di una legge sul reato di tortura». Impossibile non menzionare gli abusi commessi nei giorni del G8 di Genova. Eleonora Forenza quindici anni fa era in quelle strade, da giovanissima manifestante. Presentando l’iniziativa dell’audizione, ci tiene a sottolineare come la repressione colpisca in tutta l’Europa. Basti pensare ai casi delle leggi contro i movimenti in Spagna, alla violazione dei diritti dei migranti e alle deroghe al diritto dello stato d’emergenza in Francia. «Tutto ciò – dice la parlamentare europea – è anche l’altra faccia dell’austerità. È in questo contesto che si dipana il ‘caso Italia’ con le sue specificità». Ilaria Cucchi ammette che in passato aveva osservato queste faccende con un certo distacco. «Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me, di perdere un fratello e di dover sfidare la rete di omertà e i muri di gomma degli apparati di sicurezza». Adesso i parenti in cerca di giustizia si conoscono e si sostengono a vicenda. Molti casi giudiziari vengono seguiti dall’avvocato Fabio Anselmo, che confessa che la missione di Bruxelles è al tempo stesso «un atto di fiducia e anche una mossa di disperazione». Anselmo ha sperimentato in questi anni l’importanza della comunicazione e del rapporto con l’opinione pubblica. Se n’è accorto quando prese in mano le carte del primo caso d’abuso. Riccardo Rasman, trentaquattrenne con problemi psichici, venne ucciso a Trieste da tre poliziotti nell’ottobre del 2006. «Il caso stava per essere archiviato – rievoca Anselmo – Ma grazie ad un’interpellanza parlamentare finì sulle pagine dei giornali locali e il corso degli eventi mutò. Per la prima volta in vita mia assistetti alla revoca di un’archiviazione e poi alla condanna, seppure lieve, degli agenti coinvolti». A distanza di dieci anni, con in mezzo le tante facce della Spoon River carceraria e repressiva, ecco l’ultima storia di violenza in divisa seguita da Anselmo. La vittima si chiama Rachid Assarag. È un detenuto che ha denunciato pestaggi nelle carceri di Parma, Prato e Firenze. Per di più, Assarag è riuscito a registrare le voci di agenti, medici, operatori e psicologi all’interno del carcere: gli dicono che è inutile denunciare e in qualche caso lo minacciano spiegandogli che in carcere non valgono le garanzie minime. Proprio ieri, il tribunale di Parma ha riconosciuto come rilevanti le registrazioni avventurosamente raccolte dall’uomo, disponendo una perizia che cerchi di associare a quelle parole inquietanti dei volti e delle responsabilità. Assarag si è presentato dal giudice in sedia a rotelle, coi segni di un nuovo, ennesimo pestaggio compiuto alla vigilia dell’apparizione in tribunale. Del suo caso e di tanti, troppi altri, si parlerà la settimana prossima a Bruxelles.
L’8 Marzo 2016, Festa della Donna, è andato in onda un servizio di “Le Iene” realizzato da Matteo Viviani in cui si parla di un problema sempre di grande attualità: le torture nelle carceri italiane. Come mai queste cose succedono nelle carceri? Perché lì non esistono leggi dice l’intervistato. Matteo Viviani per realizzare questo servizio di “Le Iene” ha intervistato un ex Agente di Polizia Penitenziaria e un ex detenuto del carcere di Asti i quali hanno raccontato all’inviato Mediaset quello che accade all’interno delle mura della prigione in questione (ma molto probabilmente in tutte), lontano dalle telecamere di sorveglianza, da qualsiasi forma di testimonianza e soprattutto dalla legge, dato che il nostro codice penale non prevede il reato di tortura. Punizioni e torture, tra cazzotti e bastonate e angherie di altro tipo nei racconti di Andrea Franciulli, ex guardia carceraria, e Andrea Cirino, ex detenuto carcerario. I racconti trascendono nella terribile storia di un giovane ragazzo di circa 30 anni lasciato morire di fame in carcere e successivamente proclamato innocente dalla magistratura.
Servizio shock di Viviani a Le Iene; lontano dalle telecamere di sorveglianza il racconto di atrocità commesse in carcere, scrive Roberto Accurso. Un servizio che non ha tardato nel fare discutere molto quello di Viviani a Le Iene, che racconta la cruda realtà delle carceri italiane. Un ex Agente e un ex detenuto del carcere di Asti raccontano infatti all’inviato del programma d’inchiesta di Italia 1 quello che accade all’interno delle mura della prigione, lontano dalle telecamere di sorveglianza, e da qualsiasi vincolo legislativo. Il codice penale non prevede assolutamente infatti il reato di tortura ma ciò che spesso succede è che si oltrepassino i limiti e che non siano più garantiti alcuni diritti fondamentali ai detenuti. Il racconto ha scatenato subito un grande tam tam sui social network, facendo interrogare in molti sulla gravità dell’accaduto. Se infatti il servizio mostra la testimonianza di ciò che è accaduto nel carcere di Asti, con molta probabilità si avvicina alla situazione tragica di molti altri istituti di detenzione.
PARLIAMO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES IMPUNITE.
I vegani sono diventati una casta. Forse certe cose non si dovrebbero dire, ma che liberazione quando qualcuno le dice, scrive Camillo Langone, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale". Forse certe cose non si dovrebbero dire, ma che liberazione quando qualcuno le dice. «I vegani sono una setta, sono uguali ai testimoni di Geova. Io li ammazzerei tutti» ha sbottato Vissani nello studio di In onda, il programma di Parenzo e Labate (dove fra l'altro c'ero anche io, in collegamento, solo che al contrario dello sfrenato cuocone umbro cerco sempre di trattenermi e non ho pronunciato nulla di notiziabile). Chiaramente l'ultima affermazione, «li ammazzerei tutti», è un'iperbole, e non mi metterò qui a spiegare le figure retoriche: a chi si è scandalizzato consiglio la Treccani o anche Wikipedia oppure, ancor meglio, i manuali di Bice Mortara Garavelli. Mentre nell'accostamento alle sette religiose non c'è nulla di retorico, è qualcosa di molto semplice e secondo me perfino ovvio. Mi vengono in mente almeno altri due personaggi che in passato hanno fatto affermazioni simili. Pellegrino Artusi, l'uomo che con La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene ha unificato gastronomicamente l'Italia appena unificata politicamente, insomma il Garibaldi della tavola, in una pagina del suo famoso ricettario scrive: «Non appartenendo io alla setta dei pitagorici...». Vegetariano è aggettivo novecentesco, nei secoli precedenti chi non mangiava carne veniva considerato un seguace di Pitagora, filosofo e matematico dell'antica Grecia che imponeva agli sfortunati discepoli una dieta rigidissima e capricciosa: proibiva anche i legumi, innanzitutto le fave, e poi il vino, i funghi, l'aglio... L'altro personaggio è George Orwell, lo scrittore che con 1984 ha prefigurato la violenza del politicamente corretto: «Ci sono persone, come i vegetariani o i comunisti, con cui è impossibile discutere». Perché i settari, dal punto di vista politico o alimentare cambia poco, sono impermeabili alla ragione, alla scienza, alla realtà, a tutto quello che potrebbe mettere in crisi le loro certezze. C'è un libro ponderoso, Il mito vegetariano, edito da Sonzogno e scritto da Lierre Keith che proprio come Vissani considera il veganesimo «una sottocultura che rasenta il culto» e lo smonta, con argomenti e numeri, da ogni punto di vista. Dal punto di vista nutrizionale, dal punto di vista etico, dal punto di vista agricolo: «I cibi che i vegetariani sostengono che ci salveranno sono proprio quelli che distruggono il mondo. La coltivazione di monocolture annuali non sarà mai sostenibile». Le pagine sulla soia vi faranno passare la voglia di tofu per sempre. Lierre Keith è un'ex vegana, oltre che una divulgatrice scientifica, e nessuno meglio di lei può svelare il lato oscuro del fenomeno, ad esempio i pericoli dell'alimentazione vegana per i bambini e per le donne in età feconda. Ma in pochi, in pochissimi, leggeranno un saggio di 377 pagine mentre in tanti hanno ascoltato la dichiarazione di Vissani. Anche un po' sgrammaticata (non ha detto proprio «li ammazzerei», ha detto «li ammazzerebbe») però pazienza: c'è più bisogno di buon senso che di correttezza.
La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006. Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.
Avvocati: la parcella (anche se esosa e truffaldina) è sempre vera fino a prova contraria. Per la Cassazione, è l'iscrizione all'albo a garantire la veridicità delle voci delle prestazioni, scrive Marina Crisafi su “Studio Castaldi”. La parcella di un avvocato si presume sempre vera. E la contestazione delle voci relative ad una data prestazione o spesa da parte del cliente non vale a superare la presunzione di veridicità, se non viene fornita apposita prova contraria. Ciò perché per il professionista garantisce l'iscrizione all'albo forense. Ad affermarlo è la Cassazione, con la sentenza n. 3194/2016 (depositata il 18 febbraio 2016), bocciando il ricorso di un cliente e accogliendo la decisione della Corte d'Appello di Trento che confermava il decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato per il pagamento di circa 4mila euro quale corrispettivo per l'attività di patrocinio legale svolta. Per gli Ermellini, infatti, le contestazioni svolte dal cliente non risultano idonee, come correttamente valutato dal giudice d'appello, a superare il valore di prova attribuito alla parcella redatta unilateralmente dall'avvocato, la quale deve sempre "ritenersi assistita da una presunzione di veridicità, poiché l'iscrizione all'albo del professionista è una garanzia della sua personalità" (cfr. Cass., SS.UU., n. 14699/2010). Nel caso di specie, il cliente non è riuscito a provare di aver estinto il debito con il legale sulla base dell'emissione di un assegno bancario emesso in una data di gran lunga anteriore a quella dell'avvio della controversia patrocinata. È proprio la distanza di tempo tra i due eventi a far venir meno la verosimiglianza del collegamento tra il titolo e il credito azionato dal legale, ponendo a carico del debitore l'onere di dimostrare la causale dell'emissione dell'assegno e conseguentemente, che il rilascio del titolo di credito è volto ad estinguere in via anticipata il debito per cui è processo. Ciò che risulta dimostrato, affermano dal Palazzaccio, è soltanto che le parti avevano convenuto per iscritto di posticipare il pagamento all'esito della controversia. Pertanto, spettava al cliente dimostrare che il titolo sarebbe stato emesso per estinguere anticipatamente il credito e non già soltanto a titolo di acconto, frutto di un'iniziativa autonoma del cliente stesso. Tale onere a carico dell'assistito però non risulta adempiuto, per cui non resta che pagare all'avvocato la somma risultante dal decreto ingiuntivo. Il principio che passa, però, non è tanto il dovere dell'adempimento del dovuto, ma che è difficilmente contestabile la richiesta esosa dell'avvocato quantunque infedele o incapace, la cua esosità o infedeltà mai sarà attestata dai suoi colleghi consiglieri dell'Ordine.
Addio sentenze, ormai le toghe "parlano" soltanto su libri e tv. Da Ingroia a Caselli, sono tanti i pm impegnati in libri o sceneggiature. Come l'ex assessore Sabella, che ha scritto un volume su Mafia capitale, scrive Annalisa Chirico, Giovedì 4/02/2016, su "Il Giornale". Pensate che un magistrato debba parlare soltanto attraverso le sentenze? Ma come siete demodé. I magistrati parlano, straparlano, il mondo si è evoluto. Esistono tv, giornali, social network e libri, quanti libri. Il format, di solito, prevede l'accoppiata con un giornalista, a fugare ogni dubbio sul «rapporto incestuoso» tra le due categorie. Il freddo dispositivo di un provvedimento in rigoroso giuridichese non basta a dare sfogo all'estro creativo e all'immaginazione del magistrato che si sente scrittore. Se pensate che c'entri la vanagloria, vi sbagliate. Il magistrato è uno che sa, non a caso Antonio Ingroia intitola Io so il libro uscito con Chiarelettere nel 2012 quando lui è ancora il pm della trattativa, e non può sapere che si candiderà premier l'anno successivo. Alla fine di febbraio arriverà in libreria Capitale infetta. Si può liberare Roma da mafie e corruzione? edito da Rizzoli. L'autore è Alfonso Sabella, il magistrato chiamato dalla politica a riportare la legalità all'ombra del Cupolone. Insieme al giornalista del Fatto quotidiano Giampiero Calapà, Sabella consegna un libro che è «allo stesso tempo una dichiarazione d'amore per la capitale e un racconto della miscela esplosiva che da decenni alimenta il malaffare». «Sapevo che mi sarei dovuto confrontare con sepolcri imbiancati e farisei, con funzionari corrotti e dirigenti ignavi o con dirigenti corrotti e funzionari ignavi. Però credo sempre che valga la pena di provare a cambiare questo Paese», sono le parole di Sabella, magistrato in aspettativa. Lui non è un novizio della scrittura, nel 2008 pubblica con Mondadori Cacciatore di mafiosi, i retroscena delle indagini e degli arresti che Sabella, il «cacciatore», conduce a Palermo da sostituto procuratore del pool antimafia. È pure in aspettativa, e chissà se mai tornerà in servizio, Raffaele Cantone che dal 2014 presiede l'Autorità nazionale anticorruzione. Cantone vanta una produzione editoriale più corposa, ultimo in ordine di tempo è Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il paese, a quattro mani con il giornalista Gianluca Di Feo. Il più autobiografico però rimane Solo per giustizia: vita di un magistrato contro la camorra, il vero trampolino di lancio per il «nemico numero uno dei boss di Mondragone e Casal di principe». Genere diverso è quello dei legal thriller dove il background giudiziario dell'autore affiora in ogni paragrafo, dall'evocazione dei luoghi, delle atmosfere tipiche di tribunali e questure, alla descrizione dettagliata delle tecniche investigative. Campione del filone giallo è l'ex pm Gianrico Carofiglio, esordiente nel 2001 e oggigiorno in cima alle classifiche. È in pensione Gianni Simoni che dalla lunga carriera trae ispirazione per numerosi romanzi. Un esempio? Lui, pm nell'inchiesta sulla morte di Michele Sindona, dà alle stampe Il caffè di Sindona. È pure in pensione Gian Carlo Caselli, tante inchieste e libri alle spalle, lo scorso novembre ha pubblicato Nient'altro che la verità. Resta in servizio presso la corte d'assise di Roma il giudice Giancarlo de Cataldo, autore del best-seller Romanzo Criminale, la storia della Banda della Magliana, cui segue una sfilza di opere da sceneggiatore e drammaturgo, inclusa la partecipazione a Masterpiece, nella veste di giudice del talent show letterario su Raitre. Su come si possa conciliare il lavoro in tribunale con la produzione ininterrotta, de Cataldo spiega all'Huffington post: «Basta organizzarsi con i tempi. Per me la scrittura è una passione giovanile. Non sono nato magistrato ma forse scrittore sì».
Salvini, i giudici di Cassazione: "Con lui democrazia in pericolo". Sdegno per le parole del leader della Lega Salvini, che aveva definito la magistratura italiana una schifezza, è stato espresso dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e dal pg Pasquale Ciccolo, scrive Mario Valenza, Mercoledì 17/02/2016, su "Il Giornale". Attacchi "pericolosi per la democrazia e la collaborazione tra poteri dello Stato". Sdegno per le parole del leader della Lega Salvini, che aveva definito la magistratura italiana una schifezza, è stato espresso dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e dal pg Pasquale Ciccolo, nel corso del Plenum del Csm. "Delegittimare un potere dello Stato con parole offensive e denigratorie fa molto male alla democrazia", ha detto Canzio, "esprimendo amarezza per le frasi pesantemente offensive". Insomma il leader della Lega Nord è finito nel mirino delle toghe. "Intendo esprimere, con sobrietà ma con fermezza, la mia profonda amarezza per le frasi pesantemente offensive pronunciate dall'onorevole Salvini nei confronti della magistratura e della funzione giurisdizionale da essi esercitata", ha aggiunto Canzio, commentando le affermazioni del leader del Carroccio che aveva definito la magistratura "una schifezza". "Credo fermamente nella leale collaborazione tra le Istituzioni e i poteri dello Stato -ha detto Canzio-. Questa si fonda sul reciproco rispetto e nella giusta misura dei gesti, delle parole e dei comportamenti. Delegittimare un potere dello Stato con parole offensive e denigratorie fa molto male alla nostra democrazia". E nella vicenda è intervenuto anche il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "Non abbiamo bisogno di una nuova stagione di scontro tra politica e magistratura. La tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura è un dovere costituzionale del Csm - ha aggiunto - per questo abbiamo il dovere di stigmatizzare quelle gravi e offensive espressioni nei confronti della magistratura. Il Csm - ha aggiunto il vice presidente Legnini - sta operando affinchè il rapporto tra ordine giudiziario e gli altri poteri si svolga in modo corretto e sereno". E arriva subito la risposta di Salvini: "Amici, scappate subito da questa Pagina!!!!! Perchè? Perchè per il primo presidente della Cassazione, il signor Giovanni Canzio, e per il procuratore generale, il signor Pasquale Piccolo, Matteo Salvini è un ’pericolo per la democrazia. Sticazzi, sono un pericolo per la democrazia.....". "Solo perchè ritengo che la ’giustizià italiana faccia schifo? Se qualche giudice lavorasse di più e parlasse di meno, forse gli italiani avrebbero più fiducia in questa magistratura». «Sfido a un confronto pubblico i due signori", scrive ancora il segretario federale della Lega. "P.s. Forse i pericolosi sono altri, che dite Amici?", chiosa.
"I magistrati? Una schifezza". E la procura indaga Salvini. Salvini al congresso del Carroccio: "La magistratura italiana è una schifezza". E si muove subito il procuratore Spataro: "Vilipendio dell'ordine giudiziario", scrive Sergio Rame, Lunedì 15/02/2016, su "Il Giornale". "La magistratura italiana è una schifezza". Per queste parole, condivise dalla maggior parte degli italiani, adesso Matteo Salvini è indagato dalla procura di Torino. Adesso rischia di essere condannato per "vilipendio dell'ordine giudiziario". Ieri, dal palco del congresso della Lega Nord Piemont, che dopo 15 anni archivia l'era Cota, Salvini ha attaccato la magistratura italiana: "È una schifezza". A detta del leader del Carroccio le toghe sono colpevoli di occuparsi degli scontrini dell'assessore leghista della Regione Liguria, Edoardo Rixi, e non "della mafia e della camorra che sono arrivate fino al Nord". "Se so che qualcuno, nella Lega, sbaglia sono il primo a prenderlo a calci nel culo e a sbatterlo fuori - ha detto ieri Salvini - ma Rixi è un fratello e lo difenderò fino all'ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana. Si preoccupi piuttosto della mafia e della camorra, che sono arrivate fino al Nord". Il riferimento di Salvini è alla "rimborsopoli" ligure che vede l'assessore del Carroccio, che è anche vicesegretario federale della Lega, tra i rinviati a giudizio. Proprio in Piemonte, dove ieri si è tenuto il congresso del Carroccio, una recente decisione del Consiglio di Stato ha respinto i ricorsi contro l'elezione di Sergio Chiamparino. Una sentenza che non è andata proprio giù al popolo leghista che ha visto disarcionare Roberto Cota per una vicenda analoga. Le parole di Salvini hanno subito scatenato una selva di polemiche. I magistrati, uno dopo l'altro, si sono armati contro il leader del Carroccio. Tanto che il procuratore Armando Spataro, che ha affidato l'incarico alla Digos di Milano, dove ha sede la Lega Nord, ha avviato degli accertamenti per verificare la sussistenza del reato di "vilipendio dell'ordine giudiziario". Il reato previsto dall'articolo 290 del codice penale è punito con una multa che varia tra i mille e i 5mila euro. Cifre che non spaventano Salvini che, dopo l'apertura dell'accertamento, ha rincarato la dose: "Come ovvio, e per fortuna, ci sono tanti giudici che fanno benissimo il loro lavoro: penso a chi è in prima linea contro mafia, camorra e 'ndrangheta. Purtroppo è anche vero che ci sono giudici che lavorano molto di meno, che fanno politica, che indagano a senso unico e che rilasciano in ventiquattr'ore pericolosi delinquenti". Quindi l'affondo: "Finchè la magistratura italiana non farà pulizia e chiarezza al suo interno, l'Italia non sarà mai un Paese normale".
Caso Mulè: record di querele per i magistrati. Quella dei giudici si conferma la categoria più permalosa del nostro Paese, scrive Annalisa Chirico su Panorama”. Un conto è farsi passare le carte da un magistrato, e in questo campo ci sono colleghi più esperti di me. Un altro è usare le carte per criticare l’operato di un magistrato. Compulsarle, analizzarle ed esercitare senso critico. Un azzardo che costa caro. Lo sanno bene i colleghi Andrea Marcenaro e Riccardo Arena condannati a un anno di carcere per diffamazione a mezzo stampa. Al direttore di Panorama Giorgio Mulé sono toccati otto mesi senza condizionale per omesso controllo. Ma si tratta davvero di casi isolati? L’ultima ricerca in materia è stata condotta dal giornalista Roberto Martinelli. Con un lavoro certosino Martinelli ha passato in rassegna l’ampia “letteratura” di citazioni civili e querele presentate contro quotidiani e settimanali dal 1997 al 2004. I risultati consentono di incoronare i magistrati come la categoria più permalosa d’Italia. Un vero record nazionale. Su 657 cause civili, 133 provengono dai magistrati, che si aggiudicano pure la maggioranza di citazioni in sede penale (91 su un totale di 402 casi). Non c’è che dire: le toghe non apprezzano la critica. O meglio: se prometti loro un trattamento di favore, taluni magistrati possono darti di tutto e in anticipo. Se invece le carte vuoi usarle per muovere una timida critica, ecco che arriva la citazione in giudizio. Alla sbarra, davanti ad un altro magistrato – medesima categoria – che dovrà decidere se dare ragione al collega (magari lo stesso che in un organo del Csm potrebbe decidere sul suo trasferimento o sulla sua promozione) e un giornalista, che chi lo rivede più. Martinelli pare alquanto disincantato. “La professione del giornalista è cambiata. Un tempo eravamo noi a rubare le carte. Oggi il pm te le passa e decide lui che cosa devi pubblicare”. C’era anche un tempo in cui l’Ordine dei Giornalisti si occupava di questo tema con maggiore sollecitudine di oggi. “Ricordo un convegno del ’99 intitolato «Citazioni e miliardi», in cui ci rendemmo conto che quello della diffamazione è diventato un mercato indegno in un Paese civile. I giornalisti hanno certamente le loro colpe, ma l’intimidazione che deriva da certe azioni giudiziarie strumentali fa sì che quel che resta della libertà di stampa venga sepolto per sempre”. Vale l’assioma magistrato-non-morde-magistrato. “Nel 2001 l’ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello propose di affidare la decisione sul contenzioso tra magistrati e giornalisti ad un organo esterno all’ordine giudiziario. La nostra Costituzione però vieta l’istituzione di giudici speciali. Per garantire maggiore trasparenza si potrebbe allora creare una giuria composta da magistrati togati insieme a semplici cittadini in rappresentanza del popolo”. C’è anche la questione non meno spinosa dell’entità dei risarcimenti. “In proposito Caianiello propose di versare all’erario le somme di denaro dovute da giornalisti ed editori a seguito di citazioni da parte dei magistrati. L’ipotesi non fece breccia tra i magistrati”. Eppure una sua logica ce l’ha dal momento che in Italia, quando il magistrato sbaglia, a pagare è lo Stato. Ma la sacralizzazione di una categoria procede per fasi successive. Viene dapprima codificata una sostanziale irresponsabilità (professionale, civile, disciplinare). Segue la decretazione della inviolabilità della sede: davanti alla Camera dei deputati potete issare qualunque bandiera, ma davanti ad un tribunale è vietato sostare; manifestare è bestemmia. In ultimo, eccovi la punizione esemplare verso i soggetti “devianti”, che vanno dunque criminalizzati. Il gioco è fatto.
Caso Mulè: così rieducano i giornalisti. Si conferma l'assioma secondo cui magistrato-non-morde-magistrato: il giudice milanese Caterina Interlandi dà ragione al collega Messineo, scrive ancora Annalisa Chirico. Sarà un caso che la testata si chiami “Panorama”, di proprietà della famiglia Berlusconi. Sarà pure un caso che il direttore condannato in primo grado a otto mesi di carcere (senza condizionale) per omesso controllo si chiami Giorgio Mulé, non esattamente un devoto della “strapotente” magistratura italiana. Sarà un caso, come dubitarne, che il querelante si chiami Francesco Messineo, capo della Procura di Palermo ai tempi delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, rivelate da Panorama pochi mesi or sono e dichiarate poi illegittime dalla Consulta. Si conferma il noto assioma secondo cui magistrato-non-morde-magistrato: il giudice milanese Caterina Interlandi dà ragione al collega Messineo e condanna il direttore responsabile a otto mesi di galera e il giornalista Andrea Marcenaro, autore del delittuoso articolo, ad un anno di reclusione. Hanno ragione i magistrati: i giornalisti vanno rieducati. Si dovrebbero organizzare dei veri e propri campi di rieducazione per quei giornalisti, pochi, che osano esercitare la libertà di critica verso i nostri esimi magistrati. In fondo, se parli di politici e soubrette, è tollerato un certo linguaggio infarcito di travagliesca putrescenza. Puoi qualificare gli uni come furfanti, le altre come puttane, tutt’al più ti becchi forse, non è detto, una querela e con qualche soldo la faccenda è chiusa. Se invece ti salta in mente di toccare il terzo potere, non hai scampo. Il terzo potere è intoccabile, e così un articolo che riporta dei fatti, nessuno dei quali viene smentito, fatti già raccontati in precedenza da La Repubblica e da La Stampa, diventa l’arma diffamatoria nei confronti di un povero magistrato. Il quale, dal canto suo, subisce una grave “perdita di autostima”, ne soffre intimamente. E allora egli potrebbe accontentarsi di un lauto risarcimento, ma non gli basta. Servono le sbarre per rieducare i giornalisti. Certi giornalisti italiani – quei “pochi”, di cui sopra – devono aver subito una sorta di mutazione genetica alla nascita, se a differenza dei loro colleghi – i tanti – osano prendersela persino con i giudici. Non si fa, non si fa, non si fa. Resta da chiedersi però perché in Italia e solo in Italia un reato, quale la diffamazione a mezzo stampa, sia punita con la galera. Non bastano forse ammende e risarcimenti pecuniari come avviene altrove? No, da noi la “giustizia” pretende i ceppi alle penne. Si tratta innanzitutto di una violenza ingiustificata nei confronti di due professionisti, che sono anche due persone, con la propria vita e la propria dignità. E poi viene così inferta una lesione profonda dei principi basilari su cui si fonda lo Stato di diritto nella nostra, seppure scalcinata, democrazia. Ma la politica che cosa fa? Si inchina supinamente, pavidamente, ad un diktat che già lo scorso autunno aveva fatto tintinnare le manette per un altro direttore di giornale, Alessandro Sallusti, anch’egli d’area berlusconiana e non proprio tenerissimo con la magistratura italiana. Sarà una coincidenza, certamente. La politica è rimasta a guardare, non è riuscita neppure a riformare una norma del Codice, firmato dal Re e dal Duce, che sopravvive imperterrita al buonanullismo dei politici e al ricatto dei magistrati. Sallusti è stato “graziato” in extremis dal Capo dello Stato. Dovremo confidare di nuovo nel potere di clemenza del sovrano oppure è arrivato il momento di modificare quella norma fuori dal tempo per evitare i casi Guareschi, Surace, Guarino, Sparagna? Che siate lettori o meno di Panorama, che siate berlusconiani o acerrimi antiberlusconiani, questo non conta. Se pensate con la vostra testa e avete a cuore la democrazia, di cui la libertà di espressione è un caposaldo indelebile, allora la reazione non può che essere una soltanto: indignazione. Le penne non si ammanettano, mai.
Querelare è una moda. E il record in Italia ce l'hanno i magistrati. Sono le toghe la categoria che fa aprire più procedimenti per diffamazione. In Italia nessun cronista è in cella. Sallusti sarebbe il primo, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 24/09/2012, su "Il Giornale". Occhio a scrivere di magistrati, moderare il tono, calibrare bene gli aggettivi, misurare ogni sillaba, omettere critiche al loro operato, attenersi rigidamente al fatto, non esprimere valutazioni se non generiche, sennò arriva la querela e si rischia il carcere come un delinquente abituale. Sono loro la categoria che querela di più in Italia, dove peraltro la citazione per danni ai giornali è sport nazionale e una speranza di introiti facili per parecchie migliaia di presunti diffamati (a cui poi viene dato torto una volta su due). Nelle indagini dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia commissionate fino al 2007, presidente Franco Abruzzo, si analizzano le sentenze emesse dal Tribunali civile, penale e dalla Corte di Appello di Milano. Parliamo solo di Milano, e parliamo solo di diffamazione a mezzo stampa, e parliamo soltanto delle cause che arrivano in giudizio, ma parliamo lo stesso di una quantità enorme, da vera «Querelopoli»: 116 sentenze penali nel biennio 2003-2004, 216 sentenze civili, 195 in Appello nei due anni successivi. Chiedono montagne di soldi e punizioni, galera compresa, per semplici giornalisti (ma se non sono direttori la cosa non fa notizia) per tornare a una vita serena dopo i turbamenti della presunta diffamazione: in media 9 milioni di euro (!) di petitum per ristabilire l'onore offeso (contro una media di 15mila euro liquidati per davvero, fortunatamente). In quei dossier ci sono le tipologie di articoli incriminati (soprattutto cronaca, ma anche commenti e interviste), la tempistica, l'esito, e soprattutto le tipologie dei querelanti, divise per categorie professionali. E qui, appunto, si vede che non è la casta politica (che pure è la più presa di mira dalla stampa, anche violentemente) quella più permalosa e intollerante alle critiche, ma la magistratura, che al minimo graffio ti porta in tribunale. Nelle 157 sentenze emesse dal Tribunale Civile di Milano nel 2001-2002, la professione della «parte attrice» è quella di magistrato nel 18% dei casi, la percentuale più alta tra le categorie, seguita da politici (12%), imprenditori/manager (8%), artisti (6%) e infine, curiosamente, gli stessi giornalisti (4%). La percentuale di magistrati sale nel secondo grado di giudizio. Se restiamo al biennio 2001-2002 ma passiamo alla Corte d'Appello di Milano, troviamo 46 sentenze di diffamazione a mezzo stampa. E qui ci sono di mezzo magistrati, come parte offesa, nel 45,6%, contro un misero 7% di politici, 7% di manager, 3,5% di amministratori di enti pubblici. Quanto chiedono? Riportano gli avvocati Sabrina Peron ed Emilio Galbiati, consulenti dell'Odg: «Media delle richieste di risarcimento danni (morali e patrimoniali) della parte appellante attrice in primo grado: 9.563.089,50». Passiamo al penale, articolo 595 del codice, «diffamazione», che prevede multa ma anche reclusione. Qui vengono prese in considerazione 116 sentenze Tribunale Penale di Milano, tra il 2003 e il 2004. Anche in questo caso i magistrati sono la fetta più ampia tra le categorie querelanti, il 18%. Il doppio dei politici (9%), più del quadruplo di avvocati e medici (4%), di sindacalisti (3%), militari (3%), imprenditori (2%), artisti e uomini di spettacolo (2%). Dato allarmante: nel 17% dei casi il Pm ha chiesto la reclusione per il giornalista (da sei mesi a un anno, tre volte su quattro), e non soltanto della multa. Domanda che è stata accolta, a Milano, il 6% delle volte (in un caso si è tradotta in condanna a 4 mesi di carcere), anche se nessun giornalista è attualmente nelle carceri italiane (statistica di «Reporter senza frontiere»). L'avvocato Roberto Martinelli ha fatto la stessa ricerca ma a livello nazionale, passando in rassegna citazioni civili e querele presentate contro quotidiani e settimanali dal 1997 al 2004. Ebbene, su un totale di 657 cause civili, 133 sono proposte da magistrati, mentre su 402 penali sono 91 i magistrati (la maggioranza). «Le domande di risarcimento - commenta Martinelli - trovano una buona accoglienza nelle aule dei tribunali, i magistrati decidono di altri magistrati e spesso emanano sentenze in favore dei loro colleghi. Siamo di fronte a una giustizia domestica». Se guardiamo alle statistiche sugli esiti dei procedimenti penali a Milano, non sembra confermato il sospetto che i magistrati si diano più facilmente ragione tra di loro. Ad avere più percentuale di successo sono gli imprenditori e gli amministratori di aziende (75%) e i politici (67%), meno i magistrati (43%). Cosa che può significare l'imparzialità del collega che li giudica. O che le loro querele sono spesso infondate.
Toghe favorite nei processi: vincono e incassano il triplo. Uno studio analizza sette anni di risarcimenti nelle cause per diffamazione Il giudice che denuncia ha verdetto favorevole una volta su due e prende più soldi, scrive Giuseppe Marino, Lunedì 15/02/2016, su "Il Giornale". Per chi lavora in un'azienda editoriale è la scoperta dell'acqua calda: la legge è uguale per tutti, ma per i magistrati è più uguale che per i comuni cittadini. Ma lo studio statistico messo a fuoco da un docente di Sociologia del diritto scolpisce nei numeri la verità del luogo comune sulle toghe: se sono loro a fare causa per diffamazione, improvvisamente la giustizia diventa più celere, le condanne più frequenti e perfino i risarcimenti diventano tre volte più generosi. I numeri sono impietosi. Il professor Morris L. Ghezzi, che è anche direttore scientifico dello studio legale Martinez e Novebaci, ha studiato gli esiti di sette anni di cause per diffamazione di una stessa azienda editoriale, tutte le cause concluse tra l'inizio del 2000 e la fine del 2006. Nella ricerca Ghezzi raggruppa gli «attori», cioè coloro che hanno fatto causa, in tre categorie: i magistrati, i politici e gli altri, cioè gli appartenenti a tutte le altre categorie professionali che, socialmente rilevanti o meno, sono meno sensibili dal punto di vista del rapporto con l'informazione e con la giustizia. Chiunque si senta diffamato da una pubblicazione audio, video o a mezzo stampa, può scegliere se rivolgersi al giudice civile chiedendo un risarcimento per il danno alla reputazione o se invocare il reato di diffamazione, sporgendo denuncia penale. In questo secondo caso, il direttore del giornale e il giornalista rischiano non solo dal punto di vista del portafogli. Lo studio di Ghezzi svela che in entrambi i casi le toghe, guarda caso, ottengono ragione dai colleghi che giudicano molto più spesso dei comuni cittadini. In sede civile la media di domande di risarcimento rigettate è del 38 per cento, ma se a far causa è un magistrato avrà torto solo nel 19 per cento dei casi. La domanda di risarcimento viene accolta nel 47 per cento dei casi in media, ma se l'attore è un giudice si sale al 69. Il totale di accolte e rigettate non fa cento perché spesso accordi tra le parti fermano i processi prima che si arrivi a una sentenza. In sede penale il film è lo stesso: il 40 per cento delle volte i giornalisti o editori sono assolti, ma se hanno contro una toga la media scende al 17 per cento. Le condanne in media sono il 28 per cento? Se il denunciante è un giudice si sale al 52. Per rendersi conto della disparità basta dire che il comune cittadino ottiene una condanna per l'editore che lo ha diffamato solo nel 13,4 per cento dei casi, cioè una volta su sette, mentre i magistrati più di una volta su due.Varia anche l'entità del risarcimento. E varia sempre nello stesso senso: nel civile il cittadino qualunque ottiene in media 31.501 euro, il magistrato 36.823. Nel penale il divario è ancora più clamoroso: il giudice assegna 9.829 euro di media al signor X, e 28.741 al magistrato. Se c'è di mezzo una toga, perfino l'annoso problema della giustizia lumaca è un po' meno irrisolvibile. La durata media delle cause civili è di 44 mesi per i cittadini senza privilegi e di 36 per i magistrati. Nel penale (che però è più rapido in generale) invece le toghe corrono meno, unica eccezione a una tendenza chiarissima, in base a questi numeri: il senso di casta dei magistrati condiziona le sentenze. Chi crede alla democrazia dovrebbe insorgere, ma la politica è inerme. Tanto più che dallo stesso studio emerge che i politici vengono trattati dai giudici peggio degli altri.
Magistrati, ma un po’ di autocritica, mai? Tre esempi, scrive Renato Farina l'1 Novembre 2015 su "Tempi”. L’Anm accusa sempre i politici di “delegittimarli”. Ok, ma anche accorgersi di essere una casta lontana dalla realtà delle gente comune farebbe loro molto bene. Come se ci fosse bisogno di qualche altra guerra, ecco che si accende quella della magistratura organizzata contro la politica disorganizzata. Il presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) Rodolfo Sabella ha attaccato governo e partiti accusandoli di occuparsi di “delegittimare” pubblici ministeri e giudici invece che di collaborare alla lotta contro la criminalità organizzata e la corruzione. L’Anm, per chiarire, non è un organo istituzionale, ma è un’associazione privata, funziona come un sindacato delle toghe, le quali vi aderiscono in massa, quasi il 90 per cento vi è iscritto. La risposta di Renzi è stata: possibile che dalle bocche dei magistrati non sia uscita nemmeno un’autocritica? C’è stata anche la replica dell’altro Matteo, dicasi Salvini. Il leader della Lega ha detto che semmai la magistratura si delegittima da sola. E dovrebbe curare se stessa. Siamo d’accordo coi due Mattei. Tre esempi. Nei mesi scorsi la ripresa dell’attività della grande acciaieria Ilva è stata ostacolata in ogni modo dai tribunali, e governo e parlamento hanno dovuto scavalcare le barricate frapposte dai magistrati, quasi per partito preso, dove la difesa della salute della gente è apparsa un pretesto per rivendicare un potere assoluto alla propria categoria, sopra la politica, sopra la voglia di ripresa della società. Secondo caso, assai diverso: la insensata ostinazione nel perseguire come omicida volontario – sia pure in ipotesi – il pensionato di Vaprio d’Adda che ha sparato a un ladro entrato in casa sua. La lontananza della casta delle toghe, che non rispondono a nessuno ma solo a se stesse, dalla realtà vissuta dalla gente comune è addirittura abissale. Il popolo che lavora, passeggia la sera, va al supermercato e in chiesa, è sconcertato dalla incapacità di comprendere da parte dei pubblici ministeri che cosa pensino e quali sentimenti vivano le persone comuni. Ce n’è un terzo. Nei giorni scorsi un giudice di Roma ha consentito l’adozione della figlia della propria compagna a una donna a lei legata. Insomma: ha creato la legge e l’ha pure applicata, introducendosi abusivamente e occupando ciò che è territorio della politica. Ma che mondo è quello dei giudici, che agiscono senza limiti né regole, e poi sono difesi dal loro sindacato, che li propone come vittime della politica? E dire che abbiamo visto molti giudici che mettono, a ragione o a torto, in carcere tantissimi politici e/o li costringono a dimettersi anche se innocenti, ma in nessun caso abbiamo visto il reciproco. Logico che la gente comune percepisca il mondo dei giudici come qualcosa di marziano. Sabella & C. svolgono un lavoro importantissimo, essenziale perché una comunità sia ordinata e viva in pace. E tanti giudici e pubblici ministeri lo fanno benissimo. Ma dovrebbero avvertire questa diffidenza profonda che attraversa, prima che la mente dei politici, l’animo della gente più semplice, che non si sente compresa da chi investiga e amministra la giustizia. E anzi si sente delegittimata dai magistrati, e così li contraccambia. Ascoltino di più cosa si muove nella società invece che gli umori dei loro circoli togati. In America sono costretti a farlo, sia i giudici sia i procuratori, perché sono eletti dai cittadini. In Italia no. Senza arrivare a imitare l’America in questo, Anm e compagnia giudicante scendano giù dal loro cielo astratto qui sulla dura terra. E non per fare il bello e il cattivo tempo. Ma per amministrare la giustizia. Non per delegittimare chiunque non li applauda quando si credono e si comportano come i signori della vita e della morte. Non saranno loro a salvare la patria pretendendo di vestire tutti i panni, compresi quelli dell’autorità morale e legislativa.
Robledo cacciato da Milano, il Csm chiude così la guerra tra le toghe. È il procuratore aggiunto l'unico a pagare per lo scontro con Bruti Liberati. Ma le sue accuse sulla gestione politica delle inchieste avevano trovato più di una conferma, scrive Luca Fazzo, Martedì 10/02/2015, su "Il Giornale". Kappaò. La faida durata quasi un anno all'interno della Procura della Repubblica di Milano si chiude - almeno per ora - con una decisione del Consiglio superiore della Magistratura che segna la vittoria piena di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo, esponente storico di Magistratura democratica, e con la sconfitta pesante, e per alcuni aspetti drammatica, del suo principale oppositore. Alfredo Robledo, procuratore aggiunto, che nel marzo scorso sollevò con il suo esposto il tema delle inchieste pilotate da Bruti secondo criteri politici, da oggi non è più in servizio a Milano. La sezione disciplinare del Csm ha disposto con effetto immediato la sua rimozione dall'incarico per incompatibilità ambientale. E ancora più pesante è la decisione del Csm di impedire a Robledo di continuare a fare il pubblico ministero: il Csm ha accolto la richiesta - che pure era stata avanzata dalla procura generale della Cassazione - di spedirlo a fare il giudice. Andrà a Torino. Per Robledo è un esito catastrofico dello scontro che aveva scelto di aprire, e che aveva spaccato in due la magistratura non solo milanese. A lungo, nei mesi scorsi, era sembrato che il Csm fosse orientato a chiudere tutto con un pareggio, lasciando in qualche modo sia Bruti che Robledo al loro posto, o spostandoli entrambi (come aveva proposto Paola Balducci, consigliere in quota Sel). Invece in extremis su Robledo è piovuta una tegola che ha spostato l'asse: le intercettazioni delle sue telefonate con Domenico Aiello, avvocato della Lega Nord, in cui - nel pieno dell'inchiesta sui fondi del Carroccio - Robledo sembrava passare notizie e suggerimenti al legale di fiducia del partito di Bossi. Ma sono anche gli equilibri interni al Csm a essere cambiati nella fase finale della vicenda, spostando gli orientamenti di alcuni consiglieri e facendo prevalere il «partito» di chi premeva per salvare Bruti. Il procuratore rimarrà al suo posto, fino al prossimo dicembre quando andrà in pensione senza l'onta di vedere il suo curriculum macchiato da un provvedimento disciplinare. Robledo invece deve fare le valigie, in attesa che il Csm prenda una decisione definitiva. Ma l'esito della vicenda appare a questo punto quasi scontato. Le telefonate con Aiello sono state insomma l'inciampo cruciale per Robledo, che ha mandato all'aria una operazione in cui - insieme a rivalità e ambizioni personali - pesavano argomenti di grande rilievo generale: ovvero il potere dei procuratori della Repubblica, la loro possibilità di gestire il loro ruolo in autonomia, affidando singole inchieste e interi settori di indagine solo a magistrati considerati affidabili. Bruti in questi mesi ha rivendicato con forza il proprio diritto di gestire l'ufficio in modo assolutamente gerarchico, ed è arrivato ad autoassegnarsi la guida di tutte le indagini su Expo e dell'intero pool anticorruzione. Ma nel corso dello scontro le tesi di Robledo hanno trovato più di un appoggio. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano - la «filiale» locale del Csm - aveva avuto modo di criticare la gestione Bruti. Il procuratore è stato accusato di avere assegnato tutte le inchieste più delicate - da Expo a Ruby alla Sea - scavalcando le competenze dei vari dipartimenti, in modo da garantirsi il pieno controllo delle indagini. Il sistema era noto da tempo, e l'esposto di Robledo aveva avuto l'effetto di scoperchiarlo. Ma ora, con la sconfitta di Robledo, il coperchio torna al suo posto. Su Bruti rimane un'ombra di cui potrà difficilmente liberarsi: l'avere dimenticato in una cassaforte un fascicolo di indagine quello sulla privatizzazione della Sea, che poteva in astratto lambire la giunta rossa di Milano. Bruti ha ammesso questa dimenticanza e per questo è lui stesso sotto procedimento disciplinare. Ma è possibile a questo punto che il procedimento verrà tirato così in lungo da arrivare alla fine dell'anno, quando il procuratore lascerà l'incarico per raggiunti limiti di età.
Il giornalista di “Libero” attacca su tutta la linea il pm del processo sulla Trattativa: “Chissà se tra i meriti del curriculum ha messo anche i due libri scritti evidentemente nei ritagli di tempo, le interviste su temi politici e la partecipazione a convegni organizzati dai Cinque Stelle”..., scrive Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 21 maggio 2015. Già fa abbastanza ridere che un magistrato ricorra al Tar (del Lazio) per ribellarsi al Csm: perché rende l’idea di come la giurisdizione italiana sia ormai impazzita da tempo. Se però il ricorrente è il pm Nino Di Matteo, beh, allora capisci che è tutto normale, anzi, è normalmente anormale. Il ricorso del pm palermitano, rilanciato ieri da amici giornalisti, in pratica dice: ma come, non mi avete preso in considerazione per uno dei tre posti alla Superprocura antimafia? Ma non avete visto che curriculum ho? Ecco, il punto è che forse il Csm l’ha visto: e, messa nero su bianco, la verità forse è spiccata meglio. Il suo curriculum antimafia, in concreto e lontano dai doping mediatici, è semplicemente quello che è. Ora non ci sogniamo nemmeno di riassumerlo. Tantomeno ritorneremo sul vergognoso processo per la strage di via D’Amelio, completamente sbagliato sin dal principio - con innocenti erroneamente condannati - anche perché un certo pm, Antonino Di Matteo, fece la sua parte nel non capire che il teste chiave era un millantatore. Colpisce, semmai, come i giornali e gli avvocati di Di Matteo abbiano cercato d’infilare tra le voci di accreditamento anche la postura auto-martirizzante del magistrato. «Non sono valsi a nulla i tanti rischi personali corsi», riportava ieri La Stampa. I legali di Di Matteo, poi, hanno scritto di «una minimizzazione» da parte del Csm «degli anni di sacrifici, rischi e impegno in cui si è articolata la carriera del ricorrente», sintetizzati insomma nelle consuete «minacce rivolte dalla mafia». Tutta roba che si presta, invero, a valutazioni molto soggettive e purtroppo non a punteggi: noi, per esempio, alle minacce mafiose contro Di Matteo abbiamo già scritto di non credere, soprattutto se riferite ai bofonchiamenti senili del Totò Riina galeotto. Noi pensiamo che le presunte minacce a Di Matteo siano tutta una montatura, al pari di quelle rivelate ogni venti minuti dal pentito di turno, e mai dimostrate. E se è vero che anche le nostre opinioni ovviamente non fanno punteggio, figurarsi se possono farlo le 91mila firme raccolte dalle varie associazioni antimafia a sostegno del magistrato. A parte questo, a noi, sorgono altri interrogativi.
1) Quasi tutti i giornali hanno scritto come se - per i tre posti vacanti alla Superprocura antimafia - fossero stati prescelti tre candidati e Di Matteo fosse arrivato quarto, quasi un trattamento ad personam: perché non rilevare che i candidati erano ben 46 e che Di Matteo è banalmente arrivato undicesimo?
2) Tra i bocciati c’è anche il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, non proprio il primo che passa: Di Matteo pensa di meritare più di lui? E pensa, dunque, di meritare più dei 41 altri magistrati candidati? La domanda è lecita, visto che è l’unico ad aver fatto ricorso, ci risulta.
3) Nel ricorso peraltro si fa un chiaro riferimento a minacce di morte subite anche da parte del latitante Matteo Messina Denaro. È troppo ricordare che Di Matteo, direttamente, non ha Messina Denaro tra gli oggetti delle sue indagini? E che a rischiare la pelle, semmai, è il pm palermitano Teresa Principato, che su Messina Denaro indaga effettivamente anche se non è amica del gruppetto della «trattativa»?
4) Siccome non abbiamo letto il ricorso integralmente - quello l’ha letto solo il Fatto Quotidiano - ci resta la curiosità professionale di sapere se i legali di Di Matteo abbiano accluso, tra i meriti di curriculum, anche i due recenti libri scritti evidentemente nei ritagli di tempo, e poi le interviste rilasciate su temi politici, e ancora la partecipazione a convegni organizzate dai Cinque Stelle. Per curiosità. Questo piacerebbe sapere: in attesa che, sul miliardesimo caso Di Matteo, si pronunci l’organo di autogoverno della magistratura che attualmente risulta più alto in rango, o così pare: il Tar del Lazio.
Toghe e veleni: la guerra Luberto-Facciolla, scrive "Iacchite" il 12 dicembre 2015. Il magistrato Vincenzo Luberto ne ha fatto di strada negli ultimi tredici anni. Nel 2002 era ancora sostituto procuratore a Cosenza ma proprio in quell’anno, grazie a un’inchiesta sull’usura ma soprattutto alle sue “entrature” nella Dda, è riuscito a farsi applicare alla distrettuale antimafia e a cominciare una scalata irresistibile. Oggi, come tutti sappiamo, Luberto è procuratore aggiunto a Catanzaro. Ma in questi dieci anni ha avuto responsabilità importanti nelle maggiori inchieste della DDA, specie in quelle riguardanti la provincia di Cosenza. Ma non solo, avendo diretto anche altre importanti attività come l’operazione contro il narcotraffico internazionale sfociata nel celeberrimo blitz del 2010. Ma, per compiere la scalata, anche Luberto ha pestato qualche piede. E il suo rapporto con il magistrato Eugenio Facciolla ci fa capire quanto siano pesanti i veleni nella magistratura. Eccoci giunti, dunque, al racconto della guerra, senza esclusioni di colpi (a carico di Facciolla) della guerra tra Luberto e Facciolla. “All’esito di un controllo operato dal procuratore aggiunto Mario Spagnuolo in merito ai contrasti insorti tra Eugenio Facciolla e Vincenzo Luberto – scrive il magistrato ispettore Otello Lupacchini -, il procuratore Mariano Lombardi ritenne di segnalare al procuratore generale come fosse mancata qualsiasi collaborazione tra i due magistrati e come perfino le imputazioni, almeno in parte, fossero il risultato di una preclusione negativa che aveva orientato il lavoro investigativo. Tutto ciò sarebbe stato, sempre secondo il dottor Lombardi, sintomatico di una “evidente elusione dei provvedimenti di coassegnazione” e di “una altrettanto evidente mancanza di capacità di lavorare in gruppo, criterio guida della costituzione della struttura antimafia”. All’epoca, Vincenzo Luberto era sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Cosenza. Nel corso di un’indagine riguardante vari episodi di usura commessi a Cosenza, rileva la configurabilità dell’aggravante mafiosa e trasmette gli atti alla DDA, dichiarandosi disponibile ad essere applicato alla DDA stessa per proseguire l’indagine in questione. “Con nota 22 maggio 2002, Eugenio Facciolla segnala al procuratore di aver appreso occasionalmente dal dottor Luberto che le indagini originarie nei confronti della famiglia Pranno riguardanti episodi di usura commessi a Cosenza sono state estese a Luigi Muto e poi all’intero clan Muto, con relative nuove iscrizioni, all’insaputa e senza alcun coordinamento con lo stesso Facciolla, tabellarmente competente per i reati della DDA commessi nei circondari di Cosenza e Paola e assegnatario del procedimento “Godfather” riguardante un’associazione mafiosa e altri reati riconducibili alla cosca Muto di Cetraro. La circostanza è emersa in quanto il dottor Luberto ha disposto l’intercettazione di un’utenza in uso a Luigi Muto, da tempo sotto controllo, e la Tim ha segnalato la doppia intercettazione…”. Facciolla evidenzia l’irregolarità di detta situazione, in quanto Luberto è stato applicato alla DDA per indagare su fatti specifici di usura dei quali si era già occupato come sostituto ordinario a Cosenza e non avrebbe potuto, quindi, estendere le indagini ad altre vicende delittuose riguardanti altri soggetti. Inoltre, Facciolla, in quanto delegato alle indagini relative ai reati commessi nei circondari di Cosenza e di Paola, si lamenta di non essere stato informato dell’ampliamento delle indagini condotte dal collega Luberto, denuncia la mancanza di coordinamento e rappresenta il pericolo di una duplicazione di indagini, giacché il procedimento riguarda proprio il clan Muto e in particolare Luigi Muto e di tale indagine è stata informata persino la commissione parlamentare antimafia. “Luberto, dunque – sottolinea il magistrato ispettore Otello Lupacchini -, ha effettivamente esteso le sue indagini a fatti ulteriori rispetto a quelli per i quali procedeva in origine presso la procura di Cosenza e per i quali, una volta ravvisata l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, era stato eccezionalmente applicato alla DDA. Del resto, lo stesso Luberto, in occasione dell’audizione del 28 febbraio 2005, ha dichiarato che, dopo aver trasmesso gli atti alla competente DDA di Catanzaro, era stato informato dal capo della squadra mobile di Cosenza Stefano Dodaro, di una denuncia sporta da una persona dichiaratasi dichiaratasi vittima di usura da parte di Roberto Castiglia, marito di Flora Pranno. Il denunciante era stato poi sentito dalla polizia e aveva affermato di essere vittima di usura anche da parte di Luigi Muto. Il magistrato ispettore Otello Lupacchini osserva che “non si comprende in che modo e con quale potere Luberto, in relazione a tali nuovi fatti di usura, per giunta a carico di un soggetto estraneo al procedimento del quale ormai si era spogliato e per il quale sarebbe stato successivamente applicato alla DDA, abbia potuto estendere le indagini di tale procedimento”. Un capitolo a parte per il poliziotto cosentino Stefano Dodaro. “Neppure si comprende il motivo per cui Dodaro abbia informato della nuova denuncia Luberto personalmente anziché trasmetterla alla DDA o, se si trattava di usura semplice, alla procura di Paola o alla procura di Cosenza, impersonalmente se il reato era stato commesso a Cosenza, trattandosi di nuova notizia di reato rispetto ai fatti oggetto del procedimento di cui Luberto si era già “spogliato” trasmettendolo alla competente DDA”. In ogni caso, la segnalazione di Facciolla non risulta aver avuto altro esito se non una generica nota di Lombardi che sottolinea l’utilità dell’applicazione alla DDA dei sostituti ordinari con lo scopo di accelerare i tempi delle indagini, invitando i magistrati a trasmettere al coordinatore della DDA il progetto statistico dei procedimenti in carico, sollecitando coloro che operano nel medesimo contesto investigativo a concordare preventivamente ogni atto. Luberto riscontra la richiesta e si impegna a trasmettere tutte le deleghe di indagine relative al procedimento interessato. Ma non si capisce se poi lo fa oppure no. Successivamente Luberto e Facciolla si accuseranno a vicenda di aver subito indagini sul “proprio territorio”. Anche se hanno una serie di inchiesta “coassegnate”. E però, i contrasti, invece di diminuire, aumentano e si incrociano ancora in diverse altre inchieste fino ad entrare nuovamente in grave conflitto. “Gli scriventi ispettori – si legge ancora nel dossier – non possono che condividere quanto più volte denunciato da Facciolla in merito all’irrituale ampliamento delle indagini da parte di Luberto e al difetto di coordinamento ascrivibile a chi a ciò era preposto. Ma, anche prescindendo dalla legittimità o meno dell’operato di Luberto, l’aver questi esteso le proprie indagini dalla cosca Pranno alla cosca Muto quando già erano in corso da tempo le indagini di Facciolla su tale seconda consorteria criminale, avrebbe dovuto indurre il capo dell’ufficio e il coordinatore della DDA ad accertare concretamente l’oggetto delle indagini. Nonché a verificare quanto più volte segnalato da Facciolla, assumendo immediatamente iniziative al fine di impedire possibili sovrapposizioni di indagini e contrastanti esiti delle stesse che, previste e ripetutamente segnalate da Facciolla, non potevano certamente essere evitate dalla coassegnazione dei procedimenti…”. E definiscono “poco cristallina” la condotta di Luberto. Ma non è finita qui.
Toghe in guerra: procure virtuose e quelle litigiose. Qual è il ruolo dei cittadini davanti alle azioni della magistratura? Scrive Sergio Paleologo il 4 Aprile 2013 su “L’Inkiesta”. È sempre più difficile essere cittadini italiani. Non solo per la crisi e la mancanza di liquidità che attanagliano la penisola. Ma anche perché i legittimi poteri dello Stato sono arrivati a dare messaggi talmente discordi che, sulle menti meno lucide, rischiano di riflettersi come contraddittori. Quando si parla di società civile si tende a omettere il fatto che politica e magistratura non dovrebbero assolutamente esserne estranee. A entrambe come a qualunque cittadino dovrebbe essere chiesto non solo il rispetto del senso dello Stato, ma in primis, di avere senso dello Stato. Non siamo qui ad affrontare la questione “politica”. Ma l’altro potere. Ecco che negli ultimi anni la magistratura nel suo complesso non si è sottratta dal produrre messaggi discordanti. Insegnamenti che non aiutano la formazione psichica del cittadino. È vero che pubblici ministeri e giudici devono solo valutare reati e perseguire i cattivi, ma non dispiacerebbe se essi – pm e giudici nel loro complesso – contribuissero maggiormente a innalzare il senso civico degli italiani. Anche al fine di prevenire i reati stessi. Vorremmo prendere due esempi. Opposti. Uno positivo e uno negativo. Ma che ugualmente rischiano di deresponsabilizzare il cittadino. Uno avviene a Milano nel 2012 e l’altro tra Catanzaro, Salerno e Potenza, la cosiddetta “guerra tra procure”. L’anno scorso il giudice di Milano Oscar Magi condanna a una pena pecuniaria quattro banche – Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank – per la presunta truffa da 100 milioni sui derivati stipulati dal comune di Milano nel 2005. Per il procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, la sentenza «è storica» e «riconosce il dovere di trasparenza da parte delle banche». Sull’importanza della sentenza e sulle capacità di Robledo nulla da dire. Per fortuna un magistrato è riuscito nell’intento di perseguire reati così subdoli e delicati. Dal punto di vista sociale, la sentenza è però basata sul concetto di bianco e nero. Da un lato le banche opache e dall’altro i “tecnici” dei Comuni che sono cascati nei tranelli. Le coscienze dei cittadini, condannando gli istituti, assolvono i funzionari. Che, invece, per il fatto stesso di non aver evitato il danno, hanno dimostrato lacune. In un Paese evoluto, molto più dell’Italia, non si sarebbe dovuti arrivare al bubbone. I funzionari avrebbero dovuto subire un processo dal punto di vista politico per il fatto di aver approcciato strumenti così complessi senza esserne in grado. I cittadini avrebbero dovuto chiedere conto di eventuali danni erariali o di probabili rischi in quella direzione, prima che intervenisse la magistratura. Così si contribuisce a formare la classe dirigente. Una sentenza ex-post (non fraintendiamoci, per fortuna che c’è stata) non educa il cittadino ad avere responsabilità oggettiva sui propri funzionari pubblici. In questo caso la procura di Milano è dovuta intervenire per tappare un buco, come la mamma che è costretta a far pulizia nella stanza dei bambini. Infatti, nessuno prima aveva fatto luce sulla situazione. Nel secondo esempio invece lo scontro tra tre procure complesso e distorto dalla stampa ha invece prodotto direttamente un effetto devastante sull’immagine delle toghe. Dalle quali ci si aspetta azioni e mai re-azioni. Tutto inizia nel 2005. Luigi De Magistris, all’epoca pm a Catanzaro, si occupa di reati contro l’amministrazione pubblica. In quell’anno avvia un’inchiesta detta «Poseidone». Si scava su finanziamenti destinati allo sviluppo del territorio. L’ipotesi accusatoria è che quei soldi finiscono invece a società vicine a politici locali. Tra questi un ex magistrato. Nello stesso periodo De Magistris parte con un’altra indagine. La famosa «Why Not». Qui si tocca Comunione e Liberazione e col tempo si arriva fino a Clemente Mastella. All’epoca Ministro della Giustizia. E persino Prodi (presto archiviato). Le accuse sarebbe legate a presunti favori, posti di lavoro. Insomma, un connubio dal quale, stando all’impianto accusatorio, non si sottrarrebbero nemmeno alcuni esponenti della magistratura. Sempre in quel periodo De Magistris si occupa di una terza indagine delicata denominata «Toghe lucane» e cioè un’indagine su abusi d’ufficio ed altre fattispecie commesse da magistrati che operavano nel distretto della Corte di appello di Potenza. Anche in questo caso ipotetici legami tra toghe, politica e non solo. Il giudice naturale è quello del luogo in cui avviene il reato. Questa regola, per evidenti ragioni di opportunità, non vale per i magistrati, per i quali, fino al 1998, valeva il principio per cui era competente la Procura del distretto della Corte di Appello più vicina. Dopo il legislatore crea un meccanismo rotatorio. Nello specifico, la Procura di Catanzaro è competente a indagare i magistrati del distretto della Corte d’appello di Potenza. Per i magistrati del distretto di Catanzaro è competente la Procura di Salerno. Per quelli di Salerno, è competente la Procura di Napoli. Dunque, De Magistris, legittimamente, si occupa di presunti reati commessi dai magistrati lucani. La premessa sul meccanismo è però d’obbligo visto lo scontro aspro che seguirà qualche anno dopo, scontro che costringerà Giorgio Napolitano, in veste di capo del Csm, a intervenire direttamente. Quando nell’inchiesta «Poseidone» comincia a emergere il coinvolgimento a carico di un senatore locale, De Magistris decide di iscriverlo nel registro delle notizie di reato in forma inusuale, in quanto, per timore che ne vengano a conoscenza il Procuratore e l’aggiunto, co-assegnatari del procedimento, non inserisce l’iscrizione nel registro informatico dell’Ufficio. Evidentemente il magistrato ora sindaco di Napoli non si fida. Ma quando il procuratore viene a conoscenza dell’anomala procedura toglie la delega a De Magistris. Quest’ultimo, informato dell’atto, ritenendolo illegittimo e penalmente rilevante, prende il fascicolo e lo trasmette alla Procura di Salerno, ufficio competente a indagare sui magistrati di Catanzaro. Il Procuratore reagisce, segnalando la vicenda agli organi competenti per l’azione disciplinare, tra cui il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, anch’esso coinvolto nell’inchiesta (ne uscirà a testa alta). Scoppiata la bolla, si aggiungono subito i magistrati lucani. Anch’essi si rivolgono a Salerno. Ma per motivi opposti. Si sentono vittime di un complotto mediatico a loro danno e presentano diverse denunce per diffamazione contro De Magistris. Gli ispettori del ministro Mastella chiudono la loro indagine e ravvisano una serie di illeciti nel confronto del pm “arancione”. Nel settembre del 2007 suggeriscono il trasferimento (cosa che avviene nell’estate del 2008). Contemporaneamente De Magistris indaga Mastella. Il procuratore capo di Catanzaro avoca il fascicolo e poco dopo, nel gennaio del 2008, il senatore Udeur esce dal governo. Prima dà un appoggio esterno e poi fa crollare Prodi. Le tre inchieste giudiziarie di De Magistris si fermano per un anno. Ma Salerno va avanti con le proprie inchieste. Archivia le accuse provenienti da Potenza contro De Magistris e chiede più volte gli atti dell’inchiesta «Why Not» ai cugini di Catanzaro. Botta e risposta su tecnicismo vari, finché Salerno si decide per un decreto di sequestro. Prima volta nella storia. Il 3 dicembre 2008 vengono perquisite anche le case dei pm di Catanzaro, uno sostiene di essere stato denudato. Scatta la solidarietà della politica e la reazione indignata di molti magistrati. Salerno opera nel solco della procedura, ma calpesta la diplomazia e commette una svista enorme. Nel decreto inserisce tutte le 1.500 pagine che aveva ricevuto da De Magistris. Con tanto di intercettazioni e registrazioni ambientali. L’indomani Catanzaro indaga ben sette magistrati di Salerno per abuso d’ufficio e interruzione di pubblico ufficio. Da Catanzaro dichiarano: «Subito atto eversivo». Scoppia l’inferno. Intervengono l’Anm, il Csm e, come scritto prima, pure Napolitano. Il 9 dicembre con la mediazione/imposizione del Csm le due procure fanno pace. A ciascuno le rispettive competenze. Ma la frittata è ormai caduta per terra ed è difficile rimediare. Che cosa rimane? De Magistris è sindaco di Napoli dopo essere stato eurodeputato. Le inchieste «Poseidone» e «Toghe Lucane» sono state archiviate. «Why Not» è proseguita ma decisamente ridimensionata. Dunque, quella che è stata definita guerra tra toghe è in realtà uno scontro tra interpretazioni, ma l’effetto non cambia. Non ha aiutato nessuno a fare luce sui fatti. La domanda originaria era: c’è malaffare in Calabria e in Basilicata? E ci sono magistrati che hanno chiuso un occhio? Sì o no. Tertium non datur. E invece il cittadino è più confuso di prima. E per via di queste vicende gli sarà più difficile essere cittadino.
La "guerra tra toghe" è una cosa sporca..., scrive Mario Salvo Pennisi giovedì 3 novembre 2011 su "Agora Vox". Prendendo spunto dalle ultime rivelazioni dei giornali, secondo cui il magistrato sostituto procuratore Henry John Woodcock sarebbe stato vittima della cosiddetta “macchina del fango”, nel periodo in cui esercitava la sua professione presso la Procura di Potenza, dove indagava su importantissime inchieste come quella relativa a “Vallettopoli” e tante altre. Una “macchina del fango” messa in piedi, stando alle fonti del quotidiano La Repubblica, dal sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi. Vorrei parlare di una questione di estrema attualità, in questo periodo, come la “guerra tra toghe” o “guerra tra procure”, una terminologia che si sta usando spesso in questi giorni caratterizzati da molteplici inchieste giudiziarie, di cui ci riferiscono i mass media. Innanzitutto chiediamoci che cosa voglia dire la parola “guerra”. Secondo me, “guerra” significa che due singole persone o, addirittura, molte di più, quindi suddivise in due gruppi contrapposti, tanto per fare un esempio, non si sopportano, non hanno stima reciproca a tal punto di entrare in conflitto su fatti che, nella maggior parte dei casi, vertono su questioni di interesse specifico, come potrebbero essere questioni di denaro, questioni di eredità, questioni di confini territoriali (come la guerra israelo–palestinese o tante altre), questioni professionali e, addirittura, anche questioni sentimentali come, ad esempio, una “guerra per accaparrarsi una donna”. Ecco, questi sono solo alcuni degli esempi, tanto per rendere un’idea del termine “guerra”. Ma che cosa significa, invece, “guerra tra procure”? Oppure “guerra tra toghe”? Qui la cosa è diversa, qui diventa un fatto grave, di una gravità tale che a subirne le brutte conseguenze, alla fine, potrebbe essere proprio la gente comune, intesa come opinione pubblica. Il problema, infatti, in questo caso, non riguarda una semplice persona, oppure un determinato gruppo di persone, in conflitto con un’altra parte. Che ne so, una guerra tra fazioni di criminali, ad esempio. No, in questo caso sarebbe una guerra tra un “garante della giustizia” e un altro “garante della giustizia”, cioè tra un magistrato e un altro magistrato, oppure tra due gruppi, questo non importa, fate voi, è solo per farvelo capire. Quando un garante della giustizia entra in guerra con un altro suo simile appartenente alla stessa categoria, chi ne subisce le conseguenze, qualunque reato abbia commesso di fronte alla legge, è sempre l’imputato. E l’imputato, a prescindere dalla propria estrazione sociale e culturale, rappresenta l’opinione pubblica. Sempre, in tutti i casi. Il caso di un imputato colpevole di un determinato reato, che venga passato come un “pallone da calcio” da una Procura all’altra, per una semplice guerra, quindi per questioni di rivalità professionale, ma dove c’è di mezzo la giustizia, potrebbe compromettere gravemente l’esito del procedimento processuale. Chi ci dice, infatti, che la Procura alla quale è stato tolto il caso, non avrebbe espresso giudizi diversi sulle indagini? E se l’imputato venisse condannato definitivamente e, invece, fosse totalmente innocente, cioè estraneo al reato per il quale viene accusato? Ecco perché la “guerra tra toghe” è quanto di più sporco possa accadere nel panorama giudiziario italiano. La guerra tra toghe compromette seriamente l’opinione pubblica, perché rende l’imputato, a prescindere dal reato commesso, protagonista diretto di un giudizio che potrebbe anche essere sbagliato, nell’espressione del verdetto finale. E quindi, l’opinione pubblica sarebbe seriamente compromessa.
ORGOGLIO E PRIVILEGIO DI CASTA. Le toghe si fanno la guerra (per la pensione). Il Consiglio di Stato «salva» i magistrati 70enni dal ritiro. Il Csm fa ricorso. Il Consiglio di Stato «salva» i magistrati 70enni che non volevano andare in pensione e di fatto li mantiene in servizio. Ma il Consiglio superiore della magistratura e il ministero della Giustizia rispondono al fuoco: quel ricorso è illegittimo, gli over 70 mollino la toga. Stop alle toghe in pensione: faida Csm-Consiglio di Stato. Accolte le ragioni dei giudici contro l'uscita a 70 anni. L'ira del Consiglio superiore della magistratura: ricorso infondato. Il guardasigilli Orlando: il governo si oppone, scrive Gianpaolo Iacobini, Giovedì 10/12/2015, su "Il Giornale". La vecchiaia divide i magistrati: il Csm contro il Consiglio di Stato e la bocciatura del pensionamento a 70 anni. Anche il governo attacca a testa bassa: «Assurdo». La prospettiva di appendere la toga al chiodo con un po' d'anticipo rispetto ai tre quarti di secolo, per far largo ai giovani e godersi un profumato vitalizio che il resto degli italiani può solo sognare, fa litigare i giudici e spezza la cinghia di trasmissione col Pd di governo, mandando all'aria l'unità costruita in vent'anni e passa di caccia al leader del centrodestra. Al centro della contesa quella che, nel giugno del 2014, il premier e il ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia avevano definito «una rivoluzione»: i due s'erano messi in testa di creare 15.000 nuovi posti di lavoro e, al tempo stesso, di svecchiare la Pa. E con decreto (poi convertito in legge) avevano stabilito tra l'altro - l'abbassamento a 70 anni del limite di permanenza in servizio di professori universitari e magistrati, per i quali la soglia era in precedenza fissata al compimento del settantacinquesimo compleanno. Per non creare vuoti ai vertici degli uffici giudiziari, il governo aveva differito al 31 dicembre 2015 l'efficacia della misura, prima di prorogare ulteriormente il termine alla fine del 2016, sotto la pressione delle toghe. Una concessione che, evidentemente, non è bastata: Mario Cicala (ex presidente dell'Anm), Antonio Merone e Antonino Di Biasi, in forza alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, hanno presentato ricorso al Presidente della Repubblica. A loro si sono aggiunti Carminantonio Esposito, presidente del tribunale di Sorveglianza di Napoli, e Giuseppe Vignola, procuratore generale di Lecce. Come da procedura, Sergio Mattarella ha girato l'incartamento al Consiglio di Stato, per il relativo parere. E la Seconda sezione presieduta da Sergio Santoro ha sospeso in via cautelare il provvedimento di collocamento a riposo anticipato, in attesa che il ministro della giustizia ed il Csm forniscano la documentazione utile a valutarne «l'incidenza sulla funzionalità dell'ufficio ricoperto, tenendo conto sia del tempo necessario per la nuova copertura dell'incarico, sia del prevedibile disagio organizzativo e funzionale» che potrebbe derivare «dall'esecuzione del provvedimento» in attesa del giudizio di merito. L'ordinanza della Seconda sezione, pur circoscritta negli effetti ai soli ricorrenti, riguarda nei fatti una platea ben più ampia: sono ben 84 i magistrati per i quali il Csm ha già deliberato la cessazione dalle funzioni per raggiunti limiti d'età. Tra essi il pm milanese Ferdinando Pomarici; Franco Sebastio, capo della Procura di Taranto; il pg di Torino, Marcello Maddalena, e il suo collega Raffaele Guariniello, procuratore aggiunto nella città della Mole. La voragine aperta, insomma, è di quelle potenzialmente senza fondo. «Di certo questo è un bel pasticcio istituzionale», commenta Maddalena, pensando alle gatte che il Csm avrà da pelare di fronte alla montagna di domande di trasferimento presentate da una marea di magistrati con preferenza per le sedi indicate come vacanti ed ora di colpo da restituire ai pensionandi non più pensionati. Non a caso, da Palazzo de' Marescialli arrivano segnali di guerra: mentre il vicepresidente Giovanni Legnini punta il dito contro il Consiglio di Stato parlando di «provvedimento abnorme», ieri il plenum (con la sola astensione del presidente della Suprema Corte, Giorgio Santacroce) ha invitato il ministro della Giustizia ad opporsi, dando mandato all'Avvocatura dello Stato di chiedere che i 5 ricorsi siano decisi dal Tar del Lazio, senza rinunciare a valutare l'opportunità di un'impugnazione davanti alle Sezioni unite civili della Cassazione. A stretto giro di agenzia da via Arenula è giunto il sostegno del guardasigilli Andrea Orlando: «Ricorreremo in tutte le sedi consentite: la prima azione sarà una richiesta di riesame al Consiglio di Stato». Non alle intercettazioni, neppure alla separazione delle carriere: per riformare la magistratura serviva mettere mano alle pensioni. Funziona così, in Italia.
Toghe in guerra per il nuovo Anm: c'è Davigo in pole. Sabelli traballa. Tra i sostituti l'ex Mani Pulite Davigo (Ai). E pure Cilenti di Mi. Ma tiene banco il referendum di fine gennaio. I temi? Carichi di lavoro e scioperi, scrive Alessandro Da Rold il 29 Gennaio 2016 su "Lettera 43”. Giornate intense tra le varie correnti dei giudici italiani, da Magistratura indipendente a Unicost. Non ci sono solo in palio le nomine di capi, vice capi o procuratori della Repubblica nelle procure di mezza Italia, tra cui quella più ambita del Palazzaccio di Milano per sostituire Edmondo Bruti Liberati. A marzo 2016 sono in programma le elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale dell’Anm (Associazione nazionale magistrati), il piccolo parlamentino - sono in 36 - che deve poi sostituire i nuovi vertici del cosiddetto sindacato delle toghe, ora occupati dal presidente Rodolfo Sabelli e dal segretario Maurizio Carbone. Il gioco è complesso, perché il presidente eletto dai nuovi componenti sarà il prodotto di accordi politici sottobanco tra le varie correnti. Del resto il numero uno dell'Anm è un ruolo di notevole importanza, sia per i delicati rapporti tra politica e magistratura, sia per i funzionamenti interni al criptico mondo dei togati. Non a caso a puntare alla presidenza sono in tanti. Tra i papabili c'è anche un nome di peso come quello di Piercamillo Davigo, ex magistrato di Mani pulite, ora consigliere in Corte di Cassazione, ex esponete di Magistratura indipendente, da un anno fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Il 'dottor Sottile' ci prova, ma la poltrona di Sabelli è ambita anche da Francesco Minisci di Unicost, Eugenio Albamonte di Area, esperto di cyber crime, ed Edoardo Cilenti di Magistratura indipendente. Molto è influenzato da quali saranno gli accordi, in particolare se Ai si riavvicinerà a Mi, o se Unicost e Area si separeranno. Oppure ancora se si riapplicherà lo schema che in queste settimane va in scena al Csm, il Consiglio superiore della magistrature: una maggioranza inedita che nasce dalla triangolazione di Area più Magistratura indipendente che schiaccia Unicost. Il referendum di gennaio è una vittoria di Magistratura indipendente. Di sicuro a pesare sul voto di marzo sarà il referendum di fine gennaio, che ha fatto traballare la poltrona di Sabelli. Dal 17 al 19 gennaio infatti la metà dei togati italiani - circa 4 su 8 mila - ha aderito a una consultazione interna indetto dall’Anm per esprimere il proprio voto su temi scottanti, come «l’entrata in vigore della legge sulla responsabilità civile dei magistrati» e «l’introduzione di norme che prevedano la sospensione dei termini per il deposito dei provvedimenti giudiziari durante il periodo feriale». La così larga partecipazione al voto si legge come una sorta di regolamento di conti interno all’associazione in vista del rinnovo del suo ‘parlamentino’. Da un lato, infatti, esultano i moderati di Magistratura indipendente, dall’altra masticano amaro i tiepidi di Unicost e addirittura i contrari alla consultazione, come gli esponenti di Area. E qui vanno evidenziate un paio di questioni. Il referendum era stato fortemente richiesto dal principale gruppo di opposizione interna all’Anm, Magistratura indipendente, contro i vertici del sindacato unico delle toghe, guidato appunto da Sabelli (Unicost), e contro l’alleanza tra le correnti appunto di Unità per la costituzione e la stessa Area. I temi caldi: carichi esigibili e sciopero bianco di sette giorni. Fondamentale è il contenuto di due dei quattro quesiti: uno finalizzato a ottenere che il Consiglio superiore della magistratura fissi una misura massima di lavoro (i cosiddetti «carichi esigibili») che può essere chiesta al magistrato, indicandola in cifra secca. L’altro sulla proposta di uno sciopero bianco di almeno sette giorni, con la sospensione dell'attività di supplenza di cui si fanno carico i magistrati in mancanza del personale amministrativo nei settori civili e penali, a sostegno della richiesta di coprire con urgenza i vuoti negli organici del personale degli uffici giudiziari e della magistratura. È stata chiara, in fin dei conti, la volontà della base togata di porre al centro della politica associativa temi finora trascurati. «Anzitutto la questione dei carichi esigibili, cavallo di battaglia da sempre di Magistratura indipendente, diventa ormai una priorità della politica associativa e non solo di alcuni gruppi», osserva il giudice romano Corrado Cartoni, vice segretario nazionale di Magistratura indipendente, che parla di una consultazione referendaria «subita dall'attuale giunta esecutiva, al punto da non aver organizzato nemmeno una occasione di confronto sui temi referendari con la partecipazione di sostenitori delle contrapposte tesi. La così consistente affluenza alle urne è la prova più evidente di quanto i magistrati italiani disconoscano l’attuale politica dell’Anm, del tutto fallimentare. Ai magistrati non interessano le polemiche con i ministri, ma poter lavorare con dignità e decoro».
Malagiustizia, se le toghe si fanno la guerra tra loro. Il caso di Romei Pasetti e Grechi, la guerra nella Guardia di Finanza, la vicenda De Magistris, scrivono Alessandro Da Rold s Luca Rinaldi su “L’Inkiesta” il 2 Ottobre 2014. «Arriveranno ad arrestarsi tra di loro», dice spesso Frank Cimini, uno dei decani della cronaca giudiziaria milanese. Dovesse succedere ci sarebbe poco da stupirsi, soprattutto in questi tempi di fuoco incrociato tra magistrati di primo piano all’interno della stessa procura. Del resto, per capire lo stato della giustizia in Italia basta vedere la situazione del Consiglio Superiore della Magistratura, dove nel giorno dell’insediamento è stato bocciato il membro laico Teresa Bene perché privo nel curriculum dei requisiti previsti dalla legge. O si possono seguire i ritardi per nominare i membri della Corte Costituzionale, ancora appesa ai capricci dei partiti. Basterebbero persino le polemiche su Luigi De Magistris, ex magistrato ora sindaco di Napoli, che appena condannato per abuso d’ufficio nell'inchiesta Why Not ha iniziato a sparare contro i suoi ex colleghi e persino contro il presidente della Repubblica (e del Csm) Giorgio Napolitano. Vicende emerse nell'inchiesta su Mose di Venezia, ma anche nell'indagine su Finmeccanica o Expo 2015. È utile seguire il filo rosso che collega diverse inchieste della magistratura di questi anni, per capire come spesso ci sia stata una vera e propria battaglia all’interno della magistratura, con dossier scottanti da girare al politico di turno per screditare colleghi oppure tentativi di spostare pm dalla loro posizione. Vicende emerse nell’inchiesta sul Mose di Venezia, ma anche nell’indagine su Finmeccanica o Expo 2015. Fanno caso scuola l’ex presidente della Corte d'Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della Corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti. Dopo essere stati messi sotto inchiesta per presunte pressioni sul Csm per far sostituire il pm Eugenio Fusco a Busto Arsizio, dove si teneva l’inchiesta Finmeccanica, i due sono ricomparsi in una nuova indagine a Brescia, dove la procura contesta al senatore Gabriele Albertini l’ipotesi di «calunnia aggravata» ai danni del procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo. Sì, proprio Robledo, su cui in questi mesi si è giocata una battaglia senza esclusione di colpi dentro la procura di Milano con il capo Edmondo Bruti Liberati. Per il primo caso la posizione di entrambi i magistrati è stata archiviata. È stata una questione delicata, perché di mezzo c’era pure l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti. Sulla seconda, dove non sono indagate, pesano comunque le intercettazioni, perché a quanto pare Albertini avrebbe richiesto «ai due ex magistrati di aiutarlo a tracciare un percorso per poter intraprendere un’azione penale e/o disciplinare contro Robledo», e le due ex toghe avrebbero visionato «la documentazione inerente l’azione disciplinare». Milano è sempre stato territorio di battaglie tra magistrati. Come non ricordare un altro caso, quello di Alfonso Marra, nel 2010 ancora presidente della Corte d’Appello, rimasto coinvolto nell’inchiesta sulla P3. Dalle intercettazioni di quell’inchiesta, chiusa nel 2011, risultava che Marra si fosse rivolto ad alcuni faccendieri vicino a Marcello Dell’Utri, per entrare nel Csm. L’obiettivo sarebbe stato poi quello di intercedere per il ricorso del presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni dopo l’esclusione della sua lista dalle elezioni regionali. Il mondo della giustizia è piccolo. Perché l’azione disciplinare contro Marra fu avviata da Antonio Esposito, all’epoca procuratore generale della Cassazione. Esposito non è un nome qualunque. Perché è fratello di Antonio, il presidente di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi nell’agosto del 2013. E Antonio a sua volta è padre di Ferdinando, il pm di Milano che fu beccato con l’ex igienista dentale del Cavaliere Nicole Minetti. Finito indagato sempre dalla procura di Brescia per una vicenda poco chiara su un prestito di denaro. Cortocircuiti giudiziari letali che danno il senso della situazione interna nei tribunali, in questi giorni in fermento per le intenzioni del governo di riformare la giustizia, partendo da una riduzione delle ferie per i magistrati. Ma non c'è solo questo. Altri indizi, finiti anche all’attenzione del Csm, portano sulla strada di indagini sovrapposte e inchieste incrociate. Rimane l’episodio del doppio pedinamento della Guardia di Finanza tra gli uomini coordinati dall’antimafia di Ilda Boccassini e di un altro gruppo di investigatori coordinati dal pm Alfredo Robledo. Quest’ultimo, già in guerra con il capo della procura Edmondo Bruti Liberati, è stato accusato dallo stesso Bruti Liberati e da Boccassini di un doppio pedinamento a carico di un imputato all’interno dell’inchiesta Expo. Un episodio poco chiaro (smentito dalla stessa Guardia di Finanza) in cui Robledo non ha esitato a rispondere etichettando come «falsità» le accuse. Bisogna seguire il filo rosso che collega diverse inchieste della magistratura di questi anni per capire come spesso ci sia stata una vera e propria battaglia all’interno della magistratura, tra toghe in guerra tra loro, con dossier scottanti da girare al politico di turno per screditare colleghi oppure tentativi di spostare pm dalla loro posizione. Sempre Guardia di Finanza, sempre indagini su Expo, questa volta il nome è quello di Mario Forchetti, già generale di divisione, comandate della Regione Lombardia e responsabile della sezione economica dell’Aise, il servizio segreto per la sicurezza esterna. Presidente del comitato di controllo sulla trasparenza e sicurezza dei cantieri per l’Esposizione Universale. Dalle indagini dei magistrati impegnati nell’inchiesta sul Mose di Venezia emerge anche una perquisizione a suo carico con tanto di verifica sui conti correnti bancari: in stretti rapporti con Marco Milanese, ex braccio destro di Giulio Tremonti e con il generale Emilio Spaziante, arrestato nella stessa inchiesta sul Mose. Tornando alla procura meneghina in questi mesi dovrà presentarsi in aula, ma dall’altra parte della barricata, un magistrato di lungo corso del Palazzo di Giustizia: è il procuratore Alberto Nobili, che verrà chiamato a testimoniare nel processo a carico dell’Ispettore Carmine Gallo, ex numero due della sezione criminalità organizzata della Squadra Mobile di Milano che per l’antimafia mise a segno colpi di primo piano. Nel 2008 finisce sotto indagine per traffico di droga. L’inchiesta, coordinata dalla procura di Venezia, si sgonfiò nel tempo, con la palla che passa a Milano: da qui parte la richiesta di giudizio immediato e le parole dello stesso Gallo, arrivate nell’udienza di qualche giorno fa riportate dal Fatto Quotidiano: «Nel corso dell’interrogatorio il pm non mi contestò nulla, fui io spontaneamente a riferire quanto a mia conoscenza. Fu in quella circostanza che il comandante del Ros di Padova, esplicitamente, disse di essere a conoscenza che vi era un trio, nella Procura di Milano composto dall’Ispettore Carmine Gallo, dal dottor Alberto Nobili e dall’avvocato Gianluca Maris, che faceva il brutto e il cattivo tempo. Rimasi esterrefatto. Ebbi paura». Insomma, per il comandante del Ros di Padova, in tutta la vicenda che coinvolgeva Carmine Gallo, le decisioni di un pm come Alberto Nobili e le indagini a carico dell’ex trafficante ed estremista di destra Roberto Pedrani e Federico Corniglia (pentito gestito dallo stesso Gallo), c’era un trio che «in procura faceva il brutto e il cattivo tempo». Un trio composto appunto dallo stesso Gallo, Nobili e l’avvocato Gianluca Maris, un trio in grado di pilotare le indagini. Una vicenda intricata, forse destinata a sgonfiarsi, e figlia di una guerra trasversale combattuta dentro magistratura e forze dell’Ordine, oggi più che mai divise in correnti, non solo politiche ma di potere.
La guerra continua delle toghe contro il Paese che detestano, scrive Arturo Diaconale, Domenica 25/01/2015, su "Il Giornale". La guerra continua. Quella che la casta dei magistrati sta portando avanti ormai da più di due decenni con indomabile determinazione ed in nome di un concetto di legalità che nel tempo ha (...)(...) assunto sempre più un significato diverso e divergente dal concetto di giustizia. L'inaugurazione dell'Anno Giudiziario che si è celebrata ieri, ha confermato che il conflitto, non più ventennale ma risalente addirittura agli anni '70 dello scorso secolo, è più virulento che mai. Da Milano a Palermo, da Perugia a Roma sono partite raffiche di bordate che hanno ricordato come le ostilità continueranno a produrre i loro effetti ancora per lungo tempo. Almeno fino a quando il Paese riottoso non si sarà convertito alla concezione della legalità stabilita dalla casta. L'aspetto più inquietante di questo scontro infinito è che agli occhi almeno di una parte della magistratura, comunque di quella che più alza la voce e più pesa, il nemico da battere non è un sistema giudiziario che per ammissione generale non riesce più a produrre giustizia. Il nemico è il Paese stesso. Che agli occhi della casta ha vizi e tare responsabili di produrre emergenze continue da contrastare ed eliminare con misure altrettanto emergenziali. I risultati di questa idea della legalità come strumento salvifico dei difetti antropologici degli italiani e della pratica delle continue legislazioni emergenziali non sono stati brillanti. Anzi, se si esclude la lotta al terrorismo degli anni '70, sono stati decisamente fallimentari. Trent'anni di antimafia condotta all'insegna della sola repressione non sembrano essere riusciti a cancellare il fenomeno mafioso. Che si è esteso dalla Sicilia e dalle altre regioni meridionali al resto del Paese. Come «Mafia Capitale» insegna. E vent'anni di Mani Pulite e di legislazione giustizialista non solo non hanno bloccato il malaffare e la corruzione, ma hanno prodotto una vera e propria epidemia di tangenti, mazzette, criminalità. L'inaugurazione dell'Anno Giudiziario avrebbe dovuto essere l'occasione per l'ammissione di questi fallimenti. Purtroppo non è stato così. La guerra continua. Quella dei magistrati contro la giustizia giusta.
I magistrati s'insultano in rete su ferie e numero di processi. S'infiamma il clima in vista del referendum. I promotori del voto, tra cui l'ex pm Davigo, contro chi vuol disertare le urne: «Craxiani qualunquisti», scrive Luca Fazzo, Martedì 12/01/2016, su "Il Giornale". «Craxiani!». Alla fine, nella girandola di contumelie che agita la magistratura italiana, qualcuno lancia l'anatema. Oggetto del contendere, la dolorosa questione dei carichi di lavoro. Un referendum fissato per il prossimo weekend dovrebbe portare - nelle intenzioni dei sostenitori, tra cui Piercamillo Davigo, il «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite - a fissare un tetto massimo al lavoro che si può pretendere dal singolo magistrato, un numero di processi e di sentenze raggiunto i quali ogni toga sia autorizzata a tirare il fiato. Idea fuori dal mondo e fuori dal tempo, secondo altri magistrati; impraticabile, secondo altri. Così molti - tra cui il procuratore di Torino Armando Spataro - annunciano la loro intenzione di disertare le urne. E contro di loro piomba l'insulto finale dei referendari, che li paragonano al leader socialista che nel 1991 invitò gli italiani («andate al mare») a boicottare il voto sulla legge elettorale: «scelta qualunquista, craxiana e non democratica», tuona su una delle mailing list interne alla magistratura uno dei sostenitori del referendum, il giudice di Torre Annunziata Giovanni Favi.I referendum sono stati lanciati da Altra Proposta, una nuova corrente di magistrati, etichettata come «grillina» avendo mutuato prassi e toni dei 5 Stelle, e hanno raccolto la adesione e l'appoggio di Autonomia e Indipendenza, altra nuova corrente, fondata e presieduta da Davigo. Quattro i quesiti, tutti nel segno della difesa irriducibile della categoria togata: e a fare discutere è il numero 3, che chiede al Csm di «introdurre entro 60 giorni i carichi esigibili, da intendersi come misura, determinata in cifra secca, del lavoro sostenibile dal magistrato». Gergo a parte, la convinzione è che i giudici italiani lavorino già troppo, e che vadano in qualche modo protetti dalle pretese di produttività dei loro capi. «Carichi di lavoro di fatto insostenibili», «notorio superlavoro della stragrande parte dei magistrati dei magistrati italiani», si legge in un comunicato dei davighiani.La proposta del referendum ha lacerato la categoria, dando vita a un dibattito di asprezza senza precedenti, che vede spiazzate le correnti tradizionali, con la sinistra di Area che si spacca tra astensione e voto contrario. C'è chi come Claudio Castelli, esponente storico di Magistratura democratica, definisce garbatamente il «carico massimo esigibile» «una scorciatoia illusoria», e chi come il modenese Marco Imperato lo liquida come «una boiata pazzesca»; e la collega Milena Balsamo gli risponde a brutto muso, «ma con chi credi di parlare?». Nello svolazzare di scortesie c'è chi (con scarso successo) cerca di riportare tutti alla realtà e al buon senso: come il pm romano Mario Ardigò, «non ci salveremo da soli curando solo i nostri interessi», «sulla questione delle ferie non siamo stati colpiti in quanto magistrati ma come beneficiari di una sacca di privilegio sconosciuta agli altri impiegati civili dello stato»; o Francesco Caruso, presidente del tribunale di Reggio Emilia, che scrive testualmente: «Questa magistratura che indice un referendum per chiedere di fissare un limite al lavoro da svolgere e quindi alla giustizia da dare e alla legalità da assicurare, incurante dello sfascio che potrebbe derivarne, è inevitabilmente finita come ordine autonomo e indipendente». Ma in cambio riceve una serie di improperi tali (la Balsamo evoca persino «quella magistratura che va a braccetto con la politica o con i delinquenti») che gli cascano le braccia: «ai fanatici chiedo solo la cortesia di lasciare perdere», scrive Caruso. Insomma, meno male che la discussione avviene per mail e non di persona: altrimenti chissà come andrebbe a finire.
Referendum: ci mancavano le toghe in campo. Magistratura Democratica aderisce al comitato per il NO. «La riforma, in sinergia con l'italicum, è una involuzione della macchina dello Stato», scrive Luca Rinaldi il 13 Gennaio 2016 su “L’Inkiesta”. «Magistratura democratica aderisce al Comitato per il NO nel referendum costituzionale sulla legge di riforma Renzi - Boschi». Si ingrossa il fronte del No al referendum costituzionale, e si arricchisce di una parte non banale dell’architettura istituzionale del Paese, cioè una parte della magistratura. Insomma, una parte dello Stato, nello specifico il governo, intende mettere mano alla Carta costituzionale. Un’altra invece, o meglio, un pezzo di un’altra dice che con quella riforma «è in gioco l’architettura democratica della Repubblica. La riforma, in sinergia con la legge elettorale ormai nota come “Italicum”, non ammoderna la macchina dello Stato; a nostro avviso ne determina, al contrario, una pericolosa involuzione». Un attacco che arriva dalla corrente di sinistra della magistratura, che segna una linea di rottura con il Pd renziano e una discesa in campo al fianco di un fronte ampio e articolato, anche troppo: da Rodotà a Zagrebelski, passando da Fassina, Civati e gli ex magistrati Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia, finendo addirittura dentro Forza Italia e Lega Nord. «È in gioco l’architettura democratica della Repubblica. La riforma, in sinergia con la legge elettorale ormai nota come “Italicum”, non ammoderna la macchina dello Stato; a nostro avviso ne determina, al contrario, una pericolosa involuzione». Lo scorso ottobre il ministro Maria Elena Boschi, di il disegno di legge costituzionale porta il nome, proprio al Congresso Nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati difese l’operato del governo: «Non si possono fare riforme senza stabilità del governo». Proprio questa stabilità mette in allarma i togati di Md: «Si introduce una concezione semplicistica e formale della democrazia, in base alla quale chi vince prende tutto». Gli stessi magistrati in sede del Congresso Nazionale dell'Anm non mostrarono grande condivisione sui progetti del governo, in particolare riguardo le norme su intercettazioni e responsabilità civile. Tutti d’accordo dunque nel mondo delle toghe? No, perché il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini ha pochi dubbi: lui al ddl Boschi direbbe «sì senza problemi». Una presa di posizione comunque nell’ordine delle cose, dal momento che Legnini, consigliere laico del Csm è stato con Renzi prima sottosegretario all’economia e poi nominato allo stesso Csm proprio in quota PD. In questo momento storico la magistratura ha perso la fiducia dei cittadini. Solo il 30% degli italiani, stando a un sondaggio Demos pubblicato da La Repubblica, ha dichiarato di avere fiducia nei togati e nel sistema giustizia. Una fiducia ai minimi e su cui si gioca anche parte della comunicazione: come scrive Marco Sarti qui su L’Inkiesta, se davanti agli italiani il governo riesce a presentarsi come il partito del cambiamento, a loro spetterà il ruolo mediatico dei conservatori. Peggio, dei difensori della casta. E Magistratura Democratica, con una parte della magistratura, potrebbe fare le spese di questo schema. «Al ddl Boschi direi si, senza problemi» Un rischio che Md cerca di dribblare: «Il no al referendum non è dettato da inerzia e conservazione, ma da volontà di riforme che si collochino nel solco di un rinnovamento reale e democratico delle istituzioni per l’estensione della partecipazione e della coesione sociale, per la tutela dei diritti fondamentali, per una democrazia sostanziale e veramente efficiente». Dalle altre correnti dei togati, fino ad ora, non ci sono ulteriori prese di posizione riguardo il referendum. Certo non è escluso che nei prossimi mesi si arrivi a uno scontro più acceso tra governo e una parte della magistratura, che pur sempre rimane un potere dello Stato. Uno scontro su quello che, va ricordato, non è un referendum sulla figura di Matteo Renzi, ma sulla stessa fonte primaria del diritto in Italia, la Costituzione, che la stessa magistratura ha il compito formale di applicare.
Chissà che direbbe Montesquieu vedendo l’ultima genialità di Md. Md è una “componente del movimento di classe”, che nasce per dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese” attraverso “l’interpretazione evolutiva del diritto”. Ovviamente in nome della separazione dei poteri, scrive Claudio Cerasa il 14 Gennaio 2016 su “Il Foglio”.
Al direttore - Caro Cerasa. Ho letto sui giornali che Magistratura democratica avrebbe aderito al comitato del no al referendum. Pensavo fosse uno scherzo, o un fraintendimento, e invece sono andato sul sito di Md e ho trovato il seguente comunicato. Lo verrei condividere con lei. “Magistratura democratica aderisce al Comitato per il NO nel referendum costituzionale sulla legge di riforma Renzi - Boschi. Non si tratta, contrariamente a quanto si vuol far intendere, di un referendum sul grado di apprezzamento nei confronti del Governo: è in gioco invece l’architettura democratica della Repubblica. La riforma, in sinergia con la legge elettorale ormai nota come “Italicum”, non ammoderna la macchina dello Stato; a nostro avviso ne determina, al contrario, una pericolosa involuzione. (…) Come cittadini, giuristi e magistrati democratici viviamo con grande preoccupazione il forte pericolo di riduzione dell’autonomia di fondamentali istituzioni di garanzia, quali la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura, i cui componenti di nomina parlamentare potranno essere espressione della sola maggioranza, qualunque essa sia; una maggioranza alterata da un premio che si vuole giustificare in nome della governabilità, ma che incide sulla rappresentatività e condiziona oltre misura la stessa elezione del Presidente della Repubblica. (…) La fine del bicameralismo perfetto, come è stato autorevolmente messo in chiaro, rivela aspetti puramente propagandistici: il Senato rimane titolare di numerose competenze legislative primarie e del potere di revisione della Costituzione, ma smette di essere eletto dai cittadini. Il NO nel referendum non è dettato da inerzia e conservazione, ma da volontà di riforme che si collochino nel solco di un rinnovamento reale e democratico delle istituzioni per l’estensione della partecipazione e della coesione sociale, per la tutela dei diritti fondamentali, per una democrazia sostanziale e veramente efficiente”. L’ho letto e l’ho riletto almeno dieci volte, gentile direttore, e ho provato in tutti i modi a capire ma non ci sono riuscito. Mi chiedo: che paese è quello in cui una corrente della magistratura, la stessa che ha sempre affermato di non fare politica, aderisce a un comitato referendario offrendo al mondo il suo pensiero sul bicameralismo perfetto? Ma il giudice non doveva essere terzo? Sono spiazzato e sinceramente preoccupato. Giampaolo Imberi.
Di cosa si stupisce? Md (cito dal suo statuto) è una “componente del movimento di classe”, che nasce per dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi dell’apparato normativo borghese” attraverso “l’interpretazione evolutiva del diritto”. Il tutto, immaginiamo, sempre in nome della separazione dei poteri, no? Non c’è niente da fare: non siamo un paese per Montesquieu.
"Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali". Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli, scrive Marco Patarnello il 5 agosto 2016 su “La Repubblica”. In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti. "Caro direttore, l'opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell'importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un'attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent'anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un'analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un'impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l'economia di un territorio o anche dell'intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un'impresa, anche se si trattasse di denaro dell'Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso".
Processo alle banche. Banche a processo. Salvataggi in extremis. Crolli in Borsa. Conti opachi. Prestiti rischiosi. E l'incubo di una commissione d'inchiesta del Parlamento. Gli istituti di credito vivono una stagione nera. Ecco chi ha sbagliato. Inchiesta di Vittorio Malagutti e Luca Piana su "L'Espresso" del 22 gennaio 2016. Banche quasi fallite, salvate in extremis dal governo appena due mesi fa. Banche in vendita, almeno otto o nove, senza nessun compratore che si profili all’orizzonte. Banche con i conti in bilico, zavorrate da decine di miliardi di crediti inesigibili. Eccoli, gli ingredienti del tracollo di Borsa che nei giorni scorsi ha affossato il nostro sistema creditizio. Una tempesta perfetta. Perché di colpo, con l’entrata in vigore delle nuove regole sui salvataggi bancari, il cosiddetto “bail in”, è andata in pezzi ogni procedura che in passato è servita per affrontare le situazioni di crisi. «Nessuna banca deve fallire», era la regola non scritta che le autorità di vigilanza, Banca d’Italia in primis, sono sempre riuscite a far valere ordinando fusioni e acquisizioni, riordinando le pedine di un sistema chiuso in se stesso. Oggi nessuno metterebbe la firma sotto una promessa del genere. Il tappo è saltato. Gli sceriffi del credito adesso stanno a Francoforte, alla Bce. E a pagare il conto di eventuali crac d’ora in poi saranno i soci delle banche, insieme agli obbligazionisti, e anche i depositanti, quelli con un conto superiore a 100 mila euro. Questo prescrivono le norme europee, accettate dall’Italia. Si apre una nuova era. Gli investitori di tutto il mondo da tempo si chiedono se le nostre banche sono pronte per affrontarla. La risposta dei mercati è arrivata forte e chiara in Borsa nei giorni scorsi. A Piazza Affari un’ondata di vendite ha travolto i titoli del credito. «Confermiamo la nostra stabilità economica e finanziaria», si è subito affrettato a dire Fabrizio Viola, amministratore delegato del Monte Paschi di Siena, una delle banche più vicine all’occhio del ciclone. «Siamo sani, è solo speculazione», gli ha fatto eco Piero Montani, numero uno di Carige, l’istituto genovese che negli ultimi anni è stato costretto a cambiare tutto, dal management ai soci di riferimento, e che ora, al pari di Mps, cerca un partner dalle spalle forti cui affidarsi. La speculazione avrà certamente soffiato sul fuoco ma i problemi sono ben più profondi. E, soprattutto, si stanno manifestando tutti insieme. Ci sono le aggregazioni da fare, che i banchieri con i conti a posto vedono con diffidenza, perché temono di accollarsi ulteriori perdite e preferiscono lasciare nel limbo gli istituti in difficoltà. C’è la questione, nota da anni ma mai affrontata con la determinazione necessaria, dei prestiti accordati a clienti che spesso non meritavano di riceverli e che ora non sono più in grado di restituire il denaro. Le statistiche parlano di almeno 200 miliardi di euro di crediti in sofferenza. Un numero a dir poco allarmante che è finito al centro di un nuovo scontro fra il premier Matteo Renzi e Bruxelles. Perché il governo, dopo aver tergiversato a lungo, potrebbe essere costretto a fornire alle banche un aiuto di Stato, al fine di permettere loro di rimettersi in carreggiata. Un’operazione non semplice, sia per i vincoli posti dall’Unione Europea, sia per la bagarre politica scoppiata dopo il decreto per il salvataggio di Popolare Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. Un ulteriore segnale che mostra come la fiducia nel sistema sia ormai intaccata viene dalle richieste di avviare una commissione d’inchiesta sul sistema bancario, arrivate da uno schieramento politico molto ampio, Cinque Stelle, Forza Italia e anche numerosi parlamentari del Pd di area renziana. La questione è però controversa. Da una parte ci sono i pericoli: un’iniziativa di questo genere finirebbe per mettere nel mirino anche la vigilanza, ovvero la Consob - che dovrebbe tutelare il risparmio - e soprattutto la Banca d’Italia, che invece è chiamata a garantire la stabilità del sistema creditizio. E rischierebbe di alimentare la sfiducia proprio nel momento in cui è urgente un’azione chiara e convincente per ripristinare la tenuta del sistema creditizio, nella quale l’istituto di vigilanza guidato da Ignazio Visco non può non avere un ruolo determinante. D’altra parte, tuttavia, non mancano le opportunità perché una commissione d’inchiesta, condotta in modo serio, possa aiutare a capire i motivi del disastro attuale. Perché tra banche salvate all’ultimo minuto e altre appese alla speranza di un intervento pubblico per liberarle dai crediti incagliati, certamente qualcosa in questi anni non ha funzionato. In attesa di capire come Renzi deciderà di muoversi su questo fronte, “l’Espresso” ha provato a raccontare come e perché il sistema dei controlli e della vigilanza si è inceppato, creando nuove crisi anziché risolverle.
1) SE COMANDA IL COMMISSARIO. “L’amministrazione straordinaria dura un anno (...) In casi eccezionali la procedura può essere prorogata per un periodo non superiore a sei mesi”. Così recita il Testo unico bancario (Tub), cioè il complesso di norme che regola l’attività degli istituti di credito. Nella realtà, però, le cose vanno diversamente. Lo dimostrano i casi recenti della ferrarese Carife e di Banca Marche. A fine novembre, quando sono state sciolte per decreto del governo, entrambe erano gestite da oltre due anni dai commissari nominati da Banca d’Italia. Anche l’amministrazione straordinaria dell’abruzzese Banca Tercas, salvata in extremis nell’autunno 2014, è andato ben oltre i limiti fissati dalla legge: 27 mesi. E così, una procedura studiata per affrontare situazioni di emergenza con l’andar del tempo ha finito per trasformarsi in una gestione di lunga durata, di cui non è facile valutare i risultati. Per farlo sarebbe necessaria una trasparenza completa sulle decisioni prese nel periodo di amministrazione straordinaria. E invece la legge prevede che i commissari debbano rendere conto soltanto a chi li ha nominati, cioè la Banca d’Italia. Tocca a quest’ultima autorizzare eventuali azioni civili di terzi nei confronti degli organi della procedura. In pratica la Vigilanza vigila su stessa. All’occorrenza lo scudo di Bankitalia vale anche nei confronti della magistratura. L’anno scorso, quando Piernicola Carollo e Riccardo Sora, ex commissari alla Cassa di Rimini, furono coinvolti nell’inchiesta sulla gestione dell’istituto romagnolo, l’archiviazione arrivò anche grazie all’intervento di Banca d’Italia, che rispondendo a una richiesta del pm avallò l’operato dei due indagati. In altre parole, tutto si decide nelle segrete stanze di un’Authority chiamata a prendere le decisioni e allo stesso tempo a giudicare l’opportunità delle proprie scelte. Il sistema funziona se il commissariamento si prolunga giusto il tempo (pochi mesi) ad affrontare e risolvere gravi problemi di bilancio o di gestione. I rischi aumentano se invece, come è accaduto di recente, gli inviati di Bankitalia accentrano per anni tutti i poteri sull’istituto.
2) INUTILI ISPEZIONI. Lo hanno chiesto più volte a gran voce i risparmiatori che a novembre si sono visti azzerare i risparmi con il decreto del governo sulle quattro banche commissariate. E da mesi protestano anche i soci degli istituti del Nordest (Popolare Vicenza e Veneto Banca) che si sono visti svalutare le azioni dopo anni e anni di calma apparente. Possibile che gli ispettori, inviati più volte da Banca d’Italia a verificare i conti, non si siano mai accorti dei gravi problemi degli istituti di credito fino a quando la situazione non era ormai compromessa? La linea di difesa di Bankitalia è sempre la stessa: «Abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere», come ha ricordato anche il governatore Ignazio Visco nelle sue recenti uscite pubbliche. Resta però difficile comprendere come mai, per esempio, i prestiti per centinaia di milioni erogati dalla Popolare Vicenza per l’acquisto di azioni proprie siano emersi soltanto all’inizio del 2015, quando la vigilanza sull’istituto veneto è diventata di competenza della Bce di Francoforte. Anche il rapporto con la Consob, chiamata a tutelare il pubblico risparmio, spesso è costellato di incomprensioni se non di quelle che appaiono come vere e proprie omissioni. Eclatante la vicenda di Banca Marche, che a febbraio 2012 lanciò un aumento di capitale per 180 milioni, (sottoscritto da migliaia di azionisti che ora hanno perso tutto) dopo che meno di due mesi prima Banca d’Italia aveva messo per iscritto in un rapporto le gravissime difficoltà dell’istituto. L’allarme, però, non è mai stato trasmesso alla Consob perché venisse inserito nel prospetto informativo per l’aumento di capitale. E così i risparmiatori sono stati tenuti all’oscuro di informazioni importanti per poter valutare il proprio investimento. In questo caso Bankitalia ha tutelato la stabilità del sistema, consentendo a Banca Marche di puntellare i propri conti grazie all’aumento di capitale, ma sono state sacrificate le ragioni della trasparenza, a danno degli investitori. Nessun problema fino a quando la Vigilanza ha potuto gestire in proprio le crisi bancarie, decidendo tempi e modi di fusioni e acquisizioni in modo che gli istituti più deboli uscissero di scena senza gravi danni per clienti, creditori e azionisti. L’avvitarsi della crisi economica con l’esplosione dei crediti incagliati ha moltiplicato le situazioni di crisi con l’effetto di rendere più complicati questi interventi in corsa. Infine, l’entrata in scena della Bce come authority di Vigilanza, sommata all’introduzione delle nuove regole sul bail in, ha sottratto poteri e margini di manovra alla Banca d’Italia che non è più libera di gestire i salvataggi in totale autonomia.
3) VIGILANZA & SCARICABARILE. Uno dei punti cruciali è chi deve vigilare sulle banche. Un esempio di quanto la situazione sia scivolosa arriva ancora dalle difficoltà di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il 28 maggio 2013 la Popolare Vicenza annuncia un aumento di capitale da 500 milioni di euro. Le nuove azioni vengono vendute ai soci al prezzo di 62,5 euro l’una. Nessuno può dire se si tratta di un prezzo adeguato: i titoli dell’istituto veneto non sono quotati in Borsa, dunque non esiste un mercato di riferimento per le valutazioni. Tocca fidarsi delle promesse della Popolare, che riacquista i titoli che un socio volesse eventualmente vendere in una specie di mercatino interno. Ma il prezzo dell’aumento era giusto? La risposta è probabilmente no. La Vicenza sarà costretta a farne un altro un anno dopo, sempre a 62,5 euro per azione. E quando in seguito emergeranno consistenti perdite di bilancio, molti soci si ritroveranno con i risparmi bruciati. Un copione simile è andato in scena a Montebelluna, sede di Veneto Banca, i cui titoli erano stati piazzati nel giugno 2014 a 36 euro per azione. Ora che le due banche andranno in Borsa, costrette soltanto dalla riforma delle popolari voluta dal governo, quei titoli verranno negoziati a prezzi largamente inferiori. Ci sono colpe delle autorità? Ci sono soprattutto interessi in conflitto fra loro. Bankitalia, dice la legge, deve vigilare sulla «stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione» delle banche. E quindi, in una situazione di difficoltà, può essere tentata di badare al sodo, e cioè al fatto che nuovi capitali arrivino a una banca, se questo serve a non farla fallire. Senza preoccuparsi più di tanto se, ad esempio, i titoli di Popolare Vicenza e Veneto Banca erano venduti a prezzi fuori mercato. Sta invece alla Consob intervenire per difendere i risparmiatori. Perché, dice ancora la legge, la commissione presieduta da Giuseppe Vegas «è competente per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza dei comportamenti» degli intermediari finanziari, e perciò anche delle banche. Ecco dunque il rimpallo di responsabilità. Quando una banca fa un aumento di capitale, questo viene prima approvato dalla Banca d’Italia, poi la Consob ne esamina il prospetto informativo. E mettere in discussione valutazioni già avvalorate da Bankitalia può essere difficile, oltre che opinabile: nei mercati finanziari si trova sempre un esperto in apparenza indipendente che si presta a giurare che un prezzo è non solo corretto, di più. Ma la Consob, restando al caso delle due banche venete, aveva un’arma: essendo i titoli non quotati in Borsa, poteva obbligare i due istituti a consegnare ai clienti interessati una “scheda prodotto” in cui avvertiva che si trattava di azioni “illiquide”, cioè non facilmente vendibili, con un elevato rischio di perdite. Non l’ha fatto.
4) CONSOB IN RETROMARCIA. La Consob, in passato, non ha esitato a muoversi contro gli interessi espliciti delle banche e, forse, di quelli impliciti della Banca d’Italia. Il caso più noto risale al 2009, quando la Popolare Milano all’epoca guidata da Massimo Ponzellini propone ai risparmiatori un bond dal profilo di rischio altissimo, noto come “convertendo”. La Consob impone una regola molto stretta: a chi lo compra, gli impiegati della banca devono consegnare una scheda con le caratteristiche del prodotto, dov’è riprodotta una tabella con il calcolo delle probabilità di rendimento del titolo (in gergo si chiamano “scenari probabilistici”). Vi si legge che il convertendo Bpm ha un grado di rischio pari a 5, su una scala da 1 a 5, e che il suo rendimento sarà negativo nel 68,5 per cento dei casi, con una perdita media in questo caso del 40 per cento. La Consob, però, non si limita a questo. Quando il prodotto è ancora in vendita, fa dei controlli e verifica subito che qualcosa non torna: il bond viene venduto a diversi clienti senza che siano informati a dovere. E, già in corso d’opera, impone di modificare le procedure, arrivando a sanzionare i vertici della banca. Queste verifiche saranno cruciali in seguito, quando i clienti raggirati decideranno di rivalersi sulla Bpm, che finirà per pagare i danni. Per un’autorità di difesa dei risparmiatori dovrebbe essere un trionfo. E invece la Consob fa marcia indietro.
5) E VEGAS CHIUDE LA PORTA. Alla fine del 2010 alla guida della Consob arriva Giuseppe Vegas, fino ad allora vice del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Dopo il caso Bpm, i malumori delle banche contro le “schede prodotto” e gli “scenari probabilistici” hanno già fatto breccia. Vegas dà il colpo di grazia. Convoca tavoli di consultazione a cui partecipano anche le associazioni di difesa dei consumatori. Una di queste, la Federconsumatori, redige un documento in cui afferma che quel tipo di rappresentazione dei rischi va confermato. Costituisce infatti lo «strumento fondamentale per veicolare le informazioni chiave che consentono di effettuare decisioni d’investimento consapevoli», dice il documento, che cita come esempio strumenti quali le obbligazioni convertibili e quelle subordinate, proprio quelle azzerate due mesi fa dal decreto Salvabanche. Francesco Avallone, vice-presidente di Federconsumatori, racconta che «i risultati dei tavoli di lavoro istituiti dalla Consob non vennero mai resi noti» ma che, al contrario di quanto richiesto dalle associazioni, «gli scenari probabilistici sparirono». Un peccato, perché avere una scheda che comunicava con immediatezza i possibili guadagni e perdite di un investimento, con le relative probabilità, era certamente di grande aiuto. Non solo. All’investitore, e anche all’impiegato allo sportello, bastava leggere per capire se quel bond subordinato era conveniente, perché sarebbe stato impossibile classificare come a basso rischio un prodotto che aveva il 40-50 per cento di probabilità di causare perdite pari a due terzi del capitale. Non sono numeri a caso, sono gli scenari probabilistici di un bond subordinato della Popolare Etruria, pubblicati da “l’Espresso” a dicembre. Forse i clienti avrebbero voluto conoscerli prima.
Banche, cinque anni vissuti pericolosamente. Scandali, decreti governativi, commissariamenti. Ecco cosa è successo dal 2009 a oggi.
2009
Febbraio. Vengono lanciati i Tremonti-Bond, prestiti che lo Stato concede alle banche in difficoltà nel reperire capitale. Ne faranno uso Mps, Banco Popolare, Bpm e Credito Valtellinese.
2012
4 Maggio. Commissariata Tercas e la controllata CariPescara.
2013
Gennaio. Emerge lo scandalo dei derivati di Mps. L’ex presidente Giuseppe Mussari lascia anche la guida dell’Abi.
27 Maggio. Commissariata CariFerrara.
Giugno. Popolare Vicenza fa un aumento di capitale da 500 milioni.
30 Agosto. Sospesi per due mesi i vertici di Banca Marche.
15 Ottobre. Commissariata Banca Marche.
2014
Maggio. Popolare Vicenza fa un aumento di capitale da 900 milioni.
Giugno. Mps fa un aumento di capitale da 5 miliardi. La Fondazione Mps cessa di essere il principale azionista.
Giugno. Veneto Banca fa un aumento di capitale da 490 milioni.
Luglio. Carige fa un aumento di capitale da 800 milioni.
5 Settembre. Commissariata CariChieti.
1 Ottobre. Popolare di Bari rileva la Tercas, che esce dal commissariamento.
25 Ottobre. La Bce pubblica i risultati della verifica patrimoniale sulle principali banche europee. Mps e Carige sono costrette a effettuare una ricapitalizzazione.
4 Novembre. La vigilanza sulle maggiori banche europee (di cui 15 italiane) passa alla Bce.
2015
24 Gennaio. Il governo pubblica un decreto che impone la trasformazione in società per azioni delle principali banche popolari.
10 Febbraio. Commissariata Popolare Etruria.
Giugno. Mps fa un aumento di capitale da 3 miliardi.
Luglio. Carige fa un aumento di capitale da 850 milioni. La famiglia Malacalza diventa il principale azionista.
22 Novembre. Decreto del governo per salvare dal fallimento Popolare Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.
2016
1 Gennaio.
Entra in vigore la procedura europea del “bail in”.
14 Gennaio. La Procura di Milano chiude le indagini su Mps. Tra le ipotesi di reato c’è il falso in bilancio.
2016: la grande fuga da conti ed obbligazioni. Molti istituti di credito hanno il fiato corto. Nei prossimi mesi alcune banche potrebbero avere problemi seri a raccogliere denaro sul mercato. Nel senso che dovranno promettere a investitori e correntisti rendimenti ben più alti del passato. Attenzione, caduta banche. In tv e in Rete imperversano sedicenti esperti che evocano la corsa agli sportelli, con milioni di clienti in coda per riavere i loro soldi. Senza scomodare l’Armageddon bancario, che al momento non sembra imminente, si può dire, però, che molti istituti di credito hanno il fiato corto. Nei prossimi mesi alcune banche potrebbero avere problemi seri a raccogliere denaro sul mercato. Nel senso che dovranno promettere a investitori e correntisti rendimenti ben più alti del passato. A fine novembre, l’intervento del governo sui quattro istituti sull’orlo del crac (Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti) ha reso evidenti a tutti come funzioneranno i salvataggi bancari. Le regole europee, quelle sul cosiddetto “bail in”, prescrivono che a pagare il conto siano in prima battuta azionisti e obbligazionisti e poi, se necessario, anche i correntisti con depositi superiori a 100 mila euro. Risultato: si è d’improvviso ristretta la platea dei possibili investitori in obbligazioni bancarie, a cominciare da quelle subordinate, le più esposte alle ricadute negative del bail in. E neppure i conti correnti possono più essere considerati un parcheggio sicuro. Il fatto è, però, che da qui alla fine del 2016 scadono prestiti bancari, quelli del tipo più rischioso, per quasi 6 miliardi di euro piazzati negli anni scorsi da Unicredit (1,4 miliardi), Intesa (280 milioni), Ubi (65 milioni) e altri ancora. Il Monte dei Paschi, reduce da anni di bilanci in perdita e nei giorni scorsi al centro di manovre al ribasso in Borsa, dovrà rimpiazzare due emissioni per un totale di quasi 800 milioni. La genovese Carige, altro marchio in difficoltà, ha 350 milioni di bond a fine corsa. Una volta rimborsate le obbligazioni, gli istituti dovranno anche trovare il modo di rimpiazzarle. Difficile immaginare che i clienti faranno la fila per sottoscrivere nuovi titoli subordinati. Per tappare il buco le banche possono far leva sui depositi vincolati, cioè quelli con tassi di remunerazione ben più elevati rispetto ai normali conti correnti. Non è un caso, allora, che nei conti di Mps a settembre 2015 la raccolta sotto forma di obbligazioni vale ancora il 25 per cento del totale, ma risulta in calo del 12 per cento rispetto a un anno prima. Nello stesso arco di tempo i depositi vincolati sono invece aumentati del 30 per cento e ora pesano per oltre il 10 per cento sulla raccolta totale della banca senese. Pur di attirare, o trattenere, clienti, il Monte dei Paschi arriva a pagare interessi dell’1,4 per cento, al lordo delle tasse, sul denaro che resta sul conto almeno per un anno. Un premio a dir poco invitante, se si considera che i Bot a 12 mesi collocati nelle ultime aste di titoli di stato hanno rendimenti sotto lo zero. Ad approfittare della situazione sono soprattutto le grandi società di gestione del risparmio, che continuano a macinare affari da record. I clienti delle banche, a caccia di rendimenti, corrono a sottoscrivere fondi comuni e gestioni patrimoniali. A costo di pagare commissioni e balzelli vari talvolta ingiustificati. Per non parlare dei rischi legati a strumenti finanziari che in alcuni casi restano esposti agli umori mutevoli delle Borse.
Il Salva banche, i ‘malandrini’ e il processo a Pinocchio, scrive Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato, il 3 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Nel romanzo di Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883), la metafora del reo in carrozza e l’innocente a piedi, si materializza nella città di Acchiappacitrulli, dove Pinocchio, da ricco putativo diventato povero autentico, tenta la sua prima sortita squisitamente sociale: derubato delle monete ricevute da Mangiafoco, disperato si reca dal giudice, gran scimmione “della razza dei Gorilla”; anziano; rispettabile; occhiali d’oro, senza vetri; gran barba bianca, il quale, saggio e buono, lo ascolta con attenta benignità, s’intenerisce e commuove; quindi condanna il burattino, “questo povero diavolo”, alla prigione. Ne uscirà in modo casuale e degradato, per amnistia, ma solo dopo essersi dichiarato “malandrino”. L’episodio è, all’apparenza, paradossale e il paradosso si identifica con la parodia del sistema giudiziario. Di fronte, però, ad interpretazioni che vorrebbero leggere, nella divertente pagina del gran libro per ragazzi, l’avvertimento criptato per i giovani lettori che sulla verità si fonda la rettitudine della convivenza civile, ma le istituzioni possono simulare e far valere la menzogna, così che, accertato il delitto, non si puniscono i colpevoli, ma la vittima, il giusfilosofo diffida: perché si possa parlare di “giustizia capovolta” occorrono un delitto, un colpevole assolto o nemmeno accusato e un innocente condannato e punito; ma nel caso di Pinocchio questa simmetria manca: il burattino non viene condannato per un reato commesso da altri, il furto cioè di quattro zecchini d’oro, bensì per un fatto suo proprio del tutto diverso, ossia per essere stato derubato; il Gatto e la Volpe, per contro, rimangono a piede libero, non perché erroneamente o arbitrariamente ritenuti estranei al delitto, che anzi nessuno dubita abbiano effettivamente commesso, ma perché estranei al processo, dove nessuno li ha chiamati. Sicché, se di arbitrio si potesse parlare esso non avrebbe natura processuale, ma eventualmente sostanziale, sempre che, ad Acchiappacitrulli non esista una norma che proibisca di farsi derubare, almeno in circostanze come quelle in cui si è fatto derubare Pinocchio. La lettura, allora, deve necessariamente essere un’altra. Innanzitutto, Pinocchio, per ben due volte, si è lasciato abbindolare dagli artifici e raggiri del Gatto e della Volpe, disinvolti promotori finanziari: ha disatteso gli avvertimenti del Merlo bianco e del Grillo; ha ignorato le lezioni morali della Fata Turchina e del suo staff medico e paramedico; ha trascurato indizi gravi, precisi e concordanti della disonestà dei suoi “amici”, dallo scrocco della cena al Gambero Rosso allo zampetto troncato al Gatto. Questo, si potrebbe comunque obiettare, non giustifica la condanna: Pinocchio, in fin dei conti, è un burattino ancora privo di una solida formazione morale e di un’adeguata esperienza di vita, nulla a che vedere, insomma, con quelle persone adulte e presumibilmente responsabili, tra le quali hanno avuto largo successo prodotti finanziari solo di poco più credibili di quelli del Gatto e della Volpe: è ancora viva, tanto per intenderci, l’eco delle tensioni per il salvataggio delle banche messe in sicurezza grazie a uno sforzo ripartito tra l’intero sistema bancario, azionisti e titolari delle obbligazioni subordinate, che ha prodotto la rovina di 130 mila risparmiatori. Ma a suo carico c’è ben altro. Uscendo dal Teatro di Mangiafoco con cinque monete in tasca, s’era ripromesso di migliorare con esse il tenore di vita di Geppetto. Quando, però, seminate ormai le monete d’oro, si prepara a raccogliere i frutti del suo investimento, immagina che gli zecchini cresciuti sull’albero possano essere anche molti di più dei duemila corrispondenti al tasso vertiginoso promesso dai “malandrini”, cinquemila forse o magari centomila. Sicché cambiano qualitativamente i suoi programmi relativi all’impiego del capitale: Pinocchio non vuole più arricchire grazie al regalo di Mangiafoco e ai generosi consigli dei suoi “amici”, accontentatisi di una scorpacciata al Gambero Rosso; vuole invece essere ricco e basta, senza lavorare, né studiare, né ringraziare nessuno. Ecco, allora, che la sua colpa non è soltanto quella di essersi fidato dei “malandrini”, ma di aver desiderato una ricchezza generata da se stessa, senza alcun rapporto con la fatica e con il merito. E valga il vero. Al campo dei Miracoli, il Pappagallo, aveva impartito a Pinocchio un’austera lezione di stampo aristotelico e tomistico sulla “sterilità del denaro”: l’aveva avvertito che, “per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa”. Pinocchio, però, non avendo compreso la lezione, “preso dalla disperazione, (era tornato) di corsa in città e (andato) difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato” e “alla presenza del giudice (aveva raccontato) per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; (dato) il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e (finito) col chiedere giustizia”. Il vecchio e rispettabile Gorilla colse gli esatti termini della situazione: inutile citare il Gatto e la Volpe, già irreversibilmente inchiodati alle loro responsabilità; era su Pinocchio che occorreva pronunciarsi: il burattino si era presentato al Giudice esclusivamente nella veste di parte lesa, anziché anche nel ruolo d’imputato; fu, dunque, perché capisse la sottile lezione impartitagli dal Pappagallo, che il Gorilla ordinò ai suoi mastini: “Pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione”.
Processo (immaginario) alle banche: ergastolo. Reati contestati: evasione fiscale, usura, corruzione. Sentenza: carcere a vita. Imperatore giudica gli istituti di credito. Ma anche le Pmi vengono condannate, scrive Vincenzo Imperatore il 17 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. La rubrica Lo sportello da oltre un anno racconta il mondo delle banche e della finanza con la voce e la penna (o la tastiera) di chi lo vissuto in prima persona. Stiamo raccontando tutto e - purtroppo non ce ne vantiamo - abbiamo anticipato (di circa un anno) anche ciò che sta iniziando a emergere nel sistema bancario: i reati commessi. E allora questa volta, tra il serio e il faceto, vogliamo riassumere un anno di collaborazione con Lettera43.it con un immaginario processo alle banche.
Imputato banca, ecco i reati che le vengono contestati. Partiamo facendo una precisazione: si definiscono reati quelle azioni, commesse od omesse, vietate dall’ordinamento giuridico a cui si ricollegano delle sanzioni e delle pene.
INDUZIONE AL FALSO IN BILANCIO. Ebbene, l’induzione al falso in bilancio commesso dalle banche (oltre al falso nel bilancio delle stesse) è un reato. Vendere ad aziende polizze assicurative, diamanti, gestioni fiduciarie sapendo che sono solo escamotage per permettere all’imprenditore di accantonare denaro frutto di evasione non è induzione al falso in bilancio?
EVASIONE FISCALE E USURA. Inoltre, l’evasione fiscale diventa reato quando supera determinate soglie e prevede, in certi casi, una reclusione fino a sei anni. E poi c'è l’usura, anch’essa un reato, punita dall’articolo 644 del codice penale che prevede una reclusione fino a 10 anni. Ma le banche, in particolare i loro dipendenti, hanno mai realmente pagato penalmente qualcosa? No, neanche quando colti in castagna. Al massimo gli istituti sono stati costretti a risarcire la vittima.
ESTORSIONE. E ancora: l’estorsione è sancita con l’articolo 629 del codice penale ed è commessa da chi, con violenza o minaccia, costringa uno o più soggetti «a fare o a non fare qualche atto al fine di trarne un ingiusto profitto con altrui danno». Anche in questo caso la pena prevista è la reclusione fino a 10 anni. È esagerato chiamare estorsione quella esercitata della banca quando utilizza la minaccia della segnalazione in sofferenza alla Centrale rischi per ottenere il pagamento di somme non dovute? Somme in cui figurano: anatocismo (interessi sugli interessi), tassi usurari, spese non contemplate, commissioni di massimo scoperto oggi camuffate come Dif e Civ. Quante volte il cliente, proprio per scongiurare questa segnalazione, ha pagato cifre rilevanti e non giustificate come accertato spesso in fase processuale? Tante, tante volte. Ma nessuno della banca ha mai pagato penalmente.
VIOLENZA PRIVATA. E poi: il reato di violenza privata si configura, invece, secondo l’articolo 610 del codice penale, quando «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa». La pena prevista è la reclusione fino a quattro anni. Quante volte un cliente, pressato psicologicamente per il rinnovo degli affidamenti, si è visto costretto a firmare e sottoscrivere atti e contratti che altrimenti non avrebbe accettato? Anche il “semplice” acquisto di un televisore o di una polizza potrebbe rientrare in questo meccanismo perverso? Attenzione, perché la violenza privata non va confusa con l’estorsione: per commettere la prima non è necessario che il soggetto «abbia procurato a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno».
CORRUZIONE. Nelle storie affrontate e denunciate nei miei libri è emersa anche corruzione: costantemente al centro del dibattito politico e parlamentare e grande male del Paese. Quei privilegi ottenuti dal bancario attraverso i clienti; quei «favori» ricevuti sfruttando l’attività professionale dell’imprenditore, spesso costretto a dire di sì per la sua posizione di svantaggio rispetto alla banca, non profilano un reato simile? Come scrissi nel libro Io so e ho le prove, e nessuno ha mai smentito, «il viaggio si prenota nell’agenzia di viaggi di un cliente, l’auto si ripara nell’autofficina del cliente, la casa si ristruttura servendosi dell’azienda edile del cliente, la moglie del manager rinnova il suo guardaroba nella boutique del cliente, il pieno di benzina si fa dal distributore cliente e via all’infinito». E così è tutt’oggi.
Sentenza: ergastolo. Ma anche le Pmi condannate ai servizi sociali.
E allora perché ciò che è sancito come illecito da parte della giustizia civile (basta andare sul web e digitare «sentenze usura» per capire quante sconfitte hanno subito le banche che hanno dovuto “semplicemente” restituire il maltolto) non trova mai, per la lobby bancaria, un responsabile che paghi una pena? Arrivati a questo punto del processo immaginario, così come già ripetuto su queste pagine web, non dobbiamo accettare per principio ideologico l’idea di una magistratura asservita e poco coraggiosa; i giudici vanno aiutati anche con il nostro coraggio: quello di chi denuncia. Ma anche con la determinazione al cambiamento che soprattutto le piccole imprese devono necessariamente realizzare nei loro criteri di gestione. E allora, al termine di questo processo sui generis, dopo aver dato la parola all’accusa e alla difesa, tutti in piedi. Il giudice con tono enfatico inizia a leggere: «In nome del popolo italiano le banche dovrebbero ricevere una sanzione proporzionale al danno cagionato all'ordine economico e all’intensità della colpa e quindi soltanto il linciaggio potrebbe essere una pena equa in quanto sanzione che nella fase esecutiva postula il pieno coinvolgimento del popolo. Ma non essendo tale pena prevista nel nostro ordinamento, gli istituti di credito, per la sommatoria degli anni di reclusione previsti dai vari reati ascritti - usura, induzione al falso in bilancio, induzione alla evasione fiscale, violazione della privacy, estorsione, violenza privata - sono condannate all'ergastolo e soprattutto alla confisca allargata e per equivalente dei beni dei vertici degli istituti in misura non inferiore ai profitti illecitamente ricavati». Urla di gioia da parte dei parenti delle vittime, abbracci con gli avvocati della difesa, ma il giudice zittisce tutti subito replicando: «Signori, non ho ancora terminato...» e continua, nel silenzio assoluto. «Le imprese certamente non concorrono con previsione e volontà alla realizzazione dei misfatti che gli istituti di credito perpetrano in loro danno. Certamente può dirsi però che gli imprenditori colposamente cooperano al processo di determinismo causale che conduce al conseguimento degli scopi di massimizzazione dei profitti delle banche. Facendo ricorso al credito “istituzionale” e a metodi gestionali ormai superati e anacronistici, le imprese furbastre immaginano di tenere al riparo i patrimoni personali dei capitani d’impresa. E invece, così facendo, con le loro mani, si scavano la fossa dove le seppellirà la ferocia degli istituti. Anche l'azienda è quindi colpevole perché spesso quei reati si consumano con la cooperazione colposa della vittima. Condanno pertanto le piccole imprese a due anni intensi di servizi sociali attraverso un percorso di formazione in cultura aziendale finanziato, questo sì, dalle banche». L’udienza è tolta.
Rifiuti, acqua, trasporti pubblici: la vittoria delle lobby locali. L’obiettivo dichiarato della riforma era aprire alla concorrenza i mille piccoli (o non tanto piccoli) regimi locali di monopolio nella fornitura di servizi ma qualcosa non ha funzionato, scrive Federico Fubini il 29 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Per una strana abitudine italiana, è possibile che nove giorni dopo l’approvazione di un decreto del Consiglio dei ministri il suo testo sia ancora sconosciuto al pubblico. Questi ritardi del resto sono così frequenti che ormai vengono considerati perfettamente normali: tutti sanno che una certa riforma è avvenuta, pochissimi privilegiati ne conoscono il contenuto, e nessuno se ne sorprende. È il caso, fra gli altri, del cosiddetto «Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale». Quello è uno degli undici decreti attuativi approvati il 21 gennaio scorso, dopo la legge con cui il Parlamento aveva delegato il governo a modernizzare la pubblica amministrazione. Almeno sulla carta, doveva essere uno dei passaggi più innovativi dell’intera riforma. C’era un obiettivo dichiarato: aprire alla concorrenza i mille piccoli (o non tanto piccoli) regimi locali di monopolio nella fornitura di servizi come la gestione dei rifiuti, l’acqua, o i trasporti pubblici. Quanto a questo, la legge-delega uscita in Gazzetta Ufficiale all’inizio dell’agosto scorso ha parole inequivocabili: all’articolo 19 dà mandato al governo di procedere alla «soppressione, previa ricognizione, dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi generali in materia di concorrenza e comunque non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio». In altri termini, doveva finire la lunghissima epoca dei concessionari monopolisti: un solo gestore dei rifiuti per città, per esempio, o un solo fornitore di servizi idrici. Vincere una gara bandita da un ente locale fino ad oggi è equivalso alla conquista di un’esclusiva su un’attività per un gran numero di anni. La riforma in teoria doveva spostare questo equilibrio: in teoria altre aziende – accanto all’attuale monopolista controllato o partecipato dall’ente locale – avrebbero potuto gestire lo smaltimento dei rifiuti in altri quadranti di Roma o di Milano, per esempio. Il cuore della riforma sui servizi pubblici locali era qui. Se questa era l’intenzione, e la delega al governo, a quanto pare qualcosa non ha funzionato. Ufficialmente non è dato sapere, proprio perché a nove giorni dall’approvazione del governo i testi dei decreti non sono ancora stati trasmessi al parlamento. Eppure quel «testo unico» sui servizi pubblici locali sembra essere uscito dal Consiglio dei ministri di giovedì della scorsa settimana amputato dei suoi passaggi fondamentali. In particolare sarebbe saltato quasi tutto l’articolo sette, quello che riduceva drasticamente i «diritti di esclusiva» delle società municipalizzate sulle grandi città. Sarebbe saltato per esempio il comma 2 (a), dove si stabiliva che «il regime di privativa (…) cessa in ogni caso alla data del 31 dicembre 2016». Cancellato a quanto pare anche l’articolo 4, almeno nella sostanza. Nella versione originaria, limitava esplicitamente i monopoli: «La conservazione o il rinnovo di diritti speciali o esclusivi sono consentiti solo ove risulti necessaria alla missione di interesse generale affidata», si legge nella bozza del decreto di due settimane fa. In altri termini, l’ente locale doveva aprire alla concorrenza se non poteva dimostrare che avere due o più aziende di gestione dei rifiuti, erogazione dell’acqua o del gas avrebbe provocato dei problemi per i cittadini. Niente del genere succederà, malgrado tutto. Su questo punto la legge-delega sarebbe stata disattesa in pieno dal governo (che peraltro ha il diritto costituzionale di agire così). Centinaia di società municipalizzate possono festeggiare in silenzio lo scampato pericolo di una riforma caduta sul suo ultimo metro. Resta solo da chiedersi come sia stato possibile. Di certo le pressioni delle aziende monopoliste, legittime, non saranno mancate; e non è difficile immaginare che si sia fatta sentire anche Utilitalia, la loro associazione guidata da rappresentanti della milanese A2A, della bolognese Herambiente o della romana Acea. In vista delle amministrative di giugno in molte città, la loro voce non dev’essere rimasta senza eco nelle stanze di Palazzo Chigi.
Assicurazioni stradali: trucchi, bugie e ritardi. Ecco perché in Italia l'assicurato non vince mai. Calano sinistri e risarcimenti, ma i costi per gli assicurati continuano ad aumentare. Un ex liquidatore che conosce il settore dall'interno ora rivela in un libro perché in caso di incidente è davvero difficile ottenere ciò che è giusto. Con qualche consiglio per non farsi fregare dai colossi del settore, scrive Elisabetta Ambrosi il 29 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Da un lato calano sinistri e risarcimenti. Dall’altro aumentano i costi per gli assicurati (più 245 per cento dagli anni Novanta, più 21 per cento solo nel 2014, più 10 per cento fino alla metà del 2015). Come spiegare questo dato in apparenza contraddittorio, così come il fatto che il settore assicurativo in questi anni difficili, e nonostante le continue proteste da parte delle assicurazioni sulle presunte truffe, non abbia dato segnali di crisi (anzi, può vantare un utile che nel 2013 ha superato i 5 miliardi di euro)? Semplice: grazie a un’abissale differenza tra quanto promesso in suadenti spot di assicurazioni che invadono treni, autobus, metropolitane e la triste verità dei risarcimenti effettivi. È proprio di questa verità che parla l’acceso pamphlet Assicurazioni a delinquere, appena uscito per Chiare Lettere. L’autore, Massimo Quezel, è ex liquidatore che proprio in seguito ad un incidente ha deciso di aprire una propria rete di studi di infortunistica, cioè di studi professionali che si occupano di gestire tutto il percorso successivo ad un incidente, con lo scopo di garantire il giusto risarcimento dalla compagnia assicurativa. Perché a vederla da vicino la realtà italiana del mondo delle assicurazioni è soprattutto questa: trucchi, bugie e ritardi ingiustificati sono all’ordine del giorno, mentre otto volte su dieci le compagnie non riconoscono in prima battuta il giusto risarcimento al cliente, anche a fronte di prove e perizie dettagliate, costringendolo eventualmente a rivolgersi a un giudice per ottenere quanto gli spetta. Questo accade perché nella maggior parte dei casi il cliente accetta passivamente quanto propostogli, accontentandosi di cifre molto inferiori rispetto a quanto dovuto per timore di cause lunghissime. Cause che generano ansia nel danneggiato, mentre per la compagnia il fattore tempo è determinante: più tardi paga, più guadagna. Per dirla più brutalmente, negli ultimi anni il diktat imposto dai grandi gruppi assicurativi ai propri liquidatori è: “Pagare il meno possibile, se non addirittura niente, ritardare al massimo i pagamenti, sfiancando i danneggiati e costringendoli ad accettare proposte di risarcimento del tutto inadeguate”. Gli stratagemmi delle assicurazioni per non pagare i clienti si avvalgono anche di precise agevolazioni normative, come l’introduzione dell’art. 32 della legge 27/2012, che prevede che anche le lesioni di lieve entità debbano essere accertate strumentalmente (ad esempio via tac o risonanza), aumentando i costi per i cittadini e rendendo accessorio il parere del medico. Anche il “risarcimento diretto”, introdotto nell’estate del 2005 con le lenzuolate di Bersani, si è rivelato essere l’ennesima arma nelle mani della compagnia. Si tratta di una speciale procedura per la liquidazione di un sinistro stradale, che obbliga il danneggiato a richiedere il risarcimento direttamente alla propria compagnia. Ma quella che doveva essere una protezione si rivela il suo contrario: il cittadino si trova solo a confrontarsi con un gruppo assicurativo, in un ristrettissimo lasso di tempo che non consente a nessuno, compagnia a parte, di valutare se l’offerta sia congrua oppure no. Inoltre se il sinistro “vale” di più di quanto recuperabile dalla compagnia di chi ha la responsabilità del sinistro, la compagnia della vittima tenderà a una corsa al ribasso, per non spendere di più e se possibile guadagnarci. Nei contratti assicurativi si nascondono poi clausole di ogni tipo, spesso difficilmente riconoscibili per l’assicurato. Una delle più subdole prevede il cosiddetto “risarcimento in forma specifica”, l’obbligo di far riparare il veicolo incidentato presso un’autofficina convenzionata con la compagnia stessa, con un esborso ovviamente maggiore per gli assicurati (nel corso del 2015 questo tipo di risarcimento era stato inserito nel disegno di legge “Concorrenza”, ma per fortuna la norma, che sarebbe stata una pacchia per le lobby, non è mai passata). L’altro cavallo di battaglia utilizzato dalle compagnie per aumentare le polizze e diminuire i risarcimenti è la lamentela sull’incremento esponenziale delle truffe a loro carico, un pretesto che, ad esempio, ha falcidiato i rimborsi a lesioni come il colpo di frusta. La verità, scrive l’autore, è che se lo volessero le compagnie avrebbero a disposizione sistemi di controllo talmente avanzati da fare piazza pulita dei veri furbi. Peccato che non abbiano alcun interesse a fermare questa tendenza, che consente loro di tenere alti i premi assicurativi. In ogni caso basta citare un dato per capire l’inesistenza del problema: secondo la stessa Ania le denunce complessive presentate sono state circa 7.007, lo 0,2 per cento dei sinistri totali. Una percentuale minuscola, che parla da sé. E che succede quando un veicolo non assicurato provoca un incidente o quando si viene investiti da un pirata della strada? Entra in gioco il cosiddetto “Fondo di garanzia”. Il fondo è gestito dalla Consap, controllata dal ministero dell’Economia, e alimentata con soldi pubblici. Il problema è che la Consap demanda ogni volta la gestione regionale della riserva a uno specifico gruppo assicurativo, che di conseguenza agisce con i meccanismi usuali, con la conseguente difficoltà a ottenere quanto dovuto. Nel frattempo i costi delle assicurazioni hanno raggiunto livelli talmente elevati da non consentire a tutti la possibilità di accedervi, come invece sarebbero tenute a fare le compagnie secondo all’articolo 132 del Codice delle assicurazioni, che prevede un “obbligo a contrarre”: come chi possiede un auto è costretto a stipulare una polizza, così le assicurazioni devono consentire a chiunque di poter godere del servizio. Così non è, tanto che l’Italia ha la maglia nera dei veicoli non assicurati a causa dei premi troppo alti (1250 euro di media contro la metà per gli altri paesi europei). Ma non c’è una forma di controllo sulle assicurazioni? Sì, anche se nessuno ne conosce l’esistenza: è un organo di vigilanza sulle assicurazioni che si chiama Ivass (il cui presidente è il direttore generale di Bankitalia) e che ha tra i suoi compiti quello di verificare il comportamento delle varie società nei confronti dei clienti e stabilire sanzioni salate in caso di comportamenti scorretti. Quasi tutte le compagnie sono state sanzionate (solo nel 2014 sono state inflitte multe da oltre 23 milioni di euro). Eppure a loro conviene collezionare multe, spesso più sostenibili di quelle inflitte ai semplici agenti, piuttosto che comportarsi correttamente; basta un aumento dei costi delle polizze per farci rientrare anche le sanzioni. La verità, conclude l’autore, è che in questi anni c’è stata la sistematica riduzione dei diritti di chi ha la sventura di incappare in un incidente stradale: punteggi di invalidità permanente più bassi, tabelle di calcolo del danno biologico più favorevoli alle compagnie, graduale erosione di un decoroso ristoro dei microdanni. Sullo sfondo, le nuove tabelle unificate delle macrolesioni che “infliggeranno il colpo mortale a un intero settore”. Resta solo la giustizia a tutelare i cittadini, con sentenze che danno ragione quasi sempre all’assicurato rispetto alla compagnia. Se si ha la pazienza di aspettare anni, quando non decenni.
Ma quante lobby al governo nell'era Renzi. Conflitti d’interessi. Cordate di affaristi. Amici ai vertici delle aziende pubbliche. Ecco i gruppi di pressione attorno all'esecutivo e al premier. Mentre nel Pd si riapre la questione morale, scrivono Marco Damilano ed Emiliano Fittipaldi il 27 e 28 aprile 2016 su "L'Espresso". «Dire che noi siamo il governo delle lobby e dei petrolieri è una barzelletta», ripete ogni volta che può il premier Matteo Renzi. Nel suo programma di governo c'era l'apertura al merito e alla competizione, l'opposto delle porte spalancate ai gruppi di pressione. Dopo più di due anni, però, i conflitti di interesse si sono moltiplicati anche attorno ai ministeri e agli uomini vicini al presidente del Consiglio, in più campi. Sicurezza, enti pubblici, giustizia, trasporti, energia. C'è il sottosegretario alla Giustizia che è anche capo di una delle correnti più influenti della magistratura. C'è il consigliere di amministrazione dell'Eni che è anche il punto di riferimento del ministro dell'Interno. C'è l'ambasciatore italiano a Bruxelles che segue i dossier su ferrovie e aviazione dopo aver lavorato a fianco degli imprenditori del ramo. C'è l'ex ministro dello Sviluppo economico che si è battuta in commissione Ue in difesa dei settori imprenditoriali che le stavano a cuore: come ministro e come confindustriale. C'è il figlio di un sottosegretario Ncd piazzato da un ministro Ncd nel cda dell'Istituto tumori, senza competenze specifiche. Ed è in arrivo alla guida dell'agenzia per la sicurezza informatica la nomina di Marco Carrai, amico di Renzi, che mesi ha fondato una società privata che si occupa di sicurezza informatica...Un intreccio di interessi generali e particolari in cui è impossibile non scorgere il potere mai indebolito delle lobby, vecchie e nuove. Eppure al momento della nascita del governo, più di due anni fa, la nomina di almeno tre ministri destò più di una perplessità per il loro stretto legame con una lobby esterna: Giuliano Poletti, dalla lega Coop al ministero del Lavoro, Maurizio Lupi, legato a Comunione e liberazione e Compagnia delle Opere (confermato al ministero delle Infrastrutture che aveva già guidato con il governo Letta), Federica Guidi, figlia di Guidalberto, da Confindustria al ministero dello Sviluppo economico. Timori non infondati, dato che due su tre (Lupi e Guidi) sono stati costretti a dimettersi senza essere indagati, ma dopo che le inchieste giudiziarie hanno svelato i movimenti delle cricche nei loro ministeri. Ma nel governo che tutto dis-intermedia, come sempre si vanta Renzi, c’è il rischio, ha scritto un osservatore di certo non giustizialista come Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” (17 aprile), che ci sia «un aumento delle aree del privilegio, segmenti sociali ristretti capaci, con un’azione genericamente definibile di lobbying, di assicurarsi quote di risorse aggiuntive o status che li differenziano sempre più dal resto dei cittadini... I pochi finiscono per contare più dei molti». Anche nell’Italia del Rottamatore. La vicenda di Banca Etruria, con la parabola di Pierluigi Boschi, nominato vice-presidente dell’istituto toscano dopo l’ascesa della figlia Maria Elena a ministro-chiave e oggi indagato per bancarotta fraudolenta, considerata la madre di tutti i conflitti di interessi del governo Renzi, non rientra strettamente in questa categoria, perché il ministero della Boschi non ha diretta responsabilità sulle banche, né mai si è trovata la traccia di un suo diretto intervento sulla procedura di commissariamento dell’istituto caro al papà. Anche se una maggiore prudenza avrebbe sconsigliato il ministro di parlare in alcune interviste da esperta di aggregazioni bancarie riuscite e fallite. Pazienza. C’è di peggio. Prendiamo il caso di Marco Carrai. Vecchio amico del presidente del Consiglio, con lui fin dai tempi della Margherita, ospitò gratuitamente Renzi in una sua casa al centro di Firenze, quando l’ex boyscout era sindaco del capoluogo toscano. E poi fu nominato amministratore delegato di Firenze Parcheggi e quindi presidente degli Aeroporti Toscani. È uno dei pochissimi membri del Giglio magico a non aver ancora ottenuto una poltrona a Roma, nonostante il suo peso crescente tra gli uomini di fiducia renziani. Da almeno un anno il premier gli ha promesso un incarico di rilievo nella sicurezza nazionale, settore per cui Carrai - nonostante nessuna competenza specifica - ha una vera fissazione. Il tentativo va avanti da mesi, ma l’idea iniziale (quella di creare un’Agenzia contro il cyber-terrorismo a Palazzo Chigi da affidare a Carrai in persona, che avrebbe deciso investimenti vicini ai 150 milioni di euro) è sembrata fuori misura anche ai fan più accaniti di “Marchino”: Carrai è infatti azionista di una società, la Cys4, specializzata in sicurezza informatica, fondata a fine 2014 insieme a Leonardo Bellodi, ex braccio destro di Paolo Scaroni all’Eni e molto vicino all’attuale numero uno degli 007 dell’Aise Alberto Manenti. Qualcuno maligna che l’abbia aperta proprio perché sapeva in anteprima che il governo voleva investire sul settore. Malignità a parte, come può un imprenditore che ha un’azienda privata diventare consulente pubblico? Non basterebbe nemmeno un trust a scongiurare possibili conflitti di interessi. Anche perché nel cda della Cys4 c’è anche il fratello di Carrai, Stefano, che è anche consigliere dell’Aicom, la società fiorentina che ha il pacchetto di maggioranza. Tramontata l’ipotesi dell’Agenzia, Carrai è entrato in gara per un posto di consulente a Palazzo Chigi. Una scelta che scontenta comunque molti nostri spioni: secondo alcuni di loro è stato infatti Carrai, grande amico del figlio di Fiamma Nirenstein dipendente dei nostri servizi segreti, a spingere affinché l’ex parlamentare berlusconiana fosse nominata dal governo israeliano nuova ambasciatrice di Israele in Italia. Una nomina contestata sia a Roma che a Tel Aviv. Una sovrapposizione di ruoli che supera le frontiere nazionali. Come i conflitti di interessi, sempre meno confinabili sul territorio italiano. Perfino a Bruxelles, il cuore d’Europa e capitale d’elezione per i lobbisti di 28 Stati, faticano a distinguere quando si tratta di italiani tra interessi nazionali, generali e particolari. L’ex vice-ministro Carlo Calenda è arrivato da poco a rappresentare l’Italia come ambasciatore presso la Ue e si è trovato subito a occuparsi di dossier che conosce bene. Il quarto pacchetto ferroviario, che dovrà essere adottato da Parlamento e Consiglio Ue, con un’apertura dei mercati domestici e regole di governance e trasparenza finanziaria per i Gruppi ferroviari integrati. Nella fase finale del negoziato gli italiani si sono spesi per una linea che sembra penalizzare le Ferrovie e favorire gli operatori privati, in testa l’Ntv, di cui sono azionisti Luca Cordero di Montezemolo e Gianni Punzo, due personaggi che l’ambasciatore Calenda conosce molto bene: del primo è stato assistente quando era presidente di Confindustria, del secondo direttore generale all’Interporto campano. In arrivo c’è il pacchetto aviazione, in cui l’Italia è impegnata a combattere contro chi nella Commissione Ue vorrebbe ostacolare l’alleanza di vettori terzi con paesi Ue. Per esempio, Alitalia-Etihad. Interesse nazionale legittimo e convergenza di ruoli: Montezemolo, presidente di Alitalia, ex capo di Calenda. In una Bruxelles dove ancora raccontano delle imprese del ministro Federica Guidi, prima delle dimissioni. Di quando andò a bussare alla porta della danese Margrethe Vestager, commissario Ue alla Concorrenza, per soccorrere le aziende italiane che avevano usufruito degli incentivi per le rinnovabili. Anche in questo caso, difficile distinguere la linea sottile che passava tra l’interesse nazionale e quello settoriale della lobby dell’acciaio, cara al ministro e a suo padre. La Guidi, oggi mediaticamente triturata dall’inchiesta di Potenza e dalle gesta del suo compagno Gianluca Gemelli (che ha trafficato, secondo le accuse, per “spingere” un emendamento a favore dei petrolieri della Total, norma appoggiata con convinzione sia da Renzi che dalla Boschi), fu nominata ministro dello Sviluppo economico nonostante l’azienda di famiglia, la Ducati Energia, avesse tra i suoi committenti aziende pubbliche controllate dal governo come Poste, Terna, Enel e Fs. E pochi mesi dopo richiamò gli amici nei posti chiave. Piero Gnudi, piazzato come commissario straordinario dell’Ilva di Taranto: manager ultranavigato protagonista di tante stagioni della Prima e Seconda Repubblica, è uno dei migliori amici del papà della ministra dimissionata, Guidalberto. Un altro amico, sponsor in Sicilia di Gemelli, è ilvice-presidente di Confindustria Ivan Lo Bello, anche lui sotto inchiesta a Potenza. Tutto da dimostrare, sul piano giudiziario. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge il potere delle lobby e la loro capacità di condizionare le scelte, anche in era Renzi. Come nel caso della nomina del commissario dell’autorità portuale di Augusta, sgradita a Lo Bello e stralciata dal ministro Graziano Delrio: gli indagati se ne attribuivano il merito nelle telefonate intercettate. O l’inchiesta sulla flotta navale che coinvolge il capo di stato maggiore della Marina ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Nel cuore del sistema lobbistico c’era il consulente della Camera di Commercio Nicola Colicchi, che usava organizzare cene di lavoro sulla splendida terrazza della sede romana, in cima al tempio di Adriano, in piazza di Pietra che sta tra Montecitorio e Palazzo Chigi, lo scenario in cui si incrociano e si incontrano deputati e lobbisti, i giovani rampanti e i nuovi faccendieri, la politica ufficiale e gli interessi settoriali. Se la scelta sfortunata della Guidi è figlia del Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi (qualche anno fa Federica era in predicato di formare un ticket elettorale con l’ex Cavaliere), la decisione di mettere nel 2014 Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni è sembrata più di una mano tesa di Renzi verso la Confindustria, di cui la Marcegaglia è stata numero uno. Nonostante il rischio dei conflitti di interessi: se da un lato il gruppo Marcegaglia è uno dei più importanti player siderurgici d’Italia, il fratello di Emma, Antonio, presidente e amministratore delegato dell’azienda di famiglia, nel 2008 patteggiò per una vicenda di tangenti pagate per alcuni appalti a un manager di Enipower. Ma all’Eni sono finiti anche Lapo Pistelli ed Andrea Gemma. Il primo, alle origini dell’impegno politico di Renzi a Firenze, poi suo rivale storico, è stato assunto dalla multinazionale controllata dal ministero dell’Economia mentre era viceministro degli Esteri. Dall’incarico di governo alla vicepresidenza senior dell’ente petrolifero: un passaggio di campo mai accaduto prima. Il secondo, l’avvocato Gemma, è stato inserito nel cda dell’Eni per volontà di Angelino Alfano, capo dell’Ncd, ministro dell’Interno e amico del legale dai tempi del dottorato. I due sono alla piramide di una rete di potere enorme, basata su incarichi pubblici, cattedre universitarie e consulenze: Gemma, insieme ad altri soci tra cui Angelo Clarizia, ha vinto l’anno scorso la gara da 630mila euro per i servizi legali dell’Expo (le cui azioni di maggioranza erano in mano al governo), dopo esser stato nominato da Alfano, quando era Guardasigilli, «soggetto attuatore del Piano Carceri» e ha recentemente difeso l’Ncd in un contenzioso di fronte al Consiglio di Stato. Nello studio del socio di Gemma, Clarizia, in passato ha lavorato anche la moglie di Alfano, l’avvocato Tiziana Miceli. Una professionista che nel 2014 e 2015 si è aggiudicata - come scoprì “l’Espresso” - cinque consulenze, o incarichi di patrocinio legale, dalla Consap. Non una società privata, ma la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata direttamente dal governo. Di cui, ancora oggi, è presidente e ad Mauro Masi, ex dg della Rai in quota berlusconiana e vicino di pianerottolo della famiglia Alfano: sia il ministro che il manager vivono nello stesso elegante palazzo in via delle Tre Madonne ai Parioli. Nel pianeta giustizia, oggi al centro dell’attenzione di Renzi, si muove poi una delle più straordinarie creature del governo. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, un centauro, metà politico metà toga. Più esattamente, un politico con la toga. Leader di Magistratura Indipendente, nel 2014 sponsorizzò con un messaggino la campagna elettorale di due amici di corrente per il nuovo Csm. Il primo, Luca Forteleoni, risultò il più votato. «Indifendibile», tuonò Renzi contro il sottosegretario che procacciava voti per i suoi amici magistrati. Ma non è successo nulla: Ferri è rimasto al suo posto. E dal suo doppio incarico di uomo di governo e di capocorrente è nata la scissione in Magistratura Indipendente che ha portato oggi alla nomina di Piercamillo Davigo alla guida dell’Anm. Un pessimo affare per Renzi: si è tenuto nel governo la toga in conflitto di interessi e si è guadagnato un osso duro da scalfire come leader dei magistrati. Ma i casi di interessi convergenti tra incarichi pubblici e affari privati non si contano. Il caso di Gabriele Beni è emblematico. Imprenditore che produce scarpe, è l’uomo che ha regalato a Renzi le D’Aquasparta, le snikers con il tricolore che il premier indossò allo show organizzato per il recupero della Costa Concordia all’Isola del Giglio. Qualcuno alzò il sopracciglio, evidenziando che Renzi aveva fatto da testimonial non solo a un suo amico, ma a un imprenditore che aveva finanziato direttamente la sua fondazione politica Open con 25 mila euro. Subito dopo, nel settembre 2014, Beni - dopo aver bonificato la somma all’associazione che organizza la Leopolda - è stato nominato vicepresidente di una società pubblica, l’Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministero guidato da Maurizio Martina. Che, volente o nolente, s’è prestato a un’operazione difficilmente giustificata da merito e competenze specifiche. Così come è difficile stabilire quali siano i saperi di Andrea Gentile, nominato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin come suo rappresentante nel cda dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Neppure il ministro Boschi è riuscita a spiegarlo, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari: «La normativa vigente non stabilisce specifici requisiti per i componenti del consiglio di amministrazione». Non serve essere studiosi di medicina (Gentile vanta una laurea in diritto penale, tesi su “L’illecita captazione di erogazioni pubbliche”), basta essere figli di qualcuno, nel caso il potente ras dell’Ncd calabrese Tonino Gentile, amico di partito del ministro Lorenzin. Così potente da essere riuscito a rientrare nel governo Renzi come sottosegretario dopo essersi dimesso dalle Infrastrutture nel 2014 dopo la vicenda che aveva coinvolto il figlio Andrea: la pubblicazione della notizia dell’inchiesta a suo carico sull’Asp di Cosenza che provocò la chiusura del giornale “L’Ora della Calabria”. Ora tutto a posto: giornale chiuso, Gentile padre al governo, nel ministero dello Sviluppo Economico senza ministro dopo le dimissioni della Guidi, Gentile figlio prosciolto dalle accuse e piazzato nell’Istituto Tumori senza problemi perché, come ha detto la Boschi, «tale rapporto di filiazione non implica causa di inconferibilità o incompatibilità». E ci mancherebbe. Deve essere questo che chiamano merito. E non basterà certo l’annunciato registro di quelli che pudicamente vengono chiamati «portatori di interessi» in Parlamento a rendere trasparente ciò che arriva nelle stanze della politica senza mediazioni e ostacoli. Lobby continua.
E' lobby, ma non si dice. La gaffe di Luigi Di Maio su Facebook sulla lobby dei "malati di cancro", poi si scusa. Il Pd attacca: "Schifo", scrive L'Huffington Post il 21/07/2016. Per il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio anche i "malati di cancro" possono essere considerati lobbisti. In un lungo post su facebook il deputato M5S spiega la sua posizione sui gruppi di pressione dopo l'articolo pubblicato dal Corriere della Sera che dava conto del suo incontro a Palazzo Firenze a Roma con i rappresentanti di diverse multinazionali. "Io non ce l'ho con le lobbies", premette Di Maio, articolando poi un ragionamento basato su contrapposizioni tra diverse categorie di persone che possono rientrare nel novero delle lobbies, intese come gruppi con lo stesso interesse. "Esiste la lobby dei petrolieri e quella degli ambientalisti, quella dei malati di cancro e quella degli inceneritori. Il problema è la politica senza spina dorsale, che si presta sempre alle solite logiche dei potentati economici decotti". Una frase, quindi, senza intenti offensivi e che contiene in sé un giudizio di valore ma forse poco felice vista l'accezione che viene data comunemente alla parola "lobbisti". E che presta il fianco agli attacchi del Partito Democratico: "Sono senza parole. Di Maio per giustificare il suo incontro con le lobbies dà dei lobbisti ai malati di cancro #schifo", scrive su twitter Alessia Morani, deputata del Pd. "C'è una società di lobbying italiana - continua Di Maio su facebook - che ha elaborato uno studio sugli ultimi tre anni in parlamento del Movimento 5 Stelle. Questo studio scientifico sconfessa molti luoghi comuni con cui ci hanno sempre attaccato. Si sono studiati 35.000 proposte M5S ed hanno analizzato il nostro comportamento. Questo lavoro avrebbero dovuto farlo i giornalisti italiani, invece di alimentare dicerie mai verificate su di noi. Ed infatti quando è stato pubblicato, di questi dati ne hanno parlato in pochissimi. Ieri sera sono stato volentieri alla loro presentazione dell'elaborato, rispondendo alle curiosità degli intervistatori". Per il vicepresidente della Camera "il rapporto tra portatori d'interessi e politica va regolato per legge. Il principio cardine deve essere la trasparenza. Ci vogliono registri pubblici che mi dicano chi entra nei palazzi della politica, quali politici incontra, che proposte sponsorizza e quali partiti finanzia. Poi saranno stampa e opinione pubblica ad incrociare queste informazioni con le leggi approvate da questo o quel partito, da questo o quel politico e si faranno un'idea di chi votare". Le scuse di Di Maio. "Sono dispiaciuto che a causa delle mie affermazioni, strumentalizzate ad arte dal Pd, le associazioni dei malati di cancro siano finite in una becera polemica politica". Lo scrive il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio su facebook. "A loro sento di dover chiarire il senso delle mie parole e di un accostamento ('lobby degli inceneritori e lobby dei malati di cancro) che può essere apparso infelice: in Parlamento ci sono portatori di interessi negativi, come quelli degli inceneritori, e portatori di interessi positivi, come quelli appunto delle associazioni dei malati di cancro, che devono poter dialogare con le istituzioni affinchè il Parlamento approvi leggi a favore del loro diritto alla salute. Le loro sollecitazioni e indicazioni sono preziose per noi portavoce. Mi scuso se le mie parole sono risultate offensive".
Luigi Di Maio, i lobbisti e la stampa, scrivono Michele Arnese e Bruno Guarini su “Formiche” il 21 luglio 2016. Signore e signori grillini, i lobbisti non sono sporchi, brutti e cattivi come sovente si è raccontato in passato, ma sono dei professionisti che i parlamentari devo ascoltare anche quando magari non ci si trova d’accordo. È questo il vero messaggio giunto alla base e ai parlamentari del Movimento 5 stelle dalla partecipazione di Luigi Di Maio, esponente di spicco dei Pentastellati oltre che vicepresidente della Camera, al seminario organizzato ieri sera dalla società di lobby Fb & Associati fondata da Fabio Bistoncini. Non è un’indiscrezione giornalistica, ma è la conclusione indiretta che si trae dal post che lo stesso Di Maio ha scritto su Facebook: “Io non ce l’ho con le lobbies. Esiste la lobby dei petrolieri e quella degli ambientalisti, quella dei malati di cancro e quella degli inceneritori. Il problema è la politica senza spina dorsale, che si presta sempre alle solite logiche dei potentati economici decotti”, ha rimarcato il membro del direttorio M5S. “Abbiamo anche discusso di regolamentazione delle lobbies. È dal 2014 – ha aggiunto Di Maio – che mi batto per un regolamento sui lobbisti alla Camera. Il rapporto tra portatori d’interessi e politica va regolato per Legge”. Lo spunto dell’incontro, al quale hanno partecipato molti responsabili delle relazioni istituzionali di aziende, era la discussione di uno studio curato dalla società di lobbying sull’azione dei gruppi grillini in Parlamento (qui i nomi e le informazioni); un rapporto anticipato tempo fa da Formiche.net. Ma non si è parlato solo di questo. Come ha scritto oggi Massimo Franco sul Corriere della Sera, Di Maio ha spiegato il No dei 5 stelle al referendum sulla Costituzione, ha parlato dell’Italicum, ma in verità della legge da loro proposta, senza dire quindi se l’Italicum va modificato oppure no (e l’orientamento comunque è per il no), e ha illustrato le posizioni dei 5 stelle in politica estera (a volte ondivaghe come rimarcato qui e qui da Formiche.net nelle ultime settimane, e sottolineato oggi dal Corriere). Peccato che siccome il format non prevedeva domande oltre quelle di Bistoncini, non si sia parlato di alcune posizioni turbo ambientaliste e vetero anti industrialiste dei Movimento 5 stelle, peraltro mitigate o cassate di recente se si osservano le recenti proposte parlamentari (qui e qui gli approfondimenti di Formiche.net sui progetti pentastellati su banche, Bankitalia, fisco e politica economica). Ma l’incontro di ieri di Di Maio con alcuni professionisti del lobbying segna una svolta salutare per i vertici del Movimento che in un passato anche recente hanno seminato – senza risparmiarsi troppo – critiche e astio verso i professionisti del settore. Un cambio di impostazione che segue una linea da tempo tracciata da Di Maio e anche per questo accusato di recente di trafficare finanche con la Trilateral solo per aver partecipato a un convegno dell’Ispi. Uno sforzo ulteriore a questo punto sarebbe necessario anche da parte dei lobbisti nei confronti della stampa. Se si invitano i giornalisti dicendo però che non si può scrivere né fotografare e poi si vedono cinguettare foto dell’evento e si possono leggere cronache da parte di chi ha partecipato fra i “relatori” del convegno, l’esito può lasciare basiti taluni che hanno preferito declinare l’invito non potendo scrivere: i giornalisti non fanno, di solito, relazioni istituzionali.
LOBBY: MA PERCHÉ DI MAIO DEVE GIUSTIFICARSI? Scrive Antonio Iannamorelli il 21 luglio 2016 su “Il Rottamatore”. Non c’è nulla di male nel fatto che Luigi Di Maio abbia partecipato ad una iniziativa organizzata dal centro studi di una importante società di lobbying. Anzi, era ora. La democrazia non può essere completa se tutti gli attori che si contendono la leadership non riconoscono il ruolo dei soggetti che rappresentano presso i decisori pubblici gli interessi e le istanze delle imprese, delle associazioni di categoria tra cui anche - direttamente o indirettamente - quelle dei malati. Faccio questo riferimento perchè Di Maio ha chiosato, a proposito del mondo della lobby con una frase alquanto ovvia: ci sono i lobbisti degli inceneritori e quelli dei malati di cancro. Vero. Ci sono. Lobbisti diretti o indiretti che rappresentano interessi dei gestori del comparto rifiuti e lobbisti, diretti o indiretti, che rappresentano interessi delle associazioni dei pazienti. Associazioni che si muovono per chiedere che un nuovo farmaco venga registrato, che una linea di ricerca scientifica venga privilegiata rispetto ad un’altra, che una determinata terapia entri nei LEA, che per talune terapie si stanzino fondi straordinari. E’ la mia esperienza diretta, fatta da entrambi i lati della barricata. Quando ero al Ministero della Salute, come capo della Segreteria del Sottosegretario di Stato sono stato sollecitato decine e decine di volte su tematiche legate all’attività del Ministero sia amministrative che legislative dalle associazioni dei pazienti e dai loro rappresentanti. Molti si presentavano come avvocati, ma facevano lobby. Premevano per l’adozione di provvedimenti, consegnavano position paper, esponevano motivazioni, attivavano pressioni di terze parti. Quello che faccio io ora. Quindi non c’è proprio niente di cui scandalizzarsi, come ha fatto Alessia Morani. Ribadendo che è “inorridita” da queste parole. Evidentemente perché ritiene orribile la parola “Lobby” e perché gli fanno “#schifo” i parlamentari che incontrano i lobbisti. Certamente le faranno anche “#schifo” quelli del suo partito che ci incontrano e che partecipano alle iniziative pubbliche e private che promuoviamo. Insieme a loro, io, personalmente, ho risolto molti problemi di molte imprese e associazioni. Problemi che si ripercuotevano sui cittadini. A volte otteniamo ragione, infatti, altre no. Che poi credo fosse esattamente quello che Di Maio voleva dire. Non voleva e non doveva giustificarsi, ma esprimeva appunto una ovvietà: il lobbista porta un interesse e delle motivazioni a sostegno. Poi siamo noi a decidere se quell’interesse merita di essere preso in considerazione, se la soluzione al problema che il lobbista propone è quella da sostenere, se la battaglia che ci viene proposta è quella che poi faremo. Un principio sacrosanto: libera lobby in libero giudizio dei decisori. Altro che “gaffe” come la definisce l’Huffington Post in un pezzo che nessuno ha il coraggio di firmare. La presenza di lobbisti trasparenti e ufficiali è una delle certificazioni del fatto che uno stato è democratico. Non conosco società di lobby che operano nel Daesh, ad esempio. E il fatto che oggi tutti e tre gli schieramenti che sono ai banchi di partenza per le prossime elezioni politiche abbiano metabolizzato l’idea che “lobbista” non è un insulto e che gli interessi rappresentati vanno sempre, e liberamente, giudicati nel merito, dovrebbe farci sentire tutti più al sicuro. O forse c’è chi preferiva quando il Movimento Cinque Stelle mandava i suoi parlamentari a riprendere di nascosto i nostri colleghi con lo smartphone per esporli al pubblico ludibrio?
Le offerte Tim: cosa nascondono? Promesse allettanti all inclusive che invece affibbiano solo piani tariffari mobili antieconomici. Ognuno di noi aspira ad avere la linea telefonica fissa e quella mobile con un unico gestore/operatore, oltre che internet veloce, con la banda larga finanziata anche dai fondi europei, mantenendo lo stesso numero precedente per il telefono di casa e per il telefonino. Le allettanti offerte della Tim pubblicizzate sui giornali, Tv e portali social, ti portano ad ordinare i suoi pacchetti all inclusive: Tim Smart Mobile –UPS, ossia Adsl/Fibra/Wi-fi, Fisso, Mobile, TimVision. Invece, poi, ti ritrovi ad avere per certo solo una tariffazione mobile diversa da quella ordinata. Molto più onerosa delle altre tariffe concorrenziali. Per il resto bisogna attendere, forse invano. Stride la differenza di adempimento del contratto tra la linea fissa e quella mobile. E da quanto risulta dai commenti sulla pagina Facebook della Tim pare che per la linea fissa occorrano anche mesi sine die per dare compiutezza all’ordine, senza soluzione di continuità. Il 187, con operatori che spesso ti chiudono il telefono prima che si smetta di parlare, nulla ti sa dire per i reiterati contatti per lo stesso problema se non, a secondo l’operatore, che l’ordine risulta bloccato o, addirittura, risulta essere annullato. Gli appuntamenti con il tecnico per la consegna del materiale, poi, vanno regolarmente deserti. Il 119, numero Tim per l’assistenza per il mobile, poi, è distinto dal 187, quindi nulla sa riguardo le vicende del ramo della linea fissa della Tim, e quindi nulla può per ovviare al disservizio. Che le autorità preposte (amministrative o giudiziarie) o le più blasonate associazioni dei consumatori sappiano della vicenda e nulla fanno, sembra plausibile, tenuto conto della vastità dell’andazzo, così come risulta dai commenti sulla pagina Facebook della Tim. A noi poveri cristi, se non ci resta che piangere, allora ci resta solo di aspettare.
Sindacati, inutili catafalchi, scrive Luigi Iannone il 5 ottobre 2016 su “Il Giornale”. All’università fui costretto a fare la tesi di laurea sul movimento cooperativo cattolico. E il termine ‘costretto’ non è un eufemismo. I professori dilatavano i tempi di assegnazione e l’anno di militare era sempre più vicino. Avevo tutt’altre idee per la testa ma nel medio termine mi fu prospettata solo questa possibilità. Avessi insistito su temi a me cari, sarebbero passati almeno due anni. Dunque, partì male e finì peggio perché avendo molti pregiudizi sul sindacalismo non mi appassionava l’idea di stare chino sui libri. Avevo nella testa quello a me più prossimo, ideologizzato e fuori dal tempo; che inneggiava alla rivoluzione proletaria, all’Urss e vedeva padroni e nemici ovunque. Man mano che passarono i mesi setacciando tra vecchi volumi e molta pubblicistica di fine ottocento scoprii che tante di quelle battaglie erano condivisibili. Anzi, c’era qualcosa in più. Quel mondo mi stava entrando nella pelle. Addirittura pensai che forse, fossi nato in quel tempo, sarei stato dalla loro parte. Avrei imbracciato la loro bandiera e sarei andato in giro per fabbriche e campagne. La Tesi non fu un granché perché i pregiudizi pesarono sull’assiduità e sulla robustezza dell’impegno ma compresi in pieno tutte quelle idealità e la funzione morale oltre che civile e politica del sindacalismo degli inizi. Le Società operaie di Mutuo soccorso, i movimenti cooperativi bianchi e rossi, insomma tutto un mondo necessario per la evoluzione sociale del nostro Paese che rappresentò, pur tra mille appesantimenti ideologici amplificatisi però solo nel secolo successivo, un anelito di libertà e di progresso essenziali quanto l’aria che respiriamo. Ne è passato di acqua sotto i ponti. Da tempo non è più così. Lo sappiamo tutti. E lo sanno anche loro. I sindacati sono una casta al pari dei partiti e di tante altre associazioni di categoria. Corporazioni che difendono un misero orticello e che, per via della globalizzazione, delle delocalizzazioni industriali e di una legislazione orientata sempre più in senso liberista, tende ad essere sempre più ristretto. Eppure, lo difendono comunque, fuori da ogni logica. Negli ultimi decenni si erano in parte trasformati in agenzie di collocamento per i propri tesserati, in parte in pesanti catafalchi utili a sorreggere e ad alimentare polverose macchine amministrative dislocate su tutto il territorio. Ora scopriamo che le Coop di alcune provincie italiane accusano le istituzioni pubbliche lamentando ritardi nei pagamenti e perciò minacciando di tirarsi indietro dall’accoglienza e dall’assistenza ai migranti. In sintesi: se il Governo o le Regioni non tirano fuori il danaro, sono pronte a dar un calcio nel sedere agli immigrati e a lasciarli fuori la porta. Applicano la legge del Mercato, proprio loro che del Mercato dovrebbero correggerne gli errori e compensare la legge della giungla con la solidarietà e la redistribuzione. E danno sfogo all’egoismo di casta, proprio loro che dovrebbero difendere deboli e indifesi. Leggo poi commenti acidi da parte di editorialisti e di politici e la cosa mi crea sgomento. Mi meraviglio di chi si meraviglia perché i sindacati non esistono da decenni. Sono un ectoplasma che quando si materializza lo fa quasi sempre per motivazioni di basso profilo. Hanno ormai una ragione sociale diversa. Difendono talune categorie e se ne strafregano di tutto il resto. Sprofondasse l’Italia a loro interessa poco. Vivono per tutelare interessi di una parte; di una piccolissima parte che non include coloro i quali investono una vita di stenti rincorrendo le nuove forme di lavoro precario, i disoccupati ed almeno un’altra dozzina di categorie, e di conseguenza trascurano diverse decine di milioni di persone a cui non volgono nemmeno lo sguardo. Ed è evidente che tanti sindacalisti che gestiscono il business dell’accoglienza sanno poco di cooperazione, diritti, mutualismo; sanno poco di preti che, a fine ottocento, dopo aver detto messa, si industriavano con regolamenti e statuti per permettere migliori condizioni sanitarie e di lavoro ad operai allora davvero simili a schiavi; non conoscono la storia della loro associazione, né vogliono al contempo renderla attuale. Giocano il loro ruolo nella società del Mercato come farebbe un capitalista in sedicesima. Ecco, loro non fanno bene né il mestiere dei sindacati né quello dei capitalisti. Fanno tutto in sedicesima.
PARLIAMO DELLA MAFIA MILITARE.
Mafia Militare ed Omertà. Affittopoli con le stellette. Quando il rispetto della legge non vale per tutti.
Alloggi dell'Aviazione occupati abusivamente scattano le denunce. La Digos sgombera lo stabile sulla Tuscanese e deferisce 14 militanti di Casapound, scrive l'11 Aprile 2013 il "Corriere di Viterbo". Quattordici appartenenti a Casapound, tra cui il candidato sindaco Diego Gaglini, denunciati per l’occupazione abusiva degli alloggi; i tre nuclei famigliari che ne avevano preso possesso, composti complessivamente da 9 persone, allontanati. E’ dovuta intervenire la Polizia di Stato per liberare lo stabile dell’Aviazione dell’Esercito che martedì pomeriggio era stato occupato con una sorta di “blitz” che ha visto come protagonista il movimento di destra. E’ successo sulla Tuscanese, dove questo gruppo di alloggi è da tempo vuoto. Ad accorgersi di quanto stava avvenendo è stato il personale della Digos della questura di Viterbo, coordinato dal dirigente, Monia Morelli. I dettagli dell’operazione sono stati illustrati ieri nel corso di una conferenza stampa in questura. Nello specifico, gli uomini della Polizia di Stato hanno notato la presenza di persone negli appartamenti, a dire il vero senza fare molto per non farsi vedere visto che sulla recinzione erano stati esposti simboli di Casapound, proprio per evidenziare l’avvenuta occupazione delle palazzine. A quel punto la Digos è intervenuta, di concerto anche con una pattuglia dei carabinieri. Le forze dell’ordine hanno sorpreso e identificato all’interno dello stabile, come detto, 14 persone aderenti a Casapound e tre nuclei familiari, composti da nove persone. Gli “occupanti” avevano forzato le grate del portone d’ingresso e di una finestra, si erano introdotti all’interno della struttura per occuparla abusivamente. Non solo, le tre famiglie avevano già provveduto alla pulizia di alcuni locali, il che fa pensare che avessero l’intenzione di fermarsi, non solo quindi di compiere un’azione dimostrativa per denunciare la grave problematica del reperimento di un alloggio popolare.
La Corte dei Conti alle Forze Armate: sei mesi per recuperare alloggi occupati abusivamente. Secondo i magistrati il 25% degli appartamenti è occupato da abusivi, 4.190 in totale. A questi vanno aggiunti 4.263 alloggi che non risultano fruibili in quanto necessitano di lavori. Il 50,2% delle case destinate al personale delle forze armate risulta indisponibile per i militari che ne avrebbero necessità, scrive Clemente Pistilli il 6 gennaio 2016 su "L'Espresso". Alla logica dell’abuso in Italia non sono sfuggiti neppure gli alloggi destinati al personale delle Forze Armate, con la conseguenza che, oltre ad essere disponibili per i militari appena 16.812 appartamenti a fronte dei 45.847 ritenuti necessari alla luce delle ultime stime, ben 4190 sono occupati da chi non ne ha alcun diritto. Uomini dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, passati ad altro incarico rispetto a quello per cui era stata data loro una casa, a cui è scaduta la concessione o andati in pensione, tra vuoti normativi e continui stop ad azioni di recupero imposti dai diversi Governi negli ultimi 38 anni, hanno continuato a godere del tetto avuto dal Ministero della difesa. E così spesso i loro eredi. A un anno e mezzo di distanza da un decreto del ministro Roberta Pinotti, con cui è stata addirittura ampliata la categoria di “intoccabili”, quelli verso cui viene impedito anche il tentativo di recuperare gli alloggi, arriva però l’ultimatum della Corte dei Conti. I magistrati contabili, dopo aver esaminato a fondo il fenomeno, riscontrando che chi ne ha diritto è senza una casa mentre gli abusivi ne godono, hanno inviato una dettagliata relazione ai presidenti della Camera e del Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ai ministri della difesa e dell’economia, Pinotti e Pier Carlo Padoan, chiedendo una soluzione al problema nell’arco di sei mesi, partendo proprio dal recupero di tutti quegli spazi occupati da anni “sine titulo”. La vicenda, secondo la stessa Corte dei Conti, è tanto complessa quanto rilevante. I magistrati non hanno dubbi: “La gravità della situazione attuale necessita di interventi chiari, precisi e puntuali”. Dalla legge varata nel 1978 per la realizzazione degli alloggi destinati ai militari, durante il Governo Andreotti, a oggi i problemi si sono stratificati e le cosiddette “ragioni sociali” hanno sempre portato l’esecutivo a frenare i tentativi di recuperare le case occupate da abusivi, al massimo aumentando loro il canone. Qualcosa stava cambiando con la norma introdotta nel 2007 dal secondo Governo Prodi, che ha previsto la vendita di tremila alloggi non più funzionali alle esigenze del personale della Difesa, reinvestendo le somme ottenute per la sistemazione dei troppi appartamenti inagibili perché da ristrutturare e per costruirne di nuovi, con un primo piano per 720 case a Roma. Ma poi la legge di stabilità 2015 ha interrotto il progetto, imponendo al Ministero di contribuire alla riduzione dell’indebitamento con i soldi ottenuti dalle alienazioni, garantendo allo Stato 220 milioni l’anno scorso e 100 nei due anni successivi. Il 7 maggio 2014, inoltre, a distanza di poco più di due mesi dal suo insediamento, il ministro Pinotti ha firmato un decreto con cui ha ampliato le fasce protette, quei casi in cui non si può recuperare l’alloggio seppure occupato abusivamente, includendo, oltre alle vedove e alle famiglie a basso reddito, anche figli e nipoti dei militari. Azione che la Corte dei Conti definisce “paradossale”. Il 25% degli appartamenti militari è così ancora occupato da abusivi, 4.190 in totale: 2.871 dell’Esercito, 408 della Marina e 911 dell’Aeronautica. A questi vanno poi aggiunti 4.263 alloggi che non risultano fruibili in quanto necessitano di lavori. Per ristrutturare mancano fondi e il Ministero intanto paga oneri condominiali e tributi su case sfitte. Si arriva in tal modo al 50,2% delle case destinate al personale delle forze armate indisponibili per i militari che ne avrebbero necessità. In sei mesi la Corte dei Conti chiede però ora al Governo di risolvere un problema vecchio di decenni. “Pur tenendo presenti eventuali situazioni particolari contingenti, è necessario – precisano i magistrati nella relazione – riaffermare l’esigenza di recuperare tali alloggi e procedere di conseguenza”. E sulle case inutilizzate perché in attesa della necessaria manutenzione, precisano che è indispensabile un confronto tra Difesa e Mef, per sanare tale situazione, trovando le necessarie risorse, e una soluzione al problema delle imposte. La piaga degli alloggi militari è diventata una priorità.
Affittopoli con le stellette: quando a occupare le case sono i militari (il business degli alloggi della Difesa). Il ministero della Difesa dispone di 18mila alloggi, ma 5mila sono abitati da chi non ne ha più diritto - di Antonio Crispino /Corriere TV il 29 marzo 2016. Quando si parla di casa le differenze si azzerano. Tutori della legge o civili, se c’è bisogno di un tetto sotto cui vivere si procede più o meno allo stesso modo, comprese le occupazioni abusive. Alla Cecchignola a Roma, cittadella militare per eccellenza, un ex maresciallo dell’Esercito ci indica gli ultimi alloggi presi di mira. «In via Battaglione d’assalto è pieno di case dove hanno tentato di sfondare la porta, siamo stati noi vicini a denunciare, altrimenti ora sarebbero abitate. Sono tutti militari disperati perché non trovano casa e non possono permettersi i fitti spropositati di Roma». Il ministero della Difesa dispone di un patrimonio di 18,447 alloggi, di questi ben 5384 abitati da chi avrebbe dovuto lasciare casa perché non più in servizio o con il titolo concessorio scaduto. Altri 4000 sono vuoti o in cattivo stato di conservazione. Come quelle che visitiamo al Villaggio Azzurro di Ostia. Sono ventuno villette (tra prefabbricati e muratura) dell’Aeronautica militare. La maggior parte abbandonate. Sui tetti ormai è cresciuta l’erba. Entriamo, cadono a pezzi. «L’ultima l’ha lasciata un colonnello circa un anno fa - ci dice un’inquilina che resiste, moglie di un ex maresciallo deceduto -. Hanno aumentato i canoni di affitto all’inverosimile costringendo le persone ad andare via». Il riferimento è al cosiddetto Decreto Crosetto (16 Marzo 2011) con il quale si stabiliva «la rideterminazione del canone degli alloggi di servizi militari occupati da utenti senza titolo». In pratica, a fronte di un esercito di occupanti, lo Stato anziché procedere con gli sfratti ha innalzato i canoni. Un modo per indurli a lasciare le case. Ma poi non ha provveduto né a riassegnarli né a fare manutenzione. Così, oltre a non incassare un euro di affitto, lo Stato paga l’Imu su fabbricati che poi lascia marcire. Al tempo stesso si allunga la lista dei giovani militari in attesa di un alloggio. I vertici della Difesa hanno stimato che per soddisfare la domanda di casa tra i militari occorrerebbero 51mila nuovi alloggi, 16mila da costruire solo nel Lazio per un costo complessivo di 5,7 miliardi di euro. Ma il piano da 20mila alloggi partito più di dieci anni fa ha prodotto poco più di 700 case. Anche sul fronte delle dismissioni ad oggi non sono stati fatti molti passi avanti. Il patrimonio immobiliare da vendere ammonta a 3022 unità. In parte si sta procedendo con le vendite all’asta, con ribassi anche del 30%. Perché in tante sono andate deserte a causa dei prezzi troppo elevati o della scarsa appetibilità dell’immobile. Non tutti gli alloggi militari sono uguali. Si dividono in alloggi gratuiti per i custodi (ASGC); alloggi dotati di locali di rappresentanza (ASIR); alloggi per la sistemazione provvisoria delle famiglie dei militari (AST); alloggi per i militari in transito (APP); alloggi per le esigenze logistiche del personale militare imbarcato e dei familiari (SLI) e infine ci sono gli ASI, ossia gli alloggi che concessi in relazione all’incarico svolto. Hanno tutti una durata variabile. Si va dal periodo di permanenza nell’incarico agli otto anni previsti per gli AST. Dopodiché gli assegnatari dovrebbero lasciare l’alloggio e riconsegnare le chiavi. Almeno sulla carta. Perché nella pratica non lo fa quasi nessuno. Nasce così la schiera dei cosiddetti «sine titulo». Angelo Oria è in pensione. Era capo nucleo Comunicazioni nell’Aeronautica militare. Dal 1989 abita 80 mq al Villaggio Azzurro di Milano, zona 4, prospiciente l’aeroporto Ata. Paga 600 euro al mese. Nel 2007 avrebbe dovuto lasciare l’appartamento. «E dove andavo? Mi dispiace per i giovani militari che sono senza alloggio ma io i soldi per affittare una casa a Milano non li ho», risponde seccato. D’altronde il ministero della Difesa non ha fatto granché per riprenderne il possesso. «Sì, mi mandarono una letterina in cui mi dicevano che non avevo più titolo per restare ma nulla di più. Sono rimasto qui tranquillamente». E come lui hanno fatto tanti altri, comprese le rappresentanze sindacali con le quali parliamo che rientrano tutti nella categoria dei sine titulo. Sergio Boncioli è il coordinatore nazionale del comitato «Casadiritto. Analisi, informazione e istruzioni per l’uso degli alloggi della Difesa». Un punto di riferimento per chi ha questo tipo di status. Lui la divisa non l’ha mai indossata. Era assistente tecnico, si occupava di contratti. Prese un alloggio in considerazione della situazione reddituale. Pochi mesi dopo il ministero cambiò i criteri di assegnazione. Avrebbe dovuto lasciare l’alloggio più di vent’anni fa. Ci riceve in quello stesso appartamento all’interno di un ex convento al centro di Roma. «Se ha un po’ di pazienza le faccio vedere venti decreti e una decina di leggi che legittimano la mia presenza qui». Ed è proprio così perché lo Stato anziché farsi restituire gli alloggi ha proceduto negli anni a una serie di sanatorie, più o meno mascherate. Ma non ci sono solo i sine titulo. Altra prassi ormai consolidata è quella di mantenere l’alloggio sulla carta per poi cederlo a parenti e amici. «Lo vedi quell’appartamento? Ci abita la suocera di un colonnello. Fisicamente se ne è andato però sulla carta risulta sempre là dentro» ci dicono i vicini di casa, tutti militari. A telecamere abbassate chiediamo se sono situazioni isolate. Chi ci accompagna sghignazza e inizia a fare l’elenco: «Lì c’è un alto ufficiale che è in Perù da quattro anni. A casa sua ha lasciato la figlia, divorziata con un bambino. L’affitto lo paga lei a nome suo… Da quest’altra parte c’è un suo collega, andò a fare l’addetto militare a Malta. Nei cinque anni in cui ha prestato servizio lì ha mantenuto l’alloggio in Italia, vuoto, nonostante guadagnasse trentamila euro al mese…». Si conoscono nomi, cognomi e indirizzi ma nessuno ha mai denunciato niente. «E chi vuoi che parli? C’è tanta di quella omertà in questo ambiente… Anzi, ci sono tante di quelle schifezze dietro, perché bene o male ognuno ha il proprio scheletro nell’armadio». Tutte cose che nessuno accetta di denunciare apertamente, nemmeno dietro anonimato. E il perché ce lo spiega un maresciallo dell’aeronautica che dall’interno segue proprio queste tematiche: «C’è una grande copertura anche da parte dei Comandi ai quali il regolamento attribuisce la capacità di decidere a chi assegnare una casa. L’alloggio di servizio fa diventare ricattabile il collega. Anche quando vedono palesi violazioni in un certo senso sono vincolati al silenzio. Qui ci sono persone che posseggono alloggi di servizio pur avendo case all’esterno a pochi metri. Case che poi provvedono ad affittare. E’ un business non indifferente». Del resto, ogni volta che un Governo ha iniziato a parlare di sfratti e verifiche, in Parlamento si sono alzate le barricate. L’ultimo comunicato della Difesa con oggetto il «recupero forzoso degli alloggi» risale al 2005 e dà notizia che le case recuperate «…a partire dal 2004, sono 59 sull’intero territorio nazionale». Nel 2011 fu l’on Aldo Di Biagio ad opporsi apertamente. Rivolgendosi all’allora ministro Giampaolo Di Paola disse: «Chiedo pertanto… se si intende frenare il recupero forzoso avviato in questi mesi… Signor Ministro, non costa nulla rivedere questa disciplina … per il rispetto che dobbiamo a chi per anni ha servito l’Italia con dedizione e sacrificio».
PARLIAMO DI SPECULAZIONI.
L'ITALIA DELLE LIBERALIZZAZIONI MANCATE. Dalle banche ai trasporti, dalle poste alle professioni, aprire il mercato alla concorrenza potrebbe portare enormi benefici per l'occupazione e per i consumatori. Dopo le famose "lenzuolate" di Bersani, che hanno introdotto importanti novità come la portabilità del mutuo e la nascita delle parafarmacie, di passi avanti ne sono stati fatti però ben pochi. Malgrado le indicazioni fornite dall'Antitrust, anche il disegno di legge attualmente all'esame del Senato è diventato infatti terra di conquista per le tante lobby che vogliono impedire il cambiamento, scrive il 09 febbraio 2016 “La Repubblica”.
Tutti le vogliono, nessuno le fa, scrivono Roberta Benvenuto e Marco Bracconi. Tutti le vogliono. Nessuno le fa. E non importa che per il Fmi un’accelerazione della concorrenza porterebbe ad una crescita per l’Italia del 3,5% in 5 anni e del 7,5% sul lungo termine. Non basta la previsione di Padoan secondo la quale potrebbero garantire "risparmi fino a un punto di Pil entro il 2020". Come riporta il ministero dello Sviluppo Economico, al di là dei dati, l’apertura dei mercati darebbe una bella lucidata alla “credibilità del Paese, ma soprattutto al suo rating, grazie ad una maggiore sostenibilità del debito con un più elevato tasso di crescita potenziale dell’economia”. Tutto questo non basta perché la politica ha ragioni che l’economia non conosce. Nonostante Renzi sia capace di grande determinazione (vedi riforma costituzionale e Jobs Act), sulla strada delle liberalizzazioni ha optato per grandi frenate e minimi dissensi. E non viceversa. L’attuale governo – è vero – è stato il primo a recepire le indicazioni dell’Antitrust con una legge ad hoc (il ddl concorrenza attualmente in Senato). Eppure sembra comunque prevalere lo status quo visto che la legge uscita da Palazzo Chigi nel febbraio 2015 giace da mesi in Parlamento tra audizioni, emendamenti, fughe in avanti e precipitose marce indietro. A scapito della libertà del mercato e dei consumatori. Gallina dalle uova d'oro. Scorrendo il report sull’attività del ministero dello Sviluppo Economico 2015 alla voce concorrenza si scopre che dalla sola liberalizzazione del mercato dei servizi, la crescita del Pil sarebbe del 3,3% in 5 anni, porterebbe a +4,16% di consumi, +3,69% di investimenti, +1,66% salari reali, +4,94% di produttività del lavoro. Una gallina dalle uovo d’oro: calcolando che un punto di Pil equivale a 16-17 miliardi si tratta di oltre 50 miliardi. Ricordate i costi di ricarica delle sim liberalizzati nel 2006? Secondo l’indice dei prezzi dell’Istat, nel 2007 i costi per la telefonia mobile sono diminuiti del 14,6%, effetto dovuto all’abolizione dei costi di ricarica sulle schede telefoniche. Il risparmio totale è stato di circa 1,9 miliardi di euro all’anno. Mica male. Nello stesso anno sono stati liberalizzati i farmaci da banco senza obbligo di ricetta a carico del consumatore. La classica aspirina o l’enterogermina arrivano anche nei corner salute di ipermercati e parafarmacie: l'anno successivo i prezzi sono scesi del 20%. E ancora. L'abolizione della firma notarile per il passaggio di proprietà delle auto ha prodotto un risparmio di 40 euro per atto; l'eliminazione della penale per l’estinzione dei mutui anticipata, targata Bersani, ha portato ad un risparmio medio di circa 500 euro. La domanda di fondo è: quanto sono di ostacolo le normative alla libertà di scelta di operatori e consumatori? Da questo punto di vista l’Italia ha molta strada da fare. Nell’ultimo report IBL siamo a 67 punti su 100: la sufficienza. I bad performer sono soprattutto i servizi a rete e quelli più regolati. “Dove c’è ancora il monopolio legale, regolazioni asfittiche o barriere in ingresso molto forti. Dove esiste una rete fisica e unica, dai binari alla fibra ottica, lì c’è sempre difficoltà concorrenziale” spiega Serena Sileoni, vicedirettore dell'Istituto Bruno Leoni. No entry, insomma. E chiusi dietro la porta bussano i farmaci di fascia c con obbligo di ricetta e i trasporti: da un nuovo regime per taxi e NCC (è del 1992) fino al possibile ingresso di privati nei trasporti pubblici locali. Ma il tallone d’Achille è il settore carburanti, che sconta un’elevata fiscalità: il 69,7% del prezzo di vendita. Un carico che impedisce di percepire la differenza tra gli vari operatori. Non solo. A fronte di un numero molto alto di punti di vendita, pessima è la rete distributiva. E non aiuta l'obbligo del terzo carburante. “Se vuoi aprire una colonnina di gasolio – spiega Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori – devi aprirlo anche di benzina e gpl. Il risultato è che a lavorare sono solo le compagnie che già hanno una rete. Ma dove ci sono le colonnine della grande distribuzione c'è un risparmio di 10/11 centesimi a litro”. I settori che invece dovrebbero cambiare a breve sono energia elettrica e gas, oggi regolati dal servizio di “maggior tutela”. Ma c’è chi dice no. “Ci sono migliaia di cambi di contratto non richiesti che abbiamo denunciato all’Antitrust”, avverte Trefiletti. "Entrano questi ragazzi, pagati in base ai contratti che chiudono, e cadi nel tranello di passaggio di gestione con servizi e costi ulteriori”. "Il punto è che nessuno vorrebbe competitori - ammette Sileoni -. Ai tassisti piacerà la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, ma non quella del loro settore. E viceversa. E queste sono tutte persone che votano, quindi…”. C’è un caso su tutti: taxi vs. Uber. Ci si scanna su un cavillo per cui il veicolo deve tornare alla nell’autorimessa e solo lì ricevere una prenotazione. Una norma obsoleta per il trasporto 2.0 o via app. Sembra un pretesto, ma dietro di esso si cela il nodo del problema. Lo iato tra il bene comune e gli interessi di settori economici piccoli e grandi. E le regole che possono ridurlo. Una partita complessa per il legislatore. Che Bersani riassume così: "C'è un meccanismo in cui prevale la forza di chi tiene chiusa la porta a scapito di chi sta bussando. Ma per liberalizzare ci vuole coraggio. Un elemento di rischio c’è. Devi investire il capitale di consenso di oggi in nome quello di domani”. Roba da politica d'altri tempi, forse.
Ma con le parafarmacie lavoro per ottomila, scrive Roberta Benvenuto. “Non avrei un lavoro adesso senza l’apertura del mercato dei farmaci”. Anna lavora in una parafarmacia, una delle oltre 3 mila nate dalla liberalizzazione dei farmaci senza obbligo di prescrizione del 2006. È il volto di uno degli 8mila nuovi posti di lavoro sbloccati nel settore. Enrico, il proprietario, sarebbe andato a esercitare la sua professione in Inghilterra se non si fosse aperto questo mercato. Il Senato sta esaminando il ddl concorrenza, tra mille peripezie, audizioni e dietrofront. Il nodo sta tutto in una lettera: C. Liberalizzare o no i farmaci di quella fascia con obbligo di ricetta? C’era una volta il decreto Bersani che sbrigliò il libero mercato dei prodotti senza ricetta medica. Una liberalizzazione lasciata però a metà. Poi venne il governo Renzi. Che con il ddl Concorrenza sta per dare il via all’ingresso del grande capitale nelle farmacie rimuovendo l’obbligo della presenza di un farmacista nella proprietà, ed eliminando il numero di 4 licenze massime. Un’apertura dell’assetto proprietario a cui però non corrisponde uno sblocco del mercato dei farmaci. Presente nella bozza iniziale del ministero dello Sviluppo Economico, è poi scomparsa la liberalizzazione della fascia c con obbligo di prescrizione e a carico del consumatore. E nonostante sia stata ripresentata come emendamento da Scelta civica, la Camera non l’ha votata. Per Bersani questo è un caso emblematico di lotta per proteggere le posizioni di rendita, “è uno strappo alle lenzuolate che hanno invece bisogno di manutenzione e continuità”. Quando il dilemma è accostare la concorrenza ad un prodotto sui generis come quello dei farmaci, che tocca la salute di tutti, ma anche gli interessi di molti, sono sempre due le corna. Da un lato ci sono parte dei consumatori, le parafarmacie e la grande distribuzione che invocano liberalizzazioni e risparmio. Dall’altra le associazioni di farmacisti che voglio mantenere l’esclusiva e il primato sanitario. Annarosa Racca, presidente di Federfarma, spiega che “con la liberalizzazione dei farmaci di fascia C-Op si scardinerebbe l’intero sistema di regole che oggi garantisce l’efficienza e la capillarità della rete delle farmacie. Bisogna far rimanere la ricetta nelle farmacie”. E ancora: “Se i farmaci li vendono i supermercati, le farmacie chiudono”. Fa da eco il ministro Lorenzin: “Non si tratta di liberalizzare. Si tratta di vendere nel supermercato. I farmaci di fascia c con ricetta rientrano in un quadro di sostenibilità del sistema farmaceutico. Senza questi il sistema non potrebbe reggere. Poi in questa categoria rientrano anche alcuni psicofarmaci. La questione va affrontata in maniera più ampia”. Per legge chi vende i farmaci è sempre un farmacista professionista, anche nel corner dell’ipermercato. Al netto di questo, i prodotti di fascia c con obbligo di prescrizione, con 2,9 miliardi di euro rappresentano il 16% del mercato farmaceutico totale. Contro il 70% dei farmaci di fascia A vendibili solo in farmacia (con obbligo di ricetta, ritenuti essenziali e per questo rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale) e il 14% dei farmaci di fascia c senza obbligo di ricetta già liberalizzati. Si svincolerebbero dunque il 30% dei prodotti. Non molto. Non abbastanza, forse, da giustificare un’ecatombe delle farmacie. Ad esempio i farmaci interessati dal decreto Bersani rappresentano il 10% del fatturato delle farmacie. A distanza di 10 anni è loro il 92% dell’incasso totale. Ma i risparmi? Considerando che i farmaci di fascia c con ricetta hanno un prezzo medio di 11,8 euro, 3,7 euro in più rispetto ai prodotti già liberalizzati. E calcolando uno sconto virtuale tra il 15 e il 30%, il risparmio annuo per le tasche degli italiani potrebbe andare tra i 450 e gli 890 milioni di euro. Stando ai dati Assosalute, i farmaci non prescription quelli già liberalizzati, nel 2014 hanno avuto un valore medio di vendita “pari a 8,1 euro in farmacia, 7,4 in parafarmacia e 6,0 presso la GDO”. Ma essendo libero solo il 14% del mercato, la concorrenza è falsata dall’attrattività delle farmacie. Come spiega Altroconsumo, dietro l’angolo c’è l’effetto distorsivo: “Dopo l’iniziale calo dei prezzi post-liberalizzazione, i costi hanno cominciato a risalire”. Ad esempio: Rosalba ha pagato una Vivin C in farmacia 16,90. Un furto. Dal 2007, infatti, non c’è più il prezzo massimo di vendita. Il farmacista decide. Se nella libera concorrenza vince chi intercetta le esigenze dei consumatori qui qualcosa non torna. “La liberalizzazione di adesso, lo diciamo da tempo, è monca e la concorrenza tra punti vendita non è piena: il 90% dei medicinali a nostro carico senza ricetta viene ancora venduto solo nelle farmacie. Parafarmacie e ipermercati non sono veri concorrenti”. Ed infatti pur di risparmiare sui medicinali si assiste al fenomeno dei contrabbandieri o dei gruppi d’acquisto. Guidati dal guadagno gli uni e dal risparmio collettivo gli altri, lista della spesa alla mano, si viaggia per chilometri per arrivare in Francia e pagare una tachipirina quattro volte meno. O peggio, è in fase emergente il fenomeno delle farmacie on-line illegali. Per eludere la ricetta e per risparmiare si ricorre al web con grandi rischi per la salute.
"Più concorrenza combatte anche lo smog", continua Roberta Benvenuto. Peggio di noi solo Grecia, Polonia e Romania. Nell’ultimo quadro di valutazione dei trasporti dell'Unione europea, se cerchi Italia, la trovi al quart’ultimo posto. Gli italiani passano nelle strade congestionate 38,73 ore all'anno, contro una media Ue di 30,96 ore. E il traffico, si sa, non fa bene all’ambiente. Colpa di un mercato poco libero? Edoardo Zanchini, responsabile nazionale trasporti di Legambiente, non ha dubbi: “Sì”. Nelle città gli ostacoli – li vedremo – sono ancora moltissimi. Ma anche nelle ferrovie, che passi avanti ne hanno fatti, siamo indietro. Nel rapporto 2015 deLl’istituto Bruno Leoni sulla liberalizzazione del trasporto su rotaia l’Italia ottiene un voto insufficiente: 53 su 100. Sotto accusa è soprattutto il servizio regionale, con le gare che stentano a partire. Ma anche la difficoltà d’ingresso di nuovi operatori nella rete. Fa eccezione l’alta velocità. “Da quando è stata liberalizzata – spiega Zanchini - il numero dei passeggeri su rotaia è aumentato e si è ridotto il viaggio su gomma e sugli aerei. Entrambi inquinantissimi”. Stando ai dati dell’Autorità dei trasporti, infatti, nella sola tratta Roma-Milano l’AV ha rivoluzionato le abitudini degli italiani: nel 2014 il 65% dei passeggeri ha scelto il treno, il 24% l’aereo e l’11% la gomma. Numeri molto diversi da quelli del 2008, quando il 50% preferiva volare, il 36% sceglieva la rotaia e il 14% si spostava in auto. Miracoli della concorrenza: “Senza Ntv – ammette Zanchini - Trenitalia non avrebbe mai fatto investimenti consistenti nell’Alta Velocità. È un esempio virtuoso di come la concorrenza può essere uno stimolo che ricade positivamente sull’ambiente”. L’emergenza è però metropolitana. E si chiama smog. Un mix di inquinamento e condizioni atmosferiche che soffoca le nostre città. E anche in questo caso, un’accelerazione delle liberalizzazioni potrebbe portare benefici. “Purtroppo non ci sono dati a riguardo. Anche se certamente si innescherebbe un circolo virtuoso. Milano è un esempio in tal senso. C’è la zona a traffico limitato. È stata aperta la quarta linea metro, Uber opera bene, il bike sharing funziona. E non dimentichiamo il car sharing, che a Milano ha oltre 20 mila abbonati”, ricorda ancora Zanchini. Risultato? “Il traffico si è ridotto di circa il 30% in centro, il 7% nel resto della città”. C’è stato un calo delle emissioni inquinanti del 10% per le PM10 e del 35% di CO2. Infine, sono aumentate sia la velocità dei mezzi di trasporto pubblico (+6,9% autobus e +4,1% tram) e anche l’impiego di veicoli a basse emissioni, passati dal 9,6% del totale a oltre il 16%. “Se non avessero attuato questo disegno i livelli di inquinamento che hanno portato la città al blocco totale del traffico sarebbero stati peggiori”. La vera soluzione è, dunque, un sistema integrato di trasporti economici, semplici e sostenibili che disincentivano il ricorso all’auto privata. Zanchini insiste: “Nel trasporto del futuro il pubblico dovrebbe svolgere soprattutto la funzione di regolatore. Per fare un altro esempio: a Londra il trasporto ferroviario è gestito da un’agenzia che si occupa dell’area metropolitana e fissa regole e obiettivi. Per ogni linea c’è una gara e un operatore diverso. Ma il cittadino non se ne rende neanche conto. L’abbonamento lo paghi all’agenzia. Questa è una liberalizzazione”. Un servizio pubblico ma inefficiente, invece, non aiuta: “Le aziende pubbliche di trasporto garantiscono che l’azienda abbia un tot di posti di lavoro, che i dipendenti non si lamentino, che il biglietto non aumenti. Ma qualità e investimenti zero. In molte grandi città riesce a muoversi solo chi ha macchina o motorino. E l’autobus diventa il mezzo usato solo dai poveri”, denuncia ancora il responsabile di Legambiente. Con tutte le conseguenze del caso: un parco sempre più vecchio, inquinante, rumoroso e povero. Il 61% degli autobus circolanti ha più di 10 anni di età. Quelli in strada, immatricolati prima del 1998, sono quasi 1/3 del parco totale (30.520 mezzi). Solo il 12% ha un’anzianità compresa tra 0-4 anni (dati 2013, Aci). Per cambiare le cose non basterà qualche pullman nuovo di zecca. Una svolta può arrivare solo se il pubblico si ritaglierà un altro ruolo: “Fissare le norme generali, migliorare il servizio tutelando i lavoratori, controllarlo e garantire la copertura della tratte meno remunerative. Lasciando che i diversi attori in campo – siano pubblici o privati – agiscano liberamente in quello spazio di regole e opportunità”.
Liberalizzazioni, Bersani denuncia: "Riforme scomode, il Pd si è arreso". Bersani: "Le lenzuolate investimento tradito", scrivono Roberta Benvenuto e Marco Bracconi. "Non si è fatto in questi anni quello che sarebbe stato necessario. Ed è un guaio per l'Italia. Prevale la forza di chi tiene chiusa la porta rispetto a chi sta bussando". Pierluigi Bersani parla dal suo studio di Montecitorio. Dieci anni fa, da ministro dello Sviluppo economico, spinse forte sull'acceleratore della concorrenza. E divenne l'uomo delle "lenzuolate", come lui stesso ribattezzò le decine di interventi per liberalizzare e semplificare settori come il commercio, le telecomunicazioni e l'energia. "Liberalizzare fa bene. Fa muovere le forze produttive e l'occupazione, e si difende meglio il consumatore dalla prepotenze del mercato".
L'esempio più eclatante?
"Quando era monopolista l'Enel non portava soldi allo Stato e gli investimenti erano fermi. Liberalizzare ha portato in pochi anni a dieci miliardi di investimenti. E quando sono nate le parafarmacie non c'è stato un solo disoccupato tra i farmacisti usciti dall'università. Per non parlare delle prepotenze di cui parlavo prima. Veri e propri furti legalizzati di cui tutti hanno fatto le spese in passato, dalla ricarica dei telefonini al fatto che non potevi trasferire un mutuo".
Le "lenzuolate" erano figlie di un governo di centrosinistra. Come quello che adesso guida il Paese. Come giudica l'atteggiamento di Renzi su questo tema?
"Userò qualche eufemismo. Alcune cose vanno anche bene, ma altre sono francamente al rovescio. Sui farmaci, per esempio, si sta liberalizzando l'ingresso del grande capitale in un settore che resta chiuso. Anche io nel commercio ho spinto per lo sviluppo della grande distribuzione, ma in cambio del fatto che chiunque può aprirsi un negozio. Così non si abbassa il prezzo, ma ci mettiamo in casa chi ci fa il prezzo. E coi farmaci non si scherza: vanno bene gli 80 euro di bonus in busta paga, però per un anziano fa una bella differenza poter andare in una farmacia o in una parafarmacia".
Se liberalizzare è di sinistra, il Pd sta sbagliando oppure non è più un partito di sinistra.
"Non ho difficoltà a dire che vedo su questa tema una debolezza della nostra iniziativa politica. Sapendo che sono riforme scomode. Siamo in un momento in cui si parla molto di riforme, ma spesso le riforme si fanno al contrario. Come per l'articolo 18. Ecco, diciamo che per quella 'liberalizzazione' si è stati molto combattivi, come lo si è molto meno quando si parla di concessionarie, banche, catene di farmacie..."
Se avesse la possibilità di liberalizzare un settore strategico, qui e ora, quale sceglierebbe?
"Farei interventi a favore del consumatore sulle banche, chiarirei il percorso di liberalizzazione delle ferrovie e mi occuperei a fondo, ma molto a fondo, dei farmaci".
Liberalizzare significa anche toccare interessi, categorie, posizioni acquisite. E la politica vive anche di consenso. Aprire a chi bussa alla porta conviene in termini di voti?
"C'è un elemento di rischio, certo. Ti giochi il consenso che hai oggi in cambio di quello che speri di ottenere domani più vasto. E' un investimento, perché i poteri sanno subito e bene cosa perdono, gli utenti e i cittadini sul momento possono non saperlo, e hanno bisogno di più tempo".
"Veti incrociati per favorire le lobby", scrive Roberta Benvenuto. Lobby, consenso, convenienza politica, salute. Questo ed altro girano attorno alla liberalizzazione dei farmaci di fascia c. Un caso esemplare di come vanno le cose in Italia sul tema libera concorrenza. “Avevamo un accordo con il governo” – spiega l’onorevole Adriana Galgano di Scelta Civica che ha presentato in aula l’emendamento per sbloccare il settore. “Abbiamo rinunciato a diverse modifiche ma avevamo chiesto come linea del Piave la liberalizzazione della fascia C con prescrizione. Il governo ci ha risposto picche. E ci siamo astenuti sul provvedimento votando bianco”.
Chi ha votato a favore?
"Quando ho presentato l’emendamento hanno votato con noi le opposizioni ma anche Bersani. Inizialmente la liberalizzazione c’era nelle bozze dello Sviluppo Economico. Il ministro Guidi era a favore. È stata da sempre una richiesta esplicita del garante della concorrenza. Abbiamo chiesto di lasciare la libertà di voto invece non c’è stata concessa".
Chi frena allora?
"Il veto è stato del Nuovo centro destra".
Perché?
"Perché pensano che gli interessi dei farmacisti e alcuni elementi di discussione siano prevalenti rispetto al libero mercato. È una scelta. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte dei cittadini. In circa la metà delle famiglie un membro rinuncia a comprare medicine perché è considerato un lusso. E’ necessario liberalizzare quei medicinali che i cittadini pagano da soli".
Chi c’è dietro?
"Per fare un esempio, Andrea Mandelli di FI presidente Presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti italiani adesso è vice presidente della commissione bilancio al senato. Il primo intervento per la liberalizzazione dei farmaci in Parlamento è stato fatto da Francesco Crispi nel 1888 e siamo ancora qui a parlarne. Questo per dire che hanno avuto una capacità di fare lobby che stanno tutt’ora mantenendo".
E adesso?
"Noi abbiamo ripresentato l’emendamento grazie al senatore M5S Orellana. Mentre alla Camera ci stiamo muovendo sulla trasparenza delle lobby. Perché chiunque ci sia dietro deve palesarsi. E il loro lavoro deve essere documentato alla luce del sole".
C’è possibilità che venga riconsiderata la questione?
"Se Renzi e il governo vogliono, si. Lo voteremmo tutti. Vedi la caparbietà nella stepchild adoption. Il problema è che il governo deve decidere che liberalizzare divenga un punto qualificante della sua azione politica e non sottostare ai veti delle lobby. E ad oggi non è così".
Il suicidio della politica che non ha tempo, scrive Marco Bracconi. “E' sempre una scommessa. Devi investire il consenso che hai oggi per quello che potresti avere domani”. Così Pierluigi Bersani risponde alla domanda sui rischi degli interventi di liberalizzazione nei mercati. Riaffermando una regola aurea della politica e che tuttavia nelle democrazie avanzate è sottoposta ad uno stress senza precedenti. Perché investire oggi per raccogliere domani significa avere tempo. E questo tempo oggi non c'è. Non abbastanza. Più di ogni altro elemento strutturale è stata l'accelerazione del tempo a mettere in crisi il meccanismo del consenso. E lo ha fatto a tal punto da costringerlo ad una continua riaffermazione di sé stesso. Non è solo questione di interconnesione digitale, che pure c'entra e molto. Il punto è che i modelli culturali in crisi – e l'Occidente lo è – sono per definizione schiacciati sul breve o brevissimo periodo. E' una questione di sopravvivenza. La politica non sfugge. Può evocare ossessivamente il futuro per esigenze di propaganda, ma l'habitat culturale cui partecipa e che contribuisce a costruire gli impedisce di entrare in una logica di investimento di medio o lungo periodo. Probabilmente, a questo punto arrivati, non è nemmeno una questione di volontà. Il rapporto tra i poteri e le opinioni pubbliche si è così pervertito e logorato da rendere molto difficile per gli attori in campo trovare una via di uscita dal circolo vizioso della ricerca permanente del consenso. E quella di cui parla Bersani, probabilmente, è una politica che non c'è più. Perché nelle post democrazie l'azzardo è permesso e perfino ben accetto. Ma l'impopolarità in previsione di raccolti futuri è una scommessa che non rientra nello schema di sistema: non trova posto perché non ha il tempo. E se è vero che la politica si va trasformando in linguaggio e narrazione, è forse perché il tempo del vivere scorre sempre e comunque, mentre è fermo solo nelle favole.
Concorso Notai: una storia di professioni e mancate liberalizzazioni. “Riceviamo e pubblichiamo” di Alberto Evangelisti sul blog di Pier Ferdinando Casini. Il Concorso per notai tenutosi, o meglio dovremmo dire non tenutosi, recentemente, offre l’opportunità di fare alcune riflessioni. Vorrei tuttavia evitare quella più scontata, inerente i fatti specifici che hanno portato alla decisione di annullare il concorso perchè, su questo, si concentreranno sia la politica parlamentare, col Ministro che immagino dovrà riferire in Parlamento, sia, probabilmente, la magistratura. Perché, come ha detto l’on. Roberto Rao si è data l’idea di non tutelare il diritto, il merito ed i giovani. Preferirei quindi soffermare il ragionamento su alcuni aspetti più generali che non interessino esclusivamente l’episodio del concorso o la professione notarile. In primo luogo vale la pena ricordare come questo ministro non sia stato particolarmente fortunato con i concorsi. Il Concorso per magistrati tenutosi a novembre 2008 ebbe un epilogo molto simile: in quel caso non furono le tracce ad essere contestate ma il fatto che alcuni candidati furono ammessi a sostenere gli scritti con dei codici commentati, contro il regolamento previsto dal bando, con conseguenti ed ovvie contestazioni degli altri. Insomma, come si suol dire, se un indizio non fa una prova, due iniziano a farsi sentire. Se a questi poi volessimo sommare le frequenti problematiche che sorgono negli esami di abilitazione per la professione forense, sempre di competenza ministeriale, la prova, quantomeno che nel sistema attuale vi siano pesanti lacune, pare assodata. Forse tuttavia vale la pena porsi una domanda ancora più radicale: vale veramente la pena mantenere un sistema rigidamente chiuso in cui anche le semplici abilitazioni professionali vengono gestite come veri e propri concorsi, dove si vive sempre con la sensazione che interessi diversi dal puro merito aleggino in queste sedi d’esame, vale la pena avere una nobilitas come la classe notarile che svolge funzioni pubbliche ritenute strettamente necessarie, con le caratteristiche della libera professione, anzi di una delle meglio retribuite fra le libere professioni? Ha senso alimentare il business dei corsi di preparazione ai vari esami o concorsi che costringono i candidati a pagare ingenti cifre perlopiù sulla presunzione che gli organizzatori possano in qualche modo avere notizie in anticipo sulle prove concorsuali, cosa che, a quanto pare, a volte accade realmente? Non sarebbe invece il caso di puntare parte del rilancio del paese su una politica seria di liberalizzazioni accompagnata da una altrettanto seria riforme universitaria che consenta ad un laureato di conoscere realmente le basi della professione che andrà a svolgere? Mi piacerebbe che l’occasione consentisse di affrontare seriamente queste domande e, soprattutto che la politica si occupasse di dare le risposte, possibilmente con l’obiettività e la terzietà dagli ordini professionali che le è fin qui mancata.
Italia Feudale&Corporativa vs. Mondo Globalizzato Iper-competitivo, scrive “Il Grande Bluff”. Nel mio blog ve lo spiego da secoli: uno dei problemi primari di FallitaGlia non è solo il suo "statalismo" inefficiente, corrotto ed invasivo ma anche la sua struttura feudale&corporativa (a protezione statale). Mi fa piacere che la mia interpretazione si stia man mano diffondendo, anche se rimane del tutto minoritaria e dunque il Declino Strutturale può tranquillamente continuare. L’Italia del terzo millennio come quella del medioevo: comandano le corporazioni. Dinastie accademiche, alta burocrazia, sindacati, associazioni di categoria. E poi notai, farmacisti, giornalisti, avvocati. E tassisti. Non riusciamo a fare a meno delle tribù. Che dialogano col potere in modo, spesso, poco trasparente, scrive Marco Sarti. L'Italia è una Repubblica fondata sulle corporazioni. Tante, autoreferenziali, spesso tutelate oltre ogni ragionevole misura. Per qualcuno sono un inevitabile retaggio della nostra tradizione, per altri rappresentano plasticamente i problemi del Paese. Sono ovunque... Dalle dinastie accademiche all’alta burocrazia, passando per sindacati e associazioni di categoria. E poi notai, farmacisti, giornalisti, avvocati: professioni rappresentate da appositi ordini che in alcuni casi ne garantiscono inaccessibilità e privilegi. È un fenomeno antico, per certi versi molto italiano. «Siamo un paese che ha un forte senso di appartenenza, soprattutto territoriale» spiega il segretario generale del Censis Giorgio De Rita. «Inevitabilmente questo ha avuto delle ripercussioni anche in ambito professionale». Senza tornare al XII secolo e alla nascita delle gilde medievali, basta ricordare la nostra storia recente. A partire dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni istituita durante il Ventennio. «Fa parte della nostra tradizione» racconta Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. «Facciamo finta che non esiste, ma il nostro modello economico e produttivo si basa ancora su un sistema corporativo». Intendiamoci, la presenza di categorie professionali a tutela dei propri associati non è necessariamente un male. E legittimo è il rapporto tra queste realtà e il decisore pubblico. «Il problema, semmai, riguarda il grado di opacità di questo dialogo», continua Serena Sileoni. «In assenza di trasparenza, talvolta il decisore finisce per entrare in contatto con il portatore di interessi meno preparato, ma con le migliori relazioni personali. E questo dà vita a una seconda anomalia tutta italiana: queste corporazioni spesso non portano avanti un legittimo interesse, ma tendono unicamente a difendere se stesse». Boeri solleva il caso dei notai, «molto abili nel vanificare ogni incremento del numero di operatori fissato per legge». Il risultato è paradossale: oggi in Italia abbiamo gli stessi notai di un secolo fa. Nel 1914 erano 4.310, adesso sono 4.776. Le cronache politiche sono piene di queste vicende. I giornali raccontano di assalti alla diligenza nei corridoi parlamentari, lobbisti in agguato fuori dalle commissioni. Esponenti di questa o quella categoria pronti a proporre l’emendamento giusto al deputato più disponibile. In alcuni casi non serve nemmeno alzare troppo la voce, molti ordini professionali siedono già in Parlamento. «La quota di deputati appartenenti a qualche ordine è l’unica cosa che continua a crescere nell’economia italiana» scriveva qualche anno fa Tito Boeri nella prefazione del libro “Dinastie d’Italia”. «Nella XVI legislatura ci sono ben 338 tra avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, architetti, notai, giornalisti e farmacisti in Parlamento. Più di un terzo del numero totale di deputati e senatori». Oggi le cose non sono cambiate. E non è difficile capire perché molte riforme restano bloccate. È una questione di logica: perché un professionista dovrebbe danneggiare se stesso? Perché liberalizzare, creare altre licenze, o più semplicemente togliere le barriere a nuovi concorrenti? Boeri solleva il caso dei notai, «molto abili nel vanificare ogni incremento del numero di operatori fissato per legge». Il risultato è paradossale: oggi in Italia abbiamo gli stessi notai di un secolo fa. Nel 1914 erano 4.310, adesso sono 4.776. Giornalisti, medici, veterinari, ma anche psicologi, agronomi, consulenti del lavoro. In Italia esistono 19 ordini e 8 collegi professionali. In totale ci sono 27 diverse professioni che richiedono l’iscrizione a un albo, per un totale di oltre 2 milioni di iscritti. Il dibattito è aperto da tempo: c’è chi propone di abolire tutti gli ordini e chi ne giustifica l'esistenza. La deriva populista è sempre dietro l'angolo. «Gli ordini professionali esistono per un motivo molto ragionevole» dice Michele Pellizzari, professore di Economia a Ginevra, già docente alla Bocconi ed economista all’Ocse di Parigi. «Ponendo delle barriere all’ingresso, si garantisce che solo persone in grado di offrire servizi di una certa qualità possano operare nel mercato. Lamentarsi perché gli ordini limitano la concorrenza è una banalità: l’obiettivo è garantire servizi migliori». Purtroppo non sempre funziona così. Come evidenzia la ricerca di Pellizzari raccolta nel libro “Dinastie d’Italia” - pubblicato insieme al giornalista Jacopo Orsini - in alcune professioni avere un familiare già iscritto facilita l’accesso all’ordine. Anche di parecchio. Non è un mistero: chi è cresciuto in una famiglia di medici avrà più possibilità di lavorare in ospedale. Nulla di male. Il problema si crea quando l’accesso a una professione si accompagna a pratiche di nepotismo e corporativismo. Quando facilitando l’ingresso a individui con meno capacità si diminuisce, di fatto, la qualità dei servizi. Giornalisti, medici, veterinari, ma anche psicologi, agronomi, consulenti del lavoro. In Italia esistono 19 ordini e 8 collegi professionali. In totale ci sono 27 diverse professioni che richiedono l’iscrizione a un albo, per un totale di oltre 2 milioni di iscritti. Ovviamente il tema delle corporazioni non si limita agli ordini professionali. Basta pensare al mondo accademico, dove spesso il familismo è più diffuso di quanto non accada in altre categorie. E non ci sono solo le università. Forse i tassisti non hanno voce in capitolo quando in Parlamento si discute di liberalizzazioni? «Le corporazioni consolidate non sono solo le professioni ordinistiche» conferma Serena Sileoni. «Ad esempio nessuno pensa mai alla Coldiretti, che rappresenta una voce molto importante, e legittima, in tema di agricoltura. Vede, in Italia la politica sugli Ogm rispecchia fedelmente la posizione di questa associazione di categoria. Mi chiedo, è solo un caso? Non c’è nulla di male, ma forse in democrazia bisognerebbe sapere da dove viene un determinato indirizzo politico». Dalle gilde medievali agli Ogm, il corporativismo attraversa la storia italiana. Cosa riserva il futuro? Giorgio De Rita è convinto che alcuni cambiamenti siano già avviati. «La necessità di rispondere alla crisi economica degli ultimi anni e il forte cambiamento demografico in corso nel nostro Paese - spiega - hanno molto diluito il clima corporativo in Italia». Il segretario generale del Censis torna all’autoreferenzialità di alcune realtà lavorative. «La limitazione dell’accesso a una professione è una delle componenti della difesa corporativa, ma oggi il mondo è cambiato. Questi strumenti di tutela non servono più: è necessario tutelare la professione a tutto tondo, non solo l’accesso ad essa. Una tutela che passa attraverso altre dimensioni: il welfare, ad esempio, con lo sviluppo delle casse previdenziali. Ma anche l’economia reale, per garantire più lavoro». Forse il presente è già diverso. «Oggi la dimensione corporativa è cambiata. È un processo di transizione in corso da almeno venti anni, la crisi economica l’ha solo accelerato». Il problema è che FallitaGlia si muove/si adatta alla velocità di una lumaca e tra fortissime resistenze corporative...mentre il Mondo Globale corre veloce...troppo veloce...Buon proseguimento di Declino a Tutti.
Il mistero dei “Kennedy Bond”. Fonti ufficiali Usa continuano ad affermare che sono falsi, ma non si ha notizia che esperti americani li abbiano visionati di persona. Arrestato per un’altra vicenda il direttore di una radio statunitense secondo il quale si tratta di autentici bond, che il Giappone ha tentato di vendere in Svizzera, non fidandosi della capacità degli Stati Uniti di onorare il proprio debito pubblico. Milano (AsiaNews 30/06/2009) - Sono passate quattro settimane circa dalla confisca di titoli americani a due giapponesi che viaggiavano su un treno per pendolari diretto a Chiasso, in Svizzera, e mentre su alcuni punti, molto pochi, si è fatta un po’ di chiarezza, su tutto il resto continua il silenzio delle autorità italiane. Per di più la strana coincidenza temporale dell’arresto del direttore di una radio via internet che aveva delle rivelazioni sulla vicenda aumenta le già forti stranezze del caso. Una nuova rivalutazione del fatto che tra i titoli sequestrati vi fossero dei “Kennedy Bond” fa propendere per l’autenticità di quanto sequestrato dalla Guardia di Finanza (GdF) all’inizio di giugno. I maggiori quotidiani anglosassoni avevano ignorato la vicenda per un paio di settimane. Ne hanno iniziato a dare notizia dopo il lancio dell’agenzia Bloomberg del 18/6: un portavoce del Tesoro, Meyerhardt, aveva dichiarato che i titoli, sulla base dalle foto disponibili via internet, sono “chiaramente falsi”. Lo stesso giorno il Financial Times (FT) pubblicava un articolo il cui titolo attribuiva alla mafia italiana la responsabilità della (presunta) contraffazione, senza che nel testo stesso dell’articolo vi fosse alcuna possibile connessione alla vicenda di Chiasso. Nonostante ciò, la versione del FT è stata ripresa anche da altri perché “appropriata” (secondo un ben comune cliché sull’Italia e trattandosi di un sequestro avvenuto in Italia) ed in fondo “colorita”. Peccato solo che andasse a scapito della logica: che la mafia cercasse di passare inosservata cercando di piazzare titoli falsi per 134,5 miliardi di dollari e per di più si facesse “pizzicare” ad un passo da casa è non molto credibile. La scorsa settimana, il 25/6, da ultimo anche il New York Times ha dato notizia della vicenda riportando le affermazioni di un portavoce della CIA, Darrin Blackford: i servizi segreti statunitensi avevano svolto delle verifiche, come richiesto dalla magistratura italiana, ed avevano appurato che si trattava di strumenti finanziari fittizi, mai emessi dal “governo USA”. Non è chiaro però come siano state svolte le verifiche di cui parla Blackford e se anch’esse siano state eseguite via internet. Dalle fonti ufficiali italiane non risulta, infatti, che la commissione di esperti americani, attesa in Italia, vi sia ancora giunta. Inoltre i titoli erano accompagnati da una documentazione bancaria recente ed in originale. Non è chiaro perciò come possano le autorità americane definire falsa anche tale documentazione non originata dalla Fed o dal Ministero del tesoro statunitense. Ad affermare viceversa l’autenticità dei titoli, il 20/6 spuntava la Turner Radio Network (TRN), una stazione radio indipendente diffusa via internet. Con una clamorosa rivelazione la TRN in tale data affermava che i due giapponesi fermati a Ponte Chiasso dalla Guardia di Finanza (GdF) e poi rilasciati erano dipendenti del Ministero del tesoro giapponese. Anche ad AsiaNews erano giunte segnalazioni simili: uno dei due giapponesi fermati a Chiasso e poi rilasciati sarebbe Tuneo Yamauchi, cognato di Toshiro Muto, fino a poco fa vice governatore della Banca del Giappone. Sul suo sito l’ideatore e conduttore della radio, Hal Turner, aveva anche asserito che le sue fonti gli avevano rivelato che le autorità italiane riterrebbero autentici titoli e che i due giapponesi sarebbero funzionari del ministero delle Finanze giapponese. Avrebbero dovuto portare i titoli in Svizzera perché il governo nipponico avrebbe perso la fiducia nella capacità statunitense di ripagare il debito pubblico. Le autorità finanziarie giapponesi avrebbero perciò cercato, prima di un’imminente catastrofe finanziaria, di vendere una quota dei titoli in proprio possesso attraverso canali paralleli, grazie all’anonimità che, a dire di Turner, sarebbe garantita dalle leggi svizzere. AsiaNews non sa che credibilità attribuire alle rivelazioni di Turner, visto che anche in questa ipotesi è difficile supporre che $134,5 miliardi passino inosservati ovunque nel mondo. Sembrerebbe più logico supporre che i titoli, se autentici, fossero diretti alla Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, BRI, la banca centrale delle banche centrali in vista dell’emissione di titoli in una nuova valuta sovranazionale. Turner aveva ad ogni buon conto soggiunto che come prova delle sue rivelazioni avrebbe fornito i numeri di serie dei titoli sequestrati. Prima che potesse farlo è stato però incarcerato. Hal Turner è colui che tempo fa per primo aveva dato notizia di un piano segreto per sostituire il dollaro, dopo una grave crisi finanziaria, con una moneta comune nordamericana, l’Amero. In una drammatica telefonata dall’interno del penitenziario in cui è rinchiuso in attesa del processo, diffusa via internet, Hal Turner afferma chiaramente che il suo arresto è di natura politica ed è in relazione ai titoli sequestrati a Chiasso, perché le autorità sarebbero terrorizzate dalle sue rivelazioni sull’autenticità dei titoli. Le accuse rivoltegli niente hanno a che vedere, è ovvio, con la vicenda e così, ad un quadro già molto intricato, si aggiunge perciò ulteriore complessità. Turner afferma di non essere stato lui personalmente ad aver formulato le minacce per le quali è stato incarcerato. Sebbene fosse evidentemente sua responsabilità vigilare, è anche vero che i blog di tutto il mondo e degli USA stessi sono pieni di minacce e provocazioni. La coincidenza temporale, l’insolita solerzia ed i particolari del suo arresto procurano quindi non pochi sospetti sulle reali motivazioni della polizia federale americana. Anzi, proprio questo arresto induce a pensare che i titoli confiscati dalla GdF siano davvero autentici. Un ulteriore elemento a favore dell’autenticità dei titoli è dato da quelli che la GdF nel comunicato del 4 giugno aveva definito “Bond Kennedy “ e di cui aveva fornito delle foto. Da esse è evidente che non si tratti di obbligazioni – cioè Bond - ma di Biglietti di Stato, Treasury Notes, perché si tratta di titoli immediatamente spendibili per un controvalore in merci o servizi e perché sono privi di cedola per gli interessi. Sul verso è riprodotta l’immagine del presidente americano e sul retro una navicella spaziale. Da fonti confidenziali, solitamente ben informate, AsiaNews aveva avuto notizia che tale tipo di cartamoneta era stata emessa meno di dieci anni fa (nel 1998), anche se non si poteva sapere se quelli sequestrati a Chiasso erano biglietti autentici. Il fatto però che l’emissione di tale Biglietto di Stato non fosse assolutamente di dominio pubblico tende a far escludere le ipotesi di contraffazione. È poco ragionevole supporre che un falsario riproduca un biglietto non comunemente in circolazione e di cui non vi sia pubblica conoscenza. Per tale ragione si può pertanto ritenere che anche i 124,5 miliardi di dollari suddivisi in 249 titoli da 500 milioni ciascuno siano autentici. Questi ultimi titoli, pur essendo denominati “Federal Reserve Notes” in realtà sono obbligazioni – bond – perché maturano interessi e sono redimibili a scadenza. In merito ad essi, rimane però un quesito insoluto. Non si capisce infatti per quale ragione, i titoli, da subito apparsi alla GdF indistinguibili dagli originali, abbiano tutte le cedole. Qualsiasi normale investitore, anche uno Stato, avrebbe incassato annualmente le cedole degli interessi, per non perdere potere d’acquisto.
ATTO CAMERA. INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/03790.
Dati di presentazione dell'atto. Legislatura: 16. Seduta di annuncio: 210 del 28/07/2009.
Firmatari. Primo firmatario: BELTRANDI MARCO, PARTITO DEMOCRATICO.
Elenco dei co-firmatari dell'atto. BERNARDINI RITA, PARTITO DEMOCRATICO. FARINA COSCIONI MARIA ANTONIETTA, PARTITO DEMOCRATICO. MECACCI MATTEO, PARTITO DEMOCRATICO. TURCO MAURIZIO, PARTITO DEMOCRATICO. ZAMPARUTTI ELISABETTA, PARTITO DEMOCRATICO.
Destinatari. Ministero destinatario: MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE.
Attuale delegato a rispondere: MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE delegato in data 28/07/2009.
Stato iter: IN CORSO.
Fasi iter:
SOLLECITO IL 08/10/2009
SOLLECITO IL 08/02/2010
SOLLECITO IL 03/03/2010
SOLLECITO IL 22/03/2010
SOLLECITO IL 12/04/2010
SOLLECITO IL 12/10/2010
SOLLECITO IL 01/12/2010
SOLLECITO IL 12/01/2011
SOLLECITO IL 04/02/2011
SOLLECITO IL 03/03/2011
SOLLECITO IL 23/03/2011
SOLLECITO IL 14/04/2011
SOLLECITO IL 23/05/2011
SOLLECITO IL 06/07/2011
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-03790 presentata da MARCO BELTRANDI martedì 28 luglio 2009, seduta n.210. BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI, MAURIZIO TURCO e ZAMPARUTTI. - Al Ministro dell'economia e delle finanze.
- Per sapere - premesso che:
il 3 giugno 2009, al confine italo svizzero, funzionari della Sezione operativa territoriale di Chiasso, in collaborazione con i militari della Guardia di finanza, nel corso dei controlli per contrastare il traffico illecito di capitali che attraversano il valico ferroviario hanno sequestrato presso la stazione internazionale di Chiasso un ingente quantitativo di titoli Usa per complessivi 134,5 miliardi di dollari, pari a un controvalore in euro di oltre 96 miliardi di euro;
in seguito ad un'accurata verifica dei bagagli sono stati rinvenuti, nascosti sul fondo di una valigia in uno scomparto separato da quello contenente gli indumenti personali, 249 bond della «Federal Reserve» americana del valore nominale di 500 milioni ciascuno, e 10 «Bond Kennedy» del valore nominale di 1 miliardo di dollari ciascuno, oltre a una cospicua documentazione bancaria in originale;
la prima scoperta degna di attenzione è relativa ai cosiddetti «Kennedy Notes»: essi non sarebbero buoni del Tesoro ma vera e propria carta moneta, biglietti da un miliardo di dollari ciascuno;
secondo alcune stime, nel 1998 il 99 per cento delle banconote in circolazione appartenevano alla Federal Riserve mentre l'1 per cento era costituito da «Banconote degli Stati Uniti». Si consideri che la stampa delle due banconote è praticamente identica, salvo l'incisione del nome. Inoltre quelle della Federal Reserve hanno marchio e numero di serie verdi, quelle degli Stati Uniti rossi. Queste informazioni sono deducibili dalle foto scattate dalla Guardia di finanza, dalle quali si evince che le banconote sequestrate a Chiasso apparterrebbero visibilmente al Ministero del tesoro Usa e non alla Fed;
i valori erano posseduti da due cinquantenni giapponesi, Mitsuyoshi Watanabe e Akihiko Yamaguchi che, scesi da un treno proveniente dall'Italia, al momento del controllo doganale affermavano di non avere nulla da dichiarare;
per i bond e la documentazione di interesse valutario che li accompagnava, anch'essa sottoposta a sequestro, sono attualmente in corso indagini volte a stabilirne l'autenticità e la provenienza;
la mancata dichiarazione valutaria non è un reato penale ma comporta il pagamento di una penale: una «semplice» ammenda amministrativa, il 40 per cento del valore eccedente euro 10.000 di franchigia;
nel caso in questione la base di calcolo è costituita da duecentoquarantanove bond della Federal Reserve statunitense, del valore nominale di 500 milioni di dollari ciascuno, più 10 bond Kennedy da 1 miliardo di dollari ciascuno;
quindi per la legge italiana, quando le forze dell'ordine rinvengono dei titoli falsi o della valuta contraffatta, sono tenute ad arrestarne i possessori. Inoltre, per evitare rischi di sottrazione, chi effettua il sequestro deve procedere al più presto alla distruzione del materiale confiscato. Se, al contrario si fosse trattato di titoli autentici, la Guardia di finanza dopo aver identificato le persone in possesso dei titoli era tenuta, da un lato a rilasciarle immediatamente, ma dall'altro lato a procedere immediatamente all'emissione di un verbale non solo di confisca dei titoli ma anche d'ammenda pari a circa 38 miliardi di euro;
l'agenzia Asianews del PIME (Pontificio istituto Missioni Estere) è una delle poche ad avere approfondito la questione e ad avere riferito che «insieme ai titoli, è stata sequestrata una corposa documentazione bancaria in originale e molto recente che ne attestava l'autenticità»;
il portavoce del Tesoro americano Stephen Meynerd ha affermato, lo scorso 18 giugno, che «le obbligazioni sono chiaramente false»;
vi è però un'incongruenza tra quanto affermato dal portavoce del Tesoro americano, Meyerhardt e quanto invece sostenuto dalla Guardia di finanza, e cioè che alcuni dei titoli sequestrati, per la filigrana e tanti altri dettagli, sono indistinguibili da quelli autentici;
un colonnello della Guardia di finanza competente per territorio ha commentato la vicenda rilasciando la seguente intervista: «Colonnello, cosa può dirci riguardo all'autenticità dei bond sequestrati? E gli ormai famigerati "bond Kennedy" da 1 miliardo? Per quanto riguarda i 10 bond denominati "Kennedy", dal valore nominale di 1 miliardo di dollari, posso dirle soltanto che abbiamo forti perplessità. Mentre per i 240 titoli da 500 milioni, la carta è filigranata e di ottima fattura. Sembrano più credibili. State valutando da soli o avete chiesto aiuto internazionale? Ovviamente collaborano con noi esperti americani del Secret Service. Al termine avremo perizie ufficiali per dirimere la questione. Esistono precedenti di sequestri di tale portata? Posso dirle che non è la prima volta che sequestriamo grossi quantitativi di bond statunitensi. Si tratta ovviamente di tutt'altre cifre, seppur comunque consistenti: il maggior sequestro è stato relativo a 100 milioni di bond poi rivelatisi falsi. E per quanto riguarda i due giapponesi con la valigetta? I giapponesi, che viaggiavano dall'Italia alla Svizzera, sono stati interrogati ed hanno rilasciato le loro dichiarazioni. Al momento si trovano a piede libero. E naturalmente non posso dirle di più. Può offrirci un suo punto di vista sulla questione? Sicuramente ne sapremo di più in seguito, quando avremo certezze sull'autenticità o meno. Certo è che il reato commesso comporta un multa di 38 miliardi di euro, pari a due finanziarie... E Tremonti sarà il suo migliore amico. Grazie mille, colonnello» -:
se i fatti corrispondano al vero e, specificamente, se i due cittadini giapponesi siano stati effettivamente lasciati in libertà;
se sia stata accertata l'autenticità o la falsità dei titoli sequestrati;
nel caso negativo, se non ritenga utile richiedere un intervento del governo USA al fine di ottenere aiuto per un accertamento più rapido e sicuro grazie alla collaborazione di esperti provenienti dal Paese di emissione;
nel caso in cui l'accertamento facesse emergere l'autenticità dei titoli, se intenda avvalersi del diritto di beneficiare della somma comminata come sanzione amministrativa prevista dalla legge in questi casi. (4-03790)
INGIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO.
Rapine in corso. Max Laudadio di Striscia la Notizia ha raccolto la testimonianza di un giudice tributario il 18 maggio 2016 e di un esperto fiscalista il 20 maggio 2016. Max Laudadio intervista un giudice tributario che si è rivolto al Tg satirico dopo aver visto i servizi sull’Agenzia delle Entrate e ha dichiarato: «Le valutazioni degli immobili vengono spesso fatte a tavolino e ancor peggio è quello che accade sugli accertamenti dei redditi. La maggior parte dei cittadini non si rivolge alle commissioni tributarie e paga in silenzio anche quello che non sarebbe dovuto. Oppure, peggio ancora, si arriva alla chiusura di aziende o gente che si toglie la vita perché non ha i soldi per pagare o fare ricorso». Parlando dei dati, il giudice ha detto: «Sono circa 200.000 i ricorsi che arrivano alle commissioni in primo grado e altre 100.000 per il secondo grado di appello. Un ricorso su due viene accolto o parzialmente accolto, il che significa che almeno il 50% degli accertamenti presentava delle criticità». Infine, il giudice ha concluso l’intervista affermando: «Il servizio che state rendendo è un servizio pubblico». Max Laudadio intervista inoltre un esperto fiscalista che fa notare come il giudizio tributario sia un ingiusto giudizio, in quanto il giudice non è parziale essendo pagato dal Ministero delle finanze e quindi dall’Agenzia delle Entrate, parte in causa nei processi, oltremodo operando nelle strutture dello stesso ente.
Diritto tributario: il contribuente non può contraddire, lo scrive la Cassazione, scrive Marcello Adriano Mazzola, Avvocato, rappresentante istituzionale avvocatura, l'11 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Recita l’art. 41 (Diritto ad una buona amministrazione) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che “1. Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”. Diritti fondamentali mica pinzillacchere. Eppur si muove. Premesso che già nel diritto tributario l’imparzialità è una barzelletta, basti ricordare che di fatto la giustizia tributaria dipende dal Ministero Economia delle Finanze e non dal Ministero della Giustizia. Che la metà dei contenziosi vede soccombente l’Amministrazione finanziaria ed in questi casi, pur vittorioso, il contribuente vince ma “a spese compensate”, violandosi sistematicamente l’art. 91 cod. proc. civ. ed il diritto costituzionale sacro di difesa (art. 24 Cost.). Perché chi vince ha diritto alle spese di lite. Il secondo comma dell’art. 41 della Carta diritti fondamentali Ue scolpisce nelle sacre tavole il diritto al contraddittorio, prima che si adotti un provvedimento lesivo verso un soggetto. Ma il massimo consesso giudiziario italiano (Sezioni Unite) ha appena scritto che no, non vale. Anzi sì, vale ma solo per i tributi cosiddetti armonizzati (Iva, dogane e accise) ma non per tutti gli altri. Peccato che l’art. 41 non ponga alcuna fantomatica distinzione, tanto è chiara. Infatti, con la sentenza n. 24823 depositata il 9 dicembre 2015, le Sezioni Unite scrivono che per i tributi “non armonizzati” (ossia quasi tutti) il generale obbligo del contraddittorio endoprocedimentale tra Amministrazione e contribuente si applica solo ove espressamente previsto. La partita appena conclusa, dopo che nei mesi precedenti sempre le Sezioni Unite avevano scritto esattamente il contrario (sentenza n. 19667/2014) sostenendo l’esistenza di un principio generale dell’ordinamento, costituzionalizzato dall’art. 24 Cost., per cui anche in campo tributario il contraddittorio endoprocedimentale deve ritenersi, pur in assenza di esplicita previsione normativa, un elemento essenziale del giusto procedimento, è di enorme importanza. Per due motivi: a) il primo è l’abrogazione della cosiddetta certezza del diritto, con la conferma che in Italia da un giorno all’altro dallo scranno più alto (le Sezioni Unite hanno le funzioni di nomofilachia, ossia di uniformare, dando certezza al diritto) tutto può cambiare, ergo i diritti sono carta straccia; b) il secondo, consequenziale, è che i diritti sono espressi in euro, economicizzati, vile pecunia. Ergo sempre carta straccia. Per giungere a questo percorso i supremi giudici devono scrivere ben 48 pagine, assai tecniche, per spiegare perché in passato si son pronunciati in modo difforme, perché la nostra Carta Costituzionale non sancirebbe un generale principio al contraddittorio, perché l’art. 41 Carta Ue non si applicherebbe, invocando (ma soprattutto adattando, sagomando) la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia. Infatti ove le Sezioni Unite avessero scritto che “il principio del contraddittorio in materia tributaria è un diritto fondamentale, come ricavabile de plano dalla lettura dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea” (bastando quindi 2 righe, assai elementari), l’Agenzia delle Entrate e tutti gli Enti impositori (da Equitalia sino agli Enti locali e concessionarie) avrebbero subito una valanga di sconfitte per non averlo rispettato. Ergo, i contribuenti avrebbero vinto, in quanto gli è stato violato un principio fondamentale. Ma tutto questo è pericoloso poiché lo Stato subirebbe un default di bilancio. E oramai il bilancio vien prima di tutto, ancor prima dei diritti fondamentali. Aberrante, mostruoso. Peraltro, si introduce una incredibile distinzione tra tributi di serie A (i tributi armonizzati) e di serie B (non armonizzati), ponendosi una disparità di trattamento tra diverse imposte, di dubbia legittimità costituzionale. Si rottamano d’un colpo gli artt. 11, 24, 117 Cost., l’art. 6 Cedu, gli artt. 41, 47 e 48 Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea; l’art. 21 l. 241/90 a presidio dei principi costituzionali (ex art. 97 Cost.) di buona amministrazione e di buon andamento dell’Amministrazione; la nota sentenza Sopropè (Corte di Giustizia, sentenza 18 dicembre 2008, C-349/07, n. 3/2009, 213), ribadito da Cassazione, Sez. Unite, sentenze n. 19667/2014, n. 18184/2013; Ctr Lombardia, sentenza 10.3.2015 n. 864; l’art. 12 della legge n. 212 del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente) e gli artt. 5, 6, 7, 10 e 12. L’avvocatura batta un colpo! E’ l’occasione di dimostrare che siamo realmente a presidio dei diritti fondamentali e che non possiamo supinamente accettare l’ennesimo grave affronto. Che si dia battaglia, aprendo un fronte con la Corte di Giustizia, la quale non potrà confermare la violazione della propria Carta dei diritti fondamentali.
La giustizia tributaria nelle mani dei giudici ordinari? Dalla padella alla brace. Oggi i giudici tributari sono poco competenti e poco motivati: se la riforma assegnasse i contenziosi fiscali ai giudici ordinari, però, le cose non migliorerebbero, anzi..., scrive Giorgio Infranca su “L’Inkiesta” il 26 Aprile 2016. Chiedete a un medio difensore tributario cosa significa partecipare a un’udienza presso le Commissioni Tributarie e in particolare, che sensazioni prova nell’ascoltare la relazione della propria causa svolta in apertura di udienza dal giudice relatore. Vi dirà che, nella maggior parte dei casi, prova profonda amarezza quando, ascoltando la relazione, si rende conto che il relatore ha compreso poco o nulla delle argomentazioni e delle tesi contenute nel proprio atto difensivo redatto con fatica dopo tanto studio. Poi chiedetegli cosa prova quando arriva la sentenza e legge le motivazioni. Vi dirà che purtroppo la poca comprensione della questione oggetto di giudizio percepita in udienza risulta totalmente trasfusa nella sentenza. E se è onesto vi dirà che la cosa non cambia anche quando il giudice gli abbia dato ragione. Il motivo? Semplice: per fare il salumiere è necessario saper utilizzare la macchina affettatrice, così come per fare il falegname serve sapere tagliare il legno e il muratore deve saper stuccare una parete. Allo stesso modo, per fare il giudice tributario, bisogna conoscere a fondo il diritto tributario sostanziale e processuale. Non solo: si deve anche maneggiare la contabilità generale e il bilancio. Dovrebbe essere scontato, ma così non è. Gli attuali componenti delle commissioni tributarie, sono infatti estratti da diversissime categorie professionali, dai periti agrari agli ex ufficiali della guardia di finanza, sino ai dipendenti della pubblica amministrazione. Di conseguenza, non possiedono in molti casi le competenze richieste e non hanno nemmeno il tempo e forse la voglia di acquisirle, visto che sono giudici a tempo parziale, peraltro pagati una miseria. Questo, almeno tra gli operatori del settore e tra chi ha avuto la sfortuna di averci a che fare, è un dato da tempo acquisito, così come è acquisita l’urgenza di una riforma. Ancora non sappiamo cosa emergerà dal tavolo tecnico avviato sul tema lo scorso 6 aprile tra il Ministero dell’economia e finanze e Ministero della giustizia ma l’idea che si sta facendo sempre più strada è quella di devolvere la materia tributaria ad apposite sezioni specializzate istituite presso i Tribunali Ordinari. E in questa direzione si colloca la proposta portata avanti dai deputati del partito democratico presentata in questi giorni al Parlamento. A parte il sovraccarico presso i tribunali ordinari, affidare le controversie tributarie alla giurisdizione ordinaria rischia di non rispondere alle esigenze di alta professionalità e competenza di cui la giustizia tributaria ha bisogno. Ok, la soluzione è giusta? Non esattamente. A parte il sovraccarico presso i tribunali ordinari che ne conseguirebbe, con evidenti ricaschi sul già pesante arretrato civile, affidare le controversie tributarie alla giurisdizione ordinaria rischia di non rispondere alle esigenze di alta professionalità e competenza di cui la giustizia tributaria ha bisogno. A dirlo è la Costituzione, Già in sede di preparazione della nostra carta costituzionale, si evidenziarono due esigenze fondamentali alla base di una possibile riforma del contenzioso tributario, e cioè il “controllo democratico nella fase di accertamento” e “il controllo giurisdizionale da parte di giudici tecnicamente preparati”. In quella sede parve opportuno che si perpetuasse una giurisdizione speciale “poiché se è encomiabile la tendenza a ridurre al minimo le giurisdizioni speciali non bisogna poi cadere nell’eccesso opposto e disconoscere talune necessità che determinano il sorgere di simili giurisdizioni, al fine di permettere la decisione di particolari controversie implicanti questioni di valutazione e di diritto, tecnicamente complesse, da parte di giudici particolarmente qualificati”. “È del resto una constatazione di tutti i giorni - si legge ancora nel rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea Costituente - che la comune preparazione giuridica dei magistrati ordinari, non è sufficiente per decidere controversie rispetto alle quali è necessaria una specifica esperienza, e le questioni di valutazione in materia tributaria rientrano appunto in tale categoria”. Dimostrazione del fatto che la devoluzione delle controversie tributarie ai giudici ordinari non sia la direzione giusta la si ha inoltre anche leggendo alcune sentenze della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione (i cui componenti sono tutti magistrati ordinari) ove si avverte, specie su certe questioni complicate, una “naturale” poca propensione alla materia. Oggi è necessario quindi riformare il sistema da dentro, immaginando una nuova e diversa classe di magistrati tributari, a tempo pieno, giustamente retribuiti, appositamente selezionati tra i laureati in economia e in giurisprudenza, sulla base delle conoscenze di diritto tributario sostanziale e processuale, oltre che di contabilità generale e di bilancio. Tutte le altre scelte rischiano di essere palliativi e non soluzioni definitive.
PARLIAMO DELLA QUESTIONE MORALE DEI GIUDICI TRIBUTARI.
La cricca dei ricorsi tributari pilotati. Tre giudici in manette per corruzione. Roma, 13 arresti tra carcere e domiciliari: l’organizzazione garantiva la vittoria nei contenziosi con il fisco in cambio di mazzette. Tra gli indagati l’attore Massimo Giuliani: avrebbe pagato 65 mila euro per ottenere l’annullamento di cartelle esattoriali del valore di tre milioni, scrive "Il Corriere della Sera” il 9 marzo 2016. Una cricca che pilotava i ricorsi tributari a favore di coloro che avevano contenziosi con il fisco. Sono 13 le misure cautelari (dieci in carcere e tre ai domiciliari) firmate dalla gip Simonetta D’Alessandro; nove gli indagati (imprenditori, singoli contribuenti e l’attore Massimo Giuliani) pronti a pagare per ottenere uno sconto sulle tasse; altre 50 le posizioni al vaglio della procura di Roma. Associazione a delinquere, concussione e corruzione (anche) in atti giudiziari le accuse attorno a cui ruota l’inchiesta, che la Finanza ha battezzato «Pactum sceleris». L’ordinanza è stata girata, per la valutazione di eventuali danni erariali, alla procura della Corte dei Conti. In carcere sono finiti i giudici non togati della Commissione tributaria provinciale di Roma, Luigi De Gregori e Onofrio Di Paola D’Onghia, il collega della Commissione tributaria regionale Lazio Salvatore Castello, l’avvocato tributarista Giuseppe Natola, i commercialisti S. B. e Rossella Paoletti, ritenuta al vertice dell’organizzazione, il finanziere Franco Iannella, il funzionario dell’Agenzia delle entrate Tommaso Foggetti e gli ex dipendenti della stessa Sandro Magistri e Daniele Campanile. I domiciliari sono stati disposti per i commercialisti Aldo Boccanera e David De Paolis e il dipendente della Commissione tributaria regionale Alberto Bossi. Scrive D’Alessandro nell’ordinanza: «Si tratta di comportamenti eccezionalmente allarmanti» per dei colletti bianchi, tant’è che gli avvisi di garanzia sono stati ricevuti dagli indagati «con assoluta indifferenza», malgrado nel frattempo sia sopraggiunta «una legge (la Severino ndr) significativamente più gravosa». I capi di imputazione formulati dai pm Giuseppe Deodato e Stefano Rocco Fava sono 18: i primi nove riguardano il solo De Gregori, già arrestato nel 2013; gli altri si riferiscono a Di Paola D’Onghia, a Castello e allo studio di Paoletti, che gli inquirenti ritengono la base logistica dell’organizzazione. Alla professionista si sarebbe rivolto anche Giuliani, che per ottenere l’annullamento di cartelle esattoriali del valore di tre milioni avrebbe versato 50 mila euro ai giudici della Commissione tributaria regionale e 15 mila ai commercialisti. L’inchiesta ha rivelato, secondo gli investigatori, una rete in grado di sterilizzare l’attività di accertamento del fisco. I contribuenti, dopo aver pagato tangenti in denaro o sotto forma di regali alla cricca, ottenevano sgravi di imposte dall’Agenzia delle entrate o riuscivano a vincere i ricorsi promossi davanti alle commissioni tributarie. Ciascuno dei 13 arrestati aveva un ruolo preciso e il sistema era così rodato da garantire pieno successo a chi era disposto a versare la mazzetta. È stato un professionista a rompere il circolo vizioso: vessato dalle continue richieste, ha finito per rivelare ai finanzieri della compagnia di Velletri l’esistenza dell’organizzazione. Il resto lo hanno fatto le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Francesco Caporale. L’inchiesta ora prosegue sia per recuperare il denaro frutto delle tangenti, sia per “resuscitare” i provvedimenti tributari indebitamente annullati grazie all’intromissione della cricca. Il Codacons ha annunciato che si costituirà parte offesa «a tutela della collettività». Perché, spiega il presidente Carlo Rienzi, «gli illeciti commessi hanno prodotto un danno economico evidente ai contribuenti onesti, centinaia di migliaia di romani che hanno regolarmente pagato i propri debiti con il Fisco o perso ricorsi nelle commissioni tributarie».
Roma, ricorsi fiscali pilotati: 13 arresti e perquisizioni. Coinvolti anche tre giudici tributari. Uno era già stato arrestato e condannato nel 2013. Nel mirino dell'inchiesta una cricca in grado di far ottenere anche forti sgravi. Tra gli indagati a piede libero l'attore Massimo Giuliani, scrive il 9 marzo 2016 su "La Repubblica". Tredici persone sono state arrestate dalla Guardia di finanza del comando provinciale di Roma con l'accusa di far parte di una cricca in grado di pilotare ricorsi tributari e ottenere così sgravi fiscali. L'operazione, denominata Pactum sceleris ha portato alla luce una organizzazione criminale che, stando alle accuse, dietro lauto compenso, garantiva ai contribuenti colpiti dagli accertamenti del fisco di uscire vittoriosi nei ricorsi presentati innanzi alle commissioni tributarie o di ottenere consistenti sgravi di imposte dagli uffici finanziari. Le indagini, coordinate da un pool di magistrati della Procura della Repubblica di Roma ipotizza nei loro confronti le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla concussione e corruzione anche in atti giudiziari. I giudici tributari arrestati sono: Luigi De Gregori, che già nel 2013 ebbe una condanna a 4 anni e 4 mesi di reclusione per fatti identici a quelli contestati oggi con i nuovi provvedimenti, Onofrio D'Onghia Di Paola e Salvatore Castello. Le altre persone finite in carcere sono l'avvocato Giuseppe Natola, i commercialisti Rossella Paoletti e S. B., gli ex dipendenti di Agenzia delle Entrate Daniele Campanile e Sandro Magistri, il funzionario dell'Erario Tommaso Foggetti e il finanziere Franco Iannella. Ai domiciliari invece sono finiti i commercialisti David De Paolis e Aldo Boccanera nonché Alberto Bossi, dipendente della commissione tributaria regionale di Roma. Tra gli indagati a piede libero c'è anche l'attore e doppiatore romano Massimo Giuliani, al quale viene contestato il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso con il suo commercialista S. B., con la commercialista Rossella Paoletti, con il collaboratore di quest'ultima Daniele Campanile, già dipendente dell'Agenzia delle Entrate, e con il giudice tributario Onofrio D'Onghia di Paola. I cinque avrebbero "promesso e versato somme di denaro a giudici e ad altri componenti della commissione tributaria Regionale non identificati, per ottenere un atto contrario ai doveri d'ufficio" tra l'ottobre del 2012 e il gennaio del 2013. Il riferimento, in particolare, è alla sentenza del 5 novembre del 2012, depositata il 26 novembre dello stesso anno, che bocciava l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate in relazione alla sentenza emessa dalla commissione provinciale, "favorevole al contribuente Giuliani ed inerente cartelle esattoriali di diversi accertamenti tributari per altrettanti anni di imposta per un ammontare di circa 3 milioni di euro". Giuliani, ipotizzano i magistrati, "metteva a disposizione e versava la somma pari a 65mila euro, così suddivisa: 50mila per i membri del collegio e D'Onghia Di Paola, e 15mila tra Paoletti, B. e Campanile". Il percorso, spiegano gli investigatori, era noto solo agli addetti ai lavori ed era così rodato da garantire il pieno successo di tutti i ricorsi proposti contro gli atti di accertamento del fisco, anche dei più improbabili. Grazie, però, alle rivelazioni di un professionista, vessato dalle pressanti richieste della 'cricca', il muro di omertà ha cominciato lentamente a sgretolarsi e, tassello dopo tassello, è emersa una rete di losche relazioni tra alcuni infedeli giudici tributari, dipendenti, anche in quiescenza, dell'amministrazione finanziaria, civile e militare, avvocati, consulenti e commercialisti, finalizzata a sterilizzare, con ogni mezzo, l'attività di accertamento del fisco. Il giudice della commissione tributaria Provinciale della Capitale, Luigi De Gregori, nel novembre del 2013 era finito in manette in flagranza di reato: finì nei guai per aver incassato una 'mazzetta' da 6000 euro che gli era stata girata da un avvocato di 71 anni che De Gregori aveva appositamente convocato a casa sua, invitandolo a chiudere 'da gentiluomini' un contenzioso con il fisco che riguardava il figlio dello stesso difensore. Questi, che aveva registrato tutta la conversazione, mise il nastro a disposizione della polizia e su suggerimento degli agenti, si ripresentò da De Gregori con le banconote fotocopiate come prova dell'avvenuta concussione. Ed effettivamente quei soldi, pochi minuti dopo la consegna, furono trovati dai poliziotti in un cassetto della scrivania. In precedenza, nel maggio del 2011, De Gregori convocò telefonicamente a casa sua il commercialista Arturo Mascetti per "presunti problemi ostativi all'accoglimento di due ricorsi" che il commercialista aveva presentato in commissione tributaria per conto del Centro Equestre Chiara Piccola Scarl contro una serie di accertamenti emessi dall'Agenzia delle Entrate. Mascetti, durante l'incontro, si sentì chiedere da De Gregori il pagamento di 15mila euro per vedere accolti i suoi ricorsi e condannare la pubblica amministrazione al pagamento delle spese, quantificate in 6mila euro. Non solo, ma De Gregori spiegò al commercialista che la sentenza "poteva essere predisposta" dallo stesso diretto interessato. L'affare non andò in porto perché Mascetti si rifiutò di pagare e preferì denunciare tutto ai finanzieri della compagnia di Velletri, i cui accertamenti diedero così il via all'indagine della Procura di Roma. Inutile dire che anche i ricorsi di Mascetti vennero bocciati. De Gregori, due anni dopo, patteggiò la pena a 4 anni e 4 mesi di reclusione e, proprio in relazione a questa condanna, si trovava ancora agli arresti domiciliari quando gli è stato notificato il provvedimento in carcere del gip Simonetta D'Alessandro. I nove capi di imputazione che lo tirano in ballo fanno però riferimento a un arco temporale che va dal maggio 2011 al giugno 2013, quindi prima dell'episodio che ha determinato il primo arresto. Le indagini condotte dalle fiamme gialle della compagnia di Velletri, hanno rivelato come, grazie al pagamento di ingenti somme o alla consegna di regalie di vario genere, numerosi contribuenti riuscissero ad ottenere indebiti sgravi di imposte dagli uffici dell'agenzia delle entrate o ad uscire vittoriosi nei contenziosi promossi davanti alla commissione tributaria regionale e provinciale di Roma contro gli atti di accertamento conseguenti alle verifiche subite dal fisco. Le 13 persone arrestate, di cui otto uniti da un vincolo associativo agivano, secondo gli investigatori, all'interno degli organi di appartenenza in base a ruoli ben precisi e all'esclusivo scopo di vanificare il lavoro di contrasto all'evasione fiscale. Il lavoro degli inquirenti prosegue per recuperare, da un lato, i proventi dei reati e, dall'altro, per ripristinare, e rinvigorire, i provvedimenti tributari indebitamente annullati dall'intromissione del gruppo criminale.
Tangenti ai giudici tributari nei cesti dei regali di Natale. Marina Seregni è coinvolta nello stesso giro di tangenti che ha portato in carcere a dicembre il giudice tributario Luigi Vassallo. La società Swe-Co Sistemi al centro delle nuove indagini: una parte dei 65 mila euro sarebbe stata girata da un giudice all’altro, scrive Giuseppe Guastella il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". È «certa l'esistenza di ulteriori episodi illeciti posti in essere dagli indagati, nonché il coinvolgimento di altri soggetti», scrive il gip Manuela Cannavale ordinando ieri l'arresto del giudice tributario Marina Seregni e notificando l'ordinanza in carcere all'avvocato Luigi Vassallo, giudice tributario di secondo grado già arrestato a dicembre. Le indagini della Procura rischiano di allargarsi a macchia d'olio nelle commissioni tributarie. Seregni, commercialista 69enne di Monza, era stata già indagata con l'arresto di Vassallo il quale, chiedendo una tangente da 30mila euro dalla multinazionale tedesca Dow Europe per aggiustare un processo in cui la professionista era relatrice, aveva detto che avrebbe dovuto girare a lei parte della tangente. A mettere le manette a Vassallo mentre intascava la mazzetta erano stati i militari della Gdf avvertiti dai legali della società. Le indagini hanno travolto anche Marina Seregni collegando sempre più la sua attività giudiziaria a quella di Vassallo, dentro e fuori le aule. La Gdf ha scoperto che il legale aveva ottenuto un'altra mazzetta, stavolta da 65mila euro, da Luciano Ballarin, titolare (indagato) della Swe-Co sistemi srl, un'azienda di elettronica di Milano. In ballo c'erano 1,9 milioni di euro che la società avrebbe dovuto pagare al termine di un processo tributario in cui la Seregni era giudice. La sentenza, depositata l'11 gennaio, quasi un mese dopo l'arresto di Vassallo, dava ragione alla società e cancellava le richieste dell'Agenzia delle entrate, ma il documento risultava scritto con il computer del legale e controfirmato dalla Seregni che, in questo modo, confermava «la volontà di continuare impunemente a porre in essere il reato, sebbene sapesse di essere attenzionata» dagli inquirenti, scrive il gip. Perquisendo l'abitazione, lo studio e le cassette di sicurezza di Vassalli, la Gdf ha trovato 265mila euro in contanti che, per i pm, non sono compatibili con la sua attività di legale. La conferma arriva dalla sua segretaria che, dopo aver dichiarato che Vassallo seguiva pochissimi processi, ha aggiunto che nello studio c'era chi portava denaro in contante: «Giustificava le somme di denaro che chiedeva ai clienti - ha dichiarato - con la necessità di corrispondere un parte di quelle somme ai giudici per ottenere sentenze favorevoli». Aveva anche un «tariffario» che era «ripartito per i vari gradi di giudizio» e una contabilità «nera» delle mazzette, che teneva in buste con sopra ancora il nome dei corruttori, che per gli investigatori non sarà difficile identificare. Il «carattere sistematico e professionale» delle «condotte criminose» di Vassallo gli «ha fatto meritare tra i professionisti del settore, la fama di "aggiusta processi"».
Tangenti per addomesticare sentenze: arrestato a Monza giudice tributario. Con l'accusa di corruzione in atti giudiziari è finita al carcere di San Vittore la commercialista Marina Seregni, 70 anni, di Monza. Secondo le indagini della Procura di Milano la donna era complice di Luigi Vassallo, già arrestato a dicembre 2015 in un sistema collaudato di mazzette per garantirsi decisioni favorevoli, scrive Ersilio Mattioni il 28 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Intascavano tangenti per addomesticare le sentenze sui contenziosi fiscali e poi si dividevano i soldi. Con questa accusa, stamattina all’alba, è stata arrestata dalla Guardia di finanza Marina Seregni, commercialista 70enne di Monza, giudice tributario di primo grado e collega di Luigi Vassallo, anche lui giudice tributario ma in Appello, finito in carcere il 17 dicembre 2015 (e tuttora detenuto a Opera, dove oggi gli è stato notificato un altro ordine di custodia cautelare per il nuovo episodio corruttivo) per essere stato colto in flagranza mentre incassava 5mila euro, prima tranche di una mazzetta da 30mila. Seregni, accusata di corruzione in atti giudiziari, è stata portata nel carcere milanese di San Vittore. L’inchiesta, denominata ‘Dredd’ (come il celebre film del 2012, diretto da Pete Travis, uscito in Italia col sottotitolo ‘La legge sono io’), è stata condotta dai pubblici ministeri Eugenio Fusco e Laura Pedio, coordinati dal procuratore aggiunto Giulia Perotti. La giudice Seregni era già stata interrogata nel dicembre 2015, per via di una telefonata di Vassallo registrata sulla sua segreteria. Il collega le diceva di avere urgenza di parlare con lei a proposito di due processi, per poi aggiungere: “Anche di una pratica che mi interessa”. La commercialista monzese aveva respinto ogni addebito e si era anzi dichiarata “vittima” di una millanteria. Così era tornata a casa senza capi di imputazione. Le indagini della Procura di Milano però avrebbero portato a conclusioni decisamente diverse. Dall’analisi dei documenti sequestrati nello studio di Vassallo sarebbe infatti emerso un collaudato sistema di corruttele: Vassallo, per conto di privati e aziende che avevano guai con il fisco, avrebbe agito in qualità di giudice per ‘aggiustare’ le sentenze o in qualità di intermediario rivolgendosi ad altri giudici compiacenti. Fra questi, secondo i pm Fusco e Pedio, ci sarebbe stata anche Seregni, con la quale Vassallo avrebbe poi diviso i proventi delle tangenti, versate in contanti oppure ‘mascherate’ da false fatturazioni di consulenza. Da ciò le accuse, per Vassalli e Seregni sia di “corruzione in atti giudiziari” sia di “induzione indebita a dare o promettere utilità”, in base agli articoli 319 ter e 319 quater del codice penale. Accuse formulate dalla Procura e avallate dal Gip Manuela Cannavale, che ha firmato l’arresto in carcere. In particolare, i magistrati contestano una tangente di 65mila euro da parte di Luciano Ballarin, amministratore unico della Swe-co Sistemi Srl, versata a Vassallo e da quest’ultimo divisa con Seregni, per ‘addolcire’ una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, la quale aveva mosso contro la Swe-Co Sistemi Srl, per conto dell’Agenzia delle entrate, una contestazione fiscale di circa 14 milioni di euro. La vicenda – che ricorda ‘Mani Pulite’, con tanto di bustarelle e arresti in flagranza grazie a militari in borghese e banconote ‘segnate’ – ha origine nel novembre 2015 con la denuncia della Dow Europe Gmbh, multinazionale della chimica che fattura 58 miliardi di dollari l’anno, che vanta 53mila dipendenti in tutto il mondo e che aveva in corso un contenzioso fiscale. I rappresentanti della società, contattati da Vassallo, non si erano però piegati alla logica corruttiva e avevano denunciato il giudice tributario in Procura, pur fingendo di stare al suo gioco. Il giorno della consegna del denaro, nello studio della società Crowe Horwath Saspi di Milano, fra gli impiegati si erano infiltrati i militari della Fiamme Gialle, poi intervenuti per arrestare Vassallo per “induzione indebita a dare o promettere utilità”, mentre incassata la prima tranche della tangente. Il ruolo di Seregni, che non era emerso con sufficiente chiarezza allora, appare agli inquirenti oggi più che evidente: per la Procura i due giudici tributari erano d’accordo e agivano “in concorso tra loro”. Fa una certa impressione che Vassallo, avvocato cassazionista, professore a contratto all’Università di Pavia e da anni giudice nelle controversie fiscali, abbia lavorato in tempi recenti, nel 2013, con enti pubblici come Regione Lombardia (nell’Osservatorio della mediazione tributaria per conto dell’Agenzia delle Entrate) e sia stato presidente di organismi di vigilanza di grandi gruppi industriali (come per esempio la Bracco Real Estate) con un incarico preciso: prevenire i reati societari. Secondo i magistrati inquirenti l’inchiesta sul finora inesplorato mondo delle commissioni tributarie potrebbero aprire scenari inediti, degni di nuova Tangentopoli.
La questione morale dei giudici tributari. Cavallaro all'Huffpost: "Non ci possiamo nascondere, non siamo immuni da corruzione", scrive Viola Contursi su L'Huffington Post il 19/02/2016. Si è aperto un problema di questione morale all'interno della magistratura tributaria, travolta negli ultimi mesi da diversi arresti di giudici dal nord al sud della Penisola. Il presidente del consiglio di presidenza della giustizia tributaria, Mario Cavallaro, intervistato dall'Huffington Post, nel giorno dell'inaugurazione dell'Anno giudiziario tributario annuncia un piano nazionale di controlli a tappeto e tolleranza zero: “Gli episodi ci dimostrano che la magistratura tributaria non è immune dalla corruzione – dice – Ma sia chiaro che intendo stroncare il fenomeno. Nessun giudice tributario deve finire più in galera, devono dare prova di specchiatezza”. La questione morale si pone. Negli ultimi mesi sono stati arrestati Filippo Impallomeni, presidente dell’VIII sezione della commissione tributaria di Catania, a cui viene contestato l’uso in comodato gratuito di un’automobile in cambio di una sentenza favorevole; Luigi Vassallo e Marina Seregni, giudici della commissione tributaria di Milano accusati di aver intascato presunte tangenti in cambio della chiusura di un contenzioso; Giuseppe Leone, vicepresidente della commissione tributaria regionale della Campania e Loris Leone, ex giudice della stessa commissione, accusati di concorso in concussione.
Tanti arresti di giudici tributari in pochi mesi, cosa sta succedendo?
“Sicuramente non ci si può nascondere: gli episodi sono abbastanza numerosi e quindi diciamo che la magistratura tributaria non è immune al fenomeno corruttivo. Probabilmente c’è la somma dell’importanza sempre più grande del contenzioso tributario e il valore economico dei contenziosi. La grande massa del contenzioso è ancora di modesta entità ma visto che fino a 20mila euro di imposte c’è il ricorso al reclamo, dinnanzi alle Corti arrivano contenziosi sempre più sostanziosi. Dinnanzi alla magistratura tributaria pendono affari per 32 miliardi di euro quindi di grandissima consistenza e sono circa 500-600 mila i ricorsi pendenti. Quindi in pochi migliaia di ricorsi si concentrano affari enormi. Poi, la differenza nei collegi tra giudici togati (magistrati ordinari, contabili e amministrativi; Ndr) e giudici laici (commercialisti, avvocati o ex funzionari del fisco; Ndr) non dovrebbe essere rilevante ma certamente la tentazione è più forte per chi non fa parte del mondo giudiziario. Questo rafforza il nostro senso di responsabilità”.
Si può dunque parlare di un problema di questione morale.
“Non credo che sia quello che dobbiamo temere. Tanto è vero che non lo considero un fenomeno diffuso, sono convinto che la maggior parte della magistratura giudiziaria sia formata da persone oneste. Ma certo che più siamo rigorosi negli accessi e più garantiamo una qualità etica. Anche nel mio discorso all'inaugurazione dell'anno giudiziario dico che, nel rispetto del principio di innocenza, intendo stroncare il fenomeno. Nessun giudice tributario deve finire più in galera, devono dare prova di specchiatezza”.
Come pensa di intervenire a seguito di questi arresti?
“Innanzitutto tutti i giudici tributari arrestati e indagati sono stati sospesi. Io e il consigliere Montagna abbiamo subito fatto una prima ispezione informale a Milano. Abbiamo poi introdotto da più di un anno il sistema dell’assegnazione informatizzata per cui al giudice viene assegnata una causa attraverso una procedura tracciata e informatizzata. Ora abbiamo deliberato, e ne do annuncio oggi all'apertura dell'anno giudiziario, una serie di ispezioni straordinarie sul territorio. Un monitoraggio territorio per territorio”.
Come funzioneranno i controlli?
“Quando un giudice avrà assegnato più di un fascicolo sulla stessa società, cosa che può accadere, partirà un allert automatico. Abbiamo un sistema molto raffinato per l’individuazione delle criticità e lo stiamo mettendo in campo. Molto farà anche il processo telematico, che è appena partito, grazie al quale i controlli saranno più facili”.
Il governo e il Parlamento possono in qualche modo intervenire?
“Ho scritto una lettera ai presidenti delle commissioni Finanze di Camera e Senato chiedendo che venga avviata un'indagine conoscitiva al fine di arrivare a una riforma sistemica della magistratura giudiziaria. Ho anche detto al ministero dell'Economia che dobbiamo lavorare insieme per una riforma e il viceministro Luigi Casero si è dimostrato disponibile. Un'altra cosa utile sarebbe quella di porre la giustizia tributaria sotto la presidenza del Consiglio così come succede per tutti gli altri giudici speciali. Non serve una legge costituzionale, basta modificare la legge attuale e trasferire le competenze dal Mef alla presidenza del Consiglio. E’ una vecchia diatriba, ma è la cosa più logica ed ora è arrivato il momento di aggiornarci”.
La riforma di cui parla come potrebbe essere articolata?
“Innanzi tutto noi avremmo pronto un nuovo maxiconcorso, che dovrebbe essere autorizzato dal ministero, per riempire l’organico fino a 4mila giudici tributari, con paletti più stringenti in accesso, che potrebbero essere presi a modello per il futuro. Nel frattempo serve lavorare a una riforma per rendere ancor più professionale la magistratura tributaria attraverso una selezione più rigorosa all’ingresso, l'incremento dei compensi e la diminuzione del numero dei magistrati tributari dagli attuali 4mila a circa 1200-1500. Questo esigerebbe un maggior carico di lavoro per ciascun giudice ma è anche vero che più sono i magistrati più è difficile controllarli ed è anche maggiormente possibile avere comportamenti per così dire 'diversi'”.
Si potrebbe prevedere anche l'eliminazione dei giudici laici?
“Sono contrario, le loro competenze sono indispensabili. Inoltre se noi diciamo che tutti i giudici dovrebbero avere la stessa dignità, anche i laici dovrebbero poter essere nominati presidenti di Commissione tributaria. Ma con un impegno più pressante, magari come fuori ruolo. O quantomeno stabilire dei carichi di impegno più stringenti. Sono invece contrario all'ipotesi che i contenziosi tributari siano gestiti dalla giustizia ordinaria: abbiamo oltre 500 mila ricorsi pendenti, tutte le cause tributarie slitterebbero all'anno del poi”.
Giudici, avvocati e professori un giro da 50 miliardi: “È la nuova tangentopoli tributaria”. Da Nord a Sud sono già diverse le inchieste sui contenziosi in materia di tasse. Quelle che, secondo Di Pietro, fermarono Mani pulite, scrive Sandro De Riccardis il 10 marzo 2016 su “La Repubblica”. Esplode da nord a sud. Porta in carcere giudici, avvocati, commercialisti, professori universitari, imprenditori. Svela il commercio sotterraneo di sentenze che in materia di tasse possono spostare, con una sola firma, milioni di euro dal privato allo Stato. O, più spesso, il contrario. È la Tangentopoli fiscale che da Milano a Catania, passando per Roma, attraversa il Paese. E che riguarda uno dei settori della giustizia - i contenziosi tributari - finora quasi inscalfibile a ogni inchiesta della magistratura e a ogni riforma della politica. Strutturato su due livelli di commissioni, provinciali per il primo grado e regionali per il secondo, la giustizia tributaria è un sistema di potere solidissimo. Una cerchia chiusa di magistrati, in maggioranza privati, onorari, chiamati nel 2015 a decidere su oltre 581mila contenziosi, per un valore globale di 50 miliardi di euro. Un tesoro affidato alle decisioni di avvocati, commercialisti, geometri, ragionieri, persino ad agronomi e professori di liceo. Un sistema sul quale indagò anche Antonio Di Pietro, che dopo le inchieste sulla corruzione nei partiti, delle mazzette in valigia o fatte sparire nel water, si convinse di essere stato fermato proprio quando iniziò a scavare nel mondo delle sentenze tributarie. E oggi un nuovo grappolo di inchieste sta ripartendo da lì: solo a Milano si indaga su venti cause fiscali. Come il primo arresto di Mani pulite nel 1992, con Mario Chiesa fermato con una mazzetta di sette milioni di lire tra le mani, lo scorso 17 dicembre i militari della Guardia di Finanza, travestiti da avvocati, arrestano nello studio Crowe Horwarth, il giudice della commissione tributaria provinciale di Milano, Luigi Vassallo, con una busta da cinquemila euro infilata nella giacca. Vassallo, avvocato cassazionista e docente universitario a Pavia, che risulta (dal marzo 2015) ancora consulente "in materia di conflitto di interessi per il governo", ha appena incassato la prima rata di una tangente da 30mila euro per intervenire su una esterovestizione da svariati milioni contestata alla multinazionale della chimica Dow Europe Gmbh. Non è un episodio isolato. Perché i pm di Milano Eugenio Fusco e Laura Pedio, un mese dopo, ottengono l'arresto di un altro giudice onorario, l'avvocato Marina Seregni. I due giudici sono accusati di corruzione in atti giudiziari per il caso della Dow Europe Gmbh, ma anche di aver pilotato un contenzioso da 14,5 milioni a favore della società Swe-Co, dell'imprenditore Luciano Ballarin (indagato) in cambio di 65mila euro. Il gip Manuela Cannavale cita esplicitamente la "spregiudicatezza con cui si muoveva Vassallo, che sapeva di poter fare affidamento su Seregni e verosimilmente anche su altri giudici tributari e funzionari dell'Agenzia delle Entrare, per pilotare ricorsi, influenzare i giudizi dei collegi, sostituirsi nella redazione delle sentenze, a fronte della corresponsione di dazioni illecite da ripartire con i complici". E infatti nell'inchiesta è indagato anche un giudice togato, Francesco Pinto, ex presidente del tribunale di Imperia, ex giudice a Monza, ora presidente della sezione 18 della Commissione tributaria provinciale di Milano. Lo schema non è diverso da quello scoperto a Catania dal procuratore Michelangelo Patané e dal pm Tiziana Laudani. Finisce in carcere - insieme a due imprenditori, un commercialista e un cancelliere - il presidente di sezione della Commissione tributaria provinciale di Catania, il giudice Filippo Impallomeni. Il magistrato avrebbe usato per anni le auto della concessionaria di Giuseppe Virlinzi, fratello di uno dei più grossi immobiliaristi della città, in cambio di decisioni favorevoli, per un risparmio sulle tasse di 800mila euro. Per i pm, Impallomeni, da presidente, da relatore o da estensore era sempre presente nelle decisioni su Virlinzi. Gli investigatori non pensano che si tratti di casi isolati, ma che almeno in Lombardia si possa ipotizzare un sistema. Qualcosa che riporta alla mente vecchie inchieste, come la celebre P3 che nasceva proprio da oscuri personaggi che si vantavano di pilotare grandi processi tributari. "Emerge - dice oggi un investigatore - una rete di relazioni che sopravvive a ogni forma di incompatibilità". Se per legge non può svolgere l'attività di giudice chi esercita attività di consulenza tributaria per "contribuenti, società di riscossione o altri enti impositori", è vero che il conflitto d'interessi è all'ordine del giorno. "Era noto che Vassallo fosse in grado di risolvere i problemi: i commercialisti e gli avvocati che venivano in studio sapevano che era in grado di sistemare i processi", mette a verbale la sua segretaria, svelando come oltre le incompatibilità formali bisogna fare i conti con un contesto di fortissima contiguità tra professionisti. Con commissari che sono amici, colleghi, a volte soci dei legali delle aziende coinvolte nelle liti. Storture che portano fino al 60% le decisioni che danno ragione al privato e torto allo Stato. E "che azzerano - riflette un magistrato - anni di lavoro di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate". A Milano come a Catania, le inchieste sono destinate ad allargarsi. In altre procure, oltre a quella di Roma, sono agli inizi. Quella del capoluogo lombardo fa da apripista. Non solo perché i giudici arrestati avevano grande disponibilità di denaro (Vassallo era titolare di due cassette di sicurezza, e di contanti per 267mila, Seregni di altre due cassette che ha movimentato prima dell'arresto). Ma soprattutto per le buste piene di altre banconote, trovate coi nomi dei "soggetti erogatori" del denaro: manager, aziende, membri di commissione, funzionari dell'Agenzia delle Entrate. E un elenco di venti contenziosi ora sotto indagine.
Commissioni tributarie: il potere immenso di 3400 uomini. Attualmente tre procure chiave indagano su questi tribunali, veri arbitri della lotta all'evasione, scrive Gianluca Di Feo il 10 marzo 2016 su “La Repubblica”. Sono solo 3400 persone: giudici di mestiere o avvocati, commercialisti, pensionati, ragionieri e persino geometri, tutti chiamati a fare questo lavoro part time. Gestiscono un potere immenso: oggi dal loro verdetto dipende la sorte di 581mila cause fiscali per un valore di 50 miliardi di euro. Bastano questi numeri per comprendere l'importanza delle commissioni tributarie. Una realtà nota a pochi ma fondamentale per la vita del paese: sono i veri arbitri della lotta all'evasione, i protagonisti della battaglia contro l'economia sommersa che impoverisce le casse pubbliche perché esaminano i ricorsi contro multe e contestazioni per le tasse non pagate. Attualmente tre procure chiave indagano su questi tribunali molto speciali. I pm di Milano, in particolare, sospettano di essere sulle tracce di un'estesa rete di corruzione. Non è una sorpresa: la tentazione della bustarella è sempre proporzionale agli interessi in gioco. E la prospettiva di far sparire una causa da 3 milioni pagando solo 65 mila euro sottobanco - come emerge dagli arresti romani di ieri - può apparire conveniente a molti imprenditori. Anche perché i tempi dei giudizi non sono rapidi: in media ci vogliono quattro anni e mezzo prima di arrivare in Cassazione, dove però gran parte di queste pratiche finiscono ingolfate. Nelle loro relazioni ufficiali, gli organi della magistratura tributaria vantano il miglioramento delle prestazioni e denunciano problemi comuni a tutta la giustizia, in particolare la carenza di organici. Non c'è una particolare attenzione alla questione morale, anche se tra le righe si citano ben 106 procedimenti disciplinari aperti in un anno per effetto di inchieste penali. Tra lentezze, eccesso di ricorsi e ombre di intrallazzi, è chiaro però che il settore ha bisogno di una cambiamento. Piercamillo Davigo, grande inquisitore di Mani Pulite ma pure magistrato fiscale dal 1979, ha dichiarato a l'Espresso: "La mia opinione è che le commissioni andrebbero soppresse. Affidare questi processi ai magistrati ordinari o amministrativi offrirebbe più garanzie, sia allo Stato, sia ai contribuenti onesti". Meno drastica la posizione del viceministro dell'Economia Luigi Casero che tre settimane fa ha promesso un "intervento complessivo di riforma", sottolineando che i "fenomeni di corruzione distruggono l'intero sistema" mentre "è fondamentale che onestà e correttezza siano l'elemento determinante dei giudizi". Anche il Guardasigilli Andrea Orlando si è impegnato a trovare una soluzione. Ma le resistenze sono tante: un muro da 50 miliardi.
SCIENZA E GIUSTIZIA.
Il Csm ora indagherà sul pm che ha rovinato la scienziata. La Capua prosciolta dall'accusa di essere una "untrice" scappa negli Usa. E gli inquirenti finiscono nel mirino, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 8/07/2016, su “Il Giornale”. Anni d'inferno, una vita «sfregiata». Ora la virologa Ilaria Capua è stata prosciolta dall'infamante accusa di essere un'«untrice», di trafficare in virus per provocare un'epidemia. Ma il suo cervello è intanto migrato negli Stati Uniti e nulla potrà ripagarla di quanto ha subito. I suoi accusatori, però, finiscono nel mirino del Csm. E il laico di Fi Pierantonio Zanettin chiede al Comitato di presidenza di Palazzo de' Marescialli di aprire una pratica sul procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, che ha avviato l'indagine penale e sui giudici che hanno proseguito il suo lavoro, culminato due giorni fa con la dichiarazione: «il fatto non sussiste». I reati ipotizzati erano gravissimi: ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso, corruzione, zoonosi ed epidemia. Per la Capura c'era il rischio di finire all'ergastolo. Ma il gup di Verona alla fine ha deciso che non c'era nulla di tutto questo. E ora, se il vertice del Csm darà l'ok, la Prima Commissione dovrà valutare se pm e giudici hanno agito in modo scorretto, «se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà ed imparzialità», come scrive Zanettin. Tra l'altro, la ricercatrice in un'intervista ha dichiarato «di non essere mai stata interrogata da nessun magistrato». Ai vertici di Palazzo dei Marescialli il consigliere ricorda il profilo della Capua, nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull'influenza aviaria. Proprio lei è stata la prima ad aver isolato il virus H5N1 eppure ha detto «no alle offerte milionarie delle case farmaceutiche per mettere gratis la sua scoperta a disposizione su genBank di tutti gli scienziati del mondo», sottolinea Zanettin. È stata la «prima donna e primo ricercatore sotto i 60 anni a vincere il Penn vet world leadership award, cioè il riconoscimento più importante del pianeta per le discipline veterinarie». Nel 2013 la virologa, responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie, viene eletta deputato di Scelta civica e poco dopo le crolla addosso l'inchiesta della Procura di Roma su una presunta cessione illecita di virus ad aziende farmaceutiche. Un'inchiesta che ha radici lontane, cronologicamente e geograficamente. Le accuse partono infatti dagli Usa nel 1999 e da lì vengono allertati i pm di Roma, che nel 2004 avviano le indagini arrivando a formulare le accuse alla Capua, cadute 12 anni dopo perché per il giudice mancano i presupposti per un processo. Intanto la scienziata, scrive Zanettin, «prostrata dalle lungaggini dell'inchiesta, ha deciso di abbandonare l'Italia ed ha accettato la direzione di un dipartimento di eccellenza all'Emerging Pathogens Istitute dell'Università della Florida». Anche stavolta e per cause giudiziarie, «il nostro Paese ha perso un cervello di grande valore». Rimane, spiegano i colleghi della Capua, il rimpianto per non essere riusciti a trattenere questo talento della nostra ricerca, che ancora molto avrebbe potuto dare alla scienza e all'Italia. Da Sc applaudono l'iniziativa di Zanettin. «Ci auguriamo che il Csm voglia aprire al più presto una pratica su Capaldo - dice Giovanni Monchiero, il capogruppo alla Camera - È un caso emblematico e clamoroso di malagiustizia. Non neghiamo il diritto della magistratura di indagare chiunque ma i risultati delle indagini preliminari devono restare segreti, almeno fino a quando non si raccolgano indizi incontrovertibili di colpevolezza».
«Perchè il pm non ha interrogato la Capua?» Il Csm apre un fascicolo, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 luglio 2016 su “Il dubbio”. Il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Il Consigliere laico Pierantonio Zanettin ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. La vicenda è nota. Secondo i carabinieri del Nas di Roma, Capua e suo marito facevano parte di un’associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Per i magistrati, Capua, pur di arricchirsi, sarebbe arrivata a diffondere il virus negli allevamenti del Nord Italia in modo da causare una epidemia e aumentare così le vendite dei vaccini. Le indagini, inziate nel 2005 con ampio ricorso alle immancabili intercettazioni telefoniche, terminarono 10 anni dopo. Quando la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per 41 tra ricercatori, funzionari del ministero della Salute e manager di case farmaceutiche. L’inchiesta ebbe, però, il suo momento di gloria un anno prima, allorquando l’Espresso pubblico, con le indagini preliminari ancora in corso. Tutte le carte del procedimento penale “top secret”. “La cupola dei vaccini”, il titolo dello scoop. Nel frattempo il procedimento era stato “spezzettato” per competenza territoriale fra diverse Procure, tra cui quella di Verona che l’altro giorno ha chiesto e ottenuto il proscioglimento degli indagati, fra cui Capua, perchè “il fatto non sussiste”. Appena si era diffusa la notizia dell’indagine, Capua, che era stata anche eletta in parlamento nella fila di Scelta Civica, divenne oggetto di un linciaggio mediatico feroce. Alcuni commenti? “Grandissima zoccola! ” o “Iniettategli a forza il virus! ”. I grillini gli avevano addirittura intimato di dimettersi. Travolta dalla gogna, “la signora dei virus” come venne definita da l’Espresso, lasciò il Parlamento e l’Italia. Trovando ospitalità negli Stati Uniti, dove da qualche settimana dirige un prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida. Una perdita per il paese che che ha visto andar via una delle migliori scienziate attualmente in circolazione, la prima sotto i sessant’anni a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il riconoscimento piu importante del pianeta nell’ambito delle discipline veterinarie. Gli americani non si sono fatti influenzare dai carichi pendenti della Capua. Reati che in Italia gli avrebbero impedito di partecipare ad un qualsiasi concorso pubblico, anche ad una semplice selezione per un posto di bidello. La rivista Science aveva fin da subito fatto a pezzi l’indagine. “I documenti non sembrano siano stati revisionati da esperti scientifici”, scrissero. Il dott. Christianne Bruschke, scienziato esperto di patologie veterinarie presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivò a definire le accuse contro Capua “ironiche”. Quando Capua, presentandosi all’università della Florida, disse che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, risposero che conoscevano le accuse e che erano talmente campate in aria da non essere di loro interesse. Evidenziando in questo modo grande considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana dal Corriere, Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, diciamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via il teorema accusatorio, costruito in anni di indagini costose. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua.
La virologa Capua e l'inchiesta rimasta nel cassetto per 7 anni. La scienziata fu interrogata nel 2007. Ecco come un'indagine è diventata un caso kafkiano, scrive Carlo Bonini l'8 luglio 2016 su “La Repubblica”. La vicenda giudiziaria della virologa Ilaria Capua e dei suoi trentanove coimputati accusati di aver trafficato in virus esponendo il nostro Paese a un'epidemia di influenza aviaria per assicurare un posto al sole a un cartello di società farmaceutiche nella corsa ai vaccini, è in una domanda cui, da martedì scorso, nessuno ha saputo o ha avuto voglia di rispondere. E che conviene riproporre. Perché ci sono voluti 12 anni per concludere che non esisteva materia per procedere vista "l'insussistenza del fatto" e, lì dove pure sarebbe esistita, prendere atto che, ormai, i fatti erano prescritti? Ieri, il consigliere laico in quota Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ha chiesto al Csm l'apertura di una pratica per "incompatibilità ambientale" a carico del Procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, il magistrato che, di questa storia, è stato il solitario dominus inquirente. E, da ieri, il Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ha ritenuto di non rendersi disponibile ad alcune domande di Repubblica.Bisogna dunque accontentarsi delle "carte" - circa 20mila fogli - e di qualche data certa. Abbastanza, come vedremo, per correggere qualche ricordo dei protagonisti non esatto e capire dove, come e quando questo affaire si è trasformato nella catastrofe giudiziaria ora sotto gli occhi di tutti. La faccenda ha il suo incipit il 18 marzo 2005. Quel giorno, Robert S.Stiriti, dell'Immigration and Customs Enforcement statunitense, agenzia appartenente all'Homeland Security, informa con una nota protocollata "RM 07PQ03PM0001 (EPA), al capitano Marco Datti, Comandante del Nas dei Carabinieri di Roma, che dall'attività di indagine svolta sull'azienda Maine Biological laboratories nell'ambito di un'inchiesta su un contrabbando di virus tra Stati Uniti ed Arabia Saudita, è emerso che, nell'aprile del 1999, un ceppo del virus dell'influenza aviaria, denominato H9, è stato spedito con corriere Dhl a un impiegato della ditta Merial Italia senza le prescritte autorizzazioni. Quel signore si chiama Paolo Candoli, è un manager Merial, divisione veterinaria del colosso farmaceutico Sanofi e, interrogato dagli americani, patteggia la propria immunità mettendo a verbale quanto dice di sapere sul contrabbando dei virus. I suoi verbali vengono trasmessi nella seconda metà del 2005 ai carabinieri del Nas. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo apre un fascicolo e, partendo proprio dalla figura di Candoli, chiede e ottiene che vengano disposte intercettazioni telefoniche. Il fascicolo prende il numero 24117/2006. Due anni di intercettazioni e indagini convincono i Nas prima e Capaldo poi di aver afferrato il bandolo di un'associazione a delinquere che traffica in contrabbando di virus per consentire ad un cartello di aziende farmaceutiche di acquisire posizioni di vantaggio nella sintesi e vendita dei vaccini. E che di questa associazione snodo cruciale sia Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie con sede a Padova. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota non solo per i suoi studi sul virus dell'influenza aviaria umana H5N, ma per aver reso pubblica, proprio nel 2006, la sequenza genetica del virus. Di più: l'indagine coinvolge il marito della Capua, Richard John William Currie, dipendente dell'altra azienda farmaceutica interessata alla sintesi di vaccini, la Fort Dodge Animal di Aprilia, e altri 38 indagati, tra cui tre scienziati al vertice dell'Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli), funzionari e direttori generali del Ministero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci), alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell'Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell'istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell'università di Milano, Santino Prosperi dell'università di Bologna), e Rita Pasquarelli, direttore generale dell'Unione nazionale avicoltura. Nel 2007, la vicenda, da un punto di vista investigativo, potrebbe dirsi chiusa. E la circostanza è tanto vera che, il 2 luglio di quell'anno, contrariamente a quanto sostenuto nelle interviste rilasciate nei giorni scorsi ("nessuno mi ha mai sentito"), Ilaria Capua viene interrogata da Giancarlo Capaldo, alla presenza dell'avvocato Oliviero De Carolis, che in quel frangente sostituisce l'avvocato Paolo Dondina (oggi l'Espresso pubblicherà sul suo sito il dettaglio di quell'interrogatorio, mentre ieri la Capua non ha dato seguito ai messaggi lasciati da Repubblica). È una circostanza che, al di là del merito della vicenda processuale, prova come, in quel 2007, il Procuratore aggiunto di Roma e gli indagati si muovano su un terreno di cui ormai è stato definito il perimetro. E per il quale è dunque possibile andare rapidamente a una conclusione dell'indagine. Che, invece, non arriva. Il procedimento 24117/2006 entra infatti in un letargo da cui i Nas dei carabinieri provano inutilmente a destarlo con un'ultima informativa nel 2010. Ma senza esito. Nel frattempo, la vita della Capua cambia. Nel febbraio del 2013 viene eletta deputata di Scelta civica. Della sua vicenda giudiziaria nessuno, tranne gli interessati, sa. E persino il nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ne rimane all'oscuro fino al 2014. Quando di quell'inchiesta, in aprile, dà conto nel dettaglio, anche temporale, il settimanale Espresso e la Capua decide di rivolgersi all'avvocato Giulia Bongiorno, nominata subito dopo la pubblicazione dell'articolo. La Bongiorno sollecita più volte Capaldo a una definizione del procedimento, che, di fatto, è ormai solo un processo di carte per giunta invecchiate di sette anni. Non fosse altro perché delle due l'una. O quelle accuse sono fondate e un'associazione a delinquere di quella pericolosità va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno liberati del fardello. L'avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L'udienza preliminare, nel maggio dell'anno successivo, vede il gup di Roma, Michela Francorsi, dichiarare l'incompetenza territoriale di Roma e "spacchettare il processo" in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l'archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, dove la Capua è difesa dall'avvocato.
Traffico dei virus, Capua prosciolta. Ma le intercettazioni svelano il grande business. "Non luogo a procedere" per la virologa padovana. Ma l'inchiesta dei Nas mette in risalto gli affari e i conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie. E racconta con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma, scrive Lirio Abbate il 5 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il giudice per l’udienza preliminare di Verona, Laura Donati, ha ordinato il «non luogo a procedere» per la virologa e deputata di Scelta Civica, Ilaria Capua, e altre dodici imputati accusati a vario titolo di traffico illecito di virus dell’influenza aviaria. L'inchiesta, avviata dai carabinieri del Nas e coordinata dalla procura di Roma, è stata poi trasferita a Venezia. Per i pm della Capitale la virologa doveva rispondere di aver promosso e organizzato con altre persone un'associazione che aveva la finalità di commettere «una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia», ed ancora «per aver utilizzato virus altamente patogeni dell'influenza aviaria, del tipo H9 ed H7N3, di provenienza illecita, al fine di produrre in forma clandestina, senza la prescritta autorizzazione ministeriale, specialità medicinali ad uso veterinario (quale è il vaccino dell'influenza aviaria), procedendo successivamente, sempre in forma illecita, alla loro commercializzazione e somministrazione agli animali avicoli di allevamenti intensivi». In questo modo gli imputati avrebbero «determinando la diffusione non più controllata del virus dell'influenza aviaria negli allevamenti avicoli del nord Italia, con grave pericolo per l'incolumità e la salute pubblica, che determinava, da un lato, il contagio di sette persone tra gli operatori del settore come accertato dall'Istituto Superiore di Sanità attraverso un'indagine epidemiologica, e dall'altro il grave pericolo per la salute derivante dal consumo della carne oggetto della vaccinazione indiscriminata, determinando, quale misura di prevenzione, l'abbattimento di milioni di capi di polli e tacchini, con un considerevole danno al patrimonio avicolo nazionale, calcolato dal Centro regionale epidemiologia veterinaria in 40 milioni di euro». Per il giudice non ci sono i presupposti per il processo chiesto dai pm. Ilaria Capua che tra il 2005 e il 2007 era responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria di Padova, ha lasciato la Camera per un incarico in Florida, insieme al marito Richard John Currie, anche lui imputato. Nell'inchiesta pubblicata da l'Espresso, veniva fuori il business che avrebbero fatto alcuni medici su virus e vaccini. A raccontarlo sono le intercettazioni di cui è protagonista la stessa Ilaria Capua. «Quando uno mi sta sul cazzo deve crepare!», diceva la virologa parlando di una ditta farmaceutica che criticava la sua invenzione, il “Diva”, la prima strategia di vaccinazione contro l’influenza aviaria. L’inchiesta dei pm di Roma in cui la veterinaria era coinvolta insieme al marito, partiva da un'informativa che tirava in ballo altre 36 persone, mettendo in risalto affari e conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie, raccontando con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma. Le conversazioni registrate dai Nas dei carabinieri svelano, fra i tantissimi episodi, gli interventi di Capua sulla Intervet, filiale italiana di un colosso dei farmaci veterinari. I vertici di Intervet si erano mostrati critici sull’efficacia del sistema Diva. Ma la signora dei virus gli avrebbe fatto sapere che nell’Istituto zooprofilattico di Padova era in corso un esperimento su un vaccino prodotto da Intervet: il marchio però sarebbe stato menzionato nel suo studio solo se i responsabili della casa farmaceutica avessero assecondato le sue richieste, tra le quali quella di rivalutare il test Diva. E parlarne bene. E ai manager avrebbe fatto arrivare un messaggio chiaro attraverso un intermediario: «Lei (Capua ndr) non è una persona che si compra con quattro lire». Il ruolo principale nell'inchiesta lo rivestiva Paolo Candoli, manager della multinazionale Mirial, l’uomo al quale venivano aperte le porte del ministero della Sanità per ottenere autorizzazioni. È lui il manager delegato dalla sua ditta a parlare con Ilaria Capua. In particolare quando la Merial è alla ricerca di ceppi virali con i quali avviare la produzione di vaccini, prima ancora di ricevere l’autorizzazione del ministero. Uno dei colleghi della virologa, Stefano Marangon, anche lui coinvolto nell'inchiesta, avvisa Candoli due mesi prima del varo del programma di vaccinazione. Un modo per avvantaggiarlo sulla concorrenza. «Ho parlato con la Capua, non è escluso che lei ce l’abbia, cioè sai cosa fa quella lì comunque?», dice Candoli a una collega parlando di un ceppo virale. «Sicuramente se lo fa mandare lei e poi ce lo rivende a noi». Poi aggiunge: «Purtroppo con la Capua... c’è da pensare di seguire... di dar da mangiare alla scimmia». Il manager della Merial si rivolge alla virologa anche su indicazione di Marangon, perché lei è la responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e quindi è nella possibilità di sapere con certezza con quale ceppo virale si preparerà il nuovo vaccino. Nello stesso tempo è una delle poche persone che in ambito internazionale ha la possibilità di farsi inviare, in breve tempo, un ceppo virale da altri istituti «senza la prescritta autorizzazione ministeriale». Ilaria Capua parla con un manager della Intervet e afferma che «le è venuto in mente un modo per far salvare la faccia a quelli della Intervet, in modo tale da prenderli “per le palle”». A tal proposito dice al manager di riferire ai propri capi «che a breve a Cambridge verrà presentato uno studio dove lei ha generato un H7-N5 e che l’H-N5 è la neuroamminidasi più rara in assoluto, quindi quelli della Intervet potrebbero salvarsi la faccia dicendo che sono interessati al virus per fare il vaccino, in modo tale poi da poter iniziare nuovamente a trattare sul test Diva, per il quale loro (Capua, Marangon, Cattoli) stanno per chiudere con la Merial e la Fort Dodge, nonché con il governo olandese». Poi prosegue dicendo che «in virtù di ciò lei inserirà il nome del vaccino della Intervet sullo studio delle anatre». Per gli investigatori Capua avrebbe utilizzato «lo studio da lei effettuato per indurre la ditta Intervet ad ammorbidire la propria posizione critica nei confronti del test Diva e che, in caso positivo, quale controparte, pubblicherà sul proprio studio il nome del vaccino della ditta Intervet». Quando i Nas arrivano nell’istituto per sequestrare un vaccino che non avrebbe avuto le carte in regola per entrare in commercio, e viene coinvolta la Capua, lei inizia a preoccuparsi dell’indagine. Il padre, stimato avvocato di Roma, le raccomanda espressamente di non fare riferimento alcuno al contratto stipulato con la Merial per lo sfruttamento del brevetto Diva. Ilaria Capua sostiene che «la vicenda dell’influenza aviaria è una storia molto complicata e anche se sono stata intercettata, le carte dimostreranno che è stato fatto tutto alla luce del sole». Da una delle registrazioni emerge uno spaccato degli interessi in ballo. Parla alla madre della proposta di lavoro ricevuta da una fondazione della Florida, all'epoca e pure oggi, e osserva che «sarebbe un problema perché la fondazione non ha finalità commerciali» mentre, al contrario, in quel periodo lei ha una parte attiva e ha «una buona attività commerciale per la vendita dei reagenti diagnostici che le consentono di guadagnare in un anno ben 700 mila euro». Per gli investigatori questa affermazione farebbe riferimento ai ricavi che Capua, insieme a Marangon e Giovanni Cattoli, stavano ottenendo dalla vendita del test Diva, per il quale è stato stipulato un contratto con le ditte Merial, Fort Dodge, e Paesi stranieri.
Il business segreto della vendita dei virus che coinvolge aziende e trafficanti. Ceppi di aviaria spediti in Italia per posta. Accordi tra scienziati e aziende. L'inchiesta segreta dei Nas e della procura di Roma ipotizza un vero e proprio traffico illegale. E nel registro degli indagati c'è un nome eccellente: quello di Ilaria Capua, virologa di fama e deputato. Che respinge le accuse, scrive Lirio Abbate il 3 aprile 2014 su “L’Espresso”. Dentro, in una confezione termica, alcuni cubetti di ghiaccio molto speciali: contengono uno dei virus dell’aviaria, l’epidemia che dieci anni fa ha scatenato il panico in tutto il pianeta. Quando il postino lo consegna, il destinatario è assente: è il manager italiano di una grande azienda veterinaria. La moglie lo chiama al telefono: «Cosa devo farci?». «Mettilo subito nel congelatore». Sembra il copione di un film apocalittico, con la malattia trasmessa da continente a continente scavalcando tutti i controlli. Invece è uno degli episodi choc descritti in un’inchiesta top secret della procura di Roma sul traffico internazionale di virus, scambiati da ricercatori senza scrupoli e dirigenti di industrie farmaceutiche: tutti pronti ad accumulare soldi e fama grazie alla paura delle epidemie. Questa indagine svela il retroscena dell’emergenza sanitaria provocata dall’aviaria in Italia. E si scopre che i ceppi delle malattie più contagiose per gli animali e, in alcuni casi, persino per gli uomini viaggiano da un Paese all’altro, senza precauzioni e senza autorizzazioni. Esistono trafficanti disposti a pagare decine e decine di migliaia di euro pur di impadronirsi degli agenti patogeni: averli prima permette di sviluppare i vaccini battendo la concorrenza. L’indagine è stata aperta dalle autorità americane e poi portata avanti dai carabinieri del Nas. Perché l’Italia sembra essere uno snodo fondamentale del traffico di virus. Al centro c’è un groviglio di interessi dai confini molto confusi tra le aziende che producono medicinali e le istituzioni pubbliche che dovrebbero sperimentarle e certificarle. Con un sospetto, messo nero su bianco dagli investigatori dell’Arma: emerge un business delle epidemie che segue una cinica strategia commerciale. Amplifica il pericolo di diffusione e i rischi per l’uomo, spingendo le autorità sanitarie ad adottare provvedimenti d’urgenza. Che si trasformano in un affare da centinaia di milioni di euro per le industrie, sia per proteggere la popolazione che per difendere gli allevamenti di bestiame. In un caso, ipotizzano perfino che la diffusione del virus tra il pollame del Nord Italia sia stata direttamente legata alle attività illecite di alcuni manager. Il traffico di virus è stato scoperto dalla Homeland Security, il ministero creato dopo le Torri Gemelle per stroncare nuovi attacchi agli Stati Uniti. Nel loro mirino è finita un’attività ad alto rischio: l’importazione negli States di virus dall’Arabia Saudita per elaborare farmaci, poi riesportati nel Paese arabo. Il presidente e tre vice presidenti della compagnia farmaceutica incriminata per l’operazione sono stati condannati a pene pesanti. Fondamentale per l’indagine è la testimonianza di Paolo Candoli, manager italiano della Merial, la branca veterinaria del colosso Sanofi: l’uomo ha patteggiato l’immunità in cambio delle rivelazioni sul contrabbando batteriologico. Ai detective ha descritto come nell’aprile 1999 si fece spedire illegalmente a casa in Italia un ceppo dell’aviaria tramite un corriere Dhl. A procurarlo era stato il veterinario statunitense di un allevamento di polli saudita, condannato negli Usa a 9 mesi di prigione e 3 anni di libertà vigilata per “cospirazione in contrabbando di virus”. Chiusi i processi, nel 2005 l’Homeland Security ha trasmesso i verbali di Candoli ai carabinieri del Nas. Gli investigatori sin dai primi accertamenti si rendono conto di avere davanti uno scenario da incubo. Infatti, sottolineano i carabinieri, l’arrivo del virus in casa Candoli coincide con l’insorgenza nel Nord Italia, a partire proprio dal 1999, della più grossa epidemia da virus H7N3 di influenza aviaria sviluppatasi negli allevamenti in Italia e in Europa. Già all’epoca le indagini condotte dal Nas di Bologna avevano evidenziato l’esistenza di una organizzazione criminale dedita al traffico di virus ed alla produzione clandestina di vaccini proprio del tipo H7: antidoti che in quel momento venivano somministrati clandestinamente ai polli degli stabilimenti italiani. L’inchiesta dell’Arma si allarga in poche settimane, seguendo le intercettazioni disposte dai magistrati di Roma. Candoli nella capitale sa come muoversi: sponsorizza convegni medici organizzati da professori universitari, regala viaggi e distribuisce consulenze ben pagate e questo gli permette di avere “corsie preferenziali” al ministero della Salute per ottenere autorizzazioni, riesce a far cambiare parere alla commissione consultiva del farmaco veterinario per mettere in commercio prodotti della Merial. Tra i suoi referenti più stretti c’è Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, attualmente deputato di Scelta Civica e vice presidente della Commissione Cultura alla Camera. È nota per i suoi studi sul virus dell’influenza aviaria umana H5N1: la rivista “Scientific American” l’ha inserita tra i 50 scienziati più importanti al mondo, “l’Economist” due anni fa l’ha inclusa tra i personaggi più influenti del pianeta. Fino all’elezione alla Camera, era responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie con sede a Padova. E con lei anche altri suoi colleghi della struttura veneta sono finiti nel registro degli indagati. Il risultato degli accertamenti del Nas ha portato il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, a ipotizzare reati gravissimi. La Capua e alcuni funzionari dell’Izs sono stati iscritti nel registro degli indagati per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all’abuso di ufficio e inoltre per il traffico illecito di virus. Stessa contestazione per tre manager della Merial. Secondo le conclusioni dei carabinieri, l’azione di Ilaria Capua con la complicità di altri funzionari dell’istituto di Padova avrebbe contribuito a creare un cartello fra due società, la Merial e la Fort Dodge Animal, escludendo le altre concorrenti, nella vendita di vaccini veterinari per l’influenza aviaria. Il marito della Capua, Richard John William Currie, lavorava alla Fort Dodge Animal di Aprilia, attiva nella produzione veterinaria. Anche Currie è indagato insieme ad altre 38 persone. Nell’elenco ci sono tre scienziati al vertice dell’Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli); funzionari e direttori generali del mistero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci); alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell’Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell’istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell’università di Milano, Santino Prosperi dell’università di Bologna); coinvolta anche Rita Pasquarelli, direttore generale dell’Unione nazionale avicoltura. I fatti risalgono a sette anni fa ma molti degli indagati lavorano ancora nello stesso istituto. CONTRABBANDIERI. Il capitolo più inquietante è quello del traffico di virus, fatti entrare in Italia nei modi più diversi e illegali. Le intercettazioni telefoniche dei Nas di Bologna e Roma sono definite allarmanti: secondo gli investigatori c’è stato il serio rischio di diffondere le epidemie. Oltre ai plichi consegnati a domicilio con il virus congelato in cubetti di ghiaccio, c’erano altri sistemi di contrabbando. Candoli ne parla con alcuni colleghi della Merial di Noventa Padovana. Fra i metodi per importare in Italia agenti patogeni, c’era anche quello di nascondere le provette fra i capi di abbigliamento sistemati in valigia: in questo modo, spiegano, «sembrano i kit del piccolo chimico» e non destano sospetti in caso di controlli. Il manager rivela inoltre che i virus non sono stati fatti entrare illegalmente solo in Italia, ma anche in Francia per la realizzazione di vaccini nei laboratori della Merial a Lione. «In Francia comunque non ci sono mai stati problemi per importare i ceppi», dice Candoli, e aggiunge che lì hanno fatto arrivare anche virus esotici. Un altro dirigente dell’azienda spiega al telefono: «Ascolta Paolo, noi facciamo delle cose, molto più turche nel senso di difficoltà logistica, tu sai che facciamo il Bio Pox con il Brasile per cui figurati se ci fermiamo davanti a un problema che è praticamente un terzo di quello che facciamo con i brasiliani». Secondo gli investigatori del Nas, anche la Capua e l’Istituto Zooprofilattico sono coinvolti nel traffico illegale: la scienziata sarebbe stata pagata per fornire agenti patogeni. In una conversazione registrata è la stessa virologa a farne esplicito riferimento, sostenendo di aver ceduto ceppi virali in favore di un veterinario americano. Per i carabinieri, da alcune intercettazioni “appare evidente come il contrabbando dei ceppi virali dell’influenza aviaria, posto in essere dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nelle persone di Ilaria Capua, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli, con il concorso del marito della dottoressa Capua, Richard William John Currie, costituisca di fatto un serio e concreto pericolo per la salute pubblica per il mancato rispetto delle norme di biosicurezza”. Mettere le mani sui ceppi patogeni nel modo più rapido possibile, evitando la burocrazia sanitaria e le misure di sicurezza, è fondamentale per essere i primi a inventare e commercializzare gli antidoti. Nel caso del virus H7N3 sulla base di un’intercettazione gli inquirenti ritengono che il ceppo sia stato fornito da Ilaria Capua. Una dirigente della Merial parla con Candoli e gli dice che sarebbe stato comprato a Padova, «lo pagai profumatamente come tutti gli altri ceppi che abbiamo comprato da quella... ». Per i Nas “testimonia in maniera esplicita la condotta corruttiva di Capua”. Gli interlocutori sottolineano spesso i modi decisi della scienziata nelle questioni economiche. E lei stessa non nasconde al telefono di aver effettuato in passato consulenze che le avrebbero fruttato un guadagno giornaliero oscillante fra i mille e i millecinquecento euro. La donna racconta che quando è andata in Giappone si è fatta pagare in nero quattromila euro al giorno, tutti cash, così si è comprata il divano e l’armadio. «L’ho fatto perché, ti spiego, un consultant normale prende tipo, dai mille ai millecinquecento euro al giorno, e io più volte l’ho fatto, tipo per le mie like...» Poi spiega che si è fatta portare in giro con l’aeroplanino e di essersi fatta pagare più volte. Contattata da “l’Espresso”, Ilaria Capua conferma di conoscere Candoli, «ma di non aver mai venduto ceppi virali. Sono dipendente di un ente pubblico e non vendo nulla personalmente». E spiega: «I ceppi virali che si isolano in istituto sono di sua proprietà e io non ho venduto nulla a nessuno». Subito dopo la produzione del medicinale, in provincia di Verona scatta la vaccinazione d’emergenza per l’aviaria: il ministero della Sanità autorizza proprio la Merial a fornire i farmaci. Gli investigatori fanno notare che pochi mesi prima, quando erano comparsi i focolai di un virus del tipo H7N1 negli allevamenti di polli di Lombardia e Veneto, il ministero aveva bloccato un’altra ditta, perché fabbricava il farmaco all’estero e non aveva spiegato l’origine del ceppo. Invece nessuno fa storie alla Merial, “nonostante questa avesse prodotto il vaccino in laboratori a Lione”. La Capua e i colleghi Marangon e Cattoli, lavorando all’Izs delle Venezie scoprono un sistema che permette di individuare gli animali infetti. È un risultato molto importante, che diventa la strategia di riferimento della Fao e dell’Unione Europea per contrastare l’influenza, che dopo i volatili sembra minacciare anche gli umani. Lo chiamano Diva e ne registrano il brevetto. Le intercettazioni rivelano che firmano un contratto di esclusiva per cederlo a Merial e Fort Dodge. Secondo la ricostruzione degli investigatori, intorno a Diva la Capua e i suoi partners riescono a costruire grandi affari, chiudendo accordi internazionali, compresi quelli con i governi di Romania e Olanda. Questo è un capitolo controverso dell’indagine. Per gli inquirenti i tre scienziati sono funzionari pubblici perché dipendenti dell’Istituto zooprofilattico e quindi stipulare un contratto con Merial “appare del tutto indebita”, come “indebita appare la registrazione del brevetto”, perché il kit per il test Diva è stato realizzato “nell’ambito di un’attività istituzionale”. Il contratto con le due aziende viene considerato “del tutto illecito e contrario ai doveri di ufficio”: il 70 per cento delle royalties andrà, attraverso lo Zooprofilattico di Padova, ai tre funzionari, mentre solo il 30 rimarrà all’Istituto. Inoltre la stipula del contratto tra le due aziende e l’Izs, con la cessione di tutti i diritti sul brevetto, per gli investigatori costituisce una sorta di cartello che taglia fuori le altre ditte farmaceutiche. Dice la virologa al suo avvocato: «Se il brevetto viene concesso, alle altre ditte, scusa la volgarità che non si confà a una signora, tanto più citata dal Sole24Ore, gli facciamo un culo che non la smette più». Adesso a “l’Espresso” spiega: «Abbiamo ceduto all’Istituto i diritti di sfruttamento del brevetto Diva e per questo, i tre inventori ad oggi non hanno mai preso alcuna somma di denaro. Le royalties sono negoziate dall’Istituto». Il giro d’affari che scaturisce da Diva è così forte che, come rivelano le conversazioni intercettate, spinge il marito della Capua a dedicarsi a tempo pieno a questa nuova attività, che chiamano “The Company”: l’uomo conclude affari in tutto il mondo, meritandosi il soprannome di “globale” e rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra la struttura pubblica veneta e le aziende farmaceutiche. Capua in una conversazione con Marangon sostiene che Richard gli ha detto di scrivere che «hanno la disponibilità di un baculo virus N1 italiano, mentre quello asiatico lo stanno “cloney”» ossia clonando ed appena sarà disponibile glielo daranno. Marangon replica: «Ma va bene, 50 mila per due, gli diamo il coso e buona notte al secchio». È una «svolta affaristico-commerciale»: «Ho parlato dell’affare con i romeni a Richard, il quale si è eccitato come una scimmia. Quando ha saputo che l’ordine era da un milione e 300 mila euro gli è venuta una mezza paralisi e ha detto che adesso svilupperà un business plan». L’emergenza aviaria avanza nei continenti, la paura passa dalle aziende di polli alla salute delle persone. E per la “Company” i contratti si moltiplicano. Marangon sembra preoccupato, dice che bisogna usare prudenza, lasciando intendere che “vi siano tra l’altro accordi paralleli e non ufficiali con alcuni personaggi delle autorità sanitarie romene”. Di questo sembra essere convinta anche Capua, che comunque vede un mercato in espansione «finché esiste gente come i romeni». La virologa afferma che ai romeni può essere data qualunque cosa: il timore dell’epidemia sta creando un mercato nuovo dove alcuni paesi come Romania, Turchia o stati del Medio Oriente e dell’Africa devono trovare a tutti i costi sistemi per contenere il rischio di contagio. E la struttura di Padova diretta dalla Capua ha le credenziali migliori: coordina progetti di ricerca finanziati dal ministero della Salute, dalla Ue e da altri organismi internazionali come la Fao. Uno dei capitoli più inquietanti dell’inchiesta condotta dai Nas ricostruisce la diffusione dell’allarme sul pericolo di contagio umano per l’aviaria nella primavera 2005. Gli inquirenti hanno esaminato i documenti ufficiali e le iniziative delle aziende, sostenendo che l’emergenza «sia stata un problema più mediatico che reale». Dietro il paventato rischio di epidemia per il virus H5N1 – scrivono i carabinieri – si potrebbe celare una “strategia globale” ispirata dalle multinazionali che producono i farmaci. Nel dossier investigativo vagliano il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, la massima autorità del settore, che in un documento del 2004 raccomandava di fare scorte di Oseltamvir (Tamiflu) prodotto dalla Roche. Dopo un anno anche in Italia cominciano a venire pubblicati articoli sull’epidemia in arrivo, “inevitabile ed imminente”. Si consiglia il vaccino per proteggersi comunque dall’influenza stagionale e l’uso di farmaci antivirali, incluso il Tamiflu, contro l’aviaria: in poco tempo le vendite del prodotto Roche aumentano del 263 per cento. Molte delle informazioni allarmistiche – sostengono i carabinieri – sono emerse da un convegno tenuto a Malta nel settembre 2005, sponsorizzato dalle aziende che confezionano vaccini contro l’influenza e farmaci antivirali. Due settimane dopo, c’è una correzione di tiro. L’Istituto Superiore di Sanità afferma che un ceppo virale di H5N1 “che potrebbe scatenare la prossima pandemia influenzale globale mostra di resistere al Tamiflu”, che tanti paesi cominciavano ad accumulare. Ed ecco la svolta, sottolineata da diversi articoli: «Fortunatamente, il ceppo virale non è però risultato resistente all’altro antivirale in commercio, Relenza della Glaxo». I carabinieri sostengono che l’allarme è stato alimentato nonostante di fatto non stesse accadendo nulla. Anche Candoli al telefono definisce la diffusione delle notizie «una forma di vero e proprio terrorismo informativo» ma poi commenta positivamente la vendita in un solo mese di un milione e mezzo di dosi di vaccino anti-influenza prodotto dalla sua azienda: «Anche certe industrie farmaceutiche che producono vaccini umani hanno un business mica da noccioline sebbene non ci sia nulla di diverso rispetto a sei mesi, un anno o addirittura cinque mesi anni fa. L’unica cosa di diverso è che adesso stanno ragionando sulla possibilità che vi sia una pandemia, che non è scritta da nessuna parte».
Aggressivo e ignorante, uguale: giornalismo, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Magari voi non ci crederete e penserete che la mia furia garantista mi porta a vedere le lanterne dove invece ci sono solo delle piccole lucciole. E invece quella che sto per raccontarvi è la pura verità: sull’«Espresso» on line c’è un articolo, firmato dal giornalista Lirio Abate, nel quale si sostiene che la scienziata Ilaria Capua - totalmente prosciolta l’altro giorno dall’accusa di traffico di virus che le ha rovinato vita e carriera - in realtà è colpevole - esattamente come gli untori dei quali parla “La colonna Infame” di Manzoni - perché così dicono le intercettazioni. Dopodiché, se provate a leggere l’articolo di Abate, non è che si capisca niente, come spesso succede a chi si trova di fronte a questi articoli pieni di misteriose intercettazioni e vuoti di grammatica e sintassi. Si capisce solo che il giornalista, invece di chiedere scusa a una poveretta che è stata travolta dalle calunnie, ha speso molti soldi, ha dovuto rinunciare al seggio in Parlamento e a varie occasioni professionali. E poi è fuggita all’estero perché non sopportava più l’aria fetida del forcaiolismo italiano... invece di chiedere scusa e ammettere che quella copertina dell’Espresso di un paio d’anni fa («Trafficanti di virus», a caratteri cubitali) era una boiata, cosa fa? Insiste, denigra, infanga, con quel metodo da 007 deviati che proprio non fa nessun onore al giornalismo italiano. Non è la prima volta che da queste colonne poniamo il problema. Possibile che la casta dei giornalisti, che è forse la casta più arrogante (ma anche parecchio ignorante) che c’è in Italia, non possa mai essere messa in discussione? Possibile che di fronte a un infortunio professionale così grave, come quello di avere attribuito reati che non si era nemmeno sognata di commettere a una delle maggiori scienziate italiane, nessuno senta il dovere, almeno, di ammettere l’errore e di provare in qualche modo a riparare? Noi giornalisti ci sentiamo al di sopra di ogni sospetto, insindacabili, invincibili e mandati da Dio per sferzare i cattivi. E riteniamo di avere, più ancora dei magistrati, il diritto di sparare valanghe di escrementi contro chi ci capita a tiro. Che giornalismo è, e che credibilità può avere, se non è capace di rispondere dei suoi errori, e se considera la forma massima di letteratura la copiatura (senza neanche messa in bella) delle intercettazioni ottenute da qualche inquirente che ha voglia di ingraziarsi (o di rovinare qualcuno)? Purtroppo è così. I quotidiani italiani (sui quali una volta scrivevano Scalfari e Jannuzzi, Stille e Cavallari, Levi e Sciascia e Calvino, e Montanelli e Barzini) ora sono pieni di articoli lunghissimi realizzati esclusivamente con la copiatura della carte sgrammaticatissime e con la firma in fondo. Talvolta la firma è anche prestigiosa.
Vogliamo rassegnarci a questo? L’impunità (dei giudici) è l’origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo “Il Fatto”. E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la “chimica” (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due “elementi” così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell’indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il “Fatto” è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all’indipendenza che fonda quella autolimitazione dell’indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull’indipendenza dal potere la propria – volontaria - rinuncia all’autonomia, e cioè all’indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il “Fatto”. E si auto-colloca in una posizione di subalternità all’ideale - quasi religioso – del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l’hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l’Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell’aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). “Il Fatto” però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l’accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c’è assoluzione. Per capirci, c’è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all’imputato di rinunciare alla prescrizione e così si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi – ovviamente – si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c’era e dunque era doveroso svolgere l’inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa «Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi». In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell’indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell’obbligatorietà dell’azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent’anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l’unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il “Corriere della Sera” parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la “Stampa” ha calcolato in 7000 all’anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall’Anm?
Il caso Ilaria Capua: il merito di sapere chiedere scusa, scrive “Il Corriere del Giorno il 9 luglio 2016. Come fecero i radicali di Pannella nel caso Leone, ora i grillini dovrebbero ritrattare quanto hanno detto contro la scienziata ingiustamente perseguitata dalla giustizia. Storie di malagiustizia all’ italiana. Che accadono anche in Procura a Taranto….di Paolo Mieli. L’Italia ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte “al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia”. Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage, per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere infine prosciolta perché “il fatto non sussiste”. Ilaria Capua ha subito un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello. Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in dovere di chiedergli scusa. Forse — per come ne conosciamo la storia — farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una “trafficante di virus”. Forse. Il periodico aveva evidentemente ricevuto le “carte” da qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La deputata “grillina” Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni. Cose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente di più. Nei confronti degli scienziati — forse per il motivo di cui all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle loro rivalità, non formano una comunità coesa — si è in genere restii a riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i giornali anche. L’inchiesta, come spesso accade, fu “spacchettata” e finì nel nulla. Recentemente un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato “sussiste”. Già questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo trascriviamo per intero. “Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?”, domandava Stella. “Mai. O meglio, nel 2007(molti anni prima della storia del traffico di virus, ndr.) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile”, rispondeva Capua. “Ma in questi due anni?”, insisteva Stella. “Mai”. “Altri magistrati, forse?”. “Mai”. “Quindi non è mai stata interrogata?”. “Mai”. Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se crede, come è possibile che questo sia accaduto. E qual è la cosa grave? Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata. Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle ascolto. Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione. Sorge in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla. Un ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate) ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa. Lei lo ha fatto. Altri no. Nelle riflessioni che facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel senso che quelli capaci di chiedere scusa — come fecero a suo tempo i radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso) — guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E più resistenti all’usura del tempo. Commento tratto dal Corriere della Sera.
( CdG ) Pierantonio Zanettin consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione (disciplinare) per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. Quando la Capua, presentandosi per dirigere prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida, informò i vertici del prestigioso ateneo americano, che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, le venne risposto che conoscevano le accuse e che le ritenevano talmente campate in aria da non essere di loro interesse! Evidenziando in questo modo “grande” considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, la Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, pensiamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via un’insussistente “teorema” giudiziario accusatorio, costruito artificiosamente in anni di indagini costose. Il procedimento è lo stesso poi spacchettato nel 2015 e distribuito a varie procure in giro per l’Italia. L’ipotesi accusatoria – poi caduta – era che Ilaria Capua, responsabile del laboratorio di virologia dell’Istituto Zooprofilattico di Padova, centro di referenza nazionale, avesse collaborato alla cessione clandestina del virus H7N3 alla ditta Merial spa, una delle multinazionali di vaccini per animali. Ma c’è qualcos’altro di cui la magistratura deve chiedere scusa, e cioè di aver lasciato passare 9 anni prima di arrivare all’udienza preliminare, il 15 maggio 2015, davanti al Gup di Roma, dove il procedimento è stato scorporato per competenze diverse: un troncone è andato a Pavia, uno a Verona, il terzo a Padova. Pavia è scomparsa dai radar. A Verona il Gip Laura Donati ha deciso lunedì scorso per il proscioglimento, mentre a Padova, dove non figura Ilaria Capua, il pm Maria D’Arpa ha fatto la stessa richiesta ma il Gip non si è ancora pronunciato. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. La Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine giudiziaria ad uso mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua. A spese dei contribuenti e sulla pelle di una brava persona, di cui dovremmo essere fieri. Ma il Csm presto si dovrà occupare di un altro “caso”. Quello di Taranto, dove in presenza di ben 13 querele nei confronti di un giornalista la Procura non gli ha mai dato notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati facendogli eleggere domicilio e nominare un difensore. Ed adesso più di qualche magistrato della procura tarantina tornerà a “frequentare” la Procura di Potenza, anche questa volta come “indagato” c’è da augurarsi per il bene della giustizia, successivamente come “imputato”. Per una giustizia “giusta”!
Le mirabolanti avventure del pm Capaldo. Prima di dare dell’untrice alla scienziata italiana e averla indagata per “traffico di virus”, si era occupato per ben 32 anni del caso Orlandi, scrive di Giovanni M. Jacobazzi l'8 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Merita di essere riletta l’intervista che nel 2013 il dott. Giancarlo Capaldo rilasciò a margine della presentazione del suo libro “Roma Mafiosa, cronache dell’assalto criminale allo Stato”. L’allora potentissimo procuratore aggiunto di Roma, alla domanda di Affari italiani se fosse necessaria una riforma della giustizia partendo proprio dal codice di procedura penale, rispose: «A vent’anni di distanza questo Codice ha dimostrato di non funzionare più. Anzi possiamo dire che è tra le cause delle lentezze del processo e non garantisce, con i suoi formalismi, i diritti della difesa com’era nelle intenzioni del legislatore dell’epoca». Non contento, rincarò la dose: «La storia giudiziaria recente è una storia di troppe prescrizioni derivanti da una inutile lentezza del dibattimento che non avvicina ma allontana la verità». Parole condivisibili in toto. Già nel 1763 Cesare Beccaria, scrivendo “Dei delitti e delle Pene”, affermò infatti la necessità che il processo fosse il più rapido possibile. Senonché, nello stesso momento in cui Capaldo rivendicava tempi processuali in linea con il dettame costituzionale del giusto processo, teneva “in sonno” in qualche armadio della sua cancelleria le 40.000 pagine del procedimento penale 24117/2016. L’ormai celebre procedimento penale per i reati di epidemia dolosa che ha visto fra gli indagati la virologa Ilaria Capua ed alcuni fra i massimi vertici del ministero della Salute e di alcune università italiane. Conclusosi questa settimana con l’assoluzione degli imputati perchè «il fatto non sussiste». E sulla cui vicenda giovedì il Consigliere togato Pierantonio Zanettin ha chiesto al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura l’apertura di una pratica a carico proprio di Capaldo per «incompatibilità ambientale». Un passo indietro. Nel 2005 i carabinieri del Nas di Roma, seguendo una pista statunitense, si convincono di aver scoperto una associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Dopo due anni di intercettazioni disposte da Capaldo, gli inquirenti ritengono che Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie sia la figura di spicco del sodalizio criminoso. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota per aver isolato il virus H5N1, quello, appunto, dell’influenza aviaria. Nel 2007, quindi, l’indagine può dirsi conclusa. Ma, invece di chiedere come sarebbe normale il rinvio a giudizio, Capaldo inspiegabilmente “iberna” il fascicolo. Dopo 3 anni di silenzio e non avendo più notizie del fascicolo, il Nas di Roma nel 2010 sollecita, senza alcun risultato, Capaldo. Nel frattempo, a marzo del 2012, Giuseppe Pignatone è nominato nuovo procuratore di Roma. Ma il fascicolo che vede indagati i massimi vertici della sanità pubblica nazionale resta sempre sullo scaffale della cancelleria di Capaldo. Nell’aprile 2014, il momento di gloria dell’inchiesta. Scoop dell’Espresso: «La cupola dei vaccini», con pubblicazione delle carte del procedimento penale fino a quel momento “top secret”. A quel punto, pure gli avvocati degli indagati, fra cui appunto quelli della Capua, ormai esposta al pubblico ludibrio, chiedono a Capaldo una definizione del procedimento penale “stagionato”. Anche perchè, il ragionamento, o le accuse sono fondate e un’associazione a delinquere finalizzata ad avvelenare il Paese va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno subito affrancati dalla spada di Damocle giudiziaria. L’avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L’udienza preliminare, nel maggio dell’anno successivo, vede il gup dichiarare l’incompetenza territoriale di Roma, "spacchettando” il processo in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l’archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, e siamo ai giorni scorsi, il gup pronuncia il non luogo a procedere perché "il fatto non sussiste" per la Capua. Il caso è chiuso. Dodici anni persi e milioni di euro spesi per attività investigative buttati. Ma Capaldo non è nuovo a perfomance del genere. A suo carico nel 2015 era stata già aperta una azione disciplinare da parte del Procuratore Generale della Cassazione Pasquale Ciccolo. L’Incolpazione: un figlio assunto alla Terna, società su cui Capaldo ha indagato e per cui non si è astenuto e ha pure chiesto l’archiviazione dopo 4 anni di “assoluta inerzia investigativa”. Un ritardo «senza svolgere qualsivoglia attività d’indagine e cagionando danno ingiusto agli indagati». Senza dimenticare l’indagine per la scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione, dopo 32 anni di indagini, venne firmata l’anno scorso direttamente da Pignatone dopo che Capaldo aveva richiesto «la revoca dell’assegnazione del procedimento». Cosa altro aggiungere? Un desiderio. Che Capaldo, non più procuratore aggiunto e ormai prossimo alla pensione, si rilegga quando ha tempo la sua intervista.
Se non la capisci processala, scrive Vincenzo Vitale il 7 luglio 2016 su “Il Dubbio”. I casi di cronaca degli ultimi anni - da Ilaria Capua ai geologi e sismologi accusati di non avere previsto il terremoto dell’Aquila - parlano di un rapporto controverso. Negli ultimi anni si son verificate ipotesi abbastanza frequenti in cui Tribunali e Corti son stati chiamati a valutare il comportamento di scienziati di varia estrazione le cui omissioni o le cui inesattezze potevano in astratto costituire reato. L’ultimo in ordine di tempo quello della nota ricercatrice italiana Ilaria Capua, la quale, ben prima di essere assolta dalle imputazioni mosse dalla Procura in ordine all’uso di alcune sostanze ritenute pericolose (nella specie alcuni virus) aveva ben pensato di trasferirsi negli Stati Uniti. Ma non si tratta di un caso isolato. Qualche anno or sono, la Procura dell’Aquila mise sotto accusa alcuni scienziati – geologi e sismologi – imputando loro di non aver previsto con sufficienti sicurezza e anticipo, il grave terremoto che sconvolse l’Abruzzo. Ora, messa così la cosa, quale potrà mai essere il rapporto fra verità scientifica e verità processuale? Quale giustizia insomma potrà essere resa agli scienziati dei vari campi del sapere? Non si dice nulla di nuovo affermando che la verità scientifica è caratterizzata da alcuni requisiti che sono in sintesi:
1) oggettività: la verità scientifica è valida per tutti e ad ogni latitudine;
2) provvisorietà: la verità scientifica è sempre falsificabile, cioè suscettibile di essere sostituita da altra verità, vale a dire da altra teoria;
3) riproducibilità: la verità scientifica è riproducibile, vale a dire può essere riprodotta in laboratorio un numero infinito di volte, conducendo sempre allo stesso risultato.
Al contrario, la verità del diritto, cioè la giustizia è caratterizzata da diversi requisiti:
1) personalità: la giustizia viene sempre declinata a partire dalla persona che la amministri, per cui, come affermava Platone, un giudice ingiusto mai potrà rendere una sentenza giusta;
2) definitività: una decisione resa in termini di giustizia lo è in modo tendenzialmente indefinito, vale a dire che fa stato nel futuro in modo illimitato (tranne particolarissime eccezioni); 3) singolarità: una sentenza non potrà mai essere uguale ad un’altra in modo meccanico e pedissequo, dal momento che non esistono nel mondo umano, due casi assolutamente eguali.
Come si vede, sembra trattarsi di grandezze fra loro, per dir così, incommensurabili, tali da non poter essere in alcun modo ricondotte ad unità. In effetti, proprio questo sembra essere accaduto all’Aquila quando il Tribunale in prima istanza ebbe a condannare sismologi e geologi, colpevoli a suo dire di non aver previsto con maggior precisione il terremoto, consentendo alla popolazione di mettersi in salvo. Che dire di questa decisione? Semplicemente, che sembra non essersi fatta carico per nulla della reale consistenza della verità della scienza. In altri termini, i giudici non hanno in modo sufficientemente chiaro percepito che gli scienziati imputati non potevano in nessun modo, usando gli strumenti a loro disposizione, dichiarare lo stato di emergenza atto a scongiurare gli effetti mortali del terremoto, senza timore di prendere un abbaglio tanto grossolano, quanto pericoloso per la incolumità pubblica in termini di panico diffuso ed incontrollabile. Lo proibiva loro non già una qualche indefinibile remora, ma lo statuto epistemologico medesimo della scienza da loro praticata. Uno scienziato degno di questo nome non potrà mai ad ogni evenienza sospetta lanciare un allarme tanto generalizzato quanto scientificamente dubbio o addirittura infondato: ed infatti la Cassazione tempo fa ha confermato la loro definitiva assoluzione da ogni addebito. Il caso dimostra in modo chiaro che l’errore dei giudici di primo grado fu dovuto ad un mancato rispetto delle caratteristiche proprie della verità scientifica, ad una loro pericolosa sottovalutazione. Se i giudici di primo grado avessero infatti tenuto presente che le teorie scientifiche sono caratterizzate necessariamente dai requisiti sopra in modo sintetico menzionati, allora si sarebbero ben guardati anche soltanto dall’accusare gli scienziati di colpe in realtà inesistenti. Per converso, in senso speculare, gli scienziati hanno invece rettamente interpretato le caratteristiche proprie della verità del diritto - la giustizia - proponendo impugnazione dopo la condanna di primo grado. Così facendo, essi hanno mostrato di ben comprendere che uno dei caratteri fondamentali della giustizia è dato dalla persona che sia chiamato ad amministrarla e perciò essi ben sapevano che gli stessi elementi processuali, se valutati da persone diverse, avrebbero condotto alla loro assoluzione: cosa che si è puntualmente verificata. Insomma, mentre i giudici di prima istanza hanno gravemente equivocato sullo statuto proprio della verità della scienza, gli scienziati si son mostrati ben consapevoli dello statuto proprio della giustizia ed hanno agito di conseguenza. Ne viene che verità della scienza e verità del diritto risultano perfettamente compatibili – nonostante la loro strutturale diversità – sotto il profilo del reciproco rispetto loro dovuto da tutti e da ciascuno nell’ambito delle rispettive operatività. Se invece, come accaduto da parte dei giudici di prima istanza dell’Aquila, chi amministri la giustizia ignora quei requisiti o li sottovaluta, allora il rischio è commettere ingiustizia, perché il diritto non riesce a calibrarsi sulla verità della scienza. Le due verità stanno l’una di fronte all’altra. Debbono riconoscersi e rispettarsi a vicenda. E questo non sempre si comprende.
PROFUGOPOLI.
C’è razzismo e razzismo.
Di Pontelandolfo e Casalduni (BN) non rimanga una pietra: 14 agosto 1861 l'eccidio, scrive Leonardo Pisani l'11 agosto 2016. «Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.» Così disse il Generale Cialdini al Colonnello Eleonoro Negri. Era il 14 agosto 1861, in pieno periodo del grande Brigantaggio, qualche giorno prima il 7 agosto 1861 quando alcuni briganti della brigata Fra Diavolo, comandati da un ex sergente borbonico, il cerretese Cosimo Giordano, approfittando dell’allontanamento di una truppa delle Guardie Nazionali da Pontelandolfo, occuparono il paese, uccidendo i pochi ufficiali rimasti, issandovi la bandiera borbonica e proclamandovi un governo provvisorio. Successivamente L’11 agosto il luogotenente Cesare Augusto Bracci, incaricato di effettuare una ricognizione, si diresse verso Pontelandolfo alla guida di quaranta soldati e quattro carabinieri. Nei pressi del paese, gli uomini del reparto piemontese furono catturati da un gruppo di briganti e contadini armati che li portarono a Casalduni, dove furono uccisi per ordine del brigante Angelo Pica. Un sergente del reparto sfuggì alla cattura e successiva uccisione e riuscì a raggiungere Benevento dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Costoro chiesero a loro volta un dettagliato rapporto ai capitani locali della Guardia Nazionale Saverio Mazzaccara e Achille Jacobelli. Ottenuti dettagli sull’accaduto, le autorità di Benevento informarono quindi il generale Enrico Cialdini. Racconta Carlo Melegari, a quel tempo ufficiale dei bersaglieri, che il rapporto inviato a Cialdini conteneva una descrizione raccapricciante dell’uccisione dei bersaglieri. Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi “meno i figli, le donne e gli infermi”. Ma non fu così. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, al comando di un battaglione di 500 bersaglieri, massacrò un numero stimato di oltre 400 inermi cittadini, altre fonti dicono quasi un migliaio e distrusse il paese incendiandolo: molte donne furono stuprate prima di esser assassinate e non furono forniti dati ufficiali sul numero totale delle vittime della repressione. Il generale Cialdini, per l’attuazione del piano, incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. All’alba del 14 agosto i soldati raggiunsero i due paesi. Mentre Casalduni fu trovata quasi disabitata (gran parte degli abitanti riuscì a fuggire dopo aver saputo dell’arrivo delle truppe), a Pontelandolfo i cittadini vennero sorpresi nel sonno. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di essere risparmiate) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate: “Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14. Numerose donne furono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nella chiesa prima denudate e trucidate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffiò a sangue il viso di un piemontese; le furono mozzate entrambe le mani e poi fucilata. Anche i luoghi di culto non furono risparmiati, le chiese profanate, le sacre ostie calpestate; i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive rubati. Gli scampati al massacro furono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà fu fucilata. A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, per la maggior parte fuggì. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circondò il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore. Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, scrisse nelle sue memorie: «Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.» Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Alcuni particolari del massacro si leggono nella relazione parlamentare che il deputato Giuseppe Ferrari scrisse a seguito del suo sopralluogo a Pontelandolfo all’indomani del terribile evento. Nella relazione si citano due fratelli Rinaldi, uno avvocato e un altro negoziante, entrambi liberali convinti. I fratelli, usciti fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, vennero freddati all’istante e uno dei due, ancora in agonia dopo i colpi di fucile, fu finito a colpi di baionetta. Un altro episodio citato è quello di una ragazza, tale Concetta Biondi, che rifiutandosi di essere violentata da alcuni soldati, fu fucilata. «Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue» (Nicolina Vallillo) Al termine del massacro, il colonnello Negri telegrafò a Cialdini: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora.» Questo eccidio è stato sottaciuto, nascosto per più di un secolo nei “testi ufficiali” di storia, per una commemorazione ufficiale di un massacro di inermi si è dovuto aspettare Centocinquant’anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ha commemorato quella strage, porgendo a tutti gli abitanti di quella che è stata definita «città martire», le scuse dell’Italia.
Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato. Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2016 su "L'Espresso". Fabrizio Gatti all'interno del centro d'accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.
Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge non esiste. Ecco il suo diario.
No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato. Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare. Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani le comprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiesto asilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No. «Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie. «Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?». Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori. Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”. Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba. «Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», ha insistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?». I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parlo inglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vai via” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco. Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiega Nasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia». Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica. Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamo nel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola. I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo” di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per conto di “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: «Benvenuti».
Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge la sinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.
Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.
Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela, l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…
I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.
Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.
Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film.
Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».
Padre Rebqwar scuote il Meeting: "Sull'islam dovete dire la verità", scrive Franco Bechis il 22 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. "Sul rapporto con l'Islam bisognerebbe smetterla con il politically correct per non urtare sensibilità. L'unico criterio possibile per parlarsi èla verità, non nascondere i fatti come si fa con la polvere sotto il tappeto". Padre Rebwar Basa è un iracheno di 38 anni, nato ad Erbil e ordinato sacerdote nel monastero di San Giorgio a Mosul. Un religioso nella polveriera di questi anni, che ha vissuto in un Iraq dove i cristiani sono sempre più minoranza, perseguitata da tutti i gruppi islamici del paese e con una vita resa difficile anche dal potere ufficiale. Al Meeting di Rimini per tre giorni è venuto a raccontare la sua storia a chi visita la mostra sui martiri cristiani organizzata dalla onlus Aiuto alla Chiesa che soffre. È stato protagonista di un episodio che mai si era verificato al Meeting di Rimini: un testimone oculare di stragi che racconta la propria storia e che viene messo in discussione, ritenuto inattendibile dal pubblico che ascolta. L'ho filmato durante quel braccio di ferro con il pubblico, e lui ha tenuto botta: "Ogni tanto leggo che i cristiani sarebbero vittime collaterali di un conflitto. No, non è così: sono l'obiettivo principale. C'è una persecuzione che è anche un genocidio, e di questo dobbiamo parlare". Il pubblico rumoreggiava, contestava apertamente. Padre Rebwar con calma ha replicato: "Non vi fidate di me? Non ci credete? Potete anche approfondire: ci sono mass media, ci sono libri, ci sono altri testimoni. Potrete informarvi. Però qui spesso si ha paura di parlare per non toccare la sensibilità di altre religioni, di non dire questo, non dire quello. E state vedendo grazie a questo atteggiamento come è diventata la situazione dell'Europa, dove siete la maggioranza come cristiani e vivete in allerta. Immaginate cosa si vive da noi in Iraq, dove siamo lo 0,5% della popolazione. Qui da voi ci sono ragazzi dell'Islam che partono per andare a combattere in Iraq e in Siria, pronti a morire. E i vostri giovani non sono pronti nemmeno più a partecipare a una Santa Messa”. Il giorno dopo gli ho chiesto se era stupito di questa incredulità. Mi ha fatto capire di no, che non è la prima volta. Ho sentito le sue parole vibranti sugli errori dell'Occidente, ma lui ora quasi se ne ritrae: "Voi in Occidente siete molto più sviluppati che da noi, non posso dirvi cosa dovete fare. Secondo me c'è un solo criterio per giudicare quel che sta avvenendo: la libertà. Dove la libertà è assicurata, non c'è conflitto, non c'è ingiustizia. Ma per esserci libertà bisogna che una minoranza possa vivere in pace, e da noi questo non accade. L'Islam è una religione, che però spesso viene catturata dalla ideologia che lo rende radicale. I giovani che corrono a combattere con l'Isis sono vittime di questi islamici che gli insegnano l'odio, dicono loro di non accettare le diversità, di considerare gli altri infedeli. E quell'odio diventa persecuzione nei nostri confronti. Questo bisogna saperlo...". Franco Bechis.
Al Meeting di Rimini di CL. Oltraggio alla statua della Madonna: come l'hanno ridotta (per gli islamici), scrive “Libero Quotidiano" il 20 agosto 2016. La statua della Madonna nascosta per non urtare la "sensibilità" dei fanatici islamici. Anzi, per evitare che qualcuno, magari un lupo solitario ispirato dall'Isis, possa dare di matto e fare qualche gesto inconsulto. Il clima di terrore si è diffuso anche al Meeting di Comunione e Liberazione. Un video di RepubblicaTv svela cos'è successo nello stand della casa editrice Shalom, dove si vendono libri religiosi, rosari, poster e oggetti sacri. Qui però sulla statua della Vergine è stato posto un telo azzurro: "È per questi attacchi che stanno facendo. Loro hanno un odio verso la Madonna e quindi, per evitare, l'abbiamo coperta - spiega davanti le telecamere la responsabile dello stand -. La dovevamo togliere, addirittura perché qui ci sono tante religioni. Non era mai successo, avevamo dei quadri qui che ci hanno fatto togliere. È per evitare degli scontri". Il finale è all'insegna di un'amara ironia: "La Madonna è stata messa in castigo e ha accettato perché è umile. Ogni tanto la vengo a consolare".
Filippo Facci il 28 luglio 2016 su “Libero Quotidiano” svela il vero volto dell'Islam: "Perché lo odio". Odio l’Islam. Ne ho abbastanza di leggere articoli scritti da entomologi che osservano gli insetti umani agitarsi laggiù, dietro le lenti del microscopio: laddove brulica una vita che però gli entomologi non vivono, così come non la vivono tanti giornalisti e politici che la osservano e la giudicano dai loro laboratori separati, asettici, fuori dai quali annasperebbero e perirebbero come in un’acqua che non è la loro. È dal 2001 che leggo analisi basate su altre analisi, sommate ad altre analisi fratto altre analisi, commenti su altri commenti, tanti ne ho scritti senza alzare il culo dalla sedia: con lo stesso rapporto che ha il critico cinematografico coi film dell’esistente, vite degli altri che si limita a guardare e a sezionare da non-attore, da non-protagonista, da non vivente. Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle, anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli, i culi sul mio marciapiede, il loro cibo da schifo, i digiuni, il maiale, l’ipocrisia sull’alcol, le vergini, la loro permalosità sconosciuta alla nostra cultura, le teocrazie, il taglione, le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano, anzi, quella merda di libro con le sue sireh e le sue sure, e le fatwe, queste parole orrende che ci hanno costretto a imparare. Odio l’Islam perché l’odio è democratico esattamente come l’amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l’islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura. Io non odio il diverso: odio l’Islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma la storia di un’opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno, gente che non voglio a casa mia, perché non ci voglio parlare, non ne voglio sapere: e un calcio ben assestato contro quel culo che occupa impunemente il mio marciapiede è il mio miglior editoriale. Odio l’Islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro. Filippo Facci
Vergognoso il razzismo anti-italiano del Governo, scrive Andrea Pasini il 23 agosto 2016 su “Il Giornale”. “Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati” si chiede laconico, qualche tempo fa, il direttore Alessandro Sallusti su la prima pagina de Il Giornale. Con Mare Nostrum e l’operazione Triton siamo andati a raccogliere i clandestini in mezzo al mare. Con i centri d’accoglienza li abbiamo accolti, sfamati e vestiti per sentirci dire che il popolo italiano non è nient’altro che razzista. La lista continua e ai rom, che spesso mi capita di citare, consentiamo di non pagare le tasse, di vivere in campi abusivi e senza la minima norma igienica. Agli islamici invece consentiamo di dettarci le regole, vedendo costruire moschee ad ogni latitudine della penisola senza sapere da dove provengono, in maniera precisa, i contributi che servono a finanziare l’edificazione di questi luoghi di culto. Una dinamica che non sta né in cielo, né in terra. Il tutto mentre gli italiani vittime di calamità naturali vivono ancora dentro a delle baracche a distanza di decenni. Gli anziani “campano” con 300 euro al mese di pensione, anche se le indagini Istat parlano di un pensionato su due che vive con più di 1000euro al mese di vitalizio miraggi da terzo millennio, morendo di fame. I giovani valorosi, con lauree e voglia di fare, si vedono il futuro sottratto perché davanti a loro, sulla corsia di sorpasso preferenziale, passano gli incapaci, ma amici degli amici. Qualche tempo fa ci siamo imbattuti nella morte di Emmanuel Chidi Namdi, l’immigrato deceduto a Fermo in seguito ad una rissa con Amedeo Mancini. Il fermano è già stato bollato dalla stampa come estremista di destra ed ultras per questo razzista e colpevole. Ben prima che la Magistratura faccia il suo corso. Si è detto che Mancini avesse insultato razzialmente il nigeriano e ne sarebbe nata una colluttazione, ma la testimone, la cui voce è stata messa in dubbio ripetutamente, Pisana Bachetti ha visto l’africano, che era accompagnato dalla consorte, aggredire l’italiano. Al funerale tutti gli alti funzionari da Laura Boldrini a Maria Elena Boschi. Ma costoro dov’erano agli estremi onori delle vittime di Dacca? Erano presenti al servizio funebre del giovane ternano, David Raggi, sgozzato da un marocchino irregolare sul suolo italiano con precedenti penali? Le parole della vedova del macellaio Pietro Raccagni, ucciso due anni fa da quattro immigrati clandestini albanesi, fanno raggelare il sangue: “noi discriminati dal governo”. Proprio così perché nessun politico parlò di razzismo in questi casi da me citati. Nessun presidente della Camera si recò ai funerali di questi uomini. Nessun anima pia della lotta all’antirazzismo spese una parola per questi italiani. Vittime di serie A e di serie B, ma per loro saremo sempre e solo vittime di serie B. “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Inizia così la seconda parte dell’inno d’Italia e i doppiopetto della politica esercitano questa parole a meraviglia.
Si sta rompendo il patto sociale vigente in Italia. Si sta cercando di scardinare ogni appiglio di questa nazione, ogni speranza di rivalsa. Le famiglie italiane si impoveriscono giorno dopo giorno, gli imprenditori, le partite Iva e i commercianti lottano contro una burocrazia fattasi pachiderma che costringe i lavoratori a pagare il 60% delle loro entrate sotto forma di tasse. Le nostre forze dell’ordine sono senza mezzi, senza dignità e lasciati senza fiducia nella lotta che li vede contrastare il crimine in ogni angolo dello stivale. Immaginate voi, per pochi spiccioli, di combattere il male riversatosi su questa nazione e di dover essere schiacciati ed usurpati da chi ci comanda. Una pazzia. Il sistema sanitario è al collasso. La sanità è sempre stato un vanto tutto italiano dai medici ai primari passando per gli infermieri capaci e volenterosi di dare dignità al malato in ogni istanza. Mentre oggi per una visita specialistica, che può fare la differenza tra la vita e la morte, bisogna aspettare mesi, se non mesi anni. E il pronto soccorso? Si entra la mattina e si esce la notte, il tutto mentre ai clandestini vengono gettati a terra tappeti rossi e privilegi. La sanità va a pari passo con le case popolari e a soccombere sono, tra un incartamento e l’altro, i nostri concittadini. Vittime di attese e scavalcati da ogni lato dagli altri, che vengono prima ce lo dice il governo. Per non farci mancare nulla ovviamente l’orco brutto e cattivo della fiaba siamo noi, che non abbiamo cuore, che non ci doniamo come dovremmo. Per Papa Francesco “Dio è nei migranti”, ma non esiste per i padri divorziati che dormono in macchina per dare un futuro ai propri figli. Per chi raccoglie nella spazzatura un torsolo di mela pur di mangiare qualcosa. Per quegli italiani in fila al dormitorio che non vogliono passare una notte su di una panchina. Per il nostro vicino di casa senza lavoro che non vede un domani e pensa al suicidio. Dio per questa gente, secondo l’attuale Chiesa, si è voltato dall’altra parte. La saliva dei politici e dei prelati continua a dirci che dobbiamo accogliere i clandestini in casa nostra, che dobbiamo sostenere le comunità disagiate provenienti da ogni lato del mondo, che, come direbbe Nichi Vendola, dobbiamo abbracciare “i nostri fratelli rom e i nostri fratelli mussulmani”, che l’integrazione è fondamentale. Ma chi siede sui banchi di Montecitorio o a palazzo Madama che esempio dà? Nessuno, si sono adagiati sulla riva del mare per vedere affondare questa nazione, al fresco, visto il periodo di canicola, delle loro laute ricompense. Date il buon esempio e accoglieteli nelle vostre regge, spalancate i conventi per ospitare e mantenere tutti i clandestini presenti in Italia. Essere bravi a parole non vale nulla è troppo facile. Prima gli italiani, bisogna gridarlo in ogni piazza, perché gli interessi di questa nazione vengono prima di qualunque altra cosa. Gli italiani tutti i giorni si rimboccano le maniche e fanno sempre di più di quello che dovrebbero fare. Tutti i giorni devono cercare di sbarcare il lunario per pagare tasse su tasse, senza ricevere in cambio niente, nessun servizio, nessuna tutela, nulla di nulla. Ma attenzione, siamo stanchi di farci derubare dei nostri soldi che vengono utilizzati per mantenere chiunque l’importante è che non sia italiano. Ed avete la faccia tosta di chiamarci razzisti? Come osate? La classe dirigente di questo paese si deve vergognare, dovrebbe rappresentare con onore il popolo italiano e invece tutti i giorni lo offende, lo accusa, lo processa e soprattutto lo sfrutta. I veri razzisti siete voi. Basta con la discriminazione anti-italiana, basta con questa classe politica costituita da incapaci e traditori.
Italicidio. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia, scrive Nino Spirlì il 22 agosto 2016 su “Il Giornale”. « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem) Italicidio, direi. Sì. Tanto per scimmiottare i neologisti dello specifico spasmodico. Morte della mia Patria, aggiungerei, pensando a mio Nonno Nino Spirlì, Vero Cavaliere di Vittorio Veneto e a Zio Giacomo Mangialardo, Camicia Nera fino all’estremo sacrificio. Assassinio della mia Terra, della mia Gente, della nostra Identità e della nostra Cultura, per mano sporca di schiavisti vestiti da cherubini. Per mano di trafficanti di libbre di carne umana, in cambio di strapotere occulto. Di vile denaro, lordo di sangue di innocenti e di pianti di italiani abbandonati a se stessi, mentre i macellai ci sgozzano come agnelli sacrificali e il papampero li incoraggia con la stupida e ottusa falsa accoglienza che gli fa cassa, eccome! Martirio della nostra Storia e della nostra Fede Cristiana, la quale, volenti o nolenti, è Radice inconfutabile della nostra Civiltà. Gesù Nazareno nacque Uomo, accolse la Legge degli uomini e il volere del Padre, e tracciò per noi, con la vita, la morte e la rinascita, il tempo e la strada da seguire. Che piaccia o no ai maomettani e similari, ai senzadio nostrani e ai disattenti politicanti da selfie tamarro, Cristo è Padre, Fratello e Signore dell’Occidente e degli uomini liberi di tutto il mondo. A Lui dobbiamo. Quando la nostra Civiltà e il suo progresso vengono schiaffeggiati, derisi, violati, uccisi, viene commesso reato e peccato. Insieme. Perché noi siamo così come siamo proprio perché Cristiani. E soprattutto i Cristiani non dovrebbero uccidere i Cristiani. Mentre sono proprio certi cristianoidi, bugiardi nella fede e nella dignità, che stanno aprendo le porte al maiale di troia (perché della nobiltà del cavallo nulla ha, questo nuovo strumento d’invasione), affinché dalle sue viscere si liberi quel fango violento che ci vorrebbe spazzare via dalla nostra Casa. L’Italia uccide l’Italia. Il Palazzo vende la carne del Popolo alle mafie e ai menzogneri di tutto il continente africano. Assassini, ladri, truffatori, pedofili, femminicidi di ogni stato del continente nero salgono sulle carrette del mare e si vomitano in Italia, senza un pezzo di carta che attesti chi siano e che cazzo vogliano da noi… Brutti nel corpo e nell’anima, sporchi nella dignità e nelle speranze, cattivi nella mente e nel cuore, sbarcano e si sentono padroni feroci. Anche delle nostre esistenze, che qualcuno gli presenta in dono. Ma noi non ci stiamo. Noi siamo l’Italia che non ci sta! Siamo Coloro i quali li spazzeranno via. Li costringeranno a tornarsene nei loro lontani covi malandrini, dai quali sono scappati non certo per persecuzioni o carestie, ma per codardia o colpevolezza. Ribellarsi all’invasione è un dovere. Ribellarsi alla malapolitica e alla sopraffazione massona è un diritto. Allontanare l’antiCristo è un obbligo, che ci viene dal nostro Signore. Che si chiama Gesù e non UE. Basta prendere schiaffi! Ognuno di noi cominci a lavorare nel proprio piccolo territorio. Non li chiamiamo più, i clandestini, per pulire il giardino o scaricare la legna per dieci euro. Non li chiamiamo più per svuotare le cantine. Non li copriamo più coi nostri vestiti ancora nuovi. E neanche con quelli lisi, se mai ne avessimo. Prima di consegnare un chilo di pasta o un barattolo di pelati, guardiamoci intorno: magari c’è una famiglia italiana che non ne ha da mesi…Apriamo, spalanchiamo le porte a Cristo, come diceva qualcuno. Prima che a Maometto, aggiungerei. E scegliamoci veri e buoni amministratori, che sappiano e vogliano difendere confini e territorio, dignità e avvenire della nostra Italia. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia. Fra me e me.
Il poliziotto racconta: “L’accoglienza un business dei poteri forti. E chi parla viene fatto fuori dal sistema”, scrive Mattia Sacchi il 22 agosto 2016 su “Il Mattino On Line”. E’ uno dei poliziotti più famosi d’Italia, grazie alle sue denunce pubbliche su quanto succede nei centri d’accoglienza e nelle procedure per identificare i migranti. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta quanto visto negli sbarchi di migranti sulle coste italiane.
Daniele Contucci, lei è stato in prima linea durante l’emergenza immigrazione…
«Ho fatto parte dell’URI. Si trattava di un’unita il cui obiettivo era quello dell’impiego in tutte le emergenze di immigrazione. Facevamo interviste a tutti i migranti che duravano circa 20 minuti e durante le quali ricostruivamo tutto il loro trascorso: tra cui le generalità, il percorso fatto per arrivare fino all’Italia e se avevano ricevuto ritorsioni nel loro paese d’origine. Successivamente, i dati venivano inviati in un database che veniva girato alla commissione territoriale la quale decideva se concedere l’asilo politico».
Lei ha visto da vicino il Cara di Mineo, uno dei più grandi centri richiedenti l’asilo d’Europa…
«Un centro in grado di ospitare 4000 richiedenti, ognuno dei quali ha un costo giornaliero di circa 37 euro, di più se il richiedente è minorenne. Potete quindi immaginare il tipo di business, per non dire altro, che ci sia dietro. Centinaia di persone che lavorano all’interno del centro, quindi un indotto economico enorme per l’entroterra siciliano. Con tutti gli interessi del caso e gli scambi clientelari. La task force di cui facevo parte riusciva a ridurre i tempi di permanenza di un anno. Successivamente l’unità è stata demansionata e chiusa, chissà perché…»
I migranti che ha incontrato le davano tutti l’impressione di scappare da qualcosa?
«Assolutamente no! Abbiamo avuto a che fare con tante persone dal passato tragico, ma anche da tanti migranti che si capiva sin da subito che avevano altri obiettivi. D’altronde i numeri parlano chiaro: nel 2014 sono arrivati in Italia 172mila migranti. Di questi solo il 10% riconosciuto lo status di asilante politico, per un totale di 36mila migranti a cui è stato riconosciuto un titolo per stare sul territorio europeo. Tutti gli altri avrebbero dovuto rimpatriare e invece la maggior parte è sparita nel nulla».
Lei è conosciuto anche per essere stato il primo a denunciare casi di turbercolosi e malattie infettive…
«Durante un’operazione di sbarco migranti nel Porto Augusta nel giugno 2014, siamo stati un giorno e mezzo a trattare con 1.200 persone, di cui 66 con la scabbia e altri con la tubercolosi. Ma, contro ogni procedura, siamo stati mandati allo sbaraglio con delle semplici mascherine e guanti in lattice. Io ho un figlio che all’epoca era appena nato e, per paura di non contagiarlo, non l’ho incontrato per un mese e ho fatto degli esami privati per accertarmi di non aver contratto alcuna malattia infettiva. Potete immaginare la frustrazione nel non poter vedere il proprio figlio crescere nei primi mesi di vita. Allora ho voluto denunciare questa situazione assurda che metteva i poliziotti a serio rischio».
Aveva paura delle malattie che si potevano contrarre?
«Certamente. Salivamo e scendevamo dalle navi senza le protezioni necessarie, incontrando persone che magari avevano malattie infettive. Finché si trattava di scabbia poteva essere fastidiosa ma non grave. Ma con la tubercolosi si può morire e soprattutto si rischia di contagiare i propri cari. Cosa avrei fatto se mio figlio avesse contratto una malattia del genere? Non me lo sarei mai perdonato, il solo pensiero era terribile».
Le sue denunce hanno portato a qualcosa?
«Prima le visite mediche duravano pochi minuti, adesso sono fortunatamente più approfondite, anche se non abbastanza. Proprio qualche giorno fa è stato trovato nella provincia di Como un migrante con una diagnosi di scabbia riscontrata pochi giorni prima nel Meridione d’Italia, senza sapere se aveva effettuato la profilassi del caso. Questi sono pericoli per la salute pubblica. Ma non è l’unico problema nelle procedure con i migranti in Italia».
Cosa intende dire?
«La mancata fotosegnalazione dei migranti ha creato dei grandissimi problemi. Io sono stato il primo a denunciare queste manchevolezze, che impedivano il rispetto dei trattati di Dublino. Molti di questi migranti evitavano di farsi fotografare, con la compiacenza delle autorità italiane: parliamo di 100mila persone non fotosegnalate tra il 2014 e il 2015. Magari alcuni di loro sono terroristi o legati ad associazioni dai fini criminali. Anche se fosse solo uno su mille sarebbe una cosa gravissima dalla portata decisamente pericolosa con evidenti responsabilità dei vertici governativi e di sicurezza».
Le sue denunce le hanno portato ripercussioni sul posto di lavoro?
«Solo problemi e ritorsioni. La nostra sezione è stata ufficialmente chiusa, noi demansionati dai nostri incarichi. Io lavoro a Roma e hanno cercato ad ogni modo di convincermi a far domanda di trasferimento, situazione comoda vista la lontananza da un ufficio centrale di importanza così rilevante. E anche i colleghi che prima mi sostenevano sono piano piano spariti, lasciandomi solo contro tutti. Chissà se qualcuno di loro comprato?»
La politica si è però interessata a lei e al suo caso…
«La Lega Nord aveva presentato delle interpellanze sui casi da me denunciati, ma quando il gioco ha cominciato a farsi più serio sono spariti anche loro. Forse gli interessi che ho toccato sono troppo grandi. Poi ho accettato la candidatura al Consiglio comunale a Roma con Fratelli d’Italia: se avesse vinto la Meloni forse avrei fatto parte del Consiglio comunale per continuare a lottare affinché giustizia, verità e libertà trionfino contro la casta e il malaffare legato al business dell’immigrazione».
Quindi cercava anche lei la poltrona…
«Ma per niente! Solo che in questa situazione è praticamente impossibile proseguire in Polizia il mio lavoro di verità e giustizia. Ricoprendo un incarico politico elettivo rinuncerei a qualsiasi euro in più rispetto alla mia ultima busta paga a dimostrazione del mio disinteresse economico. Lo avrei fatto solo per continuare la lotta contro la delinquenza, ovunque essa sia».
Come valuta la situazione a Como?
«E’ una situazione molto particolare. I migranti che arrivano vogliono passare il confine svizzero. Solo che se entrano in Svizzera e non sono stati fotosegnalati prima in Italia è più difficile accertare il primo paese di approdo per poi esser riaccompagnati alla frontiera. Ma comunque dalle interviste delle polizie locali si risale poi ai fatti e quindi rispediti lo stesso in Italia. A questo punto è giusto che le Guardie di Confine siano li per garantire la sicurezza del loro popolo, visto anche il concreto rischio terrorismo».
Ma l’Italia ha colpe in tutto questo?
«Direi proprio di si. I trattati di Dublino probabilmente penalizzano l’Italia, ma la soluzione non è non identificare i migranti. Durante il semestre di presidenza europeo, l’Italia poteva far qualcosa su questo fronte ma in realtà, nonostante i proclami, non si è fatto nulla. Un’immigrazione controllata e integrabile può essere sana, ma non è certo questo il caso».
“Immigrazione integrabile”. Ritiene che molti immigrati rifiutino di integrarsi?
«Chiedete alle donne poliziotte quando alcuni migranti di sesso maschile si rifiutavano di rilasciare le dovute interviste. Già questo indicativo della differenza di mentalità».
Cosa pensa di Mare Nostrum e Triton?
«Mare Nostrum è stata un’operazione italiana dai costi incredibile che ha fatto il gioco degli scafisti, visto le regole d’ingaggio che permettevano di arrivare a 10 miglia dalle coste libiche. Mentre Triton, sotto Frontex e tutt’ora in atto, ha come obiettivo salvaguardare le coste e arrestare gli scafisti con l’ingaggio a 30 miglia dalle coste libiche. Un migrante prima di queste missioni pagava 2-3 mila euro per il viaggio verso l’Italia, successivamente solo 700-800 perché ovviamente i rischi, sempre altissimi, sono diminuiti con Mare Nostrum. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavorare le diplomazie. All’estero ci sono consolati e ambasciate italiane: si potrebbe gestire la cosa nei paesi d’origine organizzando e gestendo le richieste d’asilo direttamente presso le nostre diplomazie all’estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c’è una strada normale e ordinaria per arrivare in Italia e si toglierebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un’operazione cuscinetto sotto l’egida dell’Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Accompagnando inoltre corridoi umanitari per le popolazioni effettivamente in guerra come la Siria o Libano. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annunciate».
Nonostante le ritorsioni, continuerà a denunciare i malfunzionamenti delle politiche migratorie?
«Certo, continuerò a lottare da uomo libero quale sono e non mi fermerò di fronte ad alcuna ritorsione o minaccia. Racconterò i fatti, nella convinzione che molti apriranno gli occhi…»
Mario Giordano su “Libero Quotidiano” del 19 agosto 2016: la verità è che gli immigrati non vogliono lavorare. Lavoro? Non ce n' è, perciò noi lo diamo ai profughi. È un'idea geniale quella del governo, avanzata tramite il capo dell'Immigrazione, prefetto Mario Morcone. Un' idea candidata ufficialmente al Premio Oscar della Stupidaggine 2016. E del resto solo chi sta gestendo l'accoglienza nel modo delirante che abbiamo sotto gli occhi, con piccole frazioni invase da centinaia di immigrati e cooperative improvvisate che si riempiono le tasche di soldi, poteva partorire una scemenza di tale portata. E solo chi sta cercando disperatamente un diversivo per celare la propria incapacità poteva lanciarlo a nove colonne sul Corriere della Sera come una vera proposta su cui far discutere il Paese. Intanto, per prima cosa, va detto che se questa è una novità anche Matusalemme potrebbe passare per un neonato. Di Comuni che negli ultimi mesi hanno cercato di impiegare i sedicenti profughi in lavoretti vari, infatti, se ne contano a bizzeffe: a Belluno gli immigrati hanno ridipinto le ringhiere, a Vicenza hanno pulito i parchi, a Castello d' Argile hanno fatto lavoretti nell' asilo, a Lucca si sono occupati della manutenzione della via Francigena, in Val Bormida hanno tolto i rami dai fiumi, ad Arezzo e Vittorio Veneto si sono occupati di giardinaggio, a Genova si sono trasformati in archivisti al Museo Doria… Il problema, piuttosto, è che "lavorare" per molti aspiranti profughi è una parola grossa, la questione non è tanto trovare loro un'occupazione quando ottenere che la svolgano. Evidentemente mangiare a sbafo, per molti, è assai più comodo… Il prefetto Morcone, dunque, dimostra ancora una volta di non conoscere la realtà che dovrebbe amministrare perché propone un'idea che non solo è vecchia come il cucco, ma che già mostra la corda in tutto il Paese per manifesta inapplicabilità. Probabilmente, come dicevamo, lo fa soltanto per creare un diversivo in mezzo alle polemiche. Ma quello che è grave è l'idea devastante che questa proposta rivela, la concezione mortale della nostra società che si nasconde dietro di essa. Lo si capisce perfettamente quando il giornalista del Corriere chiede al prefetto Morcone: «E gli italiani che non hanno lavoro?», e lui risponde sprezzante: «Io mi occupo di immigrati». Chiaro, no? Lui si occupa di immigrati. È giusto che gli immigrati abbiano vitto, alloggio, i soldi per il telefono e ora anche il nostro lavoro. E gli italiani? Che restino disoccupati. Che muoiano pure di fame. Oppure, se preferiscono, che spariscano dall' Italia. Sia chiaro, lo ripetiamo per non essere fraintesi. In sé l'idea di togliere i clandestini dai muretti dove bighellonano da mane a sera non è priva di qualche fascino. Vedere schiere di giovani baldi e forti (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia sono tutti baldi e forti?) che ciondolano nullafacenti negli hotel quattro stelle in attesa del pranzo e della cena (che contestano se non è di loro gradimento) o bivaccano sulle panchine smanettando sugli smartphone di ultima generazione (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia hanno tutti smartphone di ultima generazione?), magari provocando risse, furti, scippi e altri guai, non è piacevole. Di qui è ovvio che qualche sindaco si lasci tentare: perché, almeno, non facciamo fare loro qualcosa? Ma dev' essere chiaro che se un immigrato fa (gratis o sottopagato) il giardiniere o il cantoniere o l'archivista, evidentemente toglie il posto a un italiano, che quel lavoro non lo può fare gratis né sottopagato per il semplice motivo che a lui quei soldi servono per vivere perché non c' è nessuno che lo mantiene, a differenza dell'immigrato. Dunque ci sarà un operaio disoccupato in più, una piccola azienda che perde la commessa, un artigiano senza lavoro. E allora vi sembra logico che un italiano paghi le tasse (e tante) per mantenere in Italia profughi che vivono a sbafo e poi portano via pure il posto di lavoro? Non è un circolo perverso, una spirale mortale, un tunnel che porta al nulla? Questo è quello che è successo finora: lo Stato dà i soldi ai profughi e affama i sindaci, i sindaci affamati dallo Stato si fanno tentare dall' utilizzare manodopera gratis, e alla fine chi è che paga il conto? I lavoratori italiani, ovviamente. Quelli che hanno sempre pulito le strade, riparato le strade, verniciato le ringhiere. E che ora lo fanno sempre meno. Per la crisi, si capisce. Ma anche per la concorrenza sleale di chi può lavorare gratis perché mantenuto. Ancora più grave, poi, se tutto ciò avviene non per lavori di pubblica utilità, ma in attività private, come accadde l'anno scorso alla festa del Pd di Reggio Emilia. Qui lo sfruttamento è totale e non ha nemmeno l' alibi del servizio alla collettività… Che ora lo Stato, attraverso il capo dell' Immigrazione, proponga questo come sistema generale è preoccupante perché dimostra il modello di società che hanno in mente, che si basa per l' appunto sullo sfruttamento totale, una cosa che arriva quasi a sfiorare la moderna schiavitù: l' invasione programmata di clandestini serve infatti ad abbassare fino all' annullamento i diritti dei lavoratori e la loro retribuzione, fino a considerare cioè la retribuzione non come la giusta ricompensa ma come un "di più", una mancetta da elargire insieme a un tozzo di pane e a un posto letto improvvisato. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché a Rosarno non si riesca a eliminare l'eterna tendopoli dei clandestini? Semplice: perché serve manodopera a bassissimo costo per i caporali che reclutano lavoratori per i campi. E gli italiani, se vogliono lavorare, devono adeguarsi a quelle condizioni, come in effetti già stanno facendo. Ecco il modello Morcone è una specie di maxi-caporalato esteso a livello nazionale, una Rosarno moltiplicata per mille: diffondo lavoro sottopagato per costringere gli italiani ad adattarsi, oppure ad emigrare. Un progetto devastante che si nasconde dietro il volto gentile dell'integrazione, del "non possiamo lasciarli abbruttire", dei "meccanismi premiali" e dei "comportamenti virtuosi". Tutte parole inutili per nascondere due verità semplici che il prefetto Morcone, ovviamente, si guarda bene dal dire. La prima verità: quelli che bivaccano nei nostri centri di accoglienza nella maggioranza non sono profughi, ma "richiedenti asilo". Cioè sono persone che chiedono una cosa di cui non hanno e non avranno diritto. E dunque (seconda verità) l'unico modo per non farli bivaccare o abbruttire o bighellonare non è dar loro un lavoro togliendolo agli italiani. Ma è rispedirli subito nel loro Paese. Senza farne entrare altri. Mario Giordano
I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità. Una spaventosa baraccopoli arsa dal sole e dal degrado. Clan di schiavisti in guerra. Migranti islamici che bruciano le croci di quelli cristiani. Violenze, minacce, agguati. A Rignano Garganico è la peggiore estate di sempre, scrive Fabrizio Gatti su "L'Espresso" il 22 agosto 2016. L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più. Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea. Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar). Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi. La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca. La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato. Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. «Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo». Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree. Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta. Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora. Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo. Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo.
Migranti, in centomila sono scomparsi. La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari, scrive Fabrizio Gatti il 21 gennaio 2015 su "L'Espresso". Lo Stato c’è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell’esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara di Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d’uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un’ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell’esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d’uomo. Lo Stato c’è. Ma è di burro. Non solo a Bari. Accoglienza all’italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l’allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in tempi di massima allerta, registrare l’identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. Sono dati ufficiali del ministero dell’Interno. Le crisi umanitarie nell’area del Mediterraneo e l’operazione «Mare nostrum» hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011:170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell’ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d’asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l’hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all’ex villaggio olimpico di Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c’è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all’accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci si aiuta così. L’Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. “L’Espresso” è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L’alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jammo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell’11 ottobre 2013. Il più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l’esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all’Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all’improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l’ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all’ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCientrare, e l’avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d’orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assistenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all’interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh». Dopo quattordici mesi, il ragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all’ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all’economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l’integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. Dal 2011, con i primi decreti sull’ emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l’operazione «Mare nostrum». Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l’albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non controllano il guadagno aumenta. “L’Espresso” ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e i 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania, arrestato nell’operazione «Mafia capitale». L’aumento da allora ha raggiunto il 421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la “XXIII Sagra del ficodindia”. Un comunicato ci assicura che «l’integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all’autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un’altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C’è anche la “Partita del Cuore” attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l’educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell’uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L’Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L’agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell’amicizia a Castel di Iudica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro. Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall’ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l’hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell’anno e mezzo? «Non c’è lavoro a Mineo. Chiedevo l’elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire». Ha frequentato un corso d’italiano? «Non c’era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c’era, avrei imparato un po’ di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l’elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l’emergenza Nord Africa, nell’inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all’altro dal governo, si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell’ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c’erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l’incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. Stesso clima all’ex Ferrhotel: settanta profughi somali, uomini e donne, vivono nell’albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall’Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno, gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011. All’alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il caporalato è ormai l’unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all’ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell’immondizia che erba. Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell’Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell’associazione Africa Insieme, racconta invece che a Pisa la prefettura ha messo rifugiati perfino nell’ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall’uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative di gestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L’integrazione in mezzo al nulla. Forse c’è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l’alluvione. In quei giorni erano ospitati nell’ex ospedale a Busalla. Lega e Forza nuova hanno protestato con i manifesti: «Ospedale per italiani, non ostello per africani». Anche se riaprire l’ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell’Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l’Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L’Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d’estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l’anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pullmino è rotto. Non c’è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell’Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l’accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d’Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell’industria dei rifugiati, tutto è possibile. All’inizio dell’inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un’officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l’ora. Proprio quell’officina era il garage di una concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell’economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. (Ha collaborato Francesca Sironi).
Sfruttamento selvaggio, ora gli schiavi d'Italia dicono basta. Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano, scrive Floriana Bulfon e Francesca Sironi il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita dall’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania. Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova. Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale. Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: professionisti di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava. Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro. «Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno. Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica». La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi». L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato». Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità. Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India». Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente». Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali. In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante». Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.
Artigli e passamontagna. Ecco come i «pacifisti» aiutano i clandestini. Spranghe, coltelli e un artiglio da film horror sequestrati ai "No border" a Ventimiglia. Gabrielli: "Professionisti dell'agitazione", scrive Stefano Zurlo, Martedì 09/08/2016, su “Il Giornale”. Un'arma degna di Wolvwerine o di Freddy Krueger. Sembra di stare dentro una scena da incubo della saga horror di Nightmare, invece siamo alla frontiera di Ventimiglia. Dove l'Europa va in frantumi, i migranti si accatastano, i No Borders soffiano sul fuoco. Otto arresti, sette francesi e un'italiana residente a Parigi, ma soprattutto un catalogo impressionante di armi: un guanto con punte acuminate modello X-Men, coltello da rambo con lama di 30 centimetri, mazze, tubi di plastica da maneggiare come manganelli, cappucci. Il kit del perfetto dimostrante che si schiera al fianco dei disperati arroccati in attesa di un domani sugli scogli dei Balzi Rossi, ma poi distribuisce violenza, prima di giocare la solita parte della vittima. Insomma, il classico «pacifista» armato. Nessuno vuole colpevolizzare le idee, ci mancherebbe. Gli antagonisti e i centri sociali hanno tutto il diritto di dare voce alle proprie opinioni, ma troppe volte il copione deraglia. Qui, con 600 persone bloccate a un passo da Mentone e dall'agognata Francia, arriva l'imprevisto che sconvolge i piani di guerriglia: sabato sera un agente, Diego Turra, muore d'infarto sulla prima linea della protesta. I No Bordes, spiazzati, annullano il corteo previsto e mettono le mani avanti: «Non vogliamo cadere in trappola. Non c'entriamo nulla con quella morte, avvenuta per cause naturali mentre i suoi colleghi ci inseguivano e ci picchiavano». Fermi e fogli di via disegnano uno scenario assai diverso. Ci sono tutti gli strumenti classici per imbastire un pomeriggio di terrore, ambientato non più nel cuore di Milano o in Val di Susa, ma dove Italia e Francia s'incontrano. Al crocevia di una politica sempre più impotente. «E' lo stesso meccanismo che abbiamo visto tante volte con i Black Blok - dicono gli agenti che stanno monitorando il fenomeno - italiani o francesi non importa: si organizzano e si danno appuntamento nei luoghi più problematici per alimentare la tensione». Angelino Alfano, in un'intervista a Repubblica, sconfina attribuendosi meriti straordinari: «Se Ventimiglia non è fin qui diventata una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli». Ma le sue parole roboanti non tranquillizzano. Anzi. Il Governatore della Liguria Giovanni Toti denuncia «la situazione ormai insostenibile a Ventimiglia, dove serve subito un intervento fermo e deciso del governo con l'identificazione degli immigrati e il pugno duro con i No Borders che, irresponsabilmente, aggiungono tensioni a tensioni». Sulla stessa lunghezza d'onda, anzi più in là, il senatore forzista Maurizio Gasparri: «Il Governo sta drammaticamente sottovalutando la situazione a Ventimiglia. Ci aspettiamo l'allontanamento immediato dalla città di tutti i clandestini e fermezza contro i provocatori». Il capo della polizia Franco Gabrielli dosa i concetti come un politico consumato: «Intensificheremo le operazioni di decompressione, in modo da alleggerire la pressione nell'area. E alleggerire la pressione significa prendere le persone e portarle da un'altra parte». Poi si concentra sulla protesta: «I No Borders sono professionisti dell'agitazione, ma - aggiunge subito - addebitare a loro la morte di Turra è un esercizio poco serio». Un punto che tutti condividono. Ma che non cancella il malcontento: mentre l'Europa si scioglie, gli agenti sono sempre più vecchi, mal pagati, peggio equipaggiati. E devono fronteggiare, in quel lembo estremo d'Italia, anche il rischio che qualche terrorista si mescoli ai profughi.
Tra islamici e anarchici il lato «oscuro» degli attivisti. I legami internazionali del movimento anti-confini sotto la lente degli investigatori. Le prove dei video, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Gli attivisti «No Borders» hanno dei lati oscuri e dei collegamenti internazionali sotto la lente degli investigatori. Non si tratta solo della solidarietà estrema ai migranti «nelle loro pratiche di resistenza e violazione dei confini attraverso le frontiere interne ed esterne dell'Europa», come dichiarano gli stessi attivisti. Mohamed Lahaouiej Bouhlel, che ha falciato con un camion 84 persone a Nizza, è stato ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia nel giugno dello scorso anno. Il futuro stragista islamico partecipava ad una manifestazione pro migranti assieme all'associazione «Cuore della speranza» con base a Nizza. Il gruppo pseudo caritatevole era gestito da estremisti salafiti, che accoglievano e aiutavano soprattutto profughi o clandestini musulmani. Le foto sul profilo Facebook mostrano la mobilitazione a Ventimiglia e personaggi con il barbone islamico d'ordinanza che alzano un dito verso il cielo per indicare la volontà e la potenza di Allah. Nonostante l'inquietante commistione gran parte degli antagonisti «No Borders» italiani, che negli ultimi giorni si sono mobilitati dai centri sociali della Liguria, Piemonte e Lombardia hanno simpatie e agganci anti Stato islamico. I loro riferimenti sono i miliziani curdi di estrema sinistra del Ypg, che combattono nel nord della Siria contro l'Isis. Lo dimostra uno dei loro siti di riferimento, InfoAut, con tanto di stellina rossa. Sul blog di contro informazione si legge: «Il ruolo preposto dall'Unione europea all'Italia per i prossimi anni è quello di essere un deposito di materiale umano sfuggito alle guerre umanitarie dell'Occidente e alla sistematica spoliazione delle risorse dei paesi del sud globale che hanno subito gli ultimi decenni di «aiuto allo sviluppo». La «resistenza» pro migranti e contro i confini è pan europea. In marzo attivisti «No Borders», anche italiani, hanno fomentato i migranti rinchiusi nel campo greco di Idomeni distribuendo volantini con indicato un tragitto per raggiungere la Macedonia. Il risultato è stata la reazione della polizia con scontri ed arresti. Dallo scorso anno il movimento «No ai confini» influenzato dalla sinistra antagonista si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Chi paga proteste e mobilitazioni? Ufficialmente i soldi vengono raccolti in rete con il crowdfunding, ma da noi la campagna pro migranti è ampiamente rilanciata sul sito Melting Pot Europa. Lo sponsor del sito è l'Istituto nazionale assistenza ai cittadini (Inac). Un patronato «da oltre 40 anni impegnato nel sociale» e promosso dalla Confederazione italiana agricoltori, che fornisce assistenza gratuita agli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno o le pratiche del ricongiungimento familiare. Dalla scorsa estate volontari pro migranti italiani e di mezza Europa hanno fornito assistenza non solo umanitaria, grazie a mappe scritte anche in arabo con indicazioni precise sulle rotte, passaggi e sotterfugi per raggiungere soprattutto la Germania. Via twitter con gli hashtag #Crossingnomore o #marchofhope e WhatsApp hanno indirizzato migliaia di migranti verso determinati punti di frontiera per cercare di sfondarli. La rete «No Borders», infiltrata dagli anarchici, «è uno strumento per i gruppi e le organizzazioni di base a favore dei migranti e dei richiedenti asilo - si legge sul web - al fine di lottare al loro fianco per la libertà di movimento». Alcuni gruppi europei anti confini o Stop Deportation hanno piani più aggressivi. Le compagnie aeree come Lufthansa, Air France, Swissair, Sabena, British Airways, Iberia e pure le agenzie di viaggio sono finite nel mirino perché «deportano» i clandestini. I campi pro-migranti come quello di Ventimiglia, già organizzati in Slovacchia, Germania, Polonia, Sicilia e Spagna, sono un altro tassello del piano pro «invasione». Ulteriori azioni prevedono l'«evasione dai centri (di accoglienza nda), la loro distruzione o la lotta contro le nuove costruzioni». Dopo Ventimiglia il passaggio ad azioni violente è dietro l'angolo.
Marcinelle, 60 anni fa la tragedia nella miniera belga. L'8 agosto del 1956 nelle viscere della miniera del Bois du Cazier morivano 262 minatori. 136 erano italiani fuggiti dalla miseria, scrive il 7 agosto 2016 Edoardo Frittoli su Panorama. I Belgi li trattavano più o meno come prigionieri di guerra. Erano i lavoratori italiani della miniera del Bois du Cazier a Marcinelle vicino a Charleroi. Si erano sentiti spesso chiamare "musi neri" o "sporchi maccaroni". Siamo nel 1956, ma le condizioni di vita dei minatori emigrati riportavano ad almeno 10 anni indietro, quando le misere baracche dove alloggiavano erano state utilizzate prima come lager dai nazisti e poi come campo di prigionia per gli stessi tedeschi. Il Belgio si trovava in quegli anni in una situazione opposta a quella dell'Italia stremata da una guerra perduta. Aveva molte risorse e poca mano d'opera disponibile. Il nostro Paese invece mancava completamente di riserve energetiche, centellinate dai vincitori. Fu un accordo politico siglato nel 1948 dai governi di Roma e Bruxelles a portare decine di migliaia di italiani spinti dalla fame a lavorare nei pericolosi cunicoli delle miniere del Belgio. Braccia umane in cambio di carbone. Il contratto prevedeva per i minatori un periodo minimo di un anno di lavoro, pena l'arresto in caso di rescissione da parte loro. Per 8 anni fino al giorno della tragedia, gli italiani lavorarono giorno e notte in cunicoli alti appena50 centimetri a più di 1000 metri dentro le viscere della terra, spesso vittima di esplosioni di grisù e di malattie gravi come la silicosi. La speranza per 262 minatori, di cui 136 italiani, si spense poco dopo le 8,20 del mattino dell'8 agosto 1956. Nel pozzo N.1, un impianto obsoleto in funzione dal 1930, si verificò un incidente ad un ascensore carico di carrelli di carbone. Uno di questi sporgeva di alcuni centimetri dal vano di carico e per un errore umano fu fatto partire verso la superficie. L'attrito del carrello sporgente spezzò contemporaneamente cavi elettrici e tubazioni d'olio per macchinari ad alta pressione. L'incendio si innescò immediatamente e invase presto le gallerie puntellate con travi di legno e prive di sistemi di sicurezza efficaci. Presto dai due pozzi della miniera iniziarono a levarsi alte colonne di fumo, mentre la squadra di soccorso del Bois du Cazier distava ben 1,5 km dall'impianto. Non fu neppure fermato il pozzo di aerazione, fatto che contribuirà ad alimentare l'incendio ed i gas letali da questo sprigionati. Le fiamme furono domate solo 24 ore dopo con l'ausilio dei pompieri di Charleroi, ma i superstiti furono soltanto 13. 262 cadaveri giacevano inghiottiti nelle gallerie, ed i quotidiani uscirono con il titolo a cinque colonne "Sono tutti morti". Gli ultimi corpi furono recuperati il 22 marzo del 1957, mentre iniziava l'inchiesta sulle responsabilità della tragedia. Come prevedibile, la Commissione belga nella quale furono chiamati anche alcuni ingegneri minerari italiani, scagionò la società delle miniere del Bois du Cazier in un iter pieno di omissioni e vizi di forma. Nessuna tra le vittime ebbe giustizia né risarcimento in quell'estate di 60 anni fa quando la vita umana valeva una manciata di carbone. Per un approfondimento sulla storia del disastro di Marcinelle, segnaliamo il libro di Toni Ricciardi "Marcinelle, 1956: quando la vita valeva meno del carbone".
Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani, scrive Maurizio Di Fazio l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011): “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”. Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani. Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo. Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro. Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle. Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo. Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore. Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti. “Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”. Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi. Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo. Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”. Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe. L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi. Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro. La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani. Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”. Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”. Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia. Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria. La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità. Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”. Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le persone. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò). Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto. La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi. Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi. E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”. Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.
Quando l’Italia era “Lamerica” degli albanesi. Era l’8 agosto del 1991, esattamente 25 anni fa, quando la nave «Vlora», con a bordo 20mila migranti albanesi in cerca di futuro in Italia, sbarcava nel porto di Bari. La storia e le immagini di quei momenti entrati nella storia, scrivono Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi l'8 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Non c’è più stupore nel leggere sui giornali la notizia di uno sbarco di migranti sulle coste siciliane o sull’isola di Lampedusa, è un fenomeno quotidiano al quale siamo tristemente abituati, salvo indignarci quando al largo dell’Italia si ripetono tragici naufragi di uomini, donne e bambini in viaggio verso la salvezza, il sogno di un lavoro o più semplicemente una vita senza guerra. Non era così nel 1991, quando l’Italia diventò di colpo la terra promessa delle popolazioni balcaniche e in particolare dei nostri “vicini di casa” albanesi, ovvero di quei paesi in frantumi dopo la caduta del Muro e dell’Unione sovietica. Lo capimmo con chiarezza la mattina dell’8 agosto 1991, quando nel porto di Bari fece il suo ingresso la nave Vlora, carica all’inverosimile di 20 mila migranti giunti dall’Albania dopo un viaggio iniziato due giorni prima a Durazzo, a bordo di un mercantile malandato, fabbricato 30 anni prima nei cantieri di Genova. Qualche ora prima, la Vlora aveva già tentato l’approdo nel porto di Brindisi, ma l’allora viceprefetto Bruno Pezzuto aveva negato l’ingresso e convinto il comandante Halim Milaqi a navigare verso Bari: altre sette ore di viaggio, al timone di una nave difficile da governare, con la tensione alle stelle e la folla stipata fino al radar. L’Italia sperava, in quel breve margine di tempo, di potersi organizzare al respingimento e al rimpatrio immediato del mercantile, o almeno a disporre una temporanea accoglienza, ma a Bari non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, compreso il sindaco, furono avvisate quando la nave era già in porto. Le dimensioni di quello sbarco colsero le autorità centrali italiane totalmente impreparate, ma al vuoto istituzionale rispose la mobilitazione dei cittadini pugliesi e del sindaco Enrico Dalfino, che si attivarono subito per fornire ai migranti stremati i primi soccorsi, acqua, cibo e vestiario. A distanza di 25 anni gli albanesi in Italia sono diventati una delle comunità straniere più radicate e integrate nel nostro Paese, ma come dimostra ogni giorno la cronaca il problema migratorio resta ancora attualissimo e irrisolto, e il ricordo della Vlora e del suo carico di 20 mila anime è diventato un simbolo per l’Italia e per l’Europa intera.
8 agosto 2016. Vlora, 25 anni dopo. Bari ricorda il grande esodo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 agosto 2016. Quello che stava succedendo dall’altra parte dell’Adriatico, nell’estate del 1991, lo abbiamo ricostruito nel tempo. In Albania avevano aperto le prigioni e, secondo i servizi segreti, a criminali, banditi comuni e balordi era stato «consigliato» di scomparire. Come? Fuggendo in Italia. A queste bande di malviventi in fuga si erano uniti i poveri disgraziati delle campagne, quelli che non avevano granché da lasciarsi alle spalle, ma anche molti giovani che nel tam tam di strada «Dai, partiamo, andiamo in Italia!» avevano proiettato la propria occasione di avventura, il gioco, la goliardata. Questa - variegata, colorata, inquietante - era l’umanità che abitava la Vlora. Sulla banchina 14 del porto di Bari, la mattina dell’8 agosto 1991, c’era anche Luca Turi, il nostro fotoreporter. Anche lui, in qualche modo, è un pezzo della «leggenda albanese»: le sue fotografie della vecchia carretta del mare stipata di uomini all’inverosimile hanno fatto il giro del mondo. «C’era gente che si sentiva male, chi simulava di sentirsi male, c’era il viavai di mezzi della finanza, dei carabinieri, della polizia, le ambulanze. Era tutto sporco, perché sulla banchina avevano scaricato il carbone qualche giorno prima. Era l’inferno», racconta Luca.
Il ricordo più intenso?
«Enrico Dalfino, il sindaco. Un uomo mite, come tutti ricorderanno, bene: in quei giorni mostrò tutt’altra faccia, la sofferenza e la rabbia».
E invece qual è la prima emozione legata all’incontro degli albanesi?
«La fame. E la disperazione. Si lanciavano sui panini e sulle bottiglie d’acqua come animali selvaggi. Perché all’epoca non c’era la macchina dell’accoglienza di oggi».
Oggi c’è molta più organizzazione.
«Certo. Negli ultimi anni a Bari come in tutta Italia, la Protezione civile, le forze dell’ordine e i volontari hanno saputo accogliere i profughi. Il cibo, le cure mediche, i primi soccorsi, gli indumenti: tutto è già pronto. A queste persone viene garantita subito la salvaguardia della dignità. Io ricordo uomini sbarcati in mutande che in mutande sono rimasti per giorni».
Una curiosità: nell’epoca digitale sembra impossibile pensare che le fotografie un tempo andavano sviluppate e stampate. Come si riusciva 25 anni fa a rispettare i tempi di un giornale?
«Facevamo la spola dal porto o dallo stadio al mio vecchio studio di via Cairoli. Ci davamo il cambio, toglievamo i rullini dalle macchine e li andavamo a sviluppare, scappando di qua e di là. Sì, i tempi erano più lunghi e lo stress a mille, ma certe fotografie di allora, credo, sono più autentiche di quanto non si possa fare oggi».
Lo Stadio della Vittoria: gli albanesi furono sistemati lì. E furono giorni durissimi.
«Gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano lo stadio in continuazione, anche per ragioni di sicurezza. Portavano acqua e viveri che venivano gettati sull’erba dall’alto. Sono scene indimenticabili. Anche perché la stanchezza e l’esasperazione degli albanesi a un certo punto divennero incontenibili. L’alloggio del custode dello Stadio fu letteralmente fatto a pezzi, ma non dimentichiamo che tra quelle migliaia di persone c’erano anche dei criminali serissimi».
L’allora capo della polizia Parisi venne a contrattare il loro possibile rientro in Albania.
«Lo ricordo fuori dallo Stadio. Propose di dare 50mila lire a testa per rimandarli indietro, per loro era una cifra strepitosa. Qualcuno alla fine se ne andò di sua spontanea volontà, altri fuggirono. Qualche altro è rimasto e in Italia davvero ha trovato fortuna».
Si può dire che la storia professionale di Luca Turi sia anche in qualche modo legata alle sorti dell’Albania da quel 1991 in poi?
«Sono stato uno dei primi ad andare in Albania subito dopo la Vlora: la prima volta rimasi due ore in tutto. Ripresi la nave per rientrare in Puglia la sera stessa».
Perché?
«Perché capii perché tutta questa gente era venuta a consumare il suo sogno italiano: in poche ore compresi le loro condizioni di vita, la miseria la disperazione. Mi portarono in una villa per farmi passare la notte: appena vidi gli scarafaggi uscire dal lavandino me ne scappai. Ma ci sono tornato molte altre volte: è un Paese che ha completamente cambiato volto».
Nel senso che le condizioni di vita sono migliorate?
«Assolutamente. Oggi si assiste piuttosto a un fenomeno inverso: sono gli italiani che vanno in Albania».
Un paradosso.
«Beh, a fronte della modernità, della pulizia e dei servizi, i prezzi sono bassissimi. Un bell’appartamento nel centro di Durazzo, dove molti nostri pensionati si trasferiscono, costa 120 euro al mese e con 20 euro puoi stare bene una settimana».
Dopo 25 anni rimane in ogni caso la memoria collettiva di una città che seppe aiutare i profughi.
«È vero. I baresi mostrarono tutto il loro cuore. Nella disorganizzazione generale, è stata l’umanità delle persone, sindaco in testa, a governare l’emergenza».
Caporalato, nel ghetto salentino di Nardò l'arruolamento degli sfruttati è via Whatsapp. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane, scrive Chiara Spagnolo il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto. La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica disponibilità al lavoro acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone. Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro. Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti. A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.
Bracciante schiavo che si ribella, scrive Giovanni Masini il 28 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". Da Boreano (Potenza). Non è facile, per uno schiavo, ribellarsi ai propri padroni. Così come non è semplice trovare il coraggio di denunciare tutto davanti a una telecamera. Eppure, anche fra i dannati del caporalato di casa nostra, c’è chi osa alzare la testa e rifiutare il sistema criminale di sfruttamento e di ricatto che ogni anno costringe in catene decine di migliaia di braccianti irregolari. Per incontrare uno dei rari Spartaco contemporanei dobbiamo spingerci fino in Lucania, nella terra che diede i natali al poeta latino Orazio. Un volontario di sosRosarno, l’associazione anti-caporalato nata dopo le rivolte di migranti in Calabria, ci ha fornito il contatto di un bracciante disposto a “parlare” dei meccanismi di questa industria della morte. Di lui abbiamo solo un numero di telefono e un soprannome, “l’americano”. Vive in una baracca di plastica e lamiere sperduta in mezzo ai campi di grano, dove il sole estivo picchia come un martello e il frinire delle cicale assorda ogni pensiero. L’americano, che poi scopriamo chiamarsi Youssif, è un lavoratore relativamente emancipato: parla un discreto italiano ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per potersi permettere una bicicletta e qualche gallina per le uova. Ci riceve nella sua baracca, dove ha sistemato un generatore di corrente recuperato chissà dove e qualche sedia. La sera ospita i compagni di lavoro per bere qualche birra insieme. Lui lo chiama “il suo bar”. Per l’affitto della terra su cui ha costruito la baracca paga al proprietario del fondo cinquanta euro al mese. Periodicamente, spiega, il padrone distrugge le capanne dei braccianti per liberare il terreno. Gli incendi non sono infrequenti. I lavoratori si spostano di qualche metro e tutto ricomincia da capo. Anche qui vigono le medesime leggi che regolano la vita dei braccianti di Rignano: dei trentacinque euro di paga giornaliera, al lavoratore ne finiscono circa venti. Tutte le masserie abbandonate, parla piano Youssif indicando i casolari diroccati all’orizzonte, sono piene di braccianti. A volte la brutalità dei caporali si spinge fino a ritirare loro i passaporti; non è raro che le donne, specialmente quelle dell’est, vengano ricattate e avviate alla tratta della prostituzione. In queste terre selvagge sembra non esistere legge né pietà. La dimensione del fenomeno è tale che oltre due terzi dei braccianti stranieri non figurano nemmeno nelle liste ufficiali. “Solo in Puglia – spiega il segretario regionale della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – ci sono cinquemila africani iscritti negli elenchi anagrafici, che in gran parte risultano lavorare per meno di 51 giornate, come se per il resto del tempo se ne venissero in ferie… Ma il dato stupefacente è un altro: solo nei ghetti del foggiano se ne contano almeno quindicimila. I due terzi almeno, quindi, sono irregolari.” Peraltro moltissimi di questi schiavi godono dello status di rifugiato o sono addirittura richiedenti asilo: per lo Stato italiano non possono essere dei fantasmi e per la legge in molti casi non potrebbero nemmeno lavorare. In un’azienda produttrice di pomodorini, racconta Deleonardis, l’anno scorso sono stati trovati richiedenti asilo che lavoravano quattordici ore al giorno per poco più di trenta euro lordi.” E questo meccanismo perverso di gioco al ribasso, che contribuisce a scaricare i costi di produzione sull’anello più debole della catena, inizia a colpire anche i lavoratori italiani. Appoggiato al suo trattore, il signor Rocco Strada, coltivatore diretto, ci espone la sua visione dei fatti togliendosi il cappello davanti alla telecamera: “Questi immigrati sono esseri umani come noi – farfuglia in un misto di italiano e dialetto – Hanno due occhi, due orecchie, un naso… Ma perché non se ne stessero a casa loro? Vivono con venti euro al giorno, perché i proprietari dovrebbero spenderne cinquanta per un operaio italiano?” Chissà come risponderebbe l’americano. Come noi, una risposta non ce l’ha. Lontano da ogni forma di civiltà, isolato in una baraccopoli che brucia nel sole, sa solamente che domattina alle tre e mezzo suonerà di nuovo il clacson della macchina che lo porterà al lavoro nei campi. Da queste parti, già accettare di dire le cose come stanno è una vittoria del coraggio.
Cgil: in Capitanata almeno 20.000 lavoratori invisibili, scrive il 30 luglio 2016 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il cosiddetto ghetto di Rignano Garganico è solo un pezzo del problema dell’agricoltura in Capitanata, dove la vera questione è l’illegalità diffusa: è quanto sostiene in una nota la Flai Cgil di Foggia prendendo spunto dalla lite di tre giorni fa nella baraccopoli culminata nell’uccisione di un malese ad opera di un ivoriano, che è stato fermato nelle ore successive. «Almeno 20.000 lavoratori in agricoltura, pari al 50% degli iscritti negli elenchi anagrafici - scrive il sindacato - sono privi di diritti e invisibili ai mass media. A questi devono essere sommati almeno altri 10-15 mila lavoratori completamente in nero che non vengono iscritti negli elenchi anagrafici e che sono fuori da ogni circuito di legalità». La Cgil sottolinea che il fenomeno del ghetto di Rignano "interessa l’opinione pubblica e le istituzioni soprattutto nei tre mesi estivi, mentre sembra quasi cadere nel dimenticatoio per i restanti mesi, un luogo come altri della Capitanata. Rignano non è l’unico, probabilmente è il più vasto e forse il più famoso, sotto i riflettori dei media internazionali e nazionali». La Cgil fornisce una serie di cifre sul lavoro nero in agricoltura in Capitanata: i lavoratori africani censiti negli elenchi anagrafici al 2014 sono 2.646, e di questi solo 588 hanno più di 51 giornate lavorative, mentre 1.151 hanno lavorato nell’anno nella provincia di Foggia per meno di 10 giornate. Stesso destino spetta ai lavoratori bulgari, che sono 4.289 di cui 3.600 con meno di 51 giornate mentre 2.300 non raggiungono le 10 giornate. Infine ci sono 11.451 romeni, dei quali 8.400 non raggiungono le 51 giornate annue. Un contesto complessivo, scrive la Cgil, che frutta all’economia illegale milioni di euro e che andrebbe analizzato nel suo insieme come un sistema strutturato e complesso gestito in modo organizzato, «sottaciuto da sacche di assuefazione, anche da parte delle istituzioni». Per il sindacato serve «un’azione sinergica tra le parti sociali con le parti datoriali», le aziende di trasformazione in loco «devono pretendere che i propri conferitori, le aziende agricole di produzione, debbano essere iscritte nella rete di qualità per il lavoro agricolo», ovvero «debbano essere eticamente sostenibili».
Non solo extracomunitari. Italiani schiavi nei campi per tre euro l’ora, inchiesta di Giovanni Masini con video di Roberto Di Matteo del 29 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". I sindacati di sinistra disprezzano le riforme sul lavoro che danno un filo di speranza ai disoccupati non politicizzati. I sindacati di sinistra vogliono assunti sindacalizzati, e per i loro protetti ci riescono, per poter mantenere i sindacati con i prelievi forzosi in busta paga. Assunzione che per i più mai arriverà per l’esoso costo del lavoro. Con il buono lavoro, invece, si ha la speranza di svolgere almeno dei lavori saltuari. L’alternativa è lo sfruttamento del caporalato, che a quanto sembra i sindacati con le loro posizioni non vogliono debellare. “Il caporalato è andare dalle persone che stanno morendo e farle finire di morire”. La frase, lapidaria, è di un proprietario terriero della provincia barese, che intercettiamo alle cinque del mattino mentre assiste all’inizio dell’acinellatura: la difficile operazione di pulitura dei grappoli di uva da tavola, da preparare verso fine luglio in vista della raccolta di settembre. Gli acini più piccoli impediscono agli acini più grandi di crescere al meglio e vanno rimossi uno per uno. Questo lavoro viene tradizionalmente svolto da braccianti chiamati a giornata, non di rado giovani sui vent’anni che cercano di guadagnare qualche soldo “facendo l’acinino”. Pulire i grappoli sembra un compito semplice, ma può rivelarsi massacrante. Trascorrere fino a dieci ore sotto il tendone di plastica che serve a proteggere l’uva contro la pioggia con temperature che superano i quaranta gradi, le braccia sempre sollevate e il caporale che incalza chi lavora meno velocemente, non è un lavoro da signorine. Eppure, negli ultimi anni, sono sempre di più le donne che vanno a giornata a lavorare in campagna. Non più giovani che vogliono pagarsi gli studi o magari la vacanza, ma madri di famiglia che accettano di lavorare anche per venti euro al giorno pur di sfamare la propria prole. Alle quattro del mattino si mettono in viaggio dalle province meno ricche della Puglia, Brindisi e Taranto. Sui pullman viaggiano per ore fino alla zona compresa fra Bari, Andria e Foggia, dove c’è più richiesta di manodopera. Il sindacato stima che ogni notte si mettano in movimento fra trentamila e quarantamila donne, per la stragrande maggioranza italiane. A volte si portano dietro anche il marito, il fratello, i figli. La miseria costringe ad accettare ogni tipo di ricatto. Anche la truffa dei fogli di ingaggio, che consente a molti datori di lavoro di conferire una patina di legalità – anche se solamente formale – al lavoro dei braccianti alle loro dipendenze. Il meccanismo è semplice: i braccianti vengono assunti per quindici giorni con il sistema del part-time orizzontale e (sotto)pagati per un mese. Così facendo l’azienda risulta sempre in regola con le uscite, i contributi previdenziali e tutte le norme sul lavoro: se mai dovesse arrivare un’ispezione, si fa sempre in tempo a dire che il bracciante ha iniziato a lavorare da due ore, quando invece sta raccogliendo uva dalle cinque del mattino. Come se questo non bastasse, molto spesso i fogli di ingaggio vengono intestati ad amici o parenti dei proprietari terrieri, che così, se non si superano le 51 giornate di lavoro in un anno, possono godere dell’assegno di disoccupazione. Ma le truffe a danni dello Stato si sommano a quelle, se possibili ancora più gravi, commesse alle spalle dei braccianti diseredati. Dalle tabelle salariali emerge che la paga giornaliera di un operaio di “secondo livello” (fra cui quelli, ad esempio, addetti all’acinellatura) non dovrebbe essere inferiore, al lordo, a 47 euro. Una paga quasi doppia al salario medio di un operaio irregolare. Nemmeno gli orari vengono rispettati: da contratto la giornata dovrebbe durare sei ore e mezza più due di straordinario, ma nella realtà questo tempo può quasi raddoppiare. Non è raro che le donne lavorino dalle sei del mattino alle sei di sera. Alla paga lorda, come succede per gli africani, dev’essere sottratto il costo del trasporto sul posto di lavoro (che, se superiore a un’ora e mezza, competerebbe contrattualmente all’azienda). Per quanto questo fenomeno sia sulla bocca di tutti, trovare qualcuno disposto a parlarne è ancora più difficile che nel ghetto di Rignano Garganico. La manodopera non manca e chi “parla” rischia di trovarsi senza lavoro da un giorno all’altro. Ogni tanto la questione torna alla ribalta delle cronache, soprattutto quando, tre o quattro volte all’anno, qualche bracciante muore sul posto di lavoro. È il caso della bracciante quarantanovenne Paola Clemente, morta nel luglio 2015 mentre lavorava nelle vigne della campagna di Andria. Un malore provocato dai quarantadue gradi all’ombra e, quasi certamente, dal lavoro estenuante. Il suo stipendio era di appena 27 euro al giorno. Nel processo ancora in corso, per cui, nonostante i tanti mesi trascorsi, non ci sono ancora stati rinvii a giudizio, è indagato fra gli altri Ciro Grassi, l’autista del bus che aveva condotto la Clemente fino nei campi, dal paese del Tarantino di cui era originaria. Ciro Grassi è anche il nome che leggiamo sulla fiancata di un bus parcheggiato, fin dalle cinque del mattino, sul bordo di una vigna delle campagne baresi. Una coincidenza? Certo Grassi è solamente indagato e quindi innocente fino a prova contraria, ma resta comunque paradossale che la normativa non ne abbia sospeso l’attività per cui pure si è dichiarato innocente.
Caporalato nel Chianti: braccianti sfruttati anche nei terreni di Sting (senza che lui ne sapesse nulla). Undici misure di custodia cautelare a imprenditori e reclutatori di manodopera. L'inchiesta della procura di Prato. Operai in ciabatte anche in inverno pagati 4 o 5 euro l'ora, scrive Franca Selvatici il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". Hanno lavorato anche sui terreni di Sting a Figline. Senza che il cantante sapesse niente sulla regolarità o meno di quei braccianti agricoli. Anzi, è stato accertato che lui non era neppure presente. Mentre – secondo le accuse – altri importanti imprenditori agricoli toscani erano ben consapevoli di sfruttare immigrati clandestini o richiedenti asilo, mandati a lavorare nei campi con le ciabatte in inverno e pagati 4 o 5 euro l’ora. Si tratta degli imprenditori Coli, titolari dell’azienda vitivinicola Coli Spa di Tavarnelle Val di Pesa. Secondo le accuse, da anni utilizzavano profughi, soprattutto provenienti dal Pakistan e dall'Africa e li sfruttavano avviandoli al lavoro nero nelle vigne e nelle olivete del Chianti e di altre aree. E in un caso – sempre secondo quanto risulta dalle indagini – sarebbe stato occultato anche un gravissimo incidente sul lavoro avvenuto nei vigneti: un lavoratore si bucò la gola con un gancio e all’ospedale l’infortunio fu spacciato come un incidente domestico. È quanto scoperto dalla procura, dalla Digos e dalla polizia stradale di Prato, che hanno avviato una vasta operazione anticaporalato tra le province di Prato, Firenze, Modena e Perugia. E’ la prima volta che si scopre un fenomeno tanto devastante come quello del caporalato nei vigneti del Chianti, «culla – ha detto il pm Antonio Sangermano che ha coordinato l’inchiesta con la collega Laura Canovai – della civiltà rinascimentale». Undici le misure cautelari emesse nei confronti di cittadini italiani e pakistani: in cinque sono finiti agli arresti domiciliari. Disposti anche vari sequestri preventivi di quote societarie e 13 perquisizioni. L'inchiesta nasce nel 2015 quando due giovani africani hanno segnalato alla polizia l'illecito sfruttamento di una cinquantina di braccianti agricoli che a vario titolo operavano per l'azienda agricola "Coli" che ha sede a Tavarnelle Val di Pesa. L'ipotesi della procura è che un gruppo di pachistani, capeggiati da Tariq Sikander, avesse reclutato decine di richiedenti asilo per farli lavorare nei campi a basso prezzo. Sikander era stato arrestato in maggio e aveva deciso di collaborare. Secondo gli inquirenti attraverso alcuni intermediari i Coli gli hanno offerto denaro perché mentisse o ritrattasse, ma Sikander si è rifiutato. Le accuse sono di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti tra cui intermediazione illecita nel reclutamento di cittadini extracomunitari, per lo più giunti in Italia come profughi e sfruttamento del lavoro nero, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, interramento di rifiuti speciali, emissione di fatture false, ostacolo alle indagini e frode in esercizio del commercio: avrebbero infatti messo in commercio del vino Chianti "adulterato con uve della Sicilia e della Puglia in percentuali non consentite dalla normativa e ponendo in commercio un prodotto diverso, per qualità di composizione e attestazione da quello dichiarato". I Coli sono accusati anche di aver percepito indebitamente fondi comunitari per lo sradicamento e il reimpianto di vigneti. L'operazione, denominata "Numbar dar", che in pakistano significa “caporale”, è stata illustrata dal procuratore di Prato Giuseppe Nicolosi. Le indagini sono state coordinate dai pm Antonio Sangermano e Laura Canovai e condotte dalla Digos della questura di Prato con la collaborazione della sezione polizia stradale, della guardia di finanza di Prato e del Corpo forestale dello Stato di Firenze.
Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati di Mario Giordano. La società che organizza corsi per buttafuori e addetti alle pompe funebri ed è controllata dal noto paradiso fiscale dell'isola di Jersey. L'ex consulente campano che con gli immigrati incassa 24.000 euro al giorno e gira in Ferrari. La multinazionale francese dell'energia. E l'Arcipesca di Vibo Valentia. Ecco alcuni dei soggetti che si muovono dietro il Grande Business dei Profughi: milioni e milioni di euro (denaro dei contribuenti) gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza. E proprio per questo sfuggiti a ogni tipo di controllo. Dunque finiti in ogni tipo di tasca, più o meno raccomandabile. Si parla spesso di accoglienza e solidarietà, ma è sufficiente sollevare il velo dell'emergenza immigrazione per scoprire che dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari. Non sempre leciti, per altro. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati, faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. E poi vere e proprie industrie, che sulla disperazione altrui hanno costruito degli imperi economici: basti pensare che, mentre il 95 per cento delle aziende italiane fattura meno di 2 milioni di euro l'anno, ci sono cooperative che arrivano anche a 100 milioni e altre che in dodici mesi hanno aumentato il fatturato del 178 per cento. Profugopoli è un fiume di denaro che significa potere, migliaia di posti di lavoro, tanti voti. In sintesi, Mario Giordano ci racconta il dramma dell'immigrazione, attraverso il suo sguardo tagliente, con Profugopoli. In questo saggio dove svela il grande business dei profughi, ovvero milioni e milioni di euro gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza, ci espone il suo punto di vista in un reportage che lascerà senza parole il lettore. Gli immigrati rendono più della droga: così si dice nella politica. E visto il fiume di denaro che scorre dietro questo traffico è evidentemente così, tra migliaia di posti di lavoro e tanti voti. Per Giordano dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari, e non sempre leciti. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati e faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. Intorno a questa povera gente che giunge da molto lontano e che affronta ogni avversità, ci sono delle vere e proprie industrie che, sulla disperazione altrui, hanno costruito degli imperi economici. Giordano, in Profugopoli, scoperchia così una pentola che non riguarda solo Roma, ma tutta l'Italia. Questo saggio vi anticipa gli scandali che stanno per scoppiare e vi svela ciò che nessuno ha ancora svelato: le coop sospette che continuano inspiegabilmente a vincere appalti, i personaggi oscuri, gli affidamenti dubbi, i comportamenti incomprensibili di alcune Prefetture. Tutti gli scandali sono insopportabili. Ma quelli che si fanno scudo della generosità sono i peggiori. E vanno denunciati, in primo luogo per rispetto ai tantissimi volontari perbene: questo libro è dedicato proprio a loro, che ogni giorno tendono la mano al prossimo senza ritirarla piena di quattrini.
Mario Giordano, ecco chi si riempie le tasche con il business dei migranti. Un libro inchiesta che fa arrabbiare, discutere e un po' anche vergognare, scrive "Panorama" il 7 marzo 2016. Mario Giordano, nell'ultimo libro," Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati", (Mondadori 2016) racconta, in un'inchiesta serrata, una storia che fa arrabbiare, discutere e anche un po' vergognare. È la storia dei più incredibili modi per improvvisarsi centro d'accoglienza per migranti e guadagnare molti soldi. Ci sono l'associazione folcloristica (specializzata in tarantella) e l’istituto per odontotecnici. E poi Lady Finanza (bocconiana) e lo speculatore di Londra. Ma anche hotel, agriturismo e residence che rinunciano ad accogliere clienti e turisti e si buttano sul più sicuro “Affare Profugo”. (E se non bastano i posti letto, va bene anche un night club, o una piscina svuotata e riempita di tende.) Privati che affittano case e ville, e il business delle multinazionali. Le grandi coop bianche e le grandi coop rosse, che sono diventate delle vere e proprie industrie con fatturati che si moltiplicano. Un’inquietante inchiesta ci svela chi sono gli “avvoltoi” che oggi stanno speculando in nome dell’accoglienza.
I furbetti della solidarietà arricchiti da Profugopoli. Non solo Mafia capitale. Dalle mini coop alle multinazionali, nel libro di Mario Giordano i nomi di chi si spartisce la torta dell'accoglienza, scrive Massimo Malpica, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale". Un ritratto impietoso di un «sistema». Un sistema che trasforma accoglienza e solidarietà in lucroso business, sulla pelle degli immigrati e di chi la solidarietà la fa davvero. C'è di tutto in Profugopoli, l'ultimo libro del direttore del Tg4 Mario Giordano, che racconta «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Se a scoperchiare il calderone sul tema era stata Mafia Capitale, con il ras delle coop sociali Salvatore Buzzi a vantarsi di far più soldi con gli immigrati che con la droga, il volume di Giordano mostra invece che il malcostume non è questione meramente capitolina né si tratta di un fenomeno episodico. È un sistema. E prescinde da colori politici e confini geografici. Un libro-denuncia che fa nomi e cognomi di quanti, in Italia, si spartiscono la «grande torta» dell'immigrazione, dalle mini-coop alle multinazionali come la Gepsa, legata al gigante transalpino dell'energia Gdf-Suez, che fa incetta di appalti nel settore giocando al ribasso. Viste le differenze, Giordano divide questo esercito di furbetti in categorie. Ci sono gli «improvvisati», come il centro di formazione padovano che, fiutato l'affare, l'estate scorsa ha messo da parte i corsi per buttafuori e becchini per «accogliere» 81 migranti, e incassare 80mila euro al mese. Per non dire dell'associazione folkloristica siciliana che forte del suo «core business» - spettacoli con tamburelli e mandolino - si è aggiudicata, a Trapani, un bando prefettizio per una quarantina di profughi. Seguono gli «affaristi», imprenditori il cui fiuto li ha dirottati verso l'accoglienza, ma sempre con la testa al business, come l'avvocatessa napoletana che in Piemonte, sul Lago Maggiore, alleva capre e asine da latte, e a Busto Arsizio si dedica ad altro, aggiudicandosi 11 appalti per l'accoglienza migranti in 7 mesi tra 2014 e 2015, per oltre 2,5 milioni di euro. Poi tocca a «Specialisti&Colossi», le coop che sul sociale e sugli immigrati hanno costruito le loro fortune, trasformandosi in «imperi fondati sull'altrui disperazione», spiega Giordano, snocciolandone le storie. C'è la coop ferrarese, «monopolista» nonostante le bacchettate di Raffaele Cantone al Comune, quella modenese che nel 2014 ha incassato 13 assegnazioni di immigrati per oltre 2 milioni di euro, e quasi tutte in affidamento diretto, senza bando. Il colosso salentino dell'accoglienza, fondato da una ex colf albanese che «subappalta» i migranti alla chiesa copta lombarda, tenendosi 15 euro a migrante per il disturbo. Il viaggio a Profugopoli, corsa tra follie, sprechi e inchieste in salsa solidale, fa tappa anche dagli albergatori che hanno mollato i clienti paganti per i migranti ospitati a spese dello Stato e si conclude dove tutto è cominciato. Con i «farabutti», quelli pizzicati dalla magistratura, raccontati inchiesta per inchiesta, da «Mafia Capitale» alla mafia vera e propria.
“Profugopoli” di Mario Giordano racconta quanti italiani lucrano sulla tragedia dei migranti. Il business dell’accoglienza a spese nostre (e dei migranti), scrive il 9 marzo 2016 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Cos’hanno in comune le tarantelle di «Sicilia Bedda» e una coop toscana di derattizzazione? Niente, direte voi. Invece sono in qualche modo sorelle: hanno scoperto il business dei profughi. Capace in un caso di moltiplicare il fatturato fino a 126 volte (centoventisei!) in cinque anni. A spese degli italiani e dei profughi stessi. Che fosse un affarone si era già intuito leggendo la famosa intercettazione di Salvatore Buzzi, uno dei principali protagonisti di «Mafia Capitale»: «C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il puzzle ricostruito pezzo su pezzo da Mario Giordano in Profugopoli (167 pagine, Mondadori) è però ancora più vasto e spesso ripugnante di quanto sapessimo. E accusa non solo gli «intrallazzatori professionisti, i truffatori patentati, i trafficanti di immigrati, i semplici furbetti di paese» che cercano di strappare più profughi possibili ai volontari veri, quelli che si dannano l’anima sul serio per aiutare il prossimo (come la mamma dello stesso Giordano, cui il libro è dedicato) ma il sistema. Compresi certi prefetti che, per liberarsi dell’ingombro, smaltiscono i nuovi arrivati consegnandoli a chi capita. Dice tutto la storia di Pasquale Cirella, ex-installatore di impianti idraulici del napoletano che dopo aver fondato con incerte fortune la «Family Srl» per la «gestione di alberghi, pensioni, ristoranti, pub, pizzerie…» cambia la «mission» scrivendolo anche a bilancio: «L’emergenza profughi è l’oggetto principale della nostra società». In alleanza con «New Family» di Daniela Carotenuto, già «Miss Paesi Vesuviani», ha fatto per anni man bassa di appalti. Passando tra il 2009 e il 2014 da 44 mila a 5 milioni e mezzo (abbondanti) di euro. Un exploit dovuto anche a come trattava i profughi: al «Di Francia Park», ristorantone per matrimoni poi sequestrato, ne aveva messi trecento su brandine accatastate nelle sale. «I soliti terroni!», dirà qualcuno. «Lady Finanza» Giannina Puddu da quarant’anni «vive e respira la Milano da bere: prima la Bocconi, poi PiazzaAffari» fino a «diventare presidente di Assofinance». Costruita una palazzina a Chieve (Cremona) «è riuscita a vendere solo due appartamenti» e che fa? Fonda la società «Garbata Accoglienza». Dodici giorni dopo, è «ritenuta dalla Prefettura adatta a gestire la drammatica emergenza dei profughi» e piazza i suoi nella palazzina vuota: «Dovevo pagare le rate del mutuo». Il Consorzio di cooperative McMulticons sta a Empoli e dintorni, tratta di «pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione» ed è legato a una Onlus che si occupa di carcerati. Che c’entrano i profughi? Ne prende in carico 141 e ne manda 36, denuncerà redattoresociale.it, in un «casolare diroccato in aperta campagna, a 5 chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato» con le «pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia» e «due bagni per 36 persone». Due euro al giorno dello Stato vanno a ogni immigrato (sigarette) e gli altri (da 28 a 38, a seconda dei contratti) a chi gli dà da mangiare e dormire. «A Benevento la Prefettura si fida ciecamente di Maleventum. Non è un gioco di parole, è il nome del consorzio che raccoglie diverse cooperative cui sono stati affidati ben 770 profughi, un’enormità. “Sparsi in 13 centri diversi”». Incassi 2015? «Quasi 9 milioni di euro». La «mente è Paolo Di Donato, che non a caso si definisce “ideatore, creatore e gestore, con oltre 200 dipendenti, del consorzio”». Volete vedere il tipo? «Sul profilo Facebook si mostra a bordo di una Ferrari». In compenso, denuncia ancora redattoresociale.it, per una trentina di giorni, i circa 120 «ospiti» ammassati in una palazzina a Contrada Madonna della Salute «hanno bevuto e si sono lavati con acqua di pozzo». Elio Nave è titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto: «Sono stato sempre leghista e sempre lo sarò». Il suo segretario Matteo Salvini spara più contro i profughi che contro gli affaristi? Lui applaude, ma ha spiegato al Corriere delle Alpi che il nuovo business va benissimo: «Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Poi avevo provato ad aprire una pizzeria…». Adesso è sempre completo: «Senza i profughi avrei dovuto chiudere». «Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico» dice Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: «Ho già incassato 700-800.000 euro». Di turisti «non ne venivano più…». Vuoi mettere i profughi? «Ne hanno 70 a 37,5 euro al giorno», spiega Giordano, «Incassano 80.000 euro al mese. In cambio offrono camere modeste, un vecchio televisore e un menù basico, riso e pollo, piatto unico». Il Csfo di Monselice (Padova), fa corsi di formazione per buttafuori e per addetti alle pompe funebri ma non si fa scappare il business e prende in gestione «una cinquantina di immigrati, incassando per ognuno di loro un contributo pari a 34,89 euro al giorno». E dove li piazza? In una ex colonia a mille metri a Pian delle Fugazze. Un’interrogazione accusa: «degrado inaccettabile», «abisso di inciviltà», «bagni intasati», «allagamenti di corridoi»… Fra l’altro, racconta il libro, «vien fatto notare che a tutti gli ospiti sono stati consegnati all’inizio del soggiorno un piatto e due posate in plastica, genere usa e getta. Da mesi sono costretti a mangiare con quelli. Sporchi e rotti. Da far schifo». Ma che razza di società è? Sorpresa: «L’86 per cento del capitale è vincolato nel CalvetTrust, un fondo soggetto alla legge di Jersey». Un paradiso fiscale…
«Profugopoli» quegli affari della coop leccese, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 9 marzo 2016. Esce oggi in libreria «Profugopoli» di Mario Giordano (pagg. 156, euro 17,50), una documentata denuncia di «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Ne anticipiamo uno stralcio su un caso pugliese. "Continua a gestire regolarmente profughi anche l’Integra di Lecce, nonostante le «gravi inadempienze» che le vengono imputate. La cooperativa, molto attiva in tutta Italia, è stata fondata nel Salento da una italo-albanese, Klodiana Çuka: sbarcata sulle nostre coste nel 1992, Klodiana ha cominciato come collaboratrice domestica, poi è stata traduttrice e mediatrice culturale. Di qui l’idea di fare sul serio: la coop, nata nel 2003, dal 2013 è regolarmente iscritta al registro delle imprese, e oggi ha 42 addetti, con sedi a Roma, Milano, Taranto e Avezzano. Nel 2014 si è aggiudicata i progetti di accoglienza gestiti dalla città di Lecce e di alcuni altri Comuni pugliesi. Nel frattempo è scoppiata la grande emergenza e allora ci si è buttata a capofitto, decidendo di giocare anche in trasferta. Ha vinto appalti a Lodi, ha lavorato in convenzione con la Prefettura di Pavia. E soprattutto è sbarcata a Milano, dove nel corso del 2014 ha ottenuto contratti per un totale di 752.766 euro. Una bella impresa per chi aveva cominciato come collaboratrice domestica. Ma in realtà dalle parti di Integra non tutto fila liscio. Al di là delle belle parole con cui la cooperativa si presenta nei suoi documenti ufficiali («sensibilità verso il mondo della migrazione», «creare e implementare una società multietnica e multiculturale», «associazione trasversale guidata dal motto: unire senza fondere, distinguere senza dividere, rimanendo uniti nelle diversità»), la gestione del centro di via Quintiliano a Milano non brilla per efficienza. Tanto che nel febbraio 2015 la Prefettura compie un blitz e lo chiude temporaneamente per «gravi inadempienze», costringendo a trovare un’altra collocazione ai profughi che là dentro erano stipati all’inverosimile, in locali all’apparenza piuttosto devastati. «Sono cose che possono succedere» ha commentato con una certa noncuranza la responsabile Klodiana Çuka. In effetti: cose che possono succedere. Nel novembre 2015 Safwat Bakhit, presidente della Chiesa copta evangelica egiziana della Lombardia, dalle colonne di «Repubblica» denuncia: «Dall’estate del 2014 diamo ospitalità a 92 persone per conto di Integra, ma sono otto mesi che la coop non ci paga». L’associazione di Lecce, infatti, aveva siglato un accordo con la Chiesa copta: quest’ultima si era accollata interamente la gestione dei profughi, Integra avrebbe dovuto girarle 20 dei 35 euro incassati dalla Prefettura per ognuno. Invece, niente. «Hanno abbandonato qui quelle persone, incassano i soldi dallo Stato e non ci pagano» accusa Bakhit. «Si approfittano di noi perché siamo una chiesa e non lasciamo i rifugiati in mezzo alla strada». Avete capito il meccanismo furbetto? Prima Integra ottiene i profughi dalla Prefettura a 35 euro, poi li «gira» alla Chiesa copta a 20 euro. La differenza (15 euro) resta nelle sue tasche, senza fatica alcuna. Ma tutto ciò non basta. Secondo i religiosi, infatti, la coop non verserebbe nemmeno i 20 euro e si terrebbe l’intero bottino, lasciando agli altri le spese del mantenimento profughi. Ma vi pare? «La colpa non è nostra, è la Prefettura che non ci paga regolarmente» si difendono i cooperanti del Salento. Ma anche se fosse vero, la manovra resta piuttosto spericolata. E un po’ sospetta. Sono cose che possono succedere, si capisce. Ma quello che proprio non si spiega è come mai, nonostante tali dubbi e le gravi inadempienze, anche da essa stessa accertate e segnalate con diverse lettere di contestazione, la Prefettura di Milano continui a fidarsi di questa cooperativa di Lecce, improvvisamente sbarcata al Nord. E soprattutto non si capisce come mai continui a concederle affidamenti diretti su base fiduciaria: non solo, infatti, il Prefetto non sospende immediatamente l’appalto da 965.947 euro (in essere dal 1° gennaio 2015), ma addirittura ne sigla un altro il 1° maggio 2015 da 378.329 euro e piazza Integra in testa alla graduatoria della nuova gara (29 dicembre 2015). Davvero una fiducia a prova di bomba, non credete?
LADRI DI BAMBINI.
Gli incontri segreti (a Roma) per avere un figlio tramite madre surrogata (in America). Gli incontri segreti dell'agenzia di surrogacy in Italia. «Abbiamo 2mila donne a disposizione, basta scegliere». Tariffe, catalogo e tutto quello che serve. «Per la madre surrogata abbiamo un team di psicologi che le ricordano ogni giorno che il bambino non è suo». Video su Corriere TV di Antonio Crispino del 21 luglio 2016. L'atmosfera ricorda quella delle riunioni familiari tanto in voga negli anni '80 per la vendita del folletto, l'aspirapolvere tuttofare. Poche persone, possibilmente danarose, radunate attorno a un tavolo apparecchiato con bevande e biscotti. E il rappresentante aziendale che spiega pregi e vantaggi del nuovo prodotto. Illustra la composizione variegata del suo catalogo: colore della pelle, altezza, provenienza, caratteristiche fisiche. Già, perché stavolta non si tratta di robot ma di bambini. E quelli interessati all'acquisto sono coppie che vorrebbero un figlio attraverso una madre surrogata. Significa che una donna partorirà il figlio per un'altra coppia. Con la quale si può scegliere di non avere nessun tipo di rapporto, garantito per legge. La riunione si svolge all'inizio di giugno in una piccola stanza al secondo piano di un albergo di lusso a Roma. Partecipiamo fingendo di essere una coppia sterile. Ce ne sono altre tre, italiane ed eterosessuali. Ma gli appuntamenti sono ciclici. Dopo di noi c'è un'altra sessione. Come sono arrivate qui queste persone? Chi ce le ha mandate? In Italia questo tipo di incontro è vietato dalla legge 40. «Chiunque realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». L'agenzia ha pubblicizzato l'arrivo del suo guru su alcuni siti che si occupano di sanità ma le coppie che sono qui non sembrano assidue frequentatrici del web, la notizia deve essergli arrivata per altri canali. Entrati nella hall bisogna fare il nome di Mario Caballero, il fondatore di Extraordinary Conceptions con sede in California. Lui scende e viene ad accogliere i potenziali clienti. «Gli affari - dice - vanno a gonfie vele». In Carolina del Nord è stata aperta una nuova sede appositamente per il mercato europeo. Ci sono grandi progetti di espansione ed è in atto una vera e propria guerra commerciale con i cinesi che nell'America occidentale stanno monopolizzando il business. "Chiedono anche due o tre surrogate alla volta" dice l'imprenditore americano. Parla di coppie di qualunque età («Abbiamo detto "no" solo a un uomo di 93 anni»), sesso, religione. E di un data base vastissimo dove si possono vedere le foto delle madri surrogate durante tutto il ciclo della crescita «…così ci si può fare un'idea di come sarà vostro figlio». La domanda in Europa esiste già ma bisogna investire per farla crescere. Del resto, spiega l'imprenditore, i suoi collaboratori italiani - soprattutto avvocati - gli chiedono «più clienti». Uno dei nodi principali è quello della cittadinanza del bambino appena nato. A differenza di altre agenzie - soprattutto ucraine - illustra il vantaggio di scegliere una madre surrogata negli States: «Appena nato il bambino è cittadino americano. Dopo cinque anni, se lo volete, potete richiedere la cittadinanza italiana». La massima attenzione deve essere volta alla stesura del contratto che è, ovviamente, curata da uno studio legale. Volete, ad esempio, che la madre surrogata da voi scelta stia lontana dai gatti per tutto il tempo della gravidanza? Basta inserirlo nel testo. Volete, come chiedono i cinesi, che faccia l'agopuntura ogni giorno? C'è una clausola anche per questo. Oppure siete convinti, come molti tedeschi, che il parto in acqua sia più sicuro? Lo inserite nel contratto e al momento del parto la mamma surrogata sarà accompagnata in una vasca. Il motto è : «Tutto quello che vi fa sentire bene lo potete inserire nel contratto». E la madre surrogata? E' d'accordo? «Se firma il contratto è d'accordo». A sincerarsi che tutto proceda secondo gli accordi non è un avvocato ma un gruppo di psicologhe. Che hanno anche il compito di evitare qualunque legame emotivo con il bambino che portano in grembo. «Ogni madre surrogata è assistita da una dottoressa che tutti i giorni le dice: come stai? Come ti senti oggi? Ricordati che il bambino non è tuo». L'americano descrive tutto questo come un gesto d'amore, una sorta di donazione che la surrogata compie a favore di chi non può avere figli. Ci viene spontanea un'osservazione: non le sembra normale che una donna abbia un legame affettivo con chi ha portato in grembo per nove mesi? La risposta è netta e senza indugi: «No, non lo è. Io voglio che con vostro figlio non ci faccia proprio niente, che quando nasca dica solo: "E' un bel bambino, tenete, abbiate una buona vita". Voglio che non lasci spazio all'emotività ma abbia un approccio orientato solo al business, che pensi unicamente a un business…». Business è la parola che ricorre più di frequente. E va tenuto d'occhio solo quello, secondo i guru dell'agenzia americana. Prima che intervenga il legislatore. Dopo l'incontro romano Caballero ha annullato le altre due tappe del tour a Firenze e a Milano a causa di questo articolo uscito sul Corriere della Sera che ha indotto la ministra della Salute Beatrice Lorenzin a chiamare i Nas. Questo è il testo dell'email inviata da Francesca Sordi, la referente per i clienti italiani dell'agenzia alle coppie che avevano un appuntamento nel capoluogo lombardo. «Salve, con la presente sono a cancellare, nostro malgrado, gli incontri di Milano. Siamo stati contattati da un giornalista che ci ha comunicato che sono stati presi provvedimenti contro il nostro direttore e per la sicurezza di tutti si è scelto di cancellare gli incontri informativi».
Ladri di bambini, la conferma del ministro Boschi: casi segnalati all'autorità giudiziaria, scrive Fabrizio Gatti il 21 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha avuto a disposizione un'ora ventidue minuti e quarantuno secondi per smentire l'inchiesta de "l'Espresso" sui ladri di bambini e sulle presunte gravi irregolarità nelle procedure di adozione tra il Congo e l'Italia. Tanto è durata la sua audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera il pomeriggio del 20 luglio nell'ambito dell'indagine conoscitiva del Parlamento in materia di adozione e affido. Ma il ministro Boschi, che da giugno ha assunto le deleghe di presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), cioè l'autorità di controllo della Presidenza del Consiglio, non ha smentito "l'Espresso". Rispondendo alle domande dei parlamentari, il ministro Boschi ha dichiarato: «Credo siano stati raggiunti alcuni risultati importanti, compresa la soluzione delle adozioni in Congo... Fortunatamente si è risolta positivamente, nonostante le molte difficoltà». E ha aggiunto che per quanto riguarda le vicende specifiche sui singoli enti «là dove si è ritenuto che ci fossero delle situazioni da parte della precedente presidenza da dover segnalare alle autorità competenti, sono state segnalate. Quindi credo che questa sia una valutazione che non attiene alla Cai, attiene ovviamente alla Giustizia. Se ci sono o meno responsabilità, non possono essere da noi valutate: possono solo essere segnalate, come soggetto vigilante, preoccupazioni da questo punto di vista alle autorità competenti». Per chi ama i dettagli, il ministro-presidente della Commissione per le adozioni internazionali ha dato questa risposta a un'ora un minuto e diciannove secondi dall'inizio del filmato dell'audizione. Illustrando il suo programma di presidente della Cai e annunciando la convocazione della Commissione per le adozioni entro settembre, il ministro ha anche detto: «...Eventualmente affrontando dove fosse necessario, su singoli casi, iniziative che non competono ovviamente alla Commissione delle adozioni internazionali ma agli organi giudiziari affrontare. Chiaramente senza fare sconti rispetto a eventuali responsabilità». Proprio in questi giorni Marco Griffini, 69 anni, ex sondaggista di mercato e fondatore e presidente dell'associazione per le adozioni e la cooperazione internazionale "Aibi" di San Giuliano Milanese, ha annunciato di aver querelato "l'Espresso" per la pubblicazione dell'inchiesta che coinvolge il suo ente. Attraverso il suo profilo Twitter, il presidente di Aibi ha anche più volte insultato l'autore (cioè chi vi sta scrivendo). L'agenzia di informazione di Griffini fa sapere che contro il settimanale è stata presentata una querela di 91 pagine corredata da 56 documenti allegati. "l'Espresso" conferma ogni parola dell'inchiesta.
Congo, tutte le bugie dei ladri di bambini. I minori non erano adottabili. Perché non erano orfani. Ma l’associazione italiana aveva già intascato i soldi dalle famiglie. E ha collaborato alla messinscena di un rapimento da parte di inesistenti “bande armate”, Ecco il seguito della nostra inchiesta sul caso dei bambini congolesi, scrive Fabrizio Gatti il 20 luglio 2016 su "L'Espresso". La butta sul ridere Marco Griffini, 69 anni, presidente dell’associazione Aibi di San Giuliano Milanese. «Una domanda mi assilla della #bufalaespresso e non mi fa dormire: ma poi il motorino è stato recuperato?», chiede dalla sua pagina Twitter. Scrive la domanda dopo aver letto su “l’Espresso” l’inchiesta sulle adozioni di bambini sottratti ai loro genitori in Africa e su altre presunte irregolarità che coinvolgono la sua organizzazione. È la più potente in Italia, con sponsor fin dentro il Parlamento. Ma è un sarcasmo cinico quello del presidente-padrone, fondatore dell’ente cattolico autorizzato dallo Stato: perché il proprietario di quel motorino, Raymond Tulinabo, ex affidatario dei bimbi destinati ad Aibi nella regione orientale del Congo, è stato fatto arrestare con una falsa accusa dal partner locale dell’associazione milanese, il presidente del Tribunale dei minori di Goma, Charles Wilfrid Sumaili. E una volta in carcere, come ritorsione è stato più volte torturato. La colpa di Tulinabo: aver portato al sicuro al di fuori del controllo di Aibi e del giudice quattro bambini adottati da famiglie italiane. Un trasferimento deciso a Roma in collaborazione con le autorità congolesi per presunte gravi difformità dell’ente di Griffini nelle procedure di adozione: a cominciare dalle bugie raccontate a quattro coppie italiane sul rapimento dei loro figli, in attesa di partire per l’Italia. È il seguito del film horror, questa volta visto con gli occhi delle mamme e dei papà italiani che aspettano i loro piccoli. Mesi di lacrime e paura. L’attesa straziante di una notizia. Fino a scoprire che la storia del sequestro dei quattro bimbi è una messinscena. Pianificata in Congo. E condivisa dai vertici di Aibi, nonostante le carte dimostrino che a San Giuliano Milanese da fine marzo 2014 siano al corrente che la verità è un’altra. Anche questo emerge dalle segnalazioni inviate alla Commissione per le adozioni internazionali, l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio che sta indagando: quei bimbi non sono orfani, non sono mai stati rapiti. Sono semplicemente tornati dai loro genitori. Ma su questo segreto viene costruita l’incredibile trama che per due anni protegge i ladri di bambini: la rete congolese che con la scusa di far studiare i piccoli, li ha sottratti alle loro povere famiglie. Lo scrive in un rapporto interno lo stesso rappresentante legale di Aibi a Goma, l’avvocato Martin Musavuli: «Le bimbe erano state prese per ragioni di studio». Insomma, non c’è niente da ridere. In quei giorni di fine aprile 2014 basterebbe essere sinceri con i genitori in Italia, che tra l’altro hanno pagato migliaia di euro ad Aibi per le pratiche di adozione. E avviare una verifica, in sintonia con la Commissione di controllo di Palazzo Chigi. Basterebbe insomma ammettere che Mirindi, 6 anni, assegnata a una coppia in provincia di Brescia, Melanie, 10 anni, destinata a Cosenza, il piccolo Aimé, 6 anni, a Roma e Nicole, stessa età, a Casorate Primo nel Pavese, non possono essere adottati: perché, contrariamente a quanto dichiarato nelle sentenze, i loro genitori naturali li reclamano. L’avvocato Musavuli e l’assistente sociale di Aibi, Oscar Tembo, scoprono infatti che i bimbi, prelevati da un orfanotrofio a Goma il 7 marzo 2014, sono tornati a casa. Di Melanie, Mirindi e Aimé rintracciano i familiari. Melanie la vedono addirittura di persona. E lei, per paura di essere riportata in istituto, si nasconde. Sapere che i bambini sono comunque al sicuro sarebbe un bene anche per le famiglie adottive che li attendono in Italia. Invece sentite cosa accade. Quanti collaborano con Aibi e sono al corrente della delicata questione raccontano a “l’Espresso” che mamme e papà, ignari di tutto, vengono convocati soltanto nell’ultima decade di aprile. Cioè un mese e mezzo dopo la scomparsa dei piccoli dall’orfanotrofio. È il caso di una coppia di Roma contattata per telefono da Aibi. Chiamano il padre e gli chiedono di presentarsi con la moglie il giorno dopo, il 24 aprile, nell’ufficio dell’associazione nella capitale. Spiegano che riceveranno una comunicazione urgente su Aimé, il loro bimbo. Verrà data in videoconferenza da Valentina Griffini, la figlia del presidente, responsabile per le attività all’estero. I genitori non hanno mai abbracciato Aimé. Ma è solo un dettaglio fisico. L’amore non ha confini. L’hanno visto in fotografia, gli hanno parlato al telefono. Dal 15 agosto 2013, giorno della sentenza di adozione in Congo, Aimé è loro figlio a tutti gli effetti. E su di loro gravano tutti i doveri della potestà genitoriale. Compresa la protezione. L’operatrice che telefona al padre è invece tra i dipendenti di Aibi che a metà marzo hanno ricevuto il primo rapporto da Goma dell’avvocato Musavuli. Già in quel resoconto il rappresentante congolese dell’associazione di Griffini avverte che i bambini sono tornati in famiglia. E aggiunge: alla direttrice dell’orfanotrofio, Bénédicte Masika, «è stata fatta la domanda del perché non abbia mai anticipato la situazione, in modo da evitare ad Aibi di pagare le spese di mantenimento per quei bambini che hanno i genitori. E lei ha risposto che all’inizio non conosceva il legame di parentela. Quando l’ha saputo, purtroppo, la procedura di adozione era quasi alla fine. Ed era dunque troppo tardi». L’operatrice di Aibi però non rivela al padre di Aimé il contenuto del rapporto arrivato via email da Goma. E nella conversazione con lei, il papà ovviamente si preoccupa. Pretende di sapere la ragione della convocazione. La donna risponde che non è possibile parlarne al telefono. Per la delicatezza del tema, bisogna aspettare la videoconferenza. Panico. Il papà insiste. Lo tranquillizzano dicendo che il motivo non è comunque un problema di salute. Il pomeriggio del 24 aprile alcuni colleghi di Aibi nella sede milanese vedono la stessa operatrice e Valentina Griffini sedute alla scrivania, davanti alla telecamera e allo schermo collegato con l’ufficio romano. Il padre e la madre del piccolo adottato in Congo si siedono accanto a un’impiegata e alla psicologa di Aibi. Il loro volto è pallido. La voce di Valentina Griffini comunica senza troppi giri di parole che sei bambini dell’orfanotrofio “Spd” di Goma sono stati rapiti. Tra loro c’è Aimé. In realtà i bimbi scomparsi sono nove, non sei. La figlia di Marco Griffini ha ricevuto via email lo stesso report che il suo rappresentante legale a Goma ha mandato agli altri operatori. Da responsabile dell’attività all’estero, non può non averlo letto. Perfino lei, però, sostiene la finzione dell’assalto. Parlano di un gruppo armato. Raccontano che la notizia è stata data in ritardo perché le autorità locali hanno chiesto qualche settimana per avviare le indagini. Gli operatori di Aibi spiegano alla coppia che potrebbe essere stato un attacco di alcune bande di guerriglieri dell’Uganda, poiché è la prima volta che in Congo vengono presi di mira i bambini. Prima di chiudere il collegamento viene proposta la possibilità di adottare un nuovo piccolo al posto di Aimé: grazie alle conoscenze che Aibi ha con il giudice del Tribunale dei minori di Goma, il presidente che farà arrestare Raymond Tulinabo, poi torturato in prigione. Dalla sede milanese dei Griffini dicono sia persona rispettabilissima e stimata. Chiedono anche la massima riservatezza, perché non tutte le coppie coinvolte sono state ancora informate. La madre italiana di Aimé esplode in un pianto inconsolabile. Il padre guarda impietrito verso l’obiettivo della telecamera. Fino a quando nella sede milanese qualcuno si alza e, con il collegamento, spegne anche la loro espressione di dolore. Passa un’intera settimana senza nessun nuovo contatto risolutivo. A fine aprile la coppia informa il ministero degli Esteri. La mamma e il papà del piccolo sollecitano un altro incontro con Aibi. Vorrebbero parlare di persona con Valentina Griffini. Non riescono. L’appuntamento dell’8 maggio è una seduta con la psicologa su come affrontare il dolore: basterebbe raccontare la verità e il carico psicologico sarebbe molto meno pesante. Ma nemmeno la psicologa conosce i retroscena. Qualche giorno dopo Valentina Griffini al telefono fornisce le ultime novità. Racconta di sei uomini armati. Sono arrivati davanti all’orfanotrofio su un’auto di cui non si conosce la targa. Hanno attaccato l’istituto di mattina, a fine marzo. Perfino il giorno dell’assalto è diverso da quello della scomparsa dei piccoli ospiti. Il gruppo armato ha quindi preso i sei bambini ed è scappato con loro sulla stessa macchina. Sì, dodici persone su una sola auto. La Griffini sostiene che grazie agli ottimi contatti con la polizia, le indagini proseguiranno fino a quando lo vorranno i genitori italiani. Il 13 maggio però, sempre secondo quanto raccontano alcuni collaboratori di Aibi, nella sede milanese scoppia una grana. Qualcuno da Roma informa Valentina Griffini o suo padre che la coppia ha avvertito il ministero degli Esteri. È in arrivo una richiesta di chiarimento. E Valentina chiama i genitori di Aimé che disperati attendono novità. Ma non dà notizie del bambino. Li rimprovera. Sostiene che a causa della segnalazione al ministero, Aibi dovrà uscire allo scoperto con le istituzioni. In particolare, con la Commissione per le adozioni internazionali. E questo potrebbe mettere in pericolo la soluzione del caso e tutte le adozioni in Congo. Eppure Aibi avrebbe dovuto avvertire immediatamente l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio. I genitori adottivi di Aimé insistono nel voler vedere qualcosa di scritto sul rapimento del bimbo: i verbali di polizia, oppure i rapporti interni dell’associazione. Lo chiedono agli operatori dell’ufficio romano. Ma al telefono dalla sede milanese Valentina Griffini prende tempo. E ripete che senza la segnalazione al ministero degli Esteri e quindi alla Commissione per le adozioni, tutta la procedura sarebbe stata gestita con più facilità. Se ne vanno altre due settimane e il 17 giugno la figlia del presidente di Aibi, sempre al telefono, rivela al papà italiano di Aimé che a Goma l’inchiesta verrà probabilmente chiusa. Invece è già archiviata da una settimana: dal 10 giugno 2014, come conferma il rapporto della polizia locale. È comunque un’indagine surreale. Nel senso che viene formalmente aperta il 31 marzo, ventiquattro giorni dopo il fatto, quando la direttrice dell’orfanotrofio mette a verbale la storia dell’assalto armato da parte di uomini non identificati. E smentisce così la sua precedente denuncia in cui, il giorno dopo la scomparsa dei bambini tra i quali i quattro italiani, accusava quattro persone, con nomi e cognomi. La versione inventata il 31 marzo aiuta a risolvere la lite documentata nelle carte tra l’avvocato di Aibi, che minaccia di denunciare la direttrice dell’orfanotrofio per frode, e lei che propone di chiedere un prestito in banca, per rimborsare l’associazione italiana delle spese sostenute con i bambini rientrati in famiglia. La questione arriva fino alla sede milanese. Lo si legge in un report interno già a metà marzo, quando viene scritta la seguente nota: «Sulle problematiche sorte presso il centro Spd, abbiamo ricevuto da parte di Eddy il report di Martin con le valutazioni di Oscar. Pensiamo che organizzare un incontro tra Martin, Oscar e la direttrice sia importante e necessario per mettere chiarezza in merito alla situazione dei bambini spariti e le loro vere famiglie d’origine». Eddy Zamperlin è il rappresentante italiano di Aibi, inviato per l’occasione a Goma. Martin è l’avvocato Musavuli. E Oscar Tembo, l’assistente sociale a Goma dell’associazione di Griffini. Così il primo aprile la comoda messinscena del sequestro viene sottoscritta da tutti i protagonisti al termine di una riunione nella sede locale di Aibi: ci sono l’avvocato Musavuli, la direttrice, il presidente del Tribunale dei minori e Zamperlin. Anche lui, come la collega Filomena Giovinazzo, ha già ricevuto via email i resoconti di Musavuli che aggiornano Aibi sulla reale storia dei bambini. Nessuno di loro però dirà mai la verità ai genitori di Melanie, Mirindi e Nicole. E nemmeno alla mamma e al papà di Aimé. Quando molto tempo dopo vengono a sapere da funzionari della Presidenza del Consiglio che i bambini stanno bene, liberano l’angoscia in un pianto incontenibile. I piccoli sono salvi. Ma loro, se vogliono adottare un altro bimbo, hanno perso anni preziosi. Di quei giorni di terrore restano come affreschi le comunicazioni interne di Aibi. «Capiamo la difficoltà nell’individuare due sorelline che rispondano ai criteri di Melanie e Amini», è scritto nel report numero 2014 del 19 maggio di due anni fa, quasi un mese dopo la comunicazione della scomparsa alle coppie italiane: «La bimba che ci proponi purtroppo è troppo piccola. Come età dobbiamo almeno essere su quella delle due bimbe sbinate». Sbinate: contrario di abbinate ai genitori. Amini, 9 anni, è stata assegnata a una famiglia di Cosenza con Melanie. Nella sentenza di adozione le fanno risultare sorelle germane, ma non lo sono. Infatti Melanie torna dalla sua mamma. Amini resta in istituto. E lì viene dimenticata. Trovare bambini che si assomiglino è un’attività di Aibi. Lo si legge in un altro report con le comunicazioni dalla sede centrale: «Come procede la ricerca di due sorelline in sostituzione delle sorelline Issa?»
Congo, italiani ladri di bambini. Minori sottratti ai genitori in Congo per darli a famiglie italiane. Ecco il lato oscuro delle adozioni internazionali, scrive Fabrizio Gatti il 7 luglio 2016 su "L'Espresso". Una rete di trafficanti insospettabili ha cercato di far entrare in Italia bambini sottratti ai loro genitori in Congo. I casi dimostrati sono almeno cinque: le loro sentenze di adozione li dichiarano orfani, ma hanno famiglie che li reclamano. L'indagine avviata dalla Commissione per le adozioni internazionali (Cai), cioè l'autorità di controllo della Presidenza del Consiglio su enti e procedure di adozione, ha un seguito ancor più sconvolgente. L'organizzazione in Africa ha potuto operare grazie alle presunte coperture e alle omissioni dei vertici dell'associazione “Aibi – Amici dei bambini” di San Giuliano Milanese. Secondo le segnalazioni raccolte, i responsabili di Aibi non hanno denunciato quanto sapevano, hanno fornito informazioni non corrispondenti al vero. E, attraverso i loro assistenti locali, avrebbero addirittura ostacolato la partenza per l'Italia di decine di bimbi, mettendo così a rischio il trasferimento di tutti i centocinquantuno minori già adottati in Congo da famiglie italiane. L'inchiesta di copertina “Ladri di bambini”, su “l'Espresso” in edicola da venerdì, è stata realizzata grazie a una fonte interna ad Aibi, a contatti diretti con la capitale Kinshasa e a un lavoro di ricerca sui documenti dell'associazione cominciato nel dicembre 2012. Ne esce un racconto agghiacciante come la trama di un film horror. Nel tentativo di fermare l'indagine della Cai, diciotto bambini tra i 3 e i 13 anni, già adottati da genitori italiani e quindi con cognome italiano, vengono tenuti in ostaggio per un anno e mezzo, fino al 29 maggio scorso, in due orfanotrofi a Goma nella regione più pericolosa nell'Est del Paese africano. Una bambina, Amini, 9 anni, figlia adottiva di una coppia di Cosenza, scompare nel nulla. Altri piccoli sono vittime dell'attacco di un commando che tenta di rapirli e vengono portati al sicuro soltanto dopo lunghe trattative. Un affidatario congolese che su richiesta della Commissione adozioni della Presidenza del Consiglio e su mandato dell'autorità giudiziaria locale ha messo in salvo quei bambini, come ritorsione viene arrestato su ordine del presidente del Tribunale dei minori di Goma: lo stesso giudice che Aibi, nelle comunicazioni interne, indica come proprio partner. Durante la detenzione l'affidatario subisce torture: lo immergono in una buca con gli escrementi della prigione, lo picchiano e gli ustionano i genitali. Altri due incaricati della Cai nelle delicate trattative, due consulenti giuridici, vengono arrestati e a loro volta minacciati di torture per essersi interessati al rilascio dei bambini. Una suora, anche lei impegnata nei contatti per la liberazione dei piccoli ostaggi, è accusata dallo stesso giudice-partner di Aibi di traffico di minori. Accuse false, ovviamente. Il presidente-padrone di Aibi, Marco Griffini, 69 anni, un ex sondaggista di mercato e fervente cattolico, dal mese di giugno 2014 quando probabilmente intuisce di essere sotto indagine, comincia la sua guerra personale contro la presidente della Commissione per le adozioni internazionali, il magistrato di lungo corso Silvia Della Monica. Per due anni Griffini insulta il suo operato e spinge alcuni genitori adottivi a protestare davanti a Palazzo Chigi, inducendo così numerosi parlamentari a presentare interrogazioni al governo per chiedere che la scomoda presidente della Cai sia rimossa. Tra i più attivi, i senatori Carlo Giovanardi e Aldo Di Biagio, sicuramente all'oscuro dei pesanti retroscena. Il risultato più stupefacente è che Griffini ha (apparentemente) vinto la sua guerra. Giovedì 9 giugno, proprio quando gli ultimi diciotto bambini tenuti in ostaggio stanno finalmente partendo dalla capitale Kinshasa per l'Italia, una manina con una coincidenza fin troppo sospetta fa firmare al premier Matteo Renzi il decreto di revoca delle deleghe di presidente al magistrato Della Monica, confermata solo come vicepresidente della Cai. Un missile che, appena qualche ora prima, avrebbe abbattuto tutta l'operazione di salvataggio: se fossero ancora a terra in Congo, i piccoli dovrebbero aspettare altre settimane perché la nuova presidente, il ministro Maria Elena Boschi, ricominci daccapo la trafila burocratica delle autorizzazioni. Un tempismo spietato contro il magistrato che sta ancora indagando e che, grazie a due anni di lavoro paziente e riservato, è riuscita a far liberare tutti i bambini tenuti in ostaggio.
Congo, non liberate quei piccoli. Arresti e torture contro i mediatori in Congo. Omissioni e depistaggi a Roma. Così hanno bloccato i minori adottati da genitori italiani. Per fermare i controlli, scrive Fabrizio Gatti il 6 luglio 2016 su "L'Espresso". Mezzogiorno è appena passato quando spariscono i quattro bambini italiani. Un gruppo di uomini e donne entra nell’orfanotrofio “Spd-Solidarietà per la promozione della pace” a Goma, nella tormentata regione orientale del Congo. È il 7 marzo 2014. La mattina dopo la direttrice Bénédicte Masika Sabuni presenta la denuncia. Nel verbale fa i nomi di alcune persone. Le accusa di violenze e della scomparsa di nove piccoli ospiti. Quattro sono bimbi con cognomi italiani, già adottati con sentenze esecutive da famiglie italiane attraverso l’associazione “Aibi” di Marco Griffini. Mirindi, 6 anni, è stata assegnata a una coppia di Pisogne, in provincia di Brescia. Melanie, 10 anni, a una famiglia di Cosenza. Il piccolo Aimé, 6 anni, ai nuovi genitori a Roma. E Nicole, 6 anni, a una coppia di Casorate Primo, nel Pavese. La loro storia di orfani è raccontata nei provvedimenti di adozione timbrati dal presidente del Tribunale dei minori, Charles Wilfrid Sumaili, il giudice che Aibi nelle comunicazioni interne indica come partner. Ma non sono orfani: sono tutte storie inventate. Un falso di cui, secondo le segnalazioni, i collaboratori di Griffini sono a conoscenza almeno da fine marzo 2014. In quei giorni sulla scomparsa dei quattro bambini indagano anche il rappresentante legale di Aibi a Goma, l’avvocato Martin Musavuli, e l’assistente sociale dell’associazione, Oscar Tembo. Già il 15 marzo il legale invia il suo primo rapporto ad Aibi: lo ricevono, come confermano le email, gli operatori Eddy Zamperlin e Filomena Giovinazzo in servizio a Goma e poi Mauro Pitzalis, Laura Brivio e Valentina Griffini, la figlia del presidente-padrone responsabile dell’attività all’estero. Possiamo seguire questa parte dell’inchiesta con carte alla mano perché una fonte interna ad Aibi ci ha permesso di documentare quanto è avvenuto. L’avvocato Musavuli scrive che secondo la direttrice sarà impossibile ritrovare i piccoli: «Madame Bénédicte ha dichiarato che questi bambini sono stati portati al centro Spd dall’educatrice Francine Muhimuzi. L’educatrice ha fatto poi cambiare i nomi dei bambini che sono tutti originari del Sud-Kivu, per dar loro nomi del Nord-Kivu. È il caso di Nicole, che in realtà si chiama Binja». Già nelle due pagine del primo rapporto, il rappresentante legale di Aibi va subito alla questione: «Tutti questi bambini hanno i loro padri e le loro madri in vita che oggi li reclamano. Il presidente del Tribunale dei minori mi ha confidato che era stato lui a far rientrare Melanie al centro prima che sparisse di nuovo: probabilmente lei ora se ne è andata con la sua mamma. La madre ha reclamato sua figlia alla polizia speciale per l’infanzia. Il presidente del Tribunale dei minori afferma che Melanie assomiglia fortemente a colei che dice di essere sua mamma». Il 18 marzo l’avvocato Musavuli informa Zamperlin che Nicole si chiamava davvero Binja. Sempre Zamperlin e la collega Filomena Giovinazzo ricevono un nuovo rapporto via email il 21 marzo 2014. L’avvocato Musavuli e Oscar Tembo hanno indagato a fondo. «Mi è stato chiesto in questi giorni di armonizzare le mie osservazioni con Madame Bénédicte Masika, Madame Vicky Muhimuzi e Monsieur Zirimwabagabo», scrive il legale. I tre con cui deve mettersi d’accordo sono: la direttrice, la responsabile amministrativa del centro “Spd”, sorella dell’educatrice che ha portato in istituto Mirindi e Melanie e un maestro elementare che ha consegnato Aimé e Nicole e lavora in una scuola di cui è preside Madame Bénédicte. «Abbiamo constatato», continua Musavuli, «che nelle schede di presentazione dei bambini spariti, le persone di riferimento sono differenti da quelle incontrate in questi giorni. Anche le storie dei bambini sono differenti». Musavuli riferisce di avere convinto la direttrice dell’istituto ad accompagnarlo sul terreno per verificare dove siano i bimbi. È così che trovano la famiglia di Mirindi e Melanie. E scoprono che Aimé è figlio di Maman Mbale e ora si trova con la mamma in un altro villaggio. Rivela poi l’avvocato di Aibi: «Eravamo più o meno attesi. Non perché sapessero che saremmo arrivati, ma perché avevano l’abitudine di ricevere minacce da persone disposte a portare via i loro bambini. C’è voluta circa un’ora e mezzo per far comprendere la situazione... Abbiamo visto la madre di Mirindi, che ha affermato di essere anche la nonna di Melanie, la madre della sua mamma. Lei non conosceva i nomi dati ai bambini. Per lei sono Ketya (Melanie) e Marie Louise (Mirindi). Ha dichiarato che le sue bimbe erano state prese per ragioni di studio, perché non aveva mezzi per farle studiare. Si dice dispiaciuta del fatto che nessuno le abbia mai detto la verità quando venivano a chiederle le piccole per portarle al centro. Dichiara che dopo la sparizione delle bambine dall’istituto, era andata a cercarle con i poliziotti. E da quando le ha recuperate, viene minacciata da persone che vogliono rapirle». È sempre la voce della mamma di Mirindi nel rapporto interno dell’avvocato di Aibi: «A questo punto afferma che la nostra presenza sul posto non era gradita. Lei pensava che noi facessimo parte di quelli che vogliono rapire i loro bambini. Se questo fosse vero, ha detto, noi dovremmo aspettarci le conseguenze. Il quartiere è già stato mobilitato per punire tutti quelli che cercano di rapire i bambini. In particolare, con la lapidazione». Prosegue l’avvocato Musavuli e questa è un’altra comunicazione fondamentale: «Abbiamo anche cercato di sapere perché quando siamo arrivati, la bambina che noi conosciamo con il nome di Melanie (che ha 10 anni) è scappata non appena ha riconosciuto Oscar (Tembo, l’assistente sociale). La mamma di Mirindi ci ha risposto che non solo i bambini più piccoli hanno paura di incontrare tutti quelli che sono legati a Spd e Aibi, ma anche Melanie teme di essere rapita. Oscar e io spieghiamo che Aibi non compra i bambini, che Aibi è qui per l’interesse superiore del bambino». Il 24 marzo arrivano gli ultimi due rapporti interni sulla scomparsa dei quattro bimbi. Li ricevono sempre Eddy Zamperlin e Filomena Giovinazzo, i due operatori di Aibi a Goma. L’avvocato comunica che lui e Oscar Tembo hanno rintracciato il padre di Aimé, Kasay. E un fratellino, Shadrack, 5 anni, che dice che Aimé è stato portato dalla nonna, lontano: «L’hanno portato là perché veniva sempre rinchiuso nel centro Spd», spiega il piccolo. Il legale di Aibi si lamenta perché la direttrice dell’istituto, Madame Bénédicte, «ci aveva espressamente fatto perdere le tracce» del padre di Aimé «portandoci là dove la famiglia se n’era andata da due settimane». Suggerisce anche di coinvolgere la locale Procura. Il suo scopo dichiarato nel rapporto però non è denunciare il traffico di bambini non adottabili, ma riprendere almeno Aimé e Nicole: visto che per Mirindi e Melanie non c’è più niente da fare. E conclude: «Madame Bénédicte non ha voluto fare nessuno sforzo per dimostrare la sua volontà di aiutare Aibi a ritrovare i bambini. Mi sembra disonesto da parte sua... Le ho fatto notare che il suo comportamento sconfina nella frode. Presa dalla paura Madame Bénédicte ha detto di essere pronta a farsi dare un prestito dalla banca per rimborsare Aibi delle spese sostenute per i bimbi... Le ho dato un ultimatum. Le ho chiesto di portare i due bambini prima di mercoledì 26 marzo 2014. E le ho fatto sapere che se non li porta, Aibi avrà diritto di ricorrere alla Procura per far rispettare le sentenze di adozione». È tutto scritto. Non si sa cosa succeda il 26 marzo. Lunedì 31 però due ufficiali della polizia speciale per la protezione dell’infanzia confezionano un verbale nel quale la direttrice dell’istituto cambia versione. La scomparsa dei nove bambini, tra i quali i quattro adottati in Italia, è ora attribuita a «sei uomini in uniforme, armati e non meglio identificati». Così dichiara Madame Bénédicte. Dal verbale si scopre anche che Amini, 9 anni, adottata con Melanie dalla coppia di Cosenza, è ancora in istituto. È l’ultima traccia. Di lei non si saprà più nulla. Il giorno dopo, il primo aprile 2014, l’associazione di Griffini decide di superare il punto di non ritorno. Quel pomeriggio nella sede legale di Aibi a Goma si ritrovano il giudice Sumaili, presidente del Tribunale dei minori, la direttrice Madame Bénédicte, l’operatore italiano Eddy Zamperlin e l’avvocato Musavuli. Anche se il luogo dell’udienza con il magistrato è piuttosto insolito, sarebbe finalmente l’occasione per mettere alle strette la direttrice con quello che Zamperlin e Musavuli sanno. Invece no. Leggiamo dal resoconto timbrato e firmato dai presenti: «Il signor Eddy Zamperlin ha espresso la preoccupazione profonda di Aibi che constata, con dispiacere, che qualche bambino assegnato e beneficiario di sentenza di adozione è scomparso dal centro Spd». Eppure non sono scomparsi: sono tornati dai genitori. Ancora: «Madame Bénédicte Masika Sabuni ha dichiarato che il suo centro era stato vittima di una incursione di persone armate... come testimonia il verbale della polizia speciale del 31 marzo». La parte più squallida però è verso la fine: «Tutti i membri riuniti hanno espresso la loro solidarietà ai genitori adottivi dei bambini che sono scomparsi o sono stati rapiti e hanno assunto l’impegno di sostenere la polizia speciale nello svolgimento dell’inchiesta». Il presidente di Aibi, Marco Griffini, la figlia e gli operatori tengono tutto segreto fino a fine mese. Solo tra il 23 e il 28 aprile comunicano ai genitori adottivi che i loro bimbi non ci sono più. Ma nemmeno a questo punto Aibi informa, come sarebbe suo dovere, la Commissione per le adozioni internazionali (Cai). Dopo qualche giorno è una coppia ad avvertire Silvia Della Monica, presidente dell’autorità di controllo di Palazzo Chigi. E siamo a maggio 2014. Sono le settimane in cui Matteo Renzi e il presidente Joseph Kabila trattano direttamente per far partire i primi minori già adottati, dopo il blocco unilaterale deciso dal Congo: la famosa operazione organizzata dalla Cai che porta in Italia trentuno bambini con un volo di Stato. Il 12 maggio 2014 la presidente Della Monica scrive a tutti gli enti autorizzati, compresa Aibi. E ordina che in poche ore vengano trasmesse attraverso il portale telematico della Presidenza del Consiglio tutti i provvedimenti in corso nei Paesi a rischio. È il primo atto dell’indagine. Il colpo va a segno: come conferma la nostra fonte interna, Aibi registra anche le sentenze emesse per le quattro coppie che hanno già saputo che non vedranno mai più i loro figli. E, ancora una volta, omette di segnalare alla Cai che i bambini non erano adottabili. Passa un altro mese di silenzio. Fino al 20 giugno, quando Marco Griffini non può più far finta di niente. La Commissione per le adozioni internazionali vuole sapere che cosa è successo. E questa volta, rivela la fonte in Aibi, la richiesta è indirizzata soltanto alla loro associazione. La versione che il presidente-padrone sottoscrive è quella uscita dalla riunione a Goma il primo aprile. Usiamo le sue stesse parole per concedergli il doveroso diritto di replica: «I bambini sono stati rapiti da alcuni uomini armati non identificati, Aibi ha saputo del sequestro il 7 marzo e non ha denunciato il rapimento alle autorità perché lo ha fatto la direttrice del centro “Spd”». Punto. Le indagini della polizia di Goma sono ormai chiuse: «Non hanno avuto successo», sostiene un nuovo verbale. L’amico presidente-partner del Tribunale dei minori ha già concesso ad «Aibi la libertà di proporre ai genitori altri bambini disponibili». Come dire: perso un bimbo, se ne adotta un altro. A novembre anche Valentina Griffini, la figlia, ribadisce alla Cai la versione del padre. E nella sua relazione aggiunge che sono venute meno le speranze di trovare anche Melanie: proprio lei, la bambina che l’avvocato di Aibi e l’assistente sociale avevano invece rintracciato con la mamma di Mirindi a fine marzo. Insomma, un’altra informazione surreale. Adesso bisogna solo fare in modo che l’ultimo gruppo di bambini già adottati rimanga isolato a Goma. Il più a lungo possibile. Finché restano lì, praticamente in ostaggio, nessuna inchiesta potrà uscire allo scoperto e sfidare il rischio di ritorsioni. Ma bisogna anche screditare Silvia Della Monica, il magistrato presidente della Commissione per le adozioni che ha avviato l’indagine amministrativa. Aibi ha amici importanti per farlo. Sia a Kinshasa, sia a Roma. Scoppia così la guerra privata del soldato Griffini. E della sua potente lobby. Cominciano i mesi della paura. Le false accuse in Congo di traffico di minori. Gli arresti. Le torture. L’agguato al fuoristrada con i bambini perché non arrivino a destinazione. E in Italia gli attacchi in Parlamento contro il magistrato Della Monica che con la verifica amministrativa sta raccogliendo prove agghiaccianti. Basterebbero pochi giorni per mettere al sicuro i piccoli ostaggi. Trasferire in aereo ventidue bimbi da Goma, nella regione orientale del Paese africano, alla capitale Kinshasa non richiede di più. Invece i loro genitori dovranno attendere diciotto mesi per vederli atterrare in Italia. Dal 24 dicembre 2014 al 10 giugno 2016: un anno e mezzo di minacce, ricatti e violenze sui mediatori che incassano in silenzio, per non pregiudicare l’operazione di salvataggio. I presunti registi hanno nome e cognome. Lo scrivono i due consulenti giuridici incaricati dalla Commissione di controllo per le adozioni internazionali, in una relazione-denuncia del 20 febbraio 2015: «Se Aibi dall’Italia non si fosse intromessa nell’esecuzione della nostra missione, avremmo terminato il trasferimento entro due settimane... Il comportamento bellicoso e irresponsabile di Monsieur Marco, presidente di Aibi e del suo seguito (i suoi collaboratori, il suo avvocato, il presidente del Tribunale dei minori di Goma, padre Claude dei Padri Caracciolini, eccetera) non ci lasciano indifferenti ed è molto pericoloso, perché la città di Goma è una roccaforte di insicurezza. Le persone stesse vengono assassinate per niente. E noi non ci siamo risparmiati: per fare questo però ci siamo esposti a pericoli gravi per la nostra incolumità». I due consulenti, di cui omettiamo volutamente il nome, hanno paura. Dopo la scomparsa dei bambini a marzo 2014, cinquanta famiglie italiane non si fidano più. Per questo hanno revocato il mandato ad Aibi. E la presidente della Commissione per le adozioni internazionali, esercitando i suoi poteri, ha preso in carico tutte le procedure e chiesto la collaborazione di altre due associazioni già presenti in Congo: “I cinque pani” di Firenze per i piccoli bloccati a Goma e la “Fondazione Raphael” di Roma per altri 22 bimbi già trasferiti a Kinshasa. Le ritorsioni non si fanno attendere. Le prime arrivano il 29 dicembre 2014, quando l’abate David della “Fondazione Raphael” assume la tutela dei ventidue bambini di Aibi a Kinshasa e li porta nel suo centro di accoglienza. Molti di loro appartengono allo stesso gruppo trasferito dal centro “Spd” di Goma dopo la finta denuncia dell’assalto armato. La presa in consegna dell’abate David, autorizzata dalle autorità congolesi e dalla Cai, si prolunga fino a tarda sera proprio perché i rappresentanti di Aibi si rifiutano di rilasciare i bambini. A Kinshasa Griffini può contare sul supporto di un funzionario del ministero della Famiglia, Gauthier Luyela Loyel, che trova ascolto nell’ufficio dell’ambasciatore Massimiliano D’Antuono. Alla fine, non si sa da chi, la notizia viene veicolata ai quotidiani nostrani con questo titolo: “Congo, rapiti 22 bimbi adottati da coppie italiane”. Tra i genitori in Italia è il panico. E in Parlamento si scatena l’artiglieria delle interrogazioni. Si va dai soliti Carlo Giovanardi e Aldo Di Biagio a Emanuele Scagliusi del Movimento 5 Stelle che, bisogna ripeterlo, sicuramente non conoscono i retroscena. I loro interventi finiscono sul sito di Aibi. Come l’iniziativa di dodici senatori di Area popolare che chiedono il commissariamento della Commissione per le adozioni: «Per ricostruire la credibilità». Il gioco di Griffini, insomma, funziona. Negli stessi giorni Charles Wilfrid Sumaili, presidente del Tribunale dei minori a Goma, convoca i due consulenti incaricati dalla Cai per la liberazione dei bambini e mostra loro una lettera che ha inviato alle autorità locali e a Kinshasa: è la sua accusa personale per traffico di minori contro suor Benedicta dell’associazione “I cinque pani” di Firenze. Sono calunnie. Così infatti si legge nella relazione dei due consulenti giuridici: «Lo stesso presidente del Tribunale dei minori ci invita, per evitare problemi, a trattarlo bene, come ha sempre fatto Aibi, così che possa ritirare il suo atto d’accusa contro suor Benedicta». Curioso che tra le autorità destinatarie della lettera, il giudice abbia inserito Martin Musavuli, l’avvocato di Aibi. E puntuali le false accuse alla suora, responsabile dell’associazione che dovrebbe prendere in consegna i bambini in ostaggio a Goma, finiscono sui giornali italiani: “La ministra, il Congo e suor Patacca” titola ancora oggi il sito di Griffini, ripubblicando un articolo de “Il Fatto Quotidiano”. I legami con il giudice Sumaili sono confermati da un’altra comunicazione di Aibi. È il report numero 2314 del giugno 2014. A Goma arriva Marco, un nuovo operatore. E dall’Italia gli mandano le direttive: «Molto importante che incontri tutti i nostri contatti e partner (soprattutto il presidente del Tribunale dei minori)». Insomma, il giudice delle false accuse alla suora è un partner di Aibi. I 22 bambini in ostaggio nella pericolosa regione sono distribuiti su varie strutture. Diciassette sono bloccati nell’orfanotrofio “Fed”: la direttrice, lei sostiene su ordine di Aibi, si rifiuta di rilasciarli. Una bimba è al seminario dei padri Caracciolini: padre Claude, secondo la denuncia, dice che non collaborerà «con la mafia italiana perché il loro centro non ha ricevuto ordini dall’Italia, cioè da Aibi». Quattro sono affidati a famiglie nei villaggi intorno. La rete di insospettabili dimostra che non intende scherzare. Il 7 gennaio 2015 due delle famiglie nei villaggi, con il nullaosta delle autorità, consegnano agli incaricati della Cai i due bambini affidati loro temporaneamente. Uno è molto malato. Il minibus su cui viaggiano viene inseguito da vicino e alle porte di Goma è bloccato da un Land Cruiser. I sei uomini a bordo scendono e pretendono di prelevare i bambini. La movimentata discussione finisce in ufficio davanti a Raymond Tulinabo, il tutore che li aveva in consegna per conto di Aibi. Tulinabo riceve numerose telefonate: «Hallo Oscar», dice al cellulare. Poi spiega che Oscar Tembo, l’assistente sociale, e il presidente di Aibi, Marco dall’Italia, si oppongono categoricamente al rilascio dei bambini. Gli accompagnatori decidono allora di riportarli nei villaggi. Tre giorni dopo, il 10 gennaio, le stesse due famiglie provano a riaccompagnare i piccoli a Goma. Ma non riescono nemmeno ad arrivare in città. Un’imboscata lungo il percorso attende il loro fuoristrada. Vengono fermati da un gruppo di uomini sconosciuti che vogliono rapire i due bimbi, anche loro già adottati da coppie italiane. L’attacco viene respinto perché gli accompagnatori riescono con un po’ di fortuna a fuggire e a ritornare nel villaggio. Ora chiedono che il trasferimento avvenga con l’appoggio di una scorta. Il 12 gennaio il presidente-partner del Tribunale dei minori dice ai due consulenti giuridici che è disponibile a scrivere un’ingiunzione ai centri per liberare i bambini: però solo «attraverso il pagamento di una somma di denaro, perché Aibi l’ha sempre ben pagato». Le trattative, coordinate dall’Italia dal magistrato Della Monica, proseguono con pazienza per evitare che i piccoli ostaggi spariscano. E anche Raymond Tulinabo accetta di mettersi dalla parte della legge. Il tutore degli affidi nei villaggi raccoglie i suoi quattro bambini e il 31 marzo dell’anno scorso li accompagna al sicuro a Kinshasa. Ritorna a Goma dopo cinque giorni. Il primo giugno il presidente del Tribunale dei minori lo convoca in ufficio. È un lunedì. Il giudice Sumaili è furibondo: «Lei ha sotto la sua custodia quattro bambini, sono tutti partiti per Kinshasa?». «Sì», risponde Tulinabo. «Chi vi ha autorizzati?». «L’autorità giudiziaria», spiega. «Io la faccio arrestare», urla il presidente-partner di Aibi: «Lei ha deciso di collaborare con “I cinque pani” diretti da una cosiddetta religiosa, riconosciuta come trafficante di bambini così come la vostra storia della Cai, altri trafficanti di bambini...». Dopo un quarto d’ora appare in ufficio il primo sostituto procuratore della Repubblica: «Ecco qui uno di questi banditi che rapiscono i bambini a Goma per andare a venderli in Europa», gli dice il presidente Sumaili. Tulinabo viene caricato su un’auto. Lo portano in una camera di sicurezza. E dopo un giorno lo rinchiudono nel carcere centrale di Munzenze. L’indomani mattina, verso le 9 del 3 giugno, il povero Raymond Tulinabo vede un agente del Tribunale dei minori intrattenersi con il vice capo dei sorveglianti. Quando l’agente se ne va, è il suo turno. Il comandante lo chiama e comincia il pestaggio. Le torture proseguono con il waterboarding, il trattamento riservato ai prigionieri di Guantanamo: solo che qui immergono Tulinabo nella buca con gli escrementi della prigione. Poi gli ustionano i genitali. Lo torturano anche il mercoledì sera. E ancora giovedì mattina. La salvezza è il suo motorino. Gli amici preoccupati lo trovano parcheggiato davanti al Tribunale dei minori e capiscono che dietro la scomparsa di Raymond c’è il presidente Sumaili. Vengono informati i consulenti della Cai che ottengono il rilascio in libertà provvisoria del tutore dei bambini su pagamento di una cauzione. Le false accuse saranno poi archiviate. Trascorre un altro anno. E proseguono i tentativi di far saltare il dialogo tra la presidente della Cai e le autorità di Kinshasa. Dalla capitale i bambini già adottati da famiglie italiane cominciano a partire per Roma. Ma i diciotto a Goma sono ancora in ostaggio dei collaboratori di Aibi. I registi occulti provano a mettere in gioco la polizia militare. Siamo nel 2016. L’11 marzo un’organizzazione locale rilancia le false accuse di traffico di minori contro l’istituto legato a suor Benedicta. Il procuratore ordina la perquisizione dell’ufficio e l’arresto di chiunque si trovi lì. Finiscono dentro i due consulenti giuridici che si stanno occupando del rilascio dei diciotto bambini. Vengono minacciati e trattenuti in condizioni disumane in una camera di sicurezza. Dura soltanto un giorno. In serata le accuse cadono e i due sono liberi. Ma non è ancora finita. Si scopre che Aibi ha omesso di segnalare alla Cai un’altra sentenza di adozione che certifica il falso. L’ha emessa il Tribunale di Boma, nella regione occidentale del Congo. E sostiene che Martine, 6 anni, assegnata a una coppia di Spinea in provincia di Venezia, sia stata raccolta per strada e non abbia parenti. Non è vero. Infatti Martine è stata ripresa dalla sua mamma a inizio marzo 2014. È il quinto caso dimostrato. Lo si legge nei report interni di Aibi. «La consorella di suor Josiane ha incontrato Martine e la madre?... La mamma di Martine ha sparso la voce che la suora volesse vendere la bambina ai bianchi» (10 marzo). «In merito a Martine ci rattrista leggere ancora una volta che la famiglia ha mal compreso cosa significhi l’adozione e che quindi abbia dato il suo parere negativo» (14 aprile). «Ormai è chiaro che per Martine non si potrà procedere... Non possiamo rischiare oltre» (21 aprile). Come soluzione Aibi propone ai genitori veneziani di sostituire Martine con una bimba cinese. Loro, giustamente, rifiutano. E siamo alle ultime settimane. La notte del 28 maggio a Goma la direttrice dell’orfanotrofio “Fed” subisce altre pressioni perché continui a partecipare al ricatto. Secondo i testimoni, l’assistente sociale di Aibi, Oscar Tembo, pretende che trattenga ancora i diciotto ostaggi: «Silvia non è più presidente della Cai», le dice. Ma anche la direttrice ha deciso di passare dalla parte della legge. I piccoli tra i 3 e i 13 anni atterrano all’aeroporto di Kinshasa nel pomeriggio di domenica 29 maggio. E saranno gli ultimi a ripartire verso i nuovi genitori italiani. Decollano giovedì 9 giugno, prima di sera, mentre da Roma lanciano il missile che, solo qualche ora prima, avrebbe abbattuto tutta l’operazione di salvataggio. Una manina fa firmare al premier Matteo Renzi, con una coincidenza fin troppo sospetta, il decreto annunciato a maggio di revoca delle deleghe di presidente della Cai a Silvia Della Monica perché siano assegnate al ministro Maria Elena Boschi. Un tempismo spietato, contro il magistrato che in questi due anni ha davvero lavorato nell’interesse superiore di quei bambini: se loro fossero ancora a terra in Congo, dovrebbero aspettare altre settimane perché la nuova presidente ricominci daccapo la trafila burocratica delle autorizzazioni. Ma i diciotto piccoli passeggeri sono già in volo per l’Italia: nessuno li può più fermare. «Chi di revoche ferisce, di revoca perisce», scrive gioioso Marco Griffini, il presidente-padrone di Aibi, sulla sua pagina Twitter. Invece no. Ha perso la guerra.
PARLIAMO DI ABUSI SUI DEBOLI E SUGLI INCAPACI.
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Il più osceno business italiano: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna? Sono decine, centinaia?
«Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono.»
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso.»
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali.»
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo.»
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore.»
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.»
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.»
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati».»
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili.»
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla.»
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.»
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato.»
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare.»
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.»
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna.»
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3.»
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica.»
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà.
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.»
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più.»
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti.»
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani.»
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce.»
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti.»
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura.»
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete.»
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
Quell'esercito di padri separati che non paga il mantenimento. Boom di cause contro gli ex inadempienti. Da gennaio il fondo di Stato in aiuto dei figli, scrive Maria Novella De Luca il 29 dicembre 2015 “Repubblica”. "Da sei mesi mio marito non ci versa più l'assegno di mantenimento. E i miei figli, Giada e Pietro, sono diventati bambini poveri. Cosa vuol dire povero? Vuol dire che abbiamo tagliato la piscina, il calcetto, la mensa a scuola, eliminato i vestiti nuovi, i libri sono un lusso già da un pezzo, e ad ogni festa di compleanno non so come comprare il regalo... Mi vergogno, ma riesco a garantire soltanto la sopravvivenza. Il mio ex scappa, fugge, dice che non ha soldi, ma intanto si è costruito una nuova famiglia...". Adachiara, maestra d'infanzia e giovane mamma separata di Udine dice che non appena il nuovo "Fondo di solidarietà per il coniuge in stato di bisogno" diventerà effettivo, sarà tra le prime a presentare la domanda. Perché d'ora in poi, come prevede la legge di Stabilità, sarà lo Stato a versare i soldi dell'assegno di mantenimento a famiglie come quella di Adachiara, rivalendosi poi sul padre inadempiente. Un passo di civiltà, spiegano gli avvocati matrimonialisti, ma anche la testimonianza di un'emergenza non più legata alla crisi ma diventata endemica, la povertà cioè che segue la fine di un amore, e dunque le separazioni e i divorzi. I dati sono impressionanti: secondo le stime dell'Ami, Associazione matrimonialisti italiani, i processi penali per il "mancato pagamento dell'assegno ai figli" sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni, trecento in sei mesi i casi solo al tribunale di Trento. Lasciarsi, ormai è assodato, è sempre più un lusso per coppie con doppio reddito, o per chi ha soldi, per tutti gli altri la rottura di un matrimonio può diventare l'anticamera della povertà. Eppure in Italia le nozze durano sempre meno, dal 1995 a oggi sono triplicati gli addii dopo dieci anni vita in comune, e le separazioni cresciute del 70 per cento. Ma nello stesso tempo il 12 per cento degli "utenti" delle mense della Caritas sono proprio i separati e i divorziati, anzi le divorziate, visto che l'8,5 per cento sono donne con figli minori a carico. Spiega Gian Ettore Gassani, fondatore dell'Ami e grande sostenitore del Fondo varato dal Governo: "Sono anni che lo chiedevamo, anni in cui abbiamo visto la tragedia di famiglie ridotte sul lastrico dopo una separazione, e quasi sempre a pagarne il prezzo più alto sono le donne e i bambini. Nella maggioranza dei casi infatti a non pagare l'assegno di mantenimento sono i padri, in parte perché non possono, in parte perché ne approfittano. Ma il dato sociale è durissimo. Si può fare addirittura un calcolo matematico: in una coppia con due figli, un mutuo e due redditi da 1500 euro, dopo la separazione uno dei due coniugi diventerà povero...". Racconta Adachiara: "Ci siamo separati perché lui aveva un'altra storia, ma abbiamo entrambi sofferto per la fine di un matrimonio in cui avevamo creduto. All'inizio è stato presente, affettuoso con i bambini, puntuale nei pagamenti. Poi la sua "altra" famiglia è diventata più importante, ha iniziato a trascurarci, e da quando è diventato padre di nuovo è come se ci avesse dimenticati. Il mio ex è un libero professionista, io guadagno meno di mille euro al mese. Eravamo una famiglia normale, oggi i miei bambini sono poveri, ed esposti ad una doppia sofferenza, il suo abbandono e le privazioni". Aggiunge Gassani, che di tutto ciò parla nel suo libro "Vi dichiaro divorziati": "Il Fondo servirà in situazioni come queste, ma ci vuole una stretta vigilanza: temo infatti che i padri inadempienti possano approfittarne per abdicare ancora di più dalla proprie responsabilità". Mitiga Tiberio Timperi, giornalista e esponente dei padri separati, protagonista di una lunga vicenda giudiziaria con la ex moglie. "È una misura giusta, ma è anche una toppa sulle inefficienze della giustizia, dove ancora troppo spesso i giudici privilegiano d'ufficio il collocamento dei figli con le madri, e impongono ai padri assegni di mantenimento impossibili da onorare, fino a ridurli im miseria. Oltre ai soldi serve un cambio culturale nei tribunali". Per Alessandro Sartori, presidente dell'Aiaf, associazione italiana avvocati della famiglia, il vero problema è però l'impunità: "I processi aumentano, ma la realtà è che quasi mai gli "inadempienti" finiscono in carcere. E per le vittime l'unica strada è quella della battaglia legale...".
Padre accusato di abusi sessuali. I figli 15 anni dopo: «Tutto inventato». L’uomo venne condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere. «Menzogne dettate da nostra madre che si stava separando», scrive “L’Ansa” su “Il Corriere della Sera”). «Quello che io e mio fratello avevamo detto su mio padre erano invenzioni dettate da mia madre che lo voleva allontanare»: è una ritrattazione a distanza di anni quella di due ragazzi di 21 e 24 anni, Michele e Gabriele, figli di un 46enne sardo, condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere per abusi sessuali proprio sui due figli. Si tratta di una vicenda consumatasi tra la Sardegna, terra d’origine della famiglia, e Brescia, dove padre, madre e i due figli si erano trasferiti, dove hanno abitato per anni e dove sono state depositate le prime denunce nei confronti del genitore. Fatti avvenuti «nell’ambito di una separazione coniugale e in particolare segnati da un’accesa conflittualità tra genitori e un’aspra battaglia per l’affidamento dei figli», scrivono i giudici del tribunale di Oristano che hanno condannato il padre 46enne, oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Michele e Gabriele all’epoca dei fatti avevano 9 e 12 anni. «Le indagini mediche non potevano dare certezza sull’abuso», hanno scritto tre periti nominati nel tempo dai tribunali di Brescia e Oristano. Nel primo processo gli imputati erano sette; il padre dei due giovani e sei parenti paterni. Questi ultimi assolti per non aver commesso il fatto. «Agli atti ci sono solo le dichiarazioni di due bambini e nessun’altra prova contro mio padre. Nessuno ci ha mai chiesto di raccontare la nostra verità», racconta oggi il figlio più grande, Gabriele, che, come il fratello, ha alle spalle diversi anni passati in alcune comunità del Bresciano. Proprio uscendo da una comunità nel 2009 lasciò agli educatori un memoriale della sua vita dove spiegò che le accuse mosse nei confronti del padre erano state invenzioni. «Per togliere di mezzo papà, mia madre ha cominciato a imbottirci di menzogne, cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai» è uno dei passaggi delle 42 pagine di memoriale. In quell’anno era in corso il processo in appello del genitore, ma nessun educatore portò all’attenzione il diario di Gabriele, che ora è stato invece allegato alla richiesta di revisione del processo presentata alla Corte d’appello di Roma dal legale del padre condannato, l’avvocato Massimiliano Battagliola. «La clamorosa ritrattazione a distanza di anni equivale a una nuova prova e anche il memoriale che abbiamo ritrovato è un elemento assolutamente nuovo», spiega l’avvocato bresciano, che mercoledì incontrerà nel carcere di Sassari l’uomo condannato per abusi sui figli e che ora spera di poter riscrivere la sua storia giudiziaria.
L’avvocato del "padre orco": “Dura stare in carcere da innocenti”, scrive Francesca Mulas su “Sardinia Post”. Una famiglia distrutta, un padre accusato di abusi sessuali dai figli, due bambini oggi diventati adulti che si portano dietro un’esperienza terribile: la vicenda di Saverio, oggi 46 anni, richiuso nel carcere di Bancali con la condanna a nove anni di reclusione, è stata segnata dalle accuse dei figli Gabriele e Michele, all’epoca 9 e 12 anni. A distanza di dodici anni dai fatti, e a sei dal processo, la verità decisa dai giudici potrebbe essere riscritta: secondo nuove rivelazioni quelle accuse erano completamente false e i due ragazzini avrebbero inventato tutto, spinti alla falsa testimonianza dalla mamma all’interno di una situazione familiare tesa e conflittuale. A dare la clamorosa notizia oggi è Massimiliano Battagliola, avvocato di Brescia che chiederà alla Corte d’Appello di Roma di rivedere il processo: cosa accadde veramente in quella casa di Brescia dove Saverio, emigrato sardo, viveva nel 2003 insieme alla moglie e ai due figli Michele e Gabriele, sta scritto nelle pagine di un diario che Michele consegnò qualche anno fa agli educatori della comunità dove ha vissuto fino alla maggiore età. Il memoriale non fu mai preso in considerazione mentre il processo era ancora in corso, eppure le parole di Michele, oggi 24 anni, avrebbero potuto scagionare completamente il padre: “Per togliere di mezzo papà mia madre ha cominciato ad imbottirci di menzogne – ha scritto il ragazzo – cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai”. Una verità diversa che ora i giudici romani dovranno appurare: l’avvocato Battagliola sta preparando il dossier per la revisione del processo, sarà consegnato tra una decina di giorni. “Stiamo lavorando con grande attenzione a un copiosissimo ricorso – sottolinea l’avvocato dell’uomo – la parte integrante del fascicolo è il memoriale che Michele ha consegnato sei anni fa ai suoi educatori e mai messo agli atti del processo, ma ci saranno anche nuove indagini difensive e nuove testimonianze, in primis quelle dei ragazzi che da accusatori sono diventati testimoni. A quell’epoca ci furono indagini molto accurate, con 75 testimoni interrogati, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, ma alla fine furono le accuse dei figli che convinsero i giudici a condannare il padre, accuse che pure tra tante perplessità vennero interpretate come vere. Oggi invece i ragazzi riferiscono che erano stati spinti dalla mamma a dire cose mai accadute”. In quel processo ci furono sette imputati: tutti assolti i sei parenti di Saverio, unica condanna la sua, undici anni in primo grado e nove stabiliti dalla Corte d’Appello di Cagliari. Oggi Saverio, 46 anni, si trova rinchiuso nel carcere sassarese di Bancali: “Lo vedrò mercoledì – prosegue Battagliola – è un uomo di grande coraggio perché affrontare tutto questo sapendo di essere innocente non è facile. È fiducioso sulla eventualità di una revisione della condanna. I figli? Gli stanno vicino: da tempo, da quando cioè hanno compiuto 18 anni, sono corsi da lui per stargli accanto, per lui è una grande consolazione. Le vittime di questa storia sono tre: Saverio e i suoi due figli, spinti a mentire dalla madre. Oggi per fortuna la verità è venuta alla luce, non sarà facile ma speriamo di riuscire a dimostrarlo davanti a un tribunale. Se la revisione sarà accettata forse sarà davvero la fine di un incubo”.
Lo psicoterapeuta: “Il potere enorme delle madri sulla mente dei bambini”, continua Francesca Mulas. È normale che una madre riesca a condizionare due ragazzini al punto da convincerli di cose terribili, tanto terribili da mandare in galera il padre con una condanna per abusi sessuali? È quello che è successo a Gabriele e Michele, da bambini accusarono il genitore Saverio di violenza su di loro, ora che sono maggiorenni la verità che raccontano è ben diversa. Quelle accuse, dicono oggi, erano solo menzogne, instillate da una madre che cercava di metterli contro il padre. Marcello Dessena, psicoterapeuta cagliaritano, non si stupisce: è difficile trovarsi davanti a casi così gravi ma la manipolazione dei genitori verso i figli può arrivare al punto di far davvero vedere altre realtà: “Un adulto, che ci piaccia o no, ha un potere enorme sui figli, e l’adulto madre ne ha ancora di più. E non è forse attraverso la madre che i figli vedono il padre? Con lei, soprattutto durante l’infanzia, c’è un legame profondissimo, mentre nella maggior parte dei casi il padre è quasi uno sconosciuto, ed è la madre che spiega ai bambini chi è il loro padre; è attraverso lei che si costruisce la figura paterna. In questa situazione, con due genitori in pesante conflitto, i due bambini hanno ricevuto dentro di sé emozioni contrastanti: la verità che conoscevano e quella mostrata dalla madre, una condizione difficilissima da reggere cognitivamente e affettivamente”. La vicenda che ha portato in carcere Saverio, principali accusatori i suoi bambini di 9 e 12 anni, ne sarebbe la prova: da un lato un padre come tutti, dall’altra l’ “orco”’ capace di azioni terribili nei loro confronti: “La mamma ha avuto questo potere di metterli contro l’altro genitore, facendo violenza sulla visione che i figli avevano di lui, ma alla fine la verità mostrata dalla mamma ha avuto il sopravvento: non è successo in un attimo ma in un periodo di tempo lungo, con sguardi, accenni, parole e mezze parole che hanno portato a costruire un ritratto del padre diverso da quello che era in realtà”. Difficile tornare alla vita normale, ora: Massimiliano Battagliola, legale di Saverio, 46 anni, rinchiuso nel carcere di Bancali per scontare nove anni di pena, sta preparando un ricorso per chiedere la revisione del processo che tenga conto delle nuove verità raccontate da Michele e Gabriele. Se anche la richiesta verrà accolta e se alla fine di tutto l’uomo verrà riconosciuto innocente, i due ragazzi porteranno per sempre con sé un grande senso di colpa. “A livello razionale sanno di essere stati manipolati, ma a livello emozionale è difficile accettarlo e farsene una ragione. Sono convinto che il padre e i figli potranno recuperare il rapporto, ma ci vorrà probabilmente un aiuto psicologico per i ragazzi perché da qualche parte sentiranno il senso di colpa per quello che è successo”.
Per il diritto dei bambini a non essere coinvolti in conflitti fra genitori e false accuse.
Padri separati, i genitori "invisibili". I padri, in Italia, non esistono. Non sono raccontati dalla tv e dal cinema. La loro presenza non è contemplata nemmeno dalle istituzioni. E solo 4 italiani su 100 ottengono il congedo di paternità, scrive Giovanni Molaschi su “Panorama”. Tra l’Italia e l’Europa esiste una separazione. Il continente investe sulla famiglia non contemplata dal bel paese. Il 25% dei padri, in Germania, richiede il congedo parentale e posticipa il ritorno al lavoro per accudire la propria prole. In Italia, invece, il patrimonio delle famiglie è amministrato soprattutto dalle donne di casa. Secondo una recente inchiesta condotta da Pianeta Mamma, solo 4 italiani su 100 possono provare ad essere padri a tempo pieno. Gli uomini, nel nostro paese, non hanno le possibilità. Non esiste nemmeno un immaginario. In tv nessuna fiction racconta le storie dei figli e del loro futuro gestito da un genitore maschio. Anche al cinema i padri sono centellinati. Dall’uscita di Anche libero va bene, film che raccontava la storia di una famiglia senza madre, sono passati sette anni. I padri, in Italia, non possono mettersi alla prova. La loro presenza non è prevista. «Il telefono dell’associazione Padri Separati - evidenzia la presidente Tiziana Franchi - suona nei week end, durante i festivi o in estate. Sono stata eletta nel 2010. Da vent’anni faccio parte di questa associazione fondata da quattro padri. Sono figlia di separati e ho divorziato da mio marito. Capisco i problemi delle persone che iniziano una separazione». L’associazione Padri Separati ha aiutato Paolo. “Il mio matrimonio è durato 16 anni. È stata mia moglie a chiedere la separazione. Non mi amava più. Non mi aveva mai amato”. La donna, a Paolo, ha chiesto tutto: la casa, i figli, il mantenimento. “Credeva, come molti ex mogli, di potersi permettere certe richieste. Il giudice, donna, ha previsto per me un assegno. Questo denaro serve ai miei figli (15 e 17 anni) che vivono con me. I ragazzi sono stati ascoltati da una psicoterapeuta”. La paternità di Paolo è stata promossa da possibili madri. “Anche l’avvocato che ha seguito la mia causa è una donna”. Il percorso dell’uomo è un’eccezione. “Nei tribunali, sottolinea Franchi, si pensa ancora che un figlio possa essere affidato solo alla madre. La famiglia, negli ultimi anni, è cambiata. I padri si dedicano di più ai figli. Durante la separazione, però, la storia maturata prima della rottura scompare. Improvvisamente un uomo smette di essere il buon genitore che è sempre stato”. I problemi non nascono dall’educazione. Le difficoltà vere sono prodotte dall’economia. “Si passa, racconta Paolo, da due stipendi a uno”.“Secondo alcuni padri di Aps, nota Franchi, il mantenimento previsto dal giudice non gli permette di essere dei buoni genitori. Non riescono più a fare i regali extra richiesti dalle ex mogli. La crisi, inoltre, ha complicato tutto. I risparmi dei nonni, oggi, servono per il sostentamento del singolo. Prima, invece, potevano essere utilizzati per migliorare l’alloggio dei padri. Una casa non adeguata compromette il diritto di visita”.
Il dramma della separazione dai figli: di questo parla il libro "Il Delirio e la speranza. Storie di padri separati", edito da Erga di Genova, la prima raccolta pubblicata in Italia di racconti costruiti traendo spunto dalle vive esperienze di padri vittime di separazioni conflittuali. Secondo un'indagine condotta da Gesef (Associazione genitori separati dai figli) su 26.800 soggetti, il 75% degli uomini in fase di separazione subisce mobbing giudiziario e l'89% subisce la minaccia dalla coniuge di non poter vedere i figli. Il libro nasce dall'incontro tra le associazioni Mater matuta e Voltar pagina, e prende forma con il patrocinio ed il fattivo appoggio dell'Associazione Papà separati. Le testimonianze dei padri sono state rielaborate in chiave letteraria, facendo di ogni racconto un caso esemplare. "Il Delirio e la speranza" comprende 11 racconti in 252 pagine.
Per Sos Stalking si tratta di una vera e propria piaga sociale questa, che rappresenta uno dei cavalli di battaglia delle associazioni a tutela dei padri separati che ancora oggi si battono per rivendicare la presunta disparità di trattamento di alcuni magistrati che tenderebbero ad agevolare quasi sempre la donna arrivando perfino a chiudere un occhio davanti a storie palesemente artefatte. Il teorema è semplice: "Se non mi concedi quello che chiedo, ti denuncio". Un meccanismo così collaudato è comprovato, peraltro, dall'elevato numero di mogli che, ottenuto il proprio scopo processuale, ritira la denuncia con la più assoluta noncuranza delle risorse spese dagli organi di polizia (e di conseguenza dalla collettività) per indagare su reati inesistenti. "Certo, ci si aspetta che, ricevute le rassicurazioni da una presunta vittima circa l'intervenuta riappacificazione, un pubblico ministero sia portato a chiedere l'archiviazione, ma la certezza matematica non esiste e in astratto potrebbe accadere che lo sfortunato marito venga condannato ugualmente senza alcuna colpa", conclude Puglisi su “Libero Quotidiano”.
«I padri separati sono vittime di mogli e giudici di parte», scrive Fabrizio Graffione su “Il Giornale”. «Mi hanno separato dal figlio. Mi hanno tolto la casa. Ogni mese tolgono soldi sempre e solo a me». Ogni storia di violenza sull'uomo e padre, è pressoché uguale, come si legge anche su www.papaseparatiliguria.it, il portale dei «disperati», vittime di mogli e anche di magistrati, che hanno manifestato davanti al «palazzaccio» genovese. Accuse infondate, le più abbiette. Lungaggini giuridiche. Udienze senza esito. Muri di gomma. Assistenti sociali o giudici quasi sempre di parte o negligenti. «Tutti ne parlano, ma nessuno interviene. È un male trasversale» spiegano le autrici e gli autori delle associazioni genovesi Voltar Pagina e Mater Matura, che hanno pubblicato, edito da Erga, il volume da oggi in libreria «Il delirio e la speranza», undici racconti di padri separati: 252 pagine che si leggono d'un fiato, indignano e fanno venire brividi di paura. Secondo un'indagine Gesef, il 75 per cento dei papà in fase di separazione subisce mobbing giudiziario, l'80 per cento delle denunce di maltrattamenti da subito palesemente false e strumentali, dopo anni di lotta a colpi di carte bollate risulta giuridicamente falso, il 90 per cento dei genitori maschi subisce la minaccia di non poter più vedere i figli. «È la prima, drammatica raccolta di esperienze di padri ingiustamente allontanati dai figli - spiegano alla Erga edizioni -. Nel dramma dei figli è l'uomo a giocare il ruolo del reietto allontanato da casa, costretto a versare prebende spesso insostenibili a donne garantite da una legislazione farraginosa e vetusta». C'è pure chi da anni arresta criminali e difende i genovesi, come il maresciallo dei carabinieri Fabrizio Adornato, che ieri è arrivato pure a fare lo sciopero della fame davanti al Tribunale. «Negli ultimi due anni e mezzo - racconta - ho potuto vedere mia figlia soltanto una mezza dozzina di volte. Ho denunciato i magistrati. Nessuno mi ha controquerelato. In una denuncia, l'ex moglie si lamentava che, testualmente, avevo consegnato mia figlia a mia madre. Nessun genitore dovrebbe riferire della prole come se fosse un pacco postale. La mia bambina è un essere umano che ha bisogno di amore, cure, attenzione e non è una cosa o una merce di scambio». Accanto a lui, ieri ci sono stati altri «Papà separati della Liguria». «A Genova siamo migliaia. La mia ex moglie mi ha accusato per maltrattamenti - spiega Ambrogio Barbiero, 61 anni - facevo il saldatore, ma ora sono disoccupato. Cacciato di casa come un delinquente e costretto a versare 250 euro al mese appena faccio un lavoretto. Mia sorella pensionata mi accoglie e mi dà da mangiare, altrimenti sarei stato costretto a rubare. Da taluni magistrati non ho ricevuto nessuna pietà». Ormai la tecnica usata dalle mogli è quasi sempre la stessa: denunciare l'uomo per maltrattamenti, chiedere la separazione, ottenere dal Tribunale il riconoscimento e un vantaggio economico. È la Genova dei cornuti e mazziati.
Le streghe son tornate e vanno a caccia degli ex papà separati, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Riprende la discussione, in Senato, della legge che mira a migliorare l'"affidamento condiviso" dei minori nelle separazioni. Femministe, avvocati e giudici cerca di affossare le novità. La relatrice Gallone: "Ce la faremo". Chi ha ancora paura del maschio? Chi crede ancora al lupo cattivo? Era da tempo che la parte della sinistra più trinariciuta non riusciva a mettere in campo un'alleanza così anacronistica: attempate femministe in servizio permanente effettivo, avvocati sedicenti «democratici», giornalisti ridotti a supini megafoni di una disinformazione degna dello stalinismo applicato al diritto di famiglia. A raggruppare questo coacervo di interessi più che sospetti è una legge in discussione al Senato. Legge che pur essendo una battaglia di civiltà, viene avversata, all'unisono, dalla potente lobby degli avvocati che temono di perdere la loro gallina dalle uova d'oro, da giudici che vivono arroccati nell'eremo intangibile della propria discrezionalità assoluta, da associazioni di donne che rifiutano la realtà e sembrano inalberare il grido che le rese tristemente celebri (tremate, tremate, le streghe son tornate!). Son tornate. E con perfetta tempestività, alla ripresa della discussione sulla legge che tenta di migliorare le norme sull'«affido condiviso», si sono manifestate in due incredibili articoli ricchi di bugie, in contemporanea sui siti di Repubblica e Manifesto. Ma che cosa c'è di tanto terribilmente maschilista, nel ddl 957 che viene dibattuto (ormai da tre anni) nella commissione giustizia di Palazzo Madama? La relatrice, Alessandra Gallone (Pdl), non demorde e non si stanca di spiegare - persino di fronte alla disonestà intellettuale dei detrattori - che si tratta di una «battaglia di civiltà»: garantire il diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, anche in caso di separazione. Si tratta, cioé, di migliorare l'applicazione della legge 54 che nel 2006, anche in Italia, ha introdotto il cosiddetto «affidamento condiviso». Negli ultimi anni, in commissione, i senatori hanno cercato di approfondire il tema attraverso un'indagine conoscitiva tra le più minuziose. Sono stati convocati e ascoltati presidenti e operatori dei tribunali per i minorenni, rappresentati della magistratura e dell'avvocatura, docenti universitari e psicologi, associazioni di genitori separati e persino di nonni bistrattati. Mai fu fatto tanto, con dispendio di risorse, prudenza e accuratezza (nonché qualche bastone fra le ruote da parte di senatori espressione delle suddette lobbies). Ma la Gallone non vuole fare dietrologie, e si spiega le resistenze con il candore di Biancaneve: «Credo che sia perché l'argomento è molto sentito a livello sociale... La legge 54 del 2006, quella dell'affido condiviso, fu approvata in tempi brevi e in maniera trasversale per adeguare il nostro ordinamento a quello europeo. Così che ha lasciato qualche imperfezione nella sua applicazione. Ed è su questo, che lavoriamo. Altro che voler reintrodurre la patria potestà, come ha scritto qualche malinformato sfidando il senso del ridicolo...». Più che malinformato, malintenzionato, diremmo: nel senso di nutrire la cattiva intenzione di boicottare la legge a ogni costo, non esitando a usare strumentalmente il tema della violenza sulle donne, che nulla ha a che vedere con l'applicabilità dell'affidamento condiviso. Le questioni in ballo sono molteplici e complesse: sintetizzando, la legge del 2006 ha superato i limiti dell'affido condiviso a un solo genitore (di solito la mamma), in base al principio ormai riconosciuto in sede giuridica, psicologica e sociale, che lo sviluppo equilibrato di un minore possa e debba essere perseguito con l'apporto di entrambi gli ex coniugi. Una «bigenitorialità» che, trattandosi spesso di parti in conflitto, finisce per essere disattesa: tanto dai giudici, quanto dai coniugi affidatari (ancora oggi, per oltre il 95 per cento, le mamme). Che cos'è che non va, nell'applicazione della legge numero 54? «I punti critici - dice la Gallone - riguardano il concetto di pariteticità del tempo che i figli trascorrono con l'una o con l'altro genitore, la possibilità di introdurre il sistema del doppio domicilio, l'introduzione del mantenimento diretto dei figli, per garantire l'effettiva partecipazione di entrambi i genitori alla vita dei figli». Già, perché se in teoria è facile dire che i diritti sono pari, nella vita quotidiana un genitore (l'affidatario) mantiene il mano il pallino (dispone del denaro, stabilisce i tempi, grazie al mantenimento della casa conta su una situazione di vantaggio oggettivo). L'altro, di solito l'ex papà, ormai in miseria (come da ultimo rilevato con dati drammatici anche dall'Istat), deve riuscire a conciliare il lavoro e le difficoltà di vita con quanto stabilito dalla ex moglie. Senza poter contare neppure sulla possibilità di gestire una quantità minima di denaro, mettiamo per fare un regalino-extra, che aiuti a costruire il rapporto con il bambino. La legge del Senato, però, va ancora oltre, essendo - una volta tanto - in sintonia con i tempi. Dunque, vorrebbe tener conto anche dell'affettività dei nonni (di solito paterni), spesso tagliati totalmente fuori dalla vita del bambino per difficoltà pratiche e tempi risicati. Ancora: vorrebbe introdurre l'obbligatorietà della mediazione familiare, uno strumento utile per prevenire e sanare le tante controversie minime, che finiscono per vedere una parte soccombere soltanto per la difficoltà a farsi valere in sede legale. Infine, punto sul quale le femministe hanno perso la trebisonda, il ddl timidamente vorrebbe riconoscere quella «sindrome di alienazione parentale» (in medicina: Pas), che spesso i padri e le loro nuove compagne hanno imparato a riconoscere. Una sindrome che vede il minore diventare man mano diffidente, taciturno, prevenuto, irritabile, incapace di costruire un rapporto con uno dei due genitori, perché l'altro persegue subdolamente una persistente e velenosa opera di denigrazione. Come si vede, nulla di trascendentale. Difesa del minore dalle subornazioni degli adulti. Nulla che possa minare quella sorta di supremazia naturale delle mamme nelle separazioni. Ma perché tanto terrore? Che cosa temono i paladini del diritto materno a senso unico? Stiamo esagerando? No. Basti l'attacco dell'articolo uscito su Repubblica.it per capire il carico da novanta messo in canna: «Donne trattate come bestie dai compagni. Bambini maltrattati dai loro padri... Due disegni di legge, in discussione oggi alla Commissione Giustizia del Senato, rendono obbligatorio il ricorso alla mediazione familiare anche in casi di padri/mariti o partner violenti... La Fondazione Pangea onlus mette sotto accusa questi due ddl, spiegando che "ricordano la patria potestà"...». Balle spaziali. Argomenti strumentali buttati lì a mazzo. E l'articolo prosegue, sull'introduzione della Pas: «L'associazione ricorda che questa "sindrome" viene spesso erroneamente utilizzata nei tribunali e dai servizi sociali in Italia per decretare il diritto dell'abusante, in casi di separazione per violenza agita dal partner sulla madre e sui figli, ad ottenere una mediazione forzata e poi l'affido condiviso dei figli". "È bene sottolineare che i bambini e le bambine che hanno un padre violento stanno bene in sua assenza: solo così possono ricostruire un futuro sereno assieme alla madre", scrive l'associazione...». Come si vede, una miscela incredibile di acredine e falsità, basata sul (falso) presupposto che le separazioni verrebbero poste in atto per violenze e maltrattamenti dei mariti nei confronti delle mogli. E che i padri violenti avrebbero accesso alla mediazione familiare. Ma quando? Ma dove? In che mondo vivono, questi giapponesi nella giungla del femminismo? La guerra però è finita. Che esista ancora il fenomeno della violenza sulle donne, c'è qualcuno che lo mette in dubbio? E che c'azzecca con la normativa che regola le separazioni (il più delle volte determinate da ben altri motivi)? Più interessante rilevare, allora, i nessi tra queste prese di posizione e, per esempio, l'interesse della lobby degli avvocati: con l'obbligatorietà della mediazione, addio cospicui assegni per le infinite beghe tra coniugi. E addio anche al dispotismo dei giudici, capaci di decidere con leggerezza e pregiudizio sulla vita di minori e papà (o mamme che siano). Senza mai pagare per le famiglie distrutte: più da loro, che da una triste separazione tra coniugi.
Le femministe per la “parità genitoriale” dalla parte dei padri separati. Intervista di Sergio Rizza su “Metronews” ad Adriana Tisselli del Movimento Femminile. Mi consenta a….Adriana Tisselli, presidente e fondatrice del Movimento Femminile per la Parità Genitoriale (donnecontro.info).
Dopo il caso del piccolo Lorenzo conteso a Padova, lei ha biasimato la disapplicazione dell'affido condiviso e le “percentuali bulgare” con cui la madre è indicata come genitore collocatario prevalente, rinunciando così a vita e lavoro. Al padre, poi, si chiede l'assegno di mantenimento anziché l'obbligo di accudire i figli... Padri deresponsabilizzati e madri sovraccariche, è così?
«Non proprio. La legge sull'affido è letta come una violazione dello status quo, quello del vecchio affido esclusivo. In tribunale si applica un'altra legge, la prassi. Quanti discorsi sui diritti dei bimbi: in realtà sono violati, se un genitore è ridotto a visitatore del weekend.»
Non sembra un derby tra padri separati e madri separate?
«Peggio, è un derby tra donne. Da un lato ci sono le ex mogli che aspirano a rifarsi una vita ma restano ingabbiate nella vecchia immagine della donna del focolare, mentre l'uomo è il cacciatore nella giungla; e dall'altro ci sono donne "per male" che si accontentano dell'assegno...»
Tifate per i padri separati...
«Li sosteniamo. Il femminismo predica l'indipendenza della donna. Chiuderla in casa con l'assegno è una finta tutela. Si arriva al giudice che chiede i redditi della nuova compagna dell'ex marito. Alla quale così tocca mantenere il nuovo compagno e la sua ex moglie!»
Quale modello per l’Italia? Il femminismo buono di Vezzetti ed il femminismo cattivo di Faldocci, scrive .
Il pediatra e scrittore Vittorio Vezzetti ha descritto in un libro di successo ed in audizioni al Senato l’esperienza scandinava in materia di affido condiviso: tutelando il diritto dei bambini a venire accuditi direttamente da entrambi i genitori (e quindi doppia residenza e mantenimento diretto) si è abbattuta la conflittualità fra gli ex coniugi, con soddisfazione non solo dei papà e delle mamme che possono emanciparsi costruendo una propria carriera lavorativa. Ma soprattutto dei bambini, come dimostra lo studio in merito pubblicato su una delle più importanti riviste pediatriche mondiali, finalizzato a verificare se il coinvolgimento paterno (concettualizzato come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità) abbia influenze positive sullo sviluppo della prole. Gli studiosi hanno analizzato retrospettivamente 24 studi svolti in 4 continenti diversi e con durate dai 10 ai 15 anni. La conclusione è che, dopo aver depurato i dati da variabili socioeconomiche, in 22 studi su 24 si è avuta l’evidenza degli effetti benefici derivanti dal coinvolgimento di ambedue le figure genitoriali. In particolare si è visto che il coinvolgimento del padre migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, diminuisce lo svantaggio economico e la delinquenza giovanile, riduce lo svantaggio economico nei ragazzi. Tale affermazione è stata scientificamente validata con intervallo di confidenza statistica del 99.5%. Un vero affido condiviso è inoltre un importante fattore di prevenzione dell’Alienazione Genitoriale, nella quale il genitore prevalente fa il lavaggio del cervello al figlio fino a fargli odiare l’altro genitore, compiendo un vero e proprio stupro psichico.
Purtroppo per i bambini italiani, in Italia ha preso campo il femminismo metaforicamente simboleggiato dall’avvocata d’assalto Vajassa Faldocci, la quale prosaicamente sostiene che la donna preferisce intascare mantenimenti e farsi assegnare case per sé e per i figli piuttosto che lavorare, rendendo florida la sua attività professionale di “divorzista nel campo delle false accuse di violenza domestica”. Con questo femminismo dell’odio di genere, dal 1975 ad oggi in Italia l’affido aprioristico alla madre è salito fino al 92%, mentre la percentuale di donne nelle professioni e nella vita pubblica è rimasta bassa. Ma soprattutto, tale pratica ha devastato generazioni di bambini: su un milione di bambini italiani coinvolti in separazioni, 200mila risultano affetti da disturbi psicologici o psichiatrici: una incidenza del 130% maggiore che nei bambini non coinvolti in separazioni. Che la colpa sia non della separazione, ma del sistema che la gestisce, è confermato dal fatto che tale incremento non si verifica nei paesi a noi vicini, che avendo introdotto il divorzio fin dal 1792 hanno imparato a tutelare i bambini: basta passare dalla Sardegna alla Corsica ed i bambini affetti da tali problemi si dimezzano. Dove il femminismo cattivo varca il confine della criminalità è con il sistema delle false accuse, ovvero delle calunnie pedo-femministe. Le cifre sono allucinanti: ogni 100 accuse di pedofilia contro padri separati, 92 sono false, ed causano ai bambini una devastazione pari a quella degli abusi realmente esperiti, come rivelato nello studio scientifico “Disturbi psicopatologici e fattori di stress in procedimenti penali relativi all’abuso sessuale”. È naturale osservare che un sistema che per proteggere 8 bambini ne devasta 92 arricchendo avvocati e sedicenti esperti abusologi fa più danni della pedofilia. Mentre 32mila bambini italiani sono oggi detenuti in case famiglia, mentre 25mila bambini ogni anno perdono i contatti con il loro papà, mentre la depravazione umana si spinge fino a cercare di negare che l’Alienazione Genitoriale è un abuso sull’infanzia, grande successo ha avuto la manifestazione organizzata dal Movimento Femminile per la Parità Genitoriale per dire basta a tutto ciò, grande popolarità sta riscuotendo l’impegno della deputata Rita Bernardini per il femminismo buono e quindi per una riforma verso un vero affido condiviso.
PARLIAMO DI AMBIENTE, FRODI ALIMENTARI ED ANIMALI.
PARLIAMO DI TERREMOTI.
TERREMOTO E STORIA. I terremoti più gravi in Italia, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 25 agosto 2016. Dal terremoto di Messina e Reggio, fino a quello dell’Emilia del 2012, passando per il sisma che ha distrutto l’Aquila nel 2009, ecco gli eventi sismici più gravi avvenuti in Italia a partire dal 1908.
- 28 dicembre 1908: un terremoto di magnitudo 7,2 rade al suolo Reggio Calabria e Messina e tutti i villaggi nell’area, causando quasi 100.000 morti. Si tratta della più grave sciagura naturale in Italia per numero di vittime e per intensità sismica.
- 13 gennaio 1915: un sisma di magnitudo 6,8 distrugge Avezzano e tutto il territorio della Marsica. I morti sono circa 30.000.
- 26 aprile 1917: Umbria e Toscana sono colpite da un terremoto di magnitudo 5,8. Distrutte Monterchi, Citerna e Sansepolcro. Danni a tutti i centri urbani dell’alta valle del Tevere. Tra i 30 e 40 i morti.
- 7 settembre 1920: Sisma di magnitudo 6,5 in Garfagnana e Lunigiana, in Toscana, con epicentro a Fivizzano. 300 i morti.
- 23 luglio 1930: terremoto di magnitudo 6,7 in Irpinia, in Campania: 1.425 morti.
- 15 gennaio 1968: Nella Valle del Belice, in Sicilia, vengono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 6,1 Gibellina, Poggioreale, Salaparuta in provincia di Trapani, e Montevago in provincia di Agrigento. Le vittime accertate sono 231.
- 6 febbraio 1971: nel Lazio la cittadina di Tuscania viene semidistrutta da un terremoto di magnitudo 4,5. 31 i morti. - 6 maggio 1976: alle 21,00 un terremoto di magnitudo 6,1 nel Friuli provoca circa 1.000 vittime. La zona più colpita è quella a nord di Udine. Ulteriori scosse l’11 e 15 settembre.
- 19 settembre 1979: un terremoto di magnitudo 5,9 colpisce la Valnerina, provocando gravi danni a Norcia, Cascia e le aree limitrofe, tra Umbria e Marche. Danni a Rieti ma anche a Roma, dove subiscono lesioni il Colosseo, l’Arco di Costantino e la colonna Antonina. Cinque i morti.
- 23 novembre 1980: alle 19,38 l’Irpinia viene sconvolta per 90 secondi da un terremoto di magnitudo 6,5. Colpita un’area di 17 mila km quadrati tra Campania e Basilicata. I morti sono 2.914.
- 7 e 11 maggio 1984: Sisma di magnitudo 5,2 in Molise, Lazio e Campania, con epicentro a San Donato Val di Comino. 7 i morti.
- 13 dicembre 1990: Sisma di magnitudo 5,1 a Santa Lucia nella Sicilia sud-orientale. Gravi danni ad Augusta e Carlentini e nella Val di Noto. 16 le vittime.
- 26 settembre 1997: Un terremoto di magnitudo 5,6, seguito da altre forti scosse nei giorni successivi colpisce di nuovo l'Umbria e le Marche: danneggiate Assisi, Colfiorito, Verchiano, Foligno, Sellano, Nocera Umbra, Camerino. 11 i morti.
- 31 ottobre-2 novembre 2002. Terremoto di magnitudo 5,4 in Molise e Puglia. A San Giuliano di Puglia crollata una scuola dove muoiono 27 bambini. In tutto i morti sono 30.
- 6 aprile 2009: Alle 3,32 L’Aquila e le zone circostanti sono colpite da un sisma di magnitudo 6,3. La scossa principale è seguita da decine di repliche di assestamento. 309 morti e 23 mila edifici distrutti.
- 20 maggio 2012: Alle 4.04 un sisma di magnitudo 5,9 colpisce per venti secondi le province di Modena e Ferrara, provocando la morte di sette persone. La scossa viene avvertita in tutto il Nord e parte del Centro Italia. Il sisma, che era stato preceduto da due forti scosse nel gennaio precedente, si ripete il 29 maggio con una magnitudo 5,8 e il 3 giugno con una nuova forte scossa da 5,1. In tutto sono sette i terremoti con magnitudo superiore a 5 e provocano complessivamente 27 morti e danni ingenti in tutta l’area.
- 24 agosto 2016: È di 297 morti il bilancio del sisma di magnitudo 6 che alle 3,36 della notte ha scosso il centro Italia, devastando una serie di centri tra Lazio, Umbria e Marche. La prima violentissima scossa ha colpito Amatrice, Accumoli (Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno); una seconda di magnitudo 5.4 è stata registrata alle 4,33 con epicentro tra Norcia (Perugia) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata). Le scosse sono state avvertite anche a molti chilometri di distanza, fino a Roma e Napoli. Una devastazione «peggiore di quella dell’Aquila, mai vista una cosa così», è stata la reazione dei soccorritori. Tra le vittime ci sono molti bambini.
Un secolo di terremoti. Da Messina ad Amatrice, scrive Franco Insardà il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Gli eventi sismici più gravi, che hanno sconvolto il nostro paese dal 1908 al 2016. Paesi distrutti, facce tese, occhi persi nel vuoto e richieste di aiuto. Poi gli appelli, i soccorsi e dopo un po' le polemiche. La storia si ripete drammaticamente a ogni terremoto che, purtroppo, da secoli sconvolge la nostra penisola. Dal Friuli alla Sicilia. Improvvisamente i nomi di piccoli paesini come Gibellina, Montevago, Gemona, Conza della Campania, Lioni, Balvano, Massa Martana, San Giuliano di Puglia, Mirandola, Medolla, diventano drammaticamente famosi e familiari agli italiani e all'estero. Oggi tocca ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Passata, poi, la prima onda emotiva si comincia ad analizzare l'intensità della scossa, il luogo dell'epicentro, le zone colpite e poi la pietosa conta dei morti, dei feriti, dei dispersi dei senzatetto. Si fanno i confronti con quello che è successo nelle altre zone, con i finanziamenti stanziati e a che punto è la ricostruzione. E se il terremoto del Friuli, così come quello dell'Umbria e delle Marche, viene ricordato come esempio di efficienza e serietà nell'utilizzo dei fondi per la ricostruzione la stessa cosa non si può dire della Valle del Belice, dell'Irpinia e di San Giuliano di Puglia. Dal 1908 a oggi la lista degli eventi sismici è lunghissima, così come quella dei paesi distrutti e il numero delle vittime è da brividi.
Quel 28 dicembre 1908 una scossa di magnitudo 7,2 della scala Richter fece tremare per 37 secondi l'area dello Stretto di Sicilia. Le scosse e il successivo maremoto rasero al suolo Messina, Reggio e i paesi vicini. Centomila le vittime, 80mila nella sola Messina, su 140mila abitanti.
13 gennaio 1915. Un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la valle del Fucino, distruggendo Avezzano e molti paesi della Marsica, del Lazio e della Campania. Il bilancio fu pauroso 32.160 vittime, su circa 120mila residenti. 9000 solo ad Avezzano su una popolazione complessiva di 11mila abitanti.
24 novembre 1918. Furono cento i morti a Giarre, in provincia di Catania.
29 giugno 1919. Colpita l'area del Mugello con una scossa di intensità 6,2. Circa cento le vittime.
7 dicembre 1920. Una scossa di magnitudo 6,5 con epicentro a Fivizzano, provocò danni nell'area della Garfagnana e oltre 300 morti.
23 luglio 1930. Terremoto notturno nella zona del Vulture. Morirono 1404 persone nelle province di Avellino e Potenza.
30 ottobre 1930. Le Marche, e soprattutto Senigallia, furono interessate da una scossa di 5,9 con 18 vittime.
26 settembre 1933. Grazie a una serie di scosse precedenti le popolazione abruzzesi della Majella furono avvertite e la scossa più forte (5,7 della scala Richter) provocò solo 12 morti.
18 ottobre 1936. L'altopiano del Cansiglio tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone furono interessate da una scossa di 5,9 con 19 vittime.
13 giugno 1948. La zona interessata fu quella dell'Alta valle del Tevere con una serie di scosse. Morì per fortuna solo una donna.
21 agosto 1962. Una serie di scosse, con epicentro tra Montecalvo e Savignano Irpino di 6,2, fecero 17 vittime, ma ad Ariano Irpino l'80% degli edifici furono danneggiati.
15 gennaio 1968. Gibellina, Salaparuta e l'intera Valle del Belice furono interessati da un terremoto di 6,4 di magnitudo. 370 i morti, un migliaio i feriti e circa 70mila i senza tetto.
6 febbraio 1971. Il centro di Tuscania fu parzialmente distrutto: 31 morti.
6 maggio 1976. Alle 21.06 un terremoto di intensità 6,4 sconvolse il Friuli. Il sisma fu avvertito nell'Italia settentrionale e centrale, in Slovenia e Austria. Le vittime furono 989 e 75mila le case danneggiate. Per la prima volta venne organizzata la Protezione civile e in cinque anni la zona fu ricostruita.
19 settembre 1979. Fu la Val Nerina a essere colpita da una scossa di 5,9 di magnitudo, con epicentro a Norcia. I danni più gravi li subirono gli edifici più antichi. Decine i feriti e cinque i morti.
23 novembre 1980. In Irpinia e in Basilicata si registrò il più grave terremoto dopo la Seconda guerra mondiale. Alle 19,34 una scossa di magnitudo 6,9 di circa 90 secondi provocò 2914 morti, 8848 feriti e 280mila sfollati. Dei 679 comuni delle otto province interessate, 508 furono danneggiate. In 36 comuni della fascia epicentrale circa 20mila alloggi andarono distrutti o divennero irrecuperabili. I soccorsi in alcuni casi arrivarono dopo cinque giorni. Dal 7 aprile 1989. Oscar Luigi Scalfaro guidò la Commissione parlamentare d'inchiesta della ricostruzione.
13 dicembre 1990. Un sisma al largo di Augusta, nel golfo di Noto, colpì la provincia di Siracusa, Catania e Ragusa provocò 12 vittime e altre cinque persone morirono d'infarto nei paesi vicini. Gli abitanti protestarono perché si sentirono abbandonati.
15 ottobre 1996. La provincia di Reggio Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,1: due morti e cento feriti.
26 settembre 1997. Il terremoto colpì Umbria e Marche, anticipato da uno sciame sismico, che ebbe inizio il 5 maggio con una scossa di intensità 3,7 e si concluse il 28 giugno 1998. Il 26 settembre una prima scossa fece crollare una casa di due anziani che morirono. La mattina dopo alle 11,40 morirono 9 persone, quattro delle quali sepolte dal crollo delle volte della basilica di San Francesco ad Assisi.
17 luglio 2001 Un sisma di magnitudo 5,2 colpì Merano e interessò la provincia di Bolzano. Due persone furono uccise da una frana e una donna morì d'infarto. Pochi i danni grazie alla solidità degli edifici, molti dei quali in cemento armato.
31 ottobre 2002. San Giuliano di Puglia (Campobasso) rimarrà nella memoria di tutti per il crollo della scuola, dove morirono 27 bambini e una maestra in seguito a una scossa di magnitudo 5,6. In paese ci furono altre due vittime. Sette persone furono indagate e sei, dopo tre gradi di giudici, furono condannate.
6 aprile 2009. Una scossa di intensità 5,8 alle 3.32 provocò vittime e danni a L'Aquila e in molti paesi della provincia. Onna fu quasi rasa al suolo e la Casa dello studente de L'Aquila crollò uccidendo otto ragazzi. In tutto i morti furono 308, i feriti 1600 e 65mila gli sfollati.
29 maggio 2012. La zona compresa fra Mirandola, Medolla e San Felice sul Panaro in Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,8. Il 31 maggio 2012 una nuova scossa di magnitudo 4,0 fu colpita la zona della Bassa reggiana e dell'Oltrepò mantovano. I due eventi sismici principali causarono 27 vittime (22 nei crolli, tre per infarto e due per le ferite riportate).
Nel ’900 un terremoto ogni 3 anni. La schiena fragile del Paese. Dal 1315 gli Appennini sono stati scossi da 148 eventi sismici superiori a 5,5 della scala Richter. E dalla prima casa antisismica di Pirro Ligorio (1570) si discute di regole, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". «La città è stata cancellata di un soffio dalla superficie terrestre. Non esistono rovine; non esiste che un immenso strato di polvere, da cui sbucano strani, esilissimi, quasi trasparenti spettri di mura. Cancellate le case, cancellate le chiese, cancellate le piazze, cancellate le vie. Avezzano non è che un cimitero su cui mani pietose già incominciano a piantare croci». Era il 16 gennaio del 1915. E Umberto Fracchia, sceso nella notte dal treno che lo aveva portato nella cittadina della Marsica epicentro di un terremoto devastante e così vicina all’Aquila e ad Amatrice, aveva la mano che tremava mentre scriveva il suo reportage per «L’Idea Nazionale»: «Non un palmo di terra fu risparmiato: nessuno riuscì a trovar salvezza nella fuga. Quelli che erano in casa ebbero tetti e mura addosso; quelli che erano per le vie furono schiacciati tra il doppio crollo degli edifici che avevano ai due lati. La città era costruita di fango; è ritornata fango». È passato un secolo, da allora. E gli Appennini non hanno mai smesso di dare spaventosi scossoni. La storica Emanuela Guidoboni, che con Gianluca Valensise e altri studiosi ha raccolto in vari libri come «L’Italia dei disastri, dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013» la memoria storica delle nostre calamità naturali (aggravate da superficialità, incuria, sciatteria amministrativa e legislativa) ha fatto i conti. Da far accapponare la pelle. La fragile spina dorsale del nostro Paese, dal 1315 quando un sisma appena un po’ meno grave di quello del 2009 devastò l’area dell’Aquila, ha fatto segnare (come spiega la mappa elaborata dal ricercatore Umberto Fracassi) 148 terremoti superiori a 5,5 gradi della scala Richter. E quasi tutti superiori all’VIII° grado di «intensità epicentrale». Per capirci: di uno scossone non basta sapere la magnitudo. Occorre anche conoscere la quantità di danni che ha prodotto. Un calcolo complicatissimo che si può riassumere così: con l’ottavo grado di intensità epicentrale crolla o diventa inabitabile il 25% degli edifici, con il nono la metà, con il decimo l’intero patrimonio immobiliare. L’undicesimo è l’apocalisse. Come a Messina nel 1908. In pratica, da quando la scienza ha potuto studiare più approfonditamente le attività sismiche e più ancora da quando sono state conservate precise memorie storiche dei disastri, la catena che, come scrisse Arrigo Benedetti, «si stacca dal colle di Cadibona, arriva in Calabria, si immerge e riaffiora in Sicilia», ha dato 19 pesantissimi strattoni nel 1600, 33 nel 1700, 29 nel 1800, 30 nel 1900 e già sei, con il cataclisma del 23 agosto scorso, in questo primo scorcio del secolo. In pratica, gli Appennini cantati da Dante Alighieri come monti di grande fascino ma impervi («Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che indarno vi sarien le gambe pronte») sono stati squassati da improvvisi e terrificanti sussulti, mediamente, una volta ogni tre anni. La catena che scende dal Nord fino all’estremo Sud offre panorami di grandissima bellezza. E prima di Francesco Guccini, che lì «tra i castagni» ha vissuto gli anni più intensi della vita coltivando un amore sconfinato («La mia è una montagna in cui la cima più alta arriva sui 2100 metri, dove non c’è roccia, dove i boschi di castagno e faggio coprono tutto fino a duemila metri») hanno affascinato molti viaggiatori. Come Wolfgang Goethe. «Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato», scrisse nel suo «Viaggio in Italia». Spiegando che «se la struttura di questi monti non fosse troppo scoscesa, troppo elevata sul livello del mare e così stranamente intricata; se avesse potuto permettere al flusso e riflusso di esercitare in epoche remote la loro azione più a lungo, di formare delle pianure più vaste e quindi inondarle, questa sarebbe stata una delle contrade più amene nel più splendido clima, un po’ più elevata che il resto del Paese. Ma così è un bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l’una dell’altra; spesso non si può nemmeno distinguere in quale direzione scorra l’acqua. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più regolari e più irrigue, si potrebbe paragonare questa regione alla Boemia; con la differenza che qui le montagne hanno un carattere sotto ogni aspetto diverso. (…) I castagni prosperano egregiamente; il frumento è bellissimo e le messi ormai verdeggianti. Lungo le vie sorgono querce sempre verdi dalle foglie minute; e intorno alle chiese e alle cappelle agili cipressi». Montagne stupende, montagne inquiete. Maledette troppe volte, giù per i secoli, dai nonni dei nostri nonni. Costretti a ricostruire ciò che era stato raso al suolo. Eppure già dal 1570, quando Pirro Ligorio presentò la prima casa «antisismica» dopo il terremoto di Ferrara, i governanti più accorti avrebbero dovuto sapere che il rischio andava affrontato con regole precise. Tant’è che nel 1783 la Commissione Accademica napoletana denunciava che la popolazione calabrese, pur «avvezza alle scosse di tremuoti», non capiva che occorreva «pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso» mentre «qui si vedeva precisamente il contrario…». Passarono, le borboniche «Normative Pignatelli» che puntavano a mettere ordine nel caos. Ma solo per qualche anno. E quando Pio IX chiese nel 1859 ai suoi ingegneri di predisporre un nuovo piano edilizio per Norcia, prostrata da un sisma, ci fu un braccio di ferro fra le autorità e il Comune. Recalcitrante a rispettare le regole perché vincolavano troppo i proprietari. Si è detto e ridetto anche in questi giorni: occorre una svolta, bisogna adeguare le leggi a una realtà difficile, è necessario intervenire con la prevenzione prima che le catastrofi avvengano… Giusto. Sono passati però 107 anni da quell’aprile 1909 in cui Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto con alcune prescrizioni per le aree a rischio sismico o idrogeologico. Vietava di «costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta». Concedeva qualche deroga ma mai a edifici «destinati ad uso di alberghi, scuole, ospedali, caserme, carceri e simili». Ordinava che i lavori dovessero «eseguirsi secondo le migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera» e proibiva «la muratura a sacco e quella con ciottoli»… Puro buon senso. Eppure un secolo dopo, davanti alle macerie di Pescara del Tronto, Accumoli, Amatrice e le sue contrade, siamo ancora a chiederci: possibile? Possibile che per decenni si siano continuate a costruire case destinate a crollare rovinosamente, magari sotto pesantissimi tetti in cemento armato, al primo dei numerosi terremoti? Il guaio è, spiega Emanuela Guidoboni, che già allora «non furono previste sanzioni. Dal 1909 ebbe sì inizio la classificazione sismica del territorio italiano, ma questa classificazione si faceva solo “dopo”. A disastro avvenuto». Peggio: per decenni «si è proceduto a macchia di leopardo, con vicende alterne e clamorose retromarce. Vari comuni classificati a rischio (come Rimini dopo il terremoto del 1916) chiesero infatti negli anni ‘40 e nel dopoguerra di essere de-classificati. E sapete con che scusa? Far crescere il turismo!» A farla corta: sì, forse sono necessarie nuove regole per contenere i danni di questi Appennini stupendi ma collerici. Più importante ancora, però, è farle poi rispettare. Gian Antonio Stella.
TERREMOTO: CORSI E RICORSI STORICI. I Borbone? 200 anni fa sconfissero i terremoti, scrive il 30/08/2016 Flaminia Camilletti su “Il Giornale”. Sono passati 7 giorni dalla notte tra il 23 e il 24 Agosto, notte in cui la terra ha tremato così forte da far implodere e scomparire due paesi ricchi di storia e tradizioni come Amatrice ed Arquata del Tronto, portandosi via 292 vite umane e una decina di persone scomparse. I danni agli edifici e i morti non sono confinati nei paesi sopracitati, ma si diffondono in tutta la zona di confine tra Umbria, Marche e Lazio, tre regioni diverse e numerosi comuni diversi, sintomo che se qualcosa è andato storto è da ricondurre ad un sistema Italia che in questo momento così com’è, non funziona. Neanche il tempo di levare le macerie e di salutare i propri cari, che già si scoprono decine di casi di mala-gestione edilizia. Addirittura i pm sospettano che i documenti che dichiaravano che le strutture fossero a norma, siano stati falsificati. I casi più noti: la scuola Capranica e l’hotel Roma di Amatrice indicati entrambi come punto di accoglienza del piano di protezione civile, e invece venuti giù. E poi il campanile di Accumoli, come la Torre Civica e la caserma dei carabinieri. Parallelamente alle inchieste, il tema principale del dibattito verte sulla ricostruzione: è possibile rendere antisismici dei centri storici così antichi, senza snaturarne l’identità ed il patrimonio architettonico? Molti esperti e opinionisti rimandano all’esempio certamente virtuoso del Giappone, ma qualcuno, in Italia, rende noto che anche la nostra storia vanta modelli di ingegneria antisismica di livello, messa in atto già due secoli fa. Uno studio condotto dal Cnr-Ivalsa (Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’Università della Calabria ha dimostrato che le tecniche antisismiche usate 200 anni fa dai Borbone sono ancora attuali e che integrate con tecnologie moderne, potrebbero essere usate per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente. Dopo il terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime fu emanata una normativa estremamente di avanguardia per l’epoca. L’efficacia di queste disposizioni è stata confermata dalla resistenza che ebbero i palazzi costruiti con queste regole nei terremoti del 1905 e del 1908 che colpirono la Calabria. Il Cnr ha chiarito che gli edifici costruiti con queste regole subirono danni non significativi, con limitate porzioni di muratura collassate e nessun crollo totale. Ulteriore conferma è stata data anche dal test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio. “L’invenzione” è dell’ingegnere La Vega che con abilità di sintesi unisce le più avanzate teorie antisismiche dell’Illuminismo e una diffusa e antica tradizione costruttiva lignea presente in Calabria. Il sistema borbonico è caratterizzato infatti dalla presenza di telai di legno.” “Le tecniche – continua Nicola Ruggieri (l’architetto che ha prodotto lo studio) – si basavano sull’idea che la rete di legno, in caso di scossa, potesse intervenire a sostegno della muratura. Adesso quelle tecniche potrebbero ispirare sistemi antisismici per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente «magari – ha rilevato l’esperto – sostituendo il legno con alluminio e acciaio, per i quali l’industria è più preparata”.
La “casa baraccata”: il primo regolamento antisismico d’Europa è dei Borbone, scrive il 25 agosto 2016 Claudia Ausilio su “Vesuvio on line”. Il territorio italiano e soprattutto quello dei paesi a ridosso della dorsale appenninica sono tra i più esposti al mondo ad attività sismica e da secoli hanno dovuto fare i conti con i terremoti e i danni da esso causati. Pochi sanno che le prime case antisismiche furono fatte costruire dai Borbone che redassero il primo regolamento antisismico d’Europa. Tutto iniziò dopo il 5 febbraio del 1783, una data terribile per la Calabria e per il sud intero. Uno degli eventi più tragici della storia e un terremoto di un magnitudo elevatissimo, tra i più alti che l’Europa abbia mai visto. Le zone colpite furono quelle di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro che videro la morte di 30.000 persone. Il governo borbonico subito si mise all’opera per la ricostruzione emanando un regolamento antisismico, il primo della storia. Questo prevedeva la costruzione di una muratura rinforzata da un telaio di elementi lignei “inventata” dall’ingegnere Francesco La Vega, definita poi nel corso dell’Ottocento “casa baraccata”. Questo sistema si basava sugli ultimi studi dell’ingegneria settecentesca e su una tecnica costruttiva antica già in uso in Calabria. Ma l’ingegnere spagnolo come ideò questa tecnica antisismica? In realtà non si trattava di niente di nuovo, ci avevano già pensato gli antichi romani. Agli inizi del XVIII secolo Carlo III di Borbone decise di avviare un’intensa campagna di scavo ad Ercolano e successivamente a Pompei e Stabia. Le attività di recupero e lo studio dei reperti archeologici furono dirette dal 14 marzo 1780 proprio da Francesco La Vega. Durante queste operazioni l’ingegnere ebbe modo di osservare, proprio nelle città vesuviane, il cosiddetto Opus Craticium (opera a graticcio) cioè pareti intelaiate da elementi lignei. Grazie all’impiego di questa soluzione, le costruzioni successive al 1738, tra le quali anche il Palazzo del Vescovo di Mileto (Vv), riuscirono a resistere anche ai terremoti più devastanti, come quelli che colpirono la Calabria nel 1905 e nel 1908 con magnitudo 6.9 e 6 della scala Richter. Così come le abitazioni turche (Hımış) costruite con la tecnica dell’intelaiatura lignea hanno sfidato il sisma del 1999.
TERREMOTO ED IMPREPARAZIONE. Mario Tozzi sul terremoto: "Italia come il Medio Oriente. Una scossa di magnitudo 6 non dovrebbe provocare questi disastri". Intervista di Laura Eduati del 24/08/2016 su "Huffingtonpost.it". "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016. La terra ha nuovamente tremato violentemente devastando i paesi vicini all'epicentro: Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. "Le zone dalla Garfagnana a Messina, e cioè la dorsale appenninica, sono tutte sismiche e appartengono alla stessa regione geologica. L'Italia è un territorio geologicamente giovane e perciò subisce queste scosse strutturali di assestamento. Non stiamo dicendo che i terremoti sono prevedibili", puntualizza Tozzi, "perché sappiamo che è una sciocchezza. Ma stupisce che in una zona sismica non si faccia quasi nulla per impedire che una scossa di magnitudo 6 possa addirittura far crollare un ospedale come è accaduto ad Amatrice". Non esiste alcun alibi, continua il geologo: "Non veniteci a dire che i paesini del centro Italia sono antichi e perciò crollano più facilmente. Gli antichi sapevano costruire bene e basta pensare che a Santo Stefano di Sessanio, vicino l'Aquila, era crollata soltanto la torre perché restaurata con cemento armato, mentre a Cerreto Sannita nel Beneventano quasi tutto era rimasto intatto dopo il terremoto dell'Irpinia: non fu un caso, era stato costruito bene". Dunque "siccome ormai è chiaro che dobbiamo avere a che fare con i terremoti dovremmo costruire e fare una manutenzione antisismica di tutti gli edifici pubblici e privati, i soldi devono essere impiegati in questo modo: è la priorità", sottolinea ancora Tozzi, ricordando che "in Giappone e in California con una scossa simile a quella di Amatrice c'è soltanto un po' di spavento ma non crolla nulla". Mancati investimenti, fatalismo: il terremoto per Tozzi è soltanto una delle cause delle decine di morti di questa notte. "Facciamo sempre i soliti discorsi ma vediamo che non cambia nulla. Siamo il paese europeo con numero record di frane e alluvioni, siamo territorio sismico eppure per chi ci governa quando qualcosa succede è sempre una fatalità: bisognerebbe smetterla di pensare in questo modo e cominciare a ripensare seriamente al territorio".
TERREMOTO E PREVISIONE. Un sacco di scienziati e complottisti sono andati a letto ieri senza sapere di aver previsto il terremoto che ha devastato il Centro Italia questa notte. Oggi, con malcelata soddisfazione, ci comunicano che avevano ragione. Come sempre. Scrive Giovanni Drogo mercoledì 24 agosto 2016 su "Next Quotidiano”. Precisi come degli orologi svizzeri questa mattina sono arrivati quelli che leggono – a posteriori – i dati che indicano chiaramente che la notte passata ci sarebbe stato un forte terremoto. Dal momento che non è possibile prevedere il giorno, l’ora o il momento esatto di una scossa (e la relativa magnitudo) si tratta, nella migliore delle ipotesi, di cattiva informazioni (nella peggiore di mistificazioni pure e semplici). Spiega infatti l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che non è possibile fornire previsioni precise utili ad avvertire per tempo la popolazione. Modelli teorici imprecisi non danno previsioni precise. Esistono dei segnali, chiamati precursori sismici, che consentono di poter formulare previsioni approssimative riguardo intervalli di tempo, di spazio e di magnitudo entro i quali si può verificare con maggiore probabilità della media un evento sismico. Ma non è detto che poi l’evento si verifichi davvero o che sia dell’intensità “prevista”. Sono state invece compilate delle mappe di pericolosità sismica che indicano quelle aree dove a maggiore rischio (e la zona colpita stanotte è purtroppo una di quelle). Utilizzando queste mappe è possibile adottare misure preventive (ad esempio costruire edifici antisismici o mettendo in sicurezza quelli esistenti) per limitare i danni di un eventuale terremoto. Tutto qui? Purtroppo al momento sì, perché i modelli teorici non consentono di essere più precisi. I terremoti non si prevedono, ma è invece possibile – anzi doveroso tenuto conto della situazione geologica italiana – fare prevenzione. Eppure c’è chi già questa mattina sottolineava come avesse già previsto la scossa. Spiegando di aver individuato una ventina di giorni fa un’anomalia che oggi dimostra come al tempo aveva previsto un terremoto. Ovviamente senza localizzarlo, senza indicare l’orario o la magnitudo. Il che come previsione non risulta essere sufficientemente precisa da poter sostenere di avere in mano una prova chiara del rapporto causa-effetto. Tenendo conto che si sapeva già che la zona colpita risulta essere ad alto rischio sismico non si tratta di previsioni accettabili, soprattutto perché – caso comune a molte altre previsioni – vengono fatte dopo l’evento. Che sulla catena appenninica si possano verificare scosse di questo tipo è cosa quindi nota, quello che manca di sapere (e che fa la differenza) è il momento preciso. E questo purtroppo non è possibile determinarlo in base alle conoscenze scientifiche attuali. Vogliamo parlare di quello “scienziato” che crede che i terremoti siano causati da perturbazioni cosmiche e che la causa vada ricercata nel Sole (la soluzione sarebbe spegnerlo). Un momento, forse potrebbe essere il fracking la causa! Ma ecco che, quando la scienza non ci dà certezze, arrivano direttamente quelli che credono nella magia. La grande fiera della cospirazione e della geoingegneria. Come già accadde in occasione del sisma del 2012 in Emilia Romagna c’è chi crede che sia possibile prevedere un terremoto guardando la conformazione delle nuvole. Si tratta di tecniche degne degli antichi romani? Nulla di tutto questo perché c’è chi ci spiega che le nuvole “orientate” in quel modo non sono naturali ma vengono create grazie a esperimenti sul campo elettromagnetico, del tipo di quelli svolti dal famigerato HAARP. Peccato che Terra Real Time, noto sito di complottisti, indicasse come epicentro del fenomeno la Calabria e non il Centro Italia. Cose che capitano quando si devono tenere sotto controllo le macchinazioni del NWO. Curiosamente sul sito le “onde scalari” che hanno provocato lo “tsunami elettromagnetico” venivano ritenute pericolose soprattutto per i portatori di Pacemaker. Il loro scopo? Modificare il clima. Nessun accenno ai terremoti in questa curiosa previsione. Ma naturalmente il NWO non vuole che si sappia che nemmeno Terra Real Time ha previsto un terremoto. Sarebbe bastato leggere il – breve – testo del comunicato per accorgersene ma dal momento che si parla di tsunami e che il termine è associato ai terremoti, ecco servita la previsione. In mancanza del nostro esperto di fuffa preferito (Rosario Marcianò è momentaneamente assente da Facebook) non ci resta che consolarci con le spiegazioni di Gianni Lannes che sul suo sito evoca scenari militari: C’entra forse qualcosa il programma segreto di aerosolchemioterapia bellica che la NATO – previo indottrinamento degli esperti civili – manda in onda dal 2002, a base di irrorazioni aeree di alluminio e bario che rendono l’aria maggiormente elettronconduttiva, in modo da consentire alle onde elf di colpire le faglie sismiche attive? Scie belliche e sciami sismici: un distruttivo connubio militare. […] I terremoti possono essere provocati anche dall’uomo con vari mezzi e sistemi, soprattutto in aree notoriamente a rischio sismico che spesso mascherano la reale dinamica dell’evento tellurico: esplosioni convenzionali e nucleari, iniezioni elettromagnetiche nella crosta terrestre, riscaldamenti ionosferici, ricerca ed estrazione di idrocarburi. Un terremoto indotto presenta distintamente un ipocentro superficiale.
IL TERREMOTO E L'INFORMAZIONE. Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore. Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità, scrive Roberto Saviano il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Ora che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo. I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti. E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione? Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle). Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click. Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.
TERREMOTO E SATIRA. «Terremoto all’italiana», è un caso la vignetta di Charlie Hebdo. Nel numero in edicola satira sulla tragedia di Amatrice: lasagne e pasta per illustrare il dolore per le 300 vittime. La rete si indigna: «Io non sono Charlie». L’ambasciata: «Non ci rappresenta». Poi la precisazione: «Italiani, a costruire le vostre case è la mafia», scrive Antonella De Gregorio il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Oggi nessuno «è Charlie Hebdo». La solidarietà dopo gli attentati che hanno colpito il giornale nel gennaio del 2015 si squaglia sui social, lasciando spazio all’indignazione più viscerale. Scatenata dalla vignetta che il settimanale in edicola dedica al terremoto in Italia. Nell’immagine, intitolata «Séisme à l’italienne» («Terremoto all’italiana») le vittime del terremoto che ha sconvolto il nostro Paese vengono paragonate a tre piatti tipici della nostra cultura: «Penne all’arrabbiata», illustrato con un uomo sporco di sangue; «Penne gratinate», con una superstite coperta di polvere; mentre le lasagne sono strati di pasta alternati ai corpi rimasti sotto alle macerie. La vignetta firmata dal vignettista Felix è pubblicata nell’ultima pagina del numero in edicola della rivista satirica, che ha in copertina una vignetta sul burkini: il «sacco di patate che unisce la sinistra». In fondo al giornale, nella pagina tradizionalmente intitolata «le altre possibili copertine», la sciagura in Italia viene affrontata con freddure tipo: «Circa 300 morti in un terremoto in Italia. Ancora non si sa che il sisma abbia gridato “Allah Akbar” prima di colpire». La polemica è esplosa. E a poco sono valse le scuse ufficiali della diplomazia d’Oltralpe. «Il disegno pubblicato da Charlie Hebdo non rappresenta assolutamente la posizione della Francia» si legge in una nota dell’ambasciata francese a Roma, che sottolinea che il terremoto del 24 agosto è «un’immensa tragedia» e rinnova le condoglianze alle autorità e al popolo italiano, al quale «ha offerto il suo aiuto». Su Twitter, tantissimi quelli che giudicano la vignetta «sconvolgente», «indecente», e chiedono rispetto per le vittime. C’è chi pubblica l’immagine a fianco della scritta «Io non sono Charlie». Chi commenta: «Hebdo oggi ha toppato alla grande», e «Cosa ci sia da ridere su questa vignetta poi ce lo spiegate». Ma anche chi difende la scelta («Siamo tutti Charlie finché Charlie non sfotte noi») e commenta: «Se non tocca alla pancia non è satira. È solo un disegno insignificante». Trovando, magari, più scandalosi «le interviste sceme, lo show morboso del dolore andato in scena in questi giorni». Si riapre insomma il dibattito sui confini dell’ironia. Rispetto, cattivo gusto, libertà di esprimersi, censura: ognuno in rete dice la sua. «Le vignette di #CharlieHebdo servono proprio a far indignare chi viene “colpito”. Lo fanno per lavoro, non lo scordiamo», sottolinea un utente di Twitter. Mentre un’interpretazione taccia di «analfabetismo funzionale» tutti coloro che non han capitole intenzioni degli autori della vignetta: «Edifici costruiti con la sabbia (“penne gratinées”) che quando crollano si riducono e ti riducono a strati di lasagna. Ecco i sismi all’italiana - scrive Pasquale Videtta - in cui nemmeno le scuole anti-sismiche sono tali. L’analfabetismo funzionale è quella cosa che ti fa scambiare la vignetta di Charlie Hebdo per una derisione delle vittime del terremoto e non per una denuncia politica e sociale». Spiegazione «esegetica» che sono gli stessi giornalisti della rivista francese a confermare, con un colpo a sorpresa, a poche ore dal polverone mediatico. Nel pomeriggio, dopo la valanga di contestazioni, sulla pagina Facebook ufficiale, Charlie Hebdo pubblica una vignetta «di precisazione» firmata «Coco». Vi compare una persona insanguinata sotto le macerie, come nel disegno contestato, che si rivolge al lettore: «Italiani...non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!». «È una vignetta in cui non trovo niente da ridere», ha commentato il Commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani. «Io sto vivendo questa situazione con la popolazione - ha sottolineato - e sono certo che i cittadini che stanno vivendo questa tragedia non trovino niente da dire e da ridere come me. La vignetta aumenta la sofferenza di queste persone». Sconforto dal sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi: «Ma come si fa a fare della satira sui morti? La satira è satira quando fa ridere e qui mi sembra che non ci sia proprio nulla da ridere, visto che è pieno di morti». Certo Charlie Hebdo non è il primo pensiero del primo cittadino del comune sconvolto dal sisma. E per un po’ Pirozzi si è disinteressato alla questione. Ma poi, davanti ai giornalisti che lo incalzavano, è sbottato: «La satira è una cosa bella, ben venga l’ironia. Ma come si fa... qui c’è soltanto del cattivo gusto». Con lui si esprime anche la politica: «Vignetta lugubre, disumana, indegna, da rispedire al mittente», scrive in una nota la deputata Pd Vanna Iori. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, sul suo account Facebook liquida la vicenda così: «Non fa ridere, non è sagace, non c’è neppure del “sarcasmo nero”. È solo brutta. Si vede che l’ha fatta un cretino. Mi spiace non siano riusciti più a trovare vignettisti capaci». E Michele Anzaldi (Pd), chiede scuse ufficiali: «Ci aspettiamo che la Francia, a partire dalle sue istituzioni — dichiara — prenda le distanze da una vignetta che rinnova il dolore nelle tante famiglie italiane che hanno subito il grave lutto del terremoto». Scuse che l’ambasciatore francese si è affrettato a trasmettere.
#JeSuis Charlie sempre. Anche se non ci piace. Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira? Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria, scrive Pierluigi Battista il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". #JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.
Charlie Hebdo, perché li critico. «Non si calpestano così 300 morti», scrive Giannelli il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". La vignetta pubblicata in ultima pagina dal settimanale satirico francese Charlie Hebdoa firma Felix non mi è piaciuta. Mi perdonerà il collega vignettista ma, a mio parere, se pur sia ben consapevole che la satira è trasgressione assoluta, tragedie come quelle del terremoto che ha colpito il Centro Italia è obiettivamente difficile che possano giustificare spunti satirici di questa specie. È trasparente il messaggio che la vignetta vuole dare: una condanna degli italiani spaghettari. Ma per insistere su questo consueto stereotipo, mi sembra sia stato di cattivo gusto calpestare trecento morti. E che la critica non sia altro che una riaffermazione dei consueti stereotipi sul nostro Paese, lo dimostra la seconda vignetta, pubblicata nel pomeriggio sull’account Facebook del settimanale, nella quale il disegnatore Coco Charlie Hebdo ha chiamato in causa la mafia. Niente di nuovo quindi rispetto alla copertina di tanti anni orsono del settimanale tedesco Der Spiegel che raffigurava l’Italia come un piatto di spaghetti con una rivoltella sopra. È vero che una vignetta è solo uno scherzo, una irrisione e trovo quindi sproporzionato e ridicolo che si parli di severa condanna e di giusta indignazione, con l’ambasciata transalpina in Italia a puntualizzare che «non rappresenta assolutamente la posizione della Francia». Ci deve essere però anche libertà di critica perfino nei confronti della satira e da vignettista ammetto che non sempre si possono avere idee felici; è fatale. Nel caso specifico, avrei trovato più giusto che la prima vignetta fosse firmata Infelix.
Satira sul terremoto, Pennac: "Disegno idiota, ma difendo ancora la libertà di Charlie Hebdo". L'intervista. La bocciatura dello scrittore: "Non mi piace chi gioca con la morte degli altri", scrive Francesca De Benedetti su "La Repubblica" il 03 settembre 2016. Una "connerie", uno scivolone in piena regola: così Daniel Pennac, lo scrittore francese, commenta la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia. Lui, l'autore della saga dei Malaussène e di altre opere di successo, è abituato a giocare con ogni sfumatura del linguaggio. Ma stavolta per commentare la satira dei suoi connazionali sul sisma non usa mezzi termini, anzi si concede un paio di parole forti. Poi però conclude: "Anche oggi, "Je suis Charlie". Una vignetta idiota non può togliere forza a quel messaggio, che non va messo in discussione".
Pasta e sangue, poi la mafia: è la chiave con cui Charlie "legge" il terremoto in Italia. Cosa ne pensa?
"La vignetta sulle vittime del terremoto è stronzissima e basta. Non è divertente, non fa ridere nessuno se non chi l'ha concepita, quasi non merita il nostro sdegno".
La satira non giustifica il ricorso agli stereotipi e le provocazioni violente?
"Vede, io penso che neppure la satira dovrebbe calpestare una cosa importante: l'empatia. Penso alle vittime delle scosse, penso alle sofferenze di quelle terre, e non posso non concludere che quelle vignette mancano di rispetto a quel dolore, a quelle storie. Non mi piace chi gioca con la morte degli altri. Penso al fatto che proprio oggi avrei dovuto essere in un paesino umbro per un'iniziativa culturale; Castello di Postignano si trova non lontano dai borghi distrutti, la gente è andata via per paura di nuove scosse. Abbiamo sospeso l'evento, perché la prima cosa da mostrare, di fronte a tragedie come questa, è l'umanità, la solidarietà".
Fa bene l'ambasciata di Francia a prendere le distanze dalle vignette? Hanno ragione gli italiani indignati?
"Se lo chiede a me, le dico di sì, perché non gradisco né quella vignetta né in generale un certo humour sulla morte. Va detto che con Charlie tutto ciò non è una novità. Non è una novità un certo stile, che già altre volte mi ha suscitato una sensazione di disagio, anche se non detesto il giornale in sé e non amo le condanne definitive".
Qualcuno è arrivato a dire: "Je ne suis pas Charlie", "Non sto più con Charlie".
"L'espressione "Je suis Charlie" è diventata il simbolo dell'opposizione radicale e senza mezzi termini all'assassinio di giornalisti e disegnatori. Una vignetta, per quanto idiota, non giustifica affatto la messa in discussione di questo principio. Con la stessa chiarezza con cui dico che quel disegno non mi piace, sono pronto anche ad affermare senza mezzi termini: "Io resto Charlie". A ognuno le sue responsabilità morali: chi offende i morti ha le sue, e noi abbiamo le nostre. È nostro dovere ribadire ogni giorno che nulla autorizza l'uccisione di chi fa satira e che niente può giustificare un massacro come quello dei giornalisti e disegnatori di Charlie. Non possiamo esserne complici: ecco perché io - anche oggi - sono Charlie".
La vignetta di Charlie Hebdo non mi piace, ma difendo la libertà di espressione. Siamo una civiltà superiore. Nessuno ucciderà chi sta dietro a quel disegno, scrive Camillo Langone, Sabato 03/09/2016, su "Il Giornale". Quelli di Charlie Hebdo vogliono proprio mettere alla prova il famoso detto di Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». L'affermazione del filosofo suona un po' troppo roboante (e infatti pare che il testo originale, prima di diventare una formula, fosse più trattenuto), però il concetto non può non essere condiviso da chiunque ami la libertà. Io per Charlie Hebdo non sono disposto a morire, è inutile che faccia il gradasso, ma a correre qualche piccolo rischio sì. Quando nel gennaio dell'anno scorso la redazione del settimanale satirico francese venne sterminata dai coranisti a colpi di fucile mitragliatore AK-47 scrissi che i caduti andavano considerati martiri della libertà di espressione. Ne sono ancora convinto. E proprio perché ieri ho preso le parti dei vignettisti contro gli islamisti e gli islamofili oggi posso tranquillamente dirmi in disaccordo con le vignette sul terremoto di Amatrice e di Arquata. Ammetto di essere poco spiritoso e sarà per questo che poco ho apprezzato la vignetta intitolata «Sisma all'italiana» apparsa sul settimanale: a sinistra un uomo insanguinato sotto la scritta «Penne al pomodoro», al centro una signora bruciacchiata o impolverata o chissà (nella mia vita ho visto vignette disegnate meglio) sotto la scritta «Penne gratinate», e infine, a destra, quattro morti schiacciati fra strati di macerie e dunque posti sotto la scritta «Lasagne». Qualcuno ha riso? De gustibus. Non che il dettaglio abbia soverchia importanza, ma la grossolanità satirica stavolta si abbina alla grossolanità gastronomica: non ci vuole una laurea all'università Slow Food di Pollenzo per sapere che Amatrice con le penne c'entra poco e con le lasagne nulla e che il famoso sugo che dal paese appenninico prende il nome condisce di norma i bucatini. Meglio dirlo piano, non vorrei offrire spunti a uno dei loro vignettisti senza scrupoli, settimana prossima non vorrei vedere stampato un piatto di bucatini con un macabro ragù a base di terremotati macinati, e poi magari ritrovarmi qui a discettare sul fatto che il sugo all'amatriciana non è propriamente un ragù. Me la vorrei risparmiare una simile disquisizione e mi sarei voluto risparmiare anche la presente su penne e lasagne non filologiche, non tipiche, eppure qualcosa di buono da questo sgradevole episodio vorrei ricavarlo. Ex malo bonum, dicevano gli antichi. Dall'ultima vignettaccia di Charlie Hebdo traggo la dimostrazione della nostra appartenenza a una civiltà superiore perché nessun terremotato italiano entrerà nella redazione parigina sparando all'impazzata e gridando «Amatrice è grande». Ci sono state e ci saranno reazioni critiche, e ci mancherebbe, ci sono state e ci saranno manifestazioni di sdegno, legittime pure queste, ancor più se provenienti da persone che nella tragedia hanno perso famigliari, amici, case. Ma niente di più. Gli italiani sono dunque un popolo voltairiano? Non voglio esagerare, non li direi così filosofici, ma senz'altro non sono capaci di meditare vendette collettive (durante la Seconda guerra mondiale vennero invasi dai tedeschi e bombardati dagli americani, eppure nel Bel Paese i turisti provenienti dalla Germania e dagli Usa sono sempre stati accolti benissimo). Semplicemente, stavolta, non sono Charlie.
Ma la vignetta non è piaciuta neppure a un maestro della satira come Sergio Staino che, in un’intervista all’Ansa, ha commentato: “Penso che sia una vignetta in linea con la storia di Charlie Hebdo. Non è la prima volta che, per una scelta provocatoria, decidono di andare contro tutto e tutti in momenti di grande dolore”. Per Staino il giornale “ha voluto legare il vecchio stereotipo del paese dei maccheroni alla tragedia, ma il risultato è di basso livello. Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Prendo le distanze da un intervento creativo che non ha alcun senso, almeno per come intendo io la satira”.
Mentana definitivo sulla vignetta-vergogna: "Basta dire che...". Così chiude la bocca a tutti, scrive “Libero Quotidiano" il 2 settembre 2016. La satira piace a tutti, almeno finché non si è il soggetto preso di mira. Eppure sembra ieri che mezzo mondo occidentale agitava la scritta #Jesuischarlie, poco dopo gli attentati islamici del gennaio 2015 contro la rivista satirica francese. Stavolta quella stessa rivista ha colpito gli italiani, in particolare le vittime del terremoto in centro Italia raffigurati come una lasagna fatta di corpi e macerie. Contro l'indignazione ad orologeria di tanti che sul web hanno insultato i vignettisti francesi si è scagliato Enrico Mentana che sulla sua pagina Facebook ha scritto: "Scusate, ma Charlie Hebdo è questo! Quando dicevate 'Je suis Charlie' solidarizzavate con chi ha sempre fatto simili vignette, dissacrando tutto e tutti. Le vignette su Maometto anzi facevano alla gran parte degli islamici lo stesso effetto che ha suscitato in tutti noi questa sul terremoto. Fu Wolinski, una delle vittime dell'attacco terrorista del gennaio 2015, a far capire ai colleghi italiani quarant'anni fa che la satira poteva essere brutta sporca e cattiva. Vogliamo rompere le relazioni con la Francia dopo aver marciato in loro difesa? Basta più laicamente dire che una vignetta ci fa schifo".
La reazione. Libero Quotidiano del 3 settembre 2016: "Ci viene voglia di sparargli. Il Tempo pubblica un disegno. La vignetta satirica che sfotte i morti del terremoto del Centro Italia pubblicata dal settimanale satirico Charlie Hebdo ha sollevato moltissime polemiche e reazioni. Libero in edicola oggi lancia una provocazione: "Viene voglia anche a noi di sparargli" titola in prima pagina sopra la foto con la disgustosa vignetta. Il Tempo, pubblica a sua volta una vignetta che fa riferimento alle tante vittime del terrorismo che titola "Tartare à la parisienne". Due titoli forti per rispondere a una vignetta che definire di cattivo gusto è davvero poco.
Charlie Hebdo e la satira senza limiti. Eccessi e pessimo gusto come regola. Il settimanale satirico francese ha origine come foglio libertario negli anni Settanta. Da rivista di nicchia, dopo l’attentato del gennaio 2015 è diventata nota globalmente, scrive Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Charlie Hebdo» torna a fare parlare di sé anche fuori dalla Francia, come spesso gli accade dopo la notorietà planetaria acquistata suo malgrado con i 12 morti del 7 gennaio 2015. Stavolta l’indignazione riguarda una vignetta sul terremoto in Italia, pubblicata a pagina 16, l’ultima, dedicata come sempre alle «copertine alle quali siete sfuggiti», cioè ai disegni che sono stati valutati per la prima pagina ma poi scartati. Nell’ultimo numero, la caricatura principale è dedicata al giornalista Edwy Plenel, alla ministra Najat Vallaud Belkacem e all’ecologista Cécile Duflot a braccetto sulla spiaggia sotto la scritta «Burkini - il sacco da patate che unisce la sinistra». Il titolo è «Sisma all’italiana», sotto ci sono tre versioni macabro-culinarie degli effetti del terremoto: penne al pomodoro, penne gratinate e lasagne, giocando su sangue/salsa. La vignetta ha provocato reazioni indignate su Twitter, molti hanno fatto sapere di «non essere più Charlie», ricordando l’ondata di emozione e solidarietà che avvolse la redazione dopo l’attentato, quando milioni di persone proclamavano lo slogan «Je Suis Charlie». La derisione verso tutto e tutti, anche le tragedie, è sempre stata una caratteristica di Charlie Hebdo. Accanto alla vignetta sul terremoto, ce n’è una sui migranti a Calais che ormai hanno superato quota 10 mila: una lunghissima fila di persone davanti alla toilette, la scritta «le forze dell’ordine sono travolte» e tre mosche che dicono «anche noi!». Poi, due vignette sul surfista attaccato dagli squali alla Reunion. All’interno, a pagina 2, un grande disegno sul rientro a scuola, con un esibizionista che apre l’impermeabile davanti ai bambini e un agente della sicurezza che controlla lo zaino di un allievo: «droga, cianuro, siringhe, alcol… niente cintura di esplosivo, potete andare». Lo scorso gennaio, il direttore Riss (che ha preso il posto di Charb rimasto ucciso nell’attentato) ha disegnato la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto a Bodrum, in Turchia, mentre cercava con il padre e il fratello di raggiungere l’Europa. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si chiede il vignettista. La risposta: «Un palpatore di sederi in Germania». Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state molestate da gruppi di stranieri. La zia Tima Kurdi, che vive in Canada, protestò: «Speravo che le persone rispettassero il nostro dolore. È stata una grande perdita per noi. Cerchiamo di dimenticare e di guardare avanti. Ma ferirci un’altra volta è ingiusto». Pochi mesi prima, a settembre 2015, il giornale aveva pubblicato altre due vignette su Aylan. Non si contano i disegni su preti, suore, islamici, atei, omosessuali, eterosessuali, politici, celebrità varie, persone comuni. Charlie Hebdo non si è mai posto limiti. A settembre 2015 Luz, altro sopravvissuto del massacro del 7 gennaio, aveva preso le difese di Riss con una specie di editoriale a fumetti intitolato «il disegno satirico spiegato agli idioti»: «Fai parte dei milioni di “nuovi lettori” che hanno scoperto Charlie e il suo umorismo dopo gli attentati di gennaio. Non avremmo mai immaginato che ti saresti interessato al nostro lavoro». In effetti, Charlie Hebdo non è un pensoso, pacato e autorevole settimanale di approfondimento dal quale pretendere senso di responsabilità o eleganza, ma un foglio libertario fondato negli anni Settanta, che ha fatto dell’eccesso e del pessimo gusto uno dei suoi tratti costanti. Per questo aveva un pubblico di nicchia ma è diventato suo malgrado – c’è voluto l’attentato islamista - una testata nota in tutto il mondo, scrutata e commentata da lettori e osservatori che prima mai si sarebbero sognati di andare in edicola a comprarne una copia. Lo slogan «Je Suis Charlie» non ha mai voluto dire adesione incondizionata all’umorismo surreale di Charlie Hebdo, ma una scelta di campo dalla parte della libertà di espressione e contro i terroristi. Liberi i disegnatori di Charlie Hebdo di dissacrare tutto e tutti, liberi i lettori di non amare le loro vignette e non comprare il giornale.
Ma quale satira? Questa è merda! Scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 2 settembre 2016. Adesso: quanti di voi sono Charlie? Quanti di voi si sentono Charlie? Neanche il dramma colpisce la redazione della testata francese di satira. Non la ferma, non la frena, in un vomitoso impeto infantile, frutto di una comunicazione adolescente, pretenziosa, mai cresciuta, impulsiva. Così, dopo essersi chiesti se il terremoto, prima di colpire “abbia urlato Allau Akbar”, ecco comparire nell’edizione del 31 agosto di Charlie Hebdo, nella sezione “Le altre possibili copertine”, la vignetta, “sisma all’italiana”: un ferito insanguinato con la didascalia “Penne al pomodoro”, un’altra con quella “Penne gratinate”, i corpi sepolti con la scritta “Lasagne”, così come riporta, fra gli altri, Il Messaggero. Ah, che belle risate. E che riflessione arguta. Ma quale satira? Questa è merda. Pura, purissima merda chic, partorita dalla mente del democraticissimo progresso secondo cui non ci sono vincoli, nella comunicazione, né tabù e la moralità, il buon senso, il buon gusto, ci stanno stretti, come antichi orpelli ormai in disuso. Cosa voleva comunicare Charlie Hebdo? Forse voleva solo incarnare il motto di un altro paladino delle Belle Menti, Dario Fò, un proletario col culo degli altri: “Prima regola: nella satira non ci sono regole”, fintanto che, ovviamente, non colpisce gli agitatori del politicamente corretto. Cosa è satira nel grande mondo liberale e libertino, poco libero? E cos’è oltraggio? Ma non è con i francesi che dobbiamo prendercela – vicini, solidali: amico mio, connazionale, prova ora a sentirti un pochino CHARLIE HEBDO, se ne hai il coraggio. Nota di servizio: Ah, scusate. Date ragione a Charlie, andateci un pochino forzatamente contro corrente. Giusto un po’ coattamente come il giocatore di flipper di Carlo Verdone in Troppo forte; in fondo noi, poveri, non abbiamo colto la sottigliezza alla base della vignetta di Charlie Hebdo, di come le vittime siano cibo per speculatori e un sisma sia appetitoso, oppure di come c’abbiano sparato la verità in faccia sulle case fatte di merda (e dalla mafia), con la sabbia di mare anziché con i ciottoli di fiume, nella seconda vignetta. La moralina d’oltralpe, esposta anche male, male, è un po’ troppo. Scusate la nostra pressappochezza nazionalista nel vedere una mano troppo pesante irridere con troppa facilità chi stava dormendo ed è morto sfracellato, perdonate il nostro sdegno nel vedere cotanta filosofia espressa in tratti di matita. Lasciateci essere dei vermiciattoli (o dei giornalai imperfetti) della non comprensione e siate Charlie, siate un po’ quel che caspita vi pare. A chi verrebbe in mente di irridere i migranti che si abbandonano alle acque del Mediterraneo? Mi perdoneranno gli intellettuali, mi perdonerà chi si è rotto la favetta della polemica o chi glissa elegantemente: et voilà. Perdoneranno l’impeto del povero umile.
I fantasmi del politically correct, scrive Luigi Iannone il 3 settembre 2016 su “Il Giornale”. Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico, il mio nuovo libro in uscita il 12 settembre. << (…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.
E se la satira è nostrana?
“Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana”, dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, venerdì 26 agosto, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità.
La morte e l'amatriciana: la vignetta che Travaglio doveva evitare, scrive il 25 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. "Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana", dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità. La freddura di oggi, il direttore Marco Travaglio la poteva tranquillamente evitare.
TERREMOTO E SPETTACOLARIZZAZIONE. Cinismo e retorica creano caccia alle streghe, scrive Piero Sansonetti il 29 ago 2016 su "Il Dubbio". Le conseguenze più gravi del terremoto si potevano evitare. Se ci sono responsabilità personali vanno accertate, e invece è già iniziato il linciaggio. Il riflesso condizionato, si sa, è ingovernabile. Difronte a una tragedia grande come quella di Amatrice, per esempio, giornalisti e Pm (non tutti, ma molti) riescono a mantenere la calma per un paio di giorni, e a far bene il proprio lavoro, e a raccontare - gli uni - e a indagare con serietà e discrezione - gli altri. Poi al terzo giorno si rompono gli argini e la necessità impellente di prendere i colpevoli e linciarli subito subito, prevale su tutto. E così alcuni magistrati non riescono a trattenere la propria pulsione a dichiarare, anche se ovviamente non sono in grado ancora di sapere niente di quello che è successo, e delle cause. E i giornalisti iniziano ad eseguire le sentenze, da loro stessi emesse, e a scrivere tutto ciò che sentono dire in giro, nei vicoli, nei bar. C’è un importante giornale nazionale che l’altro giorno informava - in prima pagina - i suoi lettori, che le pareti della scuola di Amatrice erano di polistirolo. Naturalmente è molto probabile che per il crollo della scuola esistano delle responsabilità soggettive e personali, oltre alle responsabilità politiche delle istituzioni. Ma è altrettanto probabile che ancora nessuno sia in grado di conoscere queste responsabilità. Ed è molto, molto probabile che il polistirolo sia stato usato per motivi di isolamento termico o acustico, e che non c’entri proprio niente col crollo. Però scrivere che le mura erano di polistirolo fa effetto, porta qualche lettore in più. Si fa. Così come fa effetto usare l’espressione: “in odor di mafia”. Che non vuol dire assolutamente niente, ma muove molte emozioni. E spesso quello “in odor di mafia” non è nemmeno la persona di cui si sta parlando, ma un suo lontano parente. Ormai “essere parente” - per la stampa italiana - è diventato uno tra i reati più frequenti. Il Fatto, per esempio, l’altro giorno indicava al pubblico sospetto (e al pubblico ludibrio) un tale gravato di due colpe evidenti e certe: essere siciliano e - soprattutto - essere “imparentato” con una parlamentare del Pd. E poi, ovviamente, ci sono gli sciacalli. La storia che raccontiamo nell’articolo di Simona Musco in prima pagina è esemplare. La caccia allo sciacallo è un “cult” dell’informazione, da noi. Come una volta era la caccia all’untore, della quale vi abbiamo parlato molto, in questo agosto, ripubblicando la Colonna Infame di Manzoni. E’ del tutto evidente, a chiunque, che le conseguenze tragicissime, con trecento morti, del terremoto di Amatrice, sono in gran parte dovute alla mancanza di prevenzione. Lo abbiamo scritto il primo giorno. Il titolo del nostro giornale era: «Si poteva evitare?». Tutti gli esperti rispondono di si. Che esistono ormai le possibilità tecniche non solo per costruire con criteri antisismici tutte le nuove abitazioni, ma anche per mettere, almeno in parte, in sicurezza, le costruzioni più antiche. E tutti gli esperti ci dicono anche che l’Italia è la nazione più a rischio sismico d’Europa, e dunque la necessità di mettere al sicuro i nostri paesi e le nostre città è impellente. E invece, da diversi anni, si fa troppo poco. Esistono le mappe delle zone a rischio e persino i censimenti dei singoli edifici a rischio. Esiste anche una stima su quanto costa una azione di ristrutturazione generale. Però la politica resta immobile e un po’ indifferente. Eppure tutti sanno che sono altissime le probabilità che nei prossimi vent’anni ci siano in Italia almeno tre o quattro terremoti gravi come quello di Amatrice. Perché non concentrare su una gigantesca operazione antisismica tutte le risorse che è possibile stanziare sulle opere pubbliche? Rinunciando, almeno per un decennio, a ogni altra iniziativa. Concentrando una quantità molto grande di risorse su questa impresa, e mettendo in moto anche un meccanismo probabilmente importante di mobilitazione economica e dunque di sviluppo? Questa è la domanda che va rivolta alla politica. Alla magistratura invece va chiesto di accertare con serietà e certezza se ci sono responsabilità precise e personali per i crolli provocati dal terremoto, e, se ci sono, di chi esattamente sono. Ma questo lavoro va svolto con discrezione, serietà, prendendosi i tempi necessari, senza creare mostri e senza lavorare suoi sospetti e basta, e senza - soprattutto - cercare pubblicità e interagire con la stampa e i suoi clamori. Magari anche rinunciando alle iniziative bislacche che qualche anno fa portarono all’incriminazione (e persino alla condanna in primo grado) di un bel gruppetto di valorosi scienziati accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila. Quegli scienziati poi furono assolti pienamente, dal momento che non ci vuole una grande scienza per sapere che i terremoti non sono prevedibili da nessuno e tantomeno è prevedibile la loro intensità. Ma furono assolti quando ormai la loro reputazione e le loro carriere erano state già distrutte. Poi, certo, è inevitabile, esiste dei pezzi del giornalismo e della magistratura italiana che vivono di retorica e cinismo, e non sono molto interessati alle certezze e alla verità: retorica e cinismo molto spesso si alleano e quando si alleano creano disastri. Il meccanismo tradizionale della caccia alle streghe è sempre stato quello: retorica e cinismo che si esaltano a vicenda.
Terremoto tra polemiche e apparenza al tempo del dolore 2.0. Tutte le opinioni che abbiamo letto in questi giorni ci inducono a riflettere e la verità è che ci attende una battaglia lunga e faticosa, scrive Francesca Contino il 26 agosto 2016 su "Irpinia 24". Avellino Guardo mia nonna e ho la percezione che tutto intorno abbia assunto dei connotati stonati. La osservo guardare i TG, in preda a una frenesia, con la necessità di cambiare canale e non certo per disinteresse, ma perché delle immagini sono troppo crude e sanno di una tragedia, che lei, come tanti, ha vissuto sulla sua pelle nel 1980. La vedo mentre sembra disegnare con lo sguardo un terrore nascosto, a tratti inenarrabile. Quando le chiedo di raccontarmi di quel 23 Novembre, le parole si accavallano e poi d’improvviso si spezzano, come se si rinnovasse un dolore troppo grande anche da rispolverare. Riemergono con più facilità i ricordi della solidarietà, dello stare insieme delle famiglie, del buon cuore dei commercianti locali che donavano i loro prodotti, di quelli che ospitavano la gente del paese nelle loro stalle. Avverto il calore di quell’atmosfera, dove ogni contrasto si annienta e poi il freddo di quell’inverno, che nelle sue parole, è ancora più rigido di quello che probabilmente fu. Erano tempi diversi certo. Oggi apprendiamo molte più notizie, corredate di immagini e video istantanei che niente lasciano all’immaginazione. E ce ne serviamo, perché, talvolta, in questa società dormiente, un fotogramma scuote una coscienza meglio di un racconto. Lo abbiamo fatto con le morti sui barconi, con gli attentati terroristici e adesso con il terremoto di Amatrice. Diamo letture differenti, eppure nella selezione delle immagini ricadiamo in una volontà ambigua di spettacolarizzazione, che diventa una vera e propria operazione di marketing, assuefatti alla forma più che al contenuto. E’ un errore che abbiamo commesso, anche se alcuni di noi con ingenuità, con l’intento di arrivare ai lettori in maniera più profonda. Noto con tristezza, come la tradizione italiana si stia riducendo a un talk reality show, dove il phatos sovrasta la professionalità, con schiere di giornalisti che pongono domande al limite del tollerabile, anche per chi è fuori da certi drammi. Ma non è un problema di categoria, semmai la categoria determina nello specifico la tipologia di alcune involuzioni. Siamo circondati o addirittura siamo gli stereotipi che condanniamo. Dagli sms per donare 2 euro, con tanto di prova fotografica allegata sui social, alle rivalse razziste, travestite da patriottismo di quelli che “la menano” sugli immigrati negli alberghi. Tristezza a palate. Non solo per la violenza di certi pensieri che in rete vengono espressi, quanto per l’insensibilità di chi ha bisogno di spostare sempre l’asse della discussione, di chi si improvvisa costantemente esperto di politica nazionale e internazionale. Dal montepremi del superenalotto che non si può destinare ai terremotati, all’Italexit perché “l’Europa e l’America non soffrono o non aiutano abbastanza”. E così via, fino alla ricerca spasmodica del colpevole, che però è tale, per parte degli utenti guinness di presenze sul web, solo quando si apre la stagione della caccia, solo quando qualcosa è andato storto. E’ la società del dolore 2.0. Le case, le scuole, gli ospedali, tutto crolla. Si comincia ad avere paura, a chiedersi come hanno ricostruito. Lecito, giusto, comprensibile, purché non si lotti solo oggi o per qualche giorno, ma quotidianamente. La buona edilizia, del resto, è una battaglia di legalità e di civiltà. Noi in Irpinia lo sappiamo bene, ma non tutti hanno imparato la lezione. Per citare mia nonna: “C’è chi non aveva nulla e ora ha la villa col giardino e chi è ancora in attesa di una casa”. Ovviamente, per esaurire il cerchio dell’opinabilità, non mancano i commenti alla foto del premier Renzi con un vigile del fuoco, alle prese con le operazioni di salvataggio. “Attento non manterrà le promesse”, “E’ una scenetta costruita a regola d’arte”, “Non ha neanche un’unghia di Pertini”. Ecco, anche la scrivente, risaputamente antirenziana, ha difficoltà a comprendere l’accanimento a priori in questi giorni tremendi, che risucchia tutto e tutti nella spirale del tutto fa brodo. E’ evidente che non siamo in presenza dello spessore morale dell’ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Assodato ciò, lasciate le tastiere e riempite i seggi, perché la rivoluzione si fa col voto pulito. Le fondamenta morali, quanto quelle dei palazzi, reggeranno solo quando non si faranno più gare a ribasso. E anche se in Irpinia non mancano i recidivi, noi non arrendiamoci, avendo sempre a mente il monito pertiniano: “Il miglior modo di onorare i morti è pensare ai vivi”. Francesca Contino.
Facciamo parlare una testimone di un lontano disastro. Io la botta non la ricordo, scrive Cristina Cucciniello su "L’Espresso” il 25 agosto 2016. Avevo un anno, non ricordo il momento della scossa di terremoto, nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980. Era domenica, passate le sette; mio padre ricorda la tranquillità del dopo-campionato davanti alla tv: a quell'epoca, le partite di serie A venivano trasmesse in chiaro e - come ora - subito dopo partiva la tiritera dei commenti. Se torno indietro con la memoria, ho la vaga immagine di mia madre che mi appoggia sul sedile posteriore della nostra automobile. E poi Dario (un volontario, amico dei miei) che mi porta a cavalluccio sulle spalle, nei capannoni della Caritas vicino alla nostra ex-casa. Arrivarono da tutto il mondo tanti di quei giocattoli, per noi bambini sopravvissuti al terremoto, che io ancora ricordo il mio stupore per la quantità; allora i miei erano due ventenni non particolarmente benestanti, in una città rasa al suolo, che davano una mano a smistare gli aiuti umanitari: così tanti peluche, in un colpo solo, non li avevo mai visti. A un anno non capisci la tragedia e capita pure l'impossibile, l'assurda gioia di avere in regalo un peluche enorme. I cazzi amari arrivano dopo, molto dopo. Il dolore, la rabbia sorda, arriva dopo. Anche per gli adulti, intendiamoci: nei primi momenti c'è la disperazione, lo stupore, la disgrazia della perdita dei propri cari e dei propri averi. Ma la rabbia arriva a mente fredda, ti accompagna nel corso degli anni, non va mai via. Non gliela voglio augurare, ma sarà così anche per la popolazione di Amatrice ed è stato così anche per gli aquilani. Io, dopo 36 anni, sono ancora incazzata. Perché la tragedia che ci ha colpito non è consistita solo nei 90 secondi della scossa, ma negli anni successivi: lo scempio del mio territorio, la violenza del ricostruire interi paesi a valle, rispetto agli insediamenti originari, la colata di cemento che ha preso il posto dei materiali tradizionali, l'improvvida decisione di voler profittare della ricostruzione per imporci una industrializzazione forzata che non era e non è nelle corde di un'area collinare e montana, priva di adeguate vie di collegamento. Ne discutevo giorni fa con un amico per metà irpino: chi ha in corpo una goccia di sangue irpino, chi è lupo almeno in parte, davanti a quel cemento soffre. Avellino oggi è una città di bruttezza devastante. Non ha filo logico, non ha congruenza, non ha eleganza. Alterna costruzioni finto ottocentesche a obbrobri ricoperti da vetro e marmo. Strade pavimentate a lastroni lasciano il posto a piazze cementificate. E "buchi", palazzi ancora non ricostruiti, perfino nel corso principale. Ed ecomostri, volgari ville a colori sgargianti che punteggiano le colline intorno alla città - ne vedo una dalla casa dei miei defunti nonni, un pugno nell'occhio fucsia in mezzo al verde. Questa bruttezza mi perseguita, fin da bambina: a 14 anni sono entrata, per la prima volta, in una scuola di mattoni, dopo aver frequentato elementari e medie in orridi cubi di lastroni prefabbricati, che - peraltro - nascondevano fibre di vetroresina e tracce di amianto; a 11 anni sono entrata in una casa "vera", dopo 8 anni in una casetta di legno. A 18 ho lasciato una città per la quale - tuttora - non provo nulla, se non rabbia: solo qui a Roma posso alzare gli occhi e venire sommersa dalla bellezza. Roma, perfino nei suoi angoli più beceri e volgari, toglie il fiato. Roma ha una sua logica, ha una pianta circolare, che - come una cipolla - mostra l'espansione della città nei secoli, con stili architettonici diversi. Ma, ad Avellino, io non ho una storia da osservare, non ho un quartiere del quale posso dire di essere parte: a Pianodardine, subito accanto al Rione Ferrovia, dove mio padre è nato e dove faceva il bagno nel fiume, oggi si susseguono capannoni industriali in parte abbandonati e si muore per mesotelioma e leucemia (vi dice niente il nome Isochimica? Uno dei molti, preziosi regali che una classe politica scellerata ha voluto fare alla nostra comunità). Per provare un minimo di senso di appartenenza, devo andare sui monti, in mezzo ai nostri boschi. Solo nel verde posso vedere la bellezza dell'Irpinia. Perché racconto questa storia? Perché sia di monito, perché aiuti a comprendere che non sarà solo in queste ore che le comunità di abitanti delle zone colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 avranno bisogno di supporto, solidarietà, attenzione. Vivranno anni in cui dovranno combattere per preservare quel poco di storia e legami col territorio che il sisma ha lasciato in piedi. Vivranno la tentazione di andar via (come ho fatto io). Vedranno l'arrivo di chi vorrà speculare sul dramma: da noi è accaduto, è storia. Dite di no: è quel che sento di dire a quelle persone. Dite di no quando qualcuno arriverà e vi proporrà "dai, giacché ci siamo costruiamo qui la mega-fabbrica e la mega-tangenziale". Dite di no, quando vi proporranno le new town. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.
LA LEZIONE DI L'AQUILA. L'avvertimento del terremotato di Libero: "Attenti, ecco chi sono i veri sciacalli", scrive Miska Ruggeri il 25 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Dalle 3.32, ora del terremoto dell'Aquila il 6 aprile 2009, alle 3.36, ora del sisma di Amatrice. In mezzo le 3.33, per il folklore cristiano «l'ora del diavolo», in contrapposizione alle tre del pomeriggio, quando, almeno così vuole una tradizione, Gesù, la seconda persona della Trinità, morì sulla croce (a 33 anni; e da qualche parte si legge anche che era venerdì 3 aprile del 33 d.C.). Coincidenze e superstizioni. Ma in molti nel cuore della scorsa notte, svegliati dalla terra che si muove - i lampadari che iniziano a dondolare, i mobili che si spostano, l'intonaco che cade - riversandosi in strada terrorizzati, ci hanno pensato. Nel capoluogo abruzzese i (pochi) residenti del centro storico e i turisti alloggiati in alberghi e bed and breakfast sono stati invitati a uscire all' aperto e le manifestazioni della Perdonanza celestiniana sono state annullate (si manterrà probabilmente solo l'apertura della Porta Santa a Collemaggio e il corteo della Bolla, eventi clou previsti per domenica prossima). Qui, del resto, nessuno ha dimenticato la tragedia di sette anni fa e a parecchi abitanti è sembrato di rivivere l'incubo. Tanto che ore dopo in giro, nonostante la giornata di sole e relativo caldo, non si vede gente a passeggio, chi gira a piedi lo fa con gli occhi sbarrati come uno zombie, i negozi sono vuoti e il traffico inesistente, anche in viale Croce Rossa tra Piazza d' Armi e lo stadio. Ora il pensiero va ai conterranei di Amatrice (dal 1265 al 1861 parte del giustizierato d' Abruzzo e della provincia Abruzzo Ultra II, con capoluogo L' Aquila; e fino al 1927 provincia dell'Aquila) e dei paesi vicini, ai numerosi morti e ai sopravvissuti. Che avranno davanti anni e anni molto duri. Perché l'emergenza sarà gestita ancora una volta benissimo (in Italia in questo siamo all' avanguardia nel mondo e sono già a disposizione degli sfollati 250 appartamenti antisismici del Progetto C.a.s.e.); Protezione civile, Vigili del Fuoco e volontari faranno miracoli con abnegazione e spirito di sacrificio, lavorando 24 ore su 24. Ma poi, inevitabilmente, arriveranno i mostri della burocrazia, gli sciacalli pronti a rovistare tra le macerie degli edifici (per rubare non solo effetti personali e preziosi, ma con il passare dei mesi persino le mattonelle dei bagni), le cricche, le false promesse dei politici («Non lasceremo solo nessuno», ha dichiarato a caldo il premier Renzi: figuriamoci, passata l' emozione del momento, l' agenda del governo sarà riempita da mille altre priorità), le lotte intestine per spartirsi i soldi, le imprese edili che vincono l' appalto e poi falliscono all' improvviso lasciando i lavori a metà, le infiltrazioni della camorra, le inchieste giudiziarie e i ricorsi al Tar, l' esodo della popolazione, il frantumarsi del tessuto sociale, le dipendenze da alcool e psicofarmaci, gli euro buttati via per i puntellamenti di palazzi comunque destinati a essere abbattuti... Tutte cose che, purtroppo, all' Aquila conosciamo bene. I miei genitori sono ancora fuori casa (l'apertura della pratica per il progetto di ricostruzione sarà esaminata, se tutto andrà secondo programma e non è scontato, nel 2017; poi passeranno altri due anni, di «tempi tecnici», per la messa in opera del primo chiodo), in regime di «autonoma sistemazione» dopo mesi passati in un albergo sulla costa adriatica. E io, pur vivendo a Milano, mi ricordo bene, avendole raccontate su questo giornale, le assurdità post sisma. Il Comune chiuso per il lungo ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio 2009, l'ufficio Ricostruzione aperto due ore il martedì mattina e altre due ore il giovedì pomeriggio, le dimissioni mille volte annunciate e poi ritirate dal sindaco, la pantomima dei soldi stanziati o meno («Dateci fondi», «Ve li abbiamo già dati», «Non è vero»). Stavolta sarà diverso, diranno. Speriamo. Miska Ruggeri
TERREMOTO E BUFALE. Tutte le bufale sul terremoto. È l'ora delle panzane social. Dalla magnitudo truccata alla prevedibilità dei terremoti fino al solito carillon di fotografie fuori contesto e al jackpot del SuperEnalotto: il peggio sui sul web a poche ore dalla tragedia, scrive Simone Cosimi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". BUFALE E TRUFFE popolano puntuali i social network in queste ore di dolore e di emergenza per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Come sempre accade in occasione di fatti simili. D'altronde gli sciacalli non si muovono solo fra le macerie reali ma saltano con agilità anche fra quelle virtuali. Diffondendo notizie inventate di sana pianta, rilanciando bufale, proponendo soluzioni impraticabili, sfruttando l'onda emotiva per rinforzare tesi insostenibili. Sempre facendo leva su quei 268 morti e sulle centinaia di feriti. Alcune sono, se possibile in un contesto tanto delicato, di scarsa pericolosità, come il fraintendimento sull'hotel Mario di Cesenatico, che in molti hanno ritenuto fosse della cantante Fiorella Mannoia. La quale aveva solo copiato e incollato sul suo profilo l'appello (reale) di un albergatore, così come ha fatto in altri casi. Altre posseggono invece una carica esplosiva che vale la pena disinnescare senza indugio. Su tutte, quella del presunto taroccamento della magnitudo del sisma (da 6.2 a 6.0) per evitare che lo Stato debba accollarsi i costi della ricostruzione. La responsabilità sarebbe di una presunta legge voluta dall'allora governo presieduto da Mario Monti che fisserebbe la soglia del rimborso a 6.1 gradi. Nulla di più inventato. La bufala, circolata già in passato, si aggancia a un articolo del decreto-legge n.59 del 15 maggio 2012 poi convertito nella legge n.100 del 12 luglio 2012, quello di riordino della Protezione civile. Quell'articolo, che prevedeva l'assicurazione privata per i rischi derivanti da calamità naturali, fu soppresso al momento della conversione. Nessun limite risulta da nessuna parte del testo (approvato pochi giorni prima del terremoto che colpì l'Emilia-Romagna) e in ogni caso i risarcimenti vengono calcolati sulla base di un'altra scala, la Mercalli-Cancani-Sieberg, che valuta l'intensità del sisma in termini di danni prodotti sul territorio e non in base alla magnitudo della scala Richter. Sono nozioni che s'insegnano in terza elementare. Un'altra bufala è quella del jackpot del SuperEnalotto da destinare alla ricostruzione. L'hanno lanciata alcuni politici, contribuendo così alla confusione: su tutti Antonio Boccuzzi del Pd e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia. Innescando anche numerose petizioni su Change.org e Firmiamo.it e il coinvolgimento di star come Fiorello. Peccato che la Sisal sia una società privata che gestisce il concorso su concessione statale. Al massimo si potrebbe lavorare sulla tassazione collegata (o spingere Sisal a una donazione indipendente) ma certo è impossibile sottrarre quel montepremi maturato nel corso dei mesi in virtù delle puntate dei giocatori, che scommettendo firmano di fatto un contratto con la società in base al quale questa si impegna a redistribuirlo in caso di vittoria. Di sciacallaggi digitali se ne stanno vedendo molti. Da personaggi di dubbia notorietà che non riescono a contare fino a 10 prima di scrivere ad altri che utilizzano la tragedia come pretesto da servizio fotografico fino, appunto, alle amarissime panzane. Come quella sui rifugiati e sul loro "pocket money" (che alcuni, come a Gioiosa ionica, hanno perfino deciso di donare): non si tratta certo dei 30 euro al giorno (spesso soglia massima), che servono alla totalità delle spese per la loro ospitalità, ma di 2,5. Affitto del locale, costi di gestione, pulizia, vitto: c'è tutto, in quella quota giornaliera da 30 euro versata dallo Stato in base a bandi locali dei comuni su indicazione ministeriale attingendo a fondi in buona parte europei a ciò dedicati e non destinabili altrove. In queste ore si sono poi registrate bufale sulle reti idriche danneggiate e sull'acqua non potabile, smentite dalle aziende che se ne occupano, su presunti rischi di tsunami elettromagnetici e sugli ormai tristemente noti terremoti artificiali, oltre che su un altro motivo ricorrente delle situazioni post-sisma: la loro prevedibilità e periodicità, visto che secondo molti stregoni "avverrebbero di notte e col caldo". Una tesi che non ha alcun fondamento scientifico né nel primo caso né nel secondo: basta sfogliare il drammatico catalogo dei terremoti degli ultimi mille anni per coglierne l'assoluta casualità. Nullo anche il collegamento con la meteorologia. Si possono al contrario elaborare mappe di rischio, studiare le serie storiche, determinare aree e zone in maggiore pericolo. Ma di modelli attendibili di previsione non c'è purtroppo alcuna possibilità di stilarne. E la comunità scientifica internazionale è spesso tornata sul punto. Quando ce ne sono - e in questo caso non ce ne sono state - neanche le avvisaglie, i cosiddetti "foreshock", fanno fede e non possono che essere collegati con nesso causale solo a posteriori. Intorno a queste grandi bufale sui social network se ne sviluppano a decine, che ruotano sostanzialmente intorno alla mistificazione di immagini di altri eventi, alla fantasiosa variazione sulla solidarietà giunta dal mondo (è il caso dei 10mila uomini della protezione civile russa in marcia verso il nostro Paese) o a varie tipologie di fondamentalismo. È per esempio accaduto con la foto di un bimbo estratto dalle macerie 22 ore dopo il sisma, in realtà presa dal terremoto di Katmandu del 25 aprile 2015. Oppure altre immagini, come quelle di una chiesa in Emilia risalente al sisma di quattro anni fa. Anche sui social network è fondamentale fare riferimento alle fonti tecniche, che (su Twitter INGVterremoti, CNgeologi, Palazzo_Chigi, CroceRossa) e alzare al massimo l'asticella su ciò che circola sulle nostre bacheche.
TERREMOTO E SOCCORSI. Terremoto, polemiche sui ritardi soccorsi. La Protezione civile: nessun ritardo, scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "Il Messaggero". «La macchina dei soccorsi si è attivata subito, pur aver scontato ritardi dovuti al fatto di dover arrivare in una zona di montagna, con la viabilità sconvolta: raggiungere ogni singola frazione è difficile ma il sistema si è orma completamente dispiegato». Lo ha detto a Uno Mattina Carlo Rosa, responsabile Protezione Civile del Lazio, respingendo le accuse di ritardi nei soccorsi. E' stato in particolare il sindaco di Accumoli ad accusare ritardi nei soccorsi, sottolineando che la prima squadra dei pompieri è arrivata alle 7.40, oltre tre ore dopo la prima scossa. I soccorritori hanno incontrato diverse difficoltà per raggiungere Accumuli, uno dei comuni in provincia di Rieti più colpiti dal terremoto che ha interessato la zona a cavallo tra Lazio, Marche e Abruzzo. Diverse strade sono infatti interessate dai crolli e questo non consentiva ai mezzi di soccorso di raggiungere il paese. Rabbia e sconcerto tra gli abitanti di Illica, una frazione a pochi chilometri da Accumoli (Rieti). «Vogliamo i militari, stiamo aspettando, noi paghiamo», ha denunciato Alessandra Cappellanti, residente ad Illica, «c'è una caserma ad Ascoli, una Rieti, una all'Aquila e non si è visto un militare, fate schifo!». La disperazione anche nelle parole di Domenico Bordo, un altro abitante del villaggio, «sono sotto le macerie, non ci è ancora andato nessuno, ci vogliono i mezzi». Secondo un primo bilancio nella frazione di Illica, ci sarebbero almeno altri 3 morti e 4 dispersi.
Scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "New Notizie". Dopo il terribile sisma che ha coinvolto il centro Italia ed ha distrutto diversi paesi in provincia di Rieti ed Ascoli Piceno, facendo finora più di venti vittime, arrivano le polemiche per i soccorsi. Secondo molte persone, che tenevano aggiornato il Paese in diretta sui social, i soccorsi sono arrivati troppo in ritardo rispetto alle prime chiamate. Il sindaco di Amatrice, Pirozzi, ha sostenuto che la macchina dei soccorsi è ritardata. “Ho chiamato i soccorsi alle 4 ma ancora non abbiamo visto nessuno, è scandaloso” ha sostenuto il primo cittadino. La giornalista Sabrina Fantauzzi ha invece denunciato ritardi nel soccorso ad Illica. Su Facebook la donna ha scritto: “Illica, il paese della nostra infanzia, non c’è più. La scossa terribile alle 3 e 40. I sopravvissuti tutti in un campo all’aperto. Eravamo circa 300 persone, tutti romani, in villeggiatura. Siamo rimasti in 30. Ancora nessuno è venuto a soccorrerci”. Sul suo post la donna scrive: “Il 113 non risponde, non risponde nessuno”. Poco dopo la Fantauzzi pubblica un altro post: “A Illica, vicino ad Accumoli (altro paese gravemente colpito dal terremoto, ndr), sono arrivate solo due ambulanze, ci sono 4 soccorritori, prendono feriti ma non stanno intervenendo sulle case distrutte con dentro gente morente”.
Di seguito si riporta l’opinione di Vittorio Feltri che non fa mancare le solite sue scivolature razziste e giustizialiste.
Vittorio Feltri il 28 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”: vi spiego perchè ci servirebbe un Bertolaso. Il più efficiente è stato il ladro napoletano. Bisognerebbe metterlo a lavorare a Palazzo Chigi, ramo interventi d' urgenza. Appena sentita la scossa, accertato qual era la località più disastrata, si è attrezzato e ha organizzato la sua operazione di pronto intervento. Da sotto il Vesuvio si è mosso verso Amatrice ed è arrivato prima delle «colonne mobili» della Protezione civile. E dire che partiva da più lontano. Il brigante partenopeo ha comprato da cittadino perbene il biglietto del treno per Roma, mica da prendersi una multa, poi dalla Capitale si è arrangiato con mezzi propri. Così nel primo pomeriggio è stato sventuratamente (per lui) bloccato mentre già se ne stava andando dalle rovine dove aveva scavato alacremente per riempire di bottino la valigia. Se lo avessero linciato, troveremmo articoli pensosi sul diritto a un giusto processo anche per gli sciacalli, non il mio però. Bisogna che qualcuno sia cattivo davanti ai morti. Non faccio fatica ad assumermi il compito. In questi giorni è tutto un sacrosanto commuoversi, e dappertutto in televisione e sui quotidiani sta prevalendo il politicamente corretto: guai a chi scompiglia con un sassolino il laghetto delle lacrime collettive. Ieri siamo stati criticati nel programma In Onda di La7 perché abbiamo detto che oggi prevale nelle autorità dello Stato, Boldrini in testa, il pensiero di come fare bella figura con i morti, visto che tra i sopravvissuti non sono affatto popolari, poiché con i loro elicotteri e le visite di cortesia hanno rotto non solo i gazebo. E qui, al diavolo se mi danno del renziano, concordo con Marco Travaglio nel non associare al gruppazzo unto dei propagandisti Matteo Renzi, il quale è corso a vedere, ha detto poche cose oneste e senza trombe al seguito. Ma adesso non gliene risparmieremo una. Faccia subito un esame di coscienza, alla sua e a quella dei suoi uomini, e non a quella di Caino Monti e Adamo Berlusconi. Gli facilitiamo il compito. Infatti anche se nessuno lo ha fatto notare, tranne il nostro Franco Bechis, la Protezione civile è rimasta imbambolata e ha sottovalutato l'entità della devastazione. Il testimone della lentezza e della disorganizzazione è proprio il ladro terrone. Il sindaco di Napoli, Gigi De Magistris, ha annunciato che si costituirà parte civile contro il concittadino reprobo che danneggia la reputazione della città partenopea. Dovrebbero denunciarlo per diffamazione la Protezione Civile e il ministro dell'Interno: perché con la sua rapidità ha dimostrato che in Italia si può essere svelti. Solo a rubare però. Mi rendo conto che butterà male per Libero. Questi sono i giorni della solidarietà. D' accordo. Ma per mettere mano al portafogli ne basta appunto una, con l'altra qualche pugno sul tavolo mi sento in obbligo di tirarlo. E sfido ad accusarmi di immoralità o cinismo. Fu Enrico Berlinguer, il campione della questione morale (la morale degli altri: infatti incassava ancora l'oro di Mosca), a rompere con la Democrazia cristiana e a far andare in crisi il governo Forlani dopo il sisma in Irpinia, dove si distinse tra i tuoni del terremoto la voce accusatoria di Sandro Pertini. Il Capo dello Stato fece a pezzi tutto lo Stato, salvo, con oculata scelta, se stesso, come fosse uno appena sceso dal cielo agitando le alucce scandalizzate. Il Corriere della Sera gli prestò un altoparlante formidabile, inveendo a ragione contro i ritardi dei soccorsi e la disorganizzazione. Oggi né sul Corriere né altrove si osa dire un beh, in compenso si odono belati complimentosi. Forse perché le comunicazioni per conto della Protezione civile le fa la spigliata Titti Postiglione, che ha il merito indiscutibile di essere sorella del vicedirettore del Corriere, il valente Venanzio? Il familismo conta sempre in Italia. C' è però soprattutto un'altra ragione, ritengo: e sta in quello che abbiamo denunciato prendendoci la ridicola accusa di razzismo. La macchina del soccorso urgente in Italia ha il tom tom a destinazione prioritaria se non unica: le coste della Libia, dove spediamo navi, elicotteri in quantità e con lodevole velocità. Non fa niente se questa presunta certezza spinge migliaia di persone a partire su gommoni sfasciati e predisposti al naufragio, ma è un fatto. Per cui i radar del Pronto soccorso, che è il ramo specifico della Protezione civile, sono tutti puntati verso i barconi e il mare e non verso le nostre terre ballerine. Lo ha denunciato dalla Sierra Leone il disgraziatissimo Guido Bertolaso, il quale ha notato da laggiù, dove si sta dedicando a un ospedale, la discrepanza di trattamento tra migranti africani e terremotati indigeni (nel senso di italiani). Il poveretto è stato subito zittito a male parole. Bertolaso, basta parlare con chi l'ha osservato al lavoro, è un fenomeno nell' organizzare i soccorsi degli altri, ma non di se stesso, per cui si è trovato impiccato per essere stato oggetto di alcuni delicati massaggi durante il giusto riposo del guerriero. Ora ce ne vorrebbe uno così. Anzi, avrebbe dovuto essercene uno così. Poi si faccia fare tutti i massaggi brasiliani e thailandesi che desidera, offro io. Invece... Invece hanno dormito, eccome, se lo hanno fatto. Sono rimasti in bambola. Non dico i volontari, quelli sono arrivati di corsa, e pure in troppi. Ma quelli pagati, i capi, avevano la testa altrove o erano in ferie. O sono più bravi a comunicare lestamente che a recarsi sul posto prontamente. Su youtube si può riascoltare la telefonata del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, a Radio 24. C' è già stata la seconda scossa. Le prime luci dell'alba mostrano la sciagura immane. Le sue parole sono: «Guardi, servono unità speciali che tirino fuori le persone da sotto le macerie. La nostra emergenza è che dobbiamo fare in modo tirar fuori da sotto le macerie la gente». Lo ripete tre o quattro volte. Il giornalista gli chiede se ci sono dei morti. Pirozzi è stupitissimo della domanda. Com' è possibile che dopo tanto tempo non si abbia nessuna contezza della gravità dell'accaduto: «Il paese non c' è più». Ripete: «Bisogna cercare di far venire nelle nostre zone delle unità speciali. Anche elicotteri, abbiamo attrezzato i campi. Stiamo cercando di far venire i pompieri...». Finalmente il conduttore capisce: «Lanciamo l'appello». Risposta: «Grazie, grazie, grazie, Dio vi benedica». Stupito il cronista chiede: «Ha ricevuto telefonate da Palazzo Chigi?». Risposta: «No no no. Da Palazzo Chigi e dalla Protezione civile no. Dalla Regione, ho parlato con la prefettura di Rieti». Continua: «Spero che riusciate a darci una mano. Case non ce ne stanno più e la gente sta sotto». La prima colonna mobile della Protezione civile del Lazio si è mossa - secondo comunicato ufficiale - alle 9 e 40, quando lo sciacallo vesuviano era già per strada da tre ore e passa (la prima scossa è stata alla 3 e 36). Se fosse stato vicino alla battigia di Tripoli, in mezzora arrivava un incrociatore con elicotteri. Noi non diciamo prima gli italiani poi i profughi. Ma almeno par condicio. Ridateci Bertolaso. Vittorio Feltri
Terremoto, le due facce del volontariato. Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno assistito a questi eventi non solo da spettatori, scrive Ilvo Diamanti il 29 agosto 2016 su “La Repubblica”. L'altra faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti. Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione. Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti. Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.
L’Italia… paese di furbi, scrive Armida Tondo il 7 febbraio 2012 su “Italnews”. Noi italiani non cambieremo mai, siamo pronti a sparare a zero su tutti, spesso senza conoscere i fatti! L’ultima polemica, nata a causa del maltempo di questi giorni, è nata sull’intervento dell’Esercito nelle zone più colpite. Ma andiamo ai fatti. Tutto nasce dai sindaci alle prese con l’emergenza neve, chiedono e ottengono l’aiuto dei militari dell’Esercito, fin qui nessun problema! Però i nostri amministratori scoprono che gli uomini dell’Esercito hanno un costo. E allora, qual è il problema? Se non vado errata, chi vuole mi potrà smentire, la protezione civile, le associazione di volontariato, hanno contributi statali e non solo, ogni singola sezione comunale ha contributi regionali, provinciali e comunali, o sbaglio? Tornando al caso scoppiato stamattina, insomma gli amministratori scoprono che la presenza degli uomini e mezzi dell’Esercito ha un costo, dieci spalatori, soldati con una pala in mano, costano al giorno 700 euro. A far scoppiare il caso è il Presidente della Provincia di Pesaro Urbino, Matteo Ricci, che ha dichiarato: “Non voglio fare polemiche, in un momento così drammatico le istituzioni devono collaborare e non polemizzare, ma non mi sembra giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile, quando raggiungere o non raggiungere un’abitazione, un borgo sepolto dalla neve è spesso questione di vita o di morte per anziani, malati, bambini. I Comuni e le Province sono già strozzati dal Patto di stabilità, stanno spendendo milioni di euro, che non hanno, per mettere in campo spazzaneve, pale meccaniche, servizi di prima necessità, e devono pagarsi pure l’Esercito…”. E chi dovrebbe pagare? Oppure i soldati non hanno un costo? Vorrei fare alcune riflessioni. Premesso che ritengo giusto che chi lavora venga pagato, analizziamo la situazione. Sono certa che i Vigili del Fuoco, il personale dell’Enel, il personale della Protezione Civile, chiunque sia impegnato in questi giorni nei luoghi più colpiti dal maltempo venga retribuito. Allora mi chiedo: perché i soldati no? Forse sarebbe opportuno spiegare ai nostri lettori che ogni movimento della protezione civile, così come altre associazioni di volontariato, usufruisce di un contributo o “rimborso spese” che, senza entrare nel merito di come viene calcolato, in ogni caso è comunque denaro! Cari presidenti di regioni e sindaci perché non dite quanto vi costa, anzi, scusate, quanto ci costa a noi contribuenti, avere un “volontario” della protezione civile davanti alle scuole ogni mattina? O quanto ci costano i loro mezzi di trasporto? E vogliamo parlare di volontari che pur avendo un posto di lavoro, svolgono il volontariato con un contributo mensile che spesso si avvicina ad uno stipendio… allora prima di sparare sul costo dell’Esercito, andiamo a vedere i costi dei volontari! Ancora una volta riaffiora la mentalità retrograda e faziosa di qualche decennio fa, quando si pensava che il soldato fosse a costo “zero”, tanto dalla mattina alla sera bighellona in caserma. Oggi le Forze Armate sono fatte di volontari professionisti, basta leggere le cronache relative alle missioni fuori area, e, pertanto, come per tutti i professionisti, la loro opera ha un costo. I mezzi non si muovono senza gasolio, gli equipaggiamenti hanno un costo e si usurano, i soldati mangiano come tutti gli esseri umani…e allora, perché è scandaloso pagarli? Forse il dott. Ricci intendeva che a pagarli fosse lo Stato. Ma dov’è la differenza? O forse per Ricci esiste ancora “pantalone”? Armida Tondo
MA I VOLONTARI A PAGAMENTO SONO VOLONTARI? Si chiede Michela Scavo il 26 luglio 2012. Il volontariato è un’attività libera e gratuita svolta per ragioni private e personali, che possono essere di solidarietà, di assistenza sociale e sanitaria, di giustizia sociale, di altruismo o di qualsiasi altra natura. Può essere rivolto a persone in difficoltà, alla tutela della natura e degli animali, alla conservazione del patrimonio artistico e culturale. Nasce dalla spontanea volontà dei cittadini di fronte a problemi non risolti, o non affrontati, o mal gestiti dallo Stato e dal mercato. Per questo motivo il volontariato si inserisce nel “terzo settore” insieme ad altre organizzazioni che non rispondono alle logiche del profitto o del diritto pubblico. Il volontariato può essere prestato individualmente in modo più o meno episodico, o all’interno di una organizzazione strutturata che può garantire la formazione dei volontari, il loro coordinamento e la continuità dei servizi. Questa è la definizione di Volontariato che possiamo trovare su Wikipedia. A Palazzago ultimamente il tema “Volontari” è molto in voga. Pare ci siano volontari per ogni cosa: per il volantinaggio, per l’assistenza allo spazio compiti, quelli delle varie associazioni, quelli tanto ricercati per ripulire scuole e via dicendo. Ma ci sono volontari e volontari. Ci sono quelli veri e ci sono quelli con il rimborso spese da 5,16 euro all’ora. Premesso che poco mi importa se dei cittadini vengono pagati miseramente per svolgere attività sul territorio, ma perché continuiamo a chiamarli VOLONTARI? Non sarebbe più giusto definirli collaboratori sottopagati? Già, non si può perché non sono sotto pagati, percepiscono un rimborso spese. Allora la mia domanda è, se vengono rimborsate delle spese dove possiamo trovare la documentazione, per ogni singolo presunto volontario, che certifica queste spese? E se di rimborso spese si tratta per quale motivo pare che ci siano dei volontari a rimborso che attendono da tempo i soldi che gli spettano? Poi non stupiamoci se ci sono associazioni di volontari da 1800 euro l’anno e associazioni da 26mila euro l’anno. I volontari vanno pure spesati giusto? E non mi si venga a dire che senza il rimborso nessuno farebbe il volontario a titolo gratuito, lo dimostrano tante associazioni sul territorio e alcuni gruppi di recente formazione che il volontariato vero a Palazzago può esistere tranquillamente. A questo punto sono proprio curiosa di capire perché nessuno dei nostri amministratori, di fronte allo sdegno di alcuni per i contributi alla Pro Loco non abbia menzionato la questione. Forse perché nonostante la vagonata di soldi predisposta anche quest’anno sono in arretrato con i rimborsi spese? O forse perché se non si decidono a tirare fuori le quattro palanche che devono rischiano di trovarsi senza volontari sugli scuolabus a settembre? Come è possibile che nella convenzione con la Pro Loco non si accenni alla retribuzione di tali finti volontari? Forse perché in realtà non si tratta di volontari ma di cittadini sottopagati praticamente al servizio del comune, che camuffa dei compensi con il rimborso spese? Non sono proprio sicura che sia una cosa fatta a regola d’arte ma c’è una commissione che si occupa delle associazioni, qualcuno sicuramente saprà darci una risposta. Michela Scavo
Fai il volontario e chiedi un rimborso? Prima paga la tassa. I soccorritori che chiedono il rimborso della giornata di lavoro devono allegare due marche da bollo da 16 euro, scrive Franco Grilli, Domenica 06/07/2014, su "Il Giornale". Ci può essere una pretesa più assurda di quella di far pagare una tassa a chi presta il proprio tempo per opere di volontariato? Temiamo proprio di no, eppure, a quanto pare, si è verificato anche questo. Con un'interrogazione urgente il parlamentare bellunese Roger De Menech (Pd) ha chiesto al governo di fare piena luce su quanto gli è stato segnalato dal responsabile del Soccorso alpino, Fabio Bistrot. "Voglio proprio sapere - dice il parlamentare - chi è il geniale burocrate che pretende 32 euro da ciascun volontario ogni volta che fa un intervento di soccorso e, di conseguenza, chiede il rimborso della giornata di lavoro persa. Di certo non ha mai fatto il volontario". L'importo, a quanto si apprende, corrisponde a due marche da bollo da 16 euro ciascuna da apporre a ciascuna richiesta di rimborso presentata dai volontari. "E’ incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari", afferma sdegnato De Menech. "Se a farlo è addirittura lo Stato, aggredisce la dignità dei volontari e mina il principio di sussidiarietà. Questo increscioso episodio conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere da usare contro i nostri concittadini". Nell’interrogazione che ha presentato De Menech chiede ai ministeri interessati cosa intendano fare per "superare un’interpretazione giuridica che avvilisce la dignità stessa dei soccorritori, considerato peraltro il ruolo fondamentale da essi svolto nella stagione estiva, sia sull’arco alpino che su quello appenninico, volto a garantire la presenza dello Stato in tali ambienti e a fornire quel supporto di sicurezza, prevenzione e soccorso alle migliaia di turisti, italiani e stranieri, che decidono di trascorre le proprie vacanze in tali luoghi". Con il rischio evidente che, l'assurda tassa, possa scoraggiare i generosi volontari dal continuare a prestare la loro opera. I volontari della protezione civile, se nella vita sono lavoratori dipendenti, in caso di soccorso durante il terremoto o altre calamità naturali, hanno diritto alla retribuzione. Sono pagati dal datore di lavoro con il normale stipendio e hanno diritto la conservazione del posto di lavoro. L’azienda a sua volta può chiedere il rimborso all’Inps. Ma è necessario effettuare alcuni adempimenti. Ai volontari lavoratori autonomi spetta invece una indennità. Vediamo tutte le informazioni.
Diritti dei lavoratori, scrive Antonio Barbato il 30 agosto 2016. Gli eventi sismici che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni hanno evidenziato il ruolo chiave in Italia dei Volontari della protezione civile, dei Vigili del Fuoco e degli appartenenti alle forze armate e di polizia. Le attività di protezione civile sono fondamentali in Italia, soprattutto per far fronte alle emergenze. L’attività dei volontari è disciplinata dalla legge italiana soprattutto in termini di diritti dei lavoratori. Il volontario che nella vita è lavoratore dipendente del settore privato o pubblico ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e allo stipendio. Il volontario che nella vita è lavoratore autonomo ha diritto ad un indennità. Quando coloro che svolgono attività di volontariato sono impegnati in operazioni di soccorso per calamità naturali o catastrofi o per attività di addestramento e simulazione, pianificate dall'Agenzia Nazionale per la Protezione civile o dalle altre strutture istituzionali, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, sia pubblico che privato e hanno diritto inoltre al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro e alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dalla legge. Quindi alla domanda “i volontari di protezione civile sono pagati?” la risposta è che il volontariato della protezione civile è un servizio gratuito reso dal volontario ma spetta loro lo stipendio, se sono lavoratori dipendenti. E spetta una indennità se sono lavoratori autonomi. Vediamo perché. Il legislatore ha provveduto a tutelare i volontari lavoratori che, in caso di impiego nelle attività di Protezione civile a seguito della dichiarazione dell’esistenza di eccezionale calamità o avversità atmosferica, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri “straordinari" (dall'attivazione dei primi soccorsi alla popolazione e degli interventi urgenti necessari a fronteggiare l'emergenza, fino all'attuazione degli interventi necessari per favorire il ritorno alle normali condizioni di vita nelle aree colpite da eventi calamitosi). In tali casi, nonché a seguito dell’impiego in attività di pianificazione, soccorso, simulazione, emergenza e formazione teorico-pratica, anche svolte all’estero, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, al trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato, nonché alla copertura assicurativa.
Diritti dei volontari di protezione civile. I volontari che partecipano all’opera di soccorso (effettivamente prestato) hanno diritto:
al mantenimento del posto di lavoro pubblico o privato;
al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato;
alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dall’articolo della legge 11 agosto 1991, n. 266, e successivi decreti ministeriali di attuazione.
Ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 8 febbraio 2001, n. 194, l’obbligo del datore di lavoro è quello di permettere l'impiego del volontario per un periodo non superiore a 30 giorni consecutivi e fino a 90 giorni nell'anno. Per le attività di simulazione i limiti si riducono a 10 giorni consecutivi e 30 nell'anno, e per emergenza nazionale i termini sono rispettivamente di 60 e 180 giorni.
Quindi si viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale, i limiti possono essere elevati fino a 60 giorni continuativi (e fino a 180 giorni nell’anno). I limiti restano tali per tutta la durata dell’emergenza nazionale e per i casi di effettiva necessità.
Il diritto allo stipendio. Nei periodi di assenza del Volontario del servizio civile, il datore di lavoro deve mantenere il posto di lavoro e la copertura assicurativa (Inail) e gli deve corrispondere il normale trattamento economico e previdenziale (quindi stipendio e versamento dei relativi contributi all’Inps). Nello specifico per ogni giornata di assenza tutelata e retribuita spetta la retribuzione globale di fatto giornaliera, ossia tutti quegli elementi della retribuzione che vengono corrisposti normalmente e in forma continuativa (si pensi allo stipendio base, al superminimo, all’indennità di contingenza, agli scatti di anzianità, ecc.). Per quanto riguarda la tassazione in busta paga, non cambia nulla, nel senso che il dipendente volontario della protezione civile riceve il normale stipendio assoggettato alla ritenute fiscali, quindi all’Irpef al netto delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente, familiari a carico, ecc.
Il datore di lavoro ha diritto al rimborso Inps. Il datore di lavoro può poi richiedere rimborso delle somme versate al lavoratore impegnato come volontario. La richiesta va inoltrata all’Inps. I contributi previdenziali versati durante l’assenza del lavoratore non sono però rimborsabili. Al fondo per la retribuzione civile spetta quindi l'onere finale della retribuzione erogata dal datore di lavoro al Volontario di Protezione civile, mentre al datore di lavoro rimane il compito di avanzare richiesta di rimborso all'Autorità della Protezione Civile competente nei due anni successivi al termine dell'intervento, dell'esercitazione o dell'attività di formazione. Nella richiesta vanno indicate in maniera analitica la qualifica professionale del dipendente, la retribuzione oraria o giornaliera spettante, le giornate di assenza dal lavoro, l'evento cui si riferisce il rimborso e le modalità di accreditamento del medesimo.
La documentazione da presentare al datore di lavoro. Prima di tutto il lavoratore che è impegnato come Volontario della Protezione civile ha un obbligo comunicativo, che è quello di informare quanto prima il datore di lavoro della sua partecipazione alle operazioni di soccorso. Al termine delle operazioni stesse, il lavoratore, compatibilmente con le esigenze del soccorso, deve consegnare la dichiarazione del sindaco (o di un suo delegato) dalla quale risulti l'impiego come volontario nelle operazioni di soccorso. La distribuzione dell’orario di lavoro dei volontari di protezione civile. I lavoratori appartenenti ad organizzazione di volontariato hanno diritto, compatibilmente con le esigenze organizzative aziendali, di fruire di un regime di orario di lavoro concordato nell’ambito di una distribuzione flessibile degli orari (art. 17 L. 266/91). Tale disciplina non si applica a che svolge attività di volontariato in modo occasionale, ma solo a chi l’esercita nell’ambito delle associazioni di volontariato. Le predette disposizioni si applicano anche nel caso in cui le attività interessate si svolgono all’estero, purché preventivamente autorizzate dall’Agenzia. Detto regime è esteso anche agli appartenenti alla Croce Rossa Italiana, ai volontari che svolgono attività di assistenza sociale ed igienico / sanitaria, ai volontari lavoratori autonomi e ai volontari singoli iscritti nei “Ruolini” delle Prefetture, qualora espressamente impiegati in occasione di calamità naturali.
Quali sono le associazioni di volontariato. Sono considerate associazioni di volontariato di protezione civile quelle associazioni che siano costituite liberalmente e prevalentemente da volontari, riconosciute e non, e che non abbiano fini di lucro anche indiretto e che svolgono o promuovono attività di previsione e soccorso in vista od in occasione di calamità naturali, catastrofi o altri eventi similari, nonché di formazione nella suddetta materia. Presso l’Agenzia per la protezione civile è istituto l’elenco nazionale dell’Agenzia di protezione civile. Le organizzazioni di volontariato, iscritte nei registri regionali previsti dall’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, nonché in elenchi o albi di protezione civile previsti specificamente a livello regionale, possono chiedere, per il tramite della regione o provincia autonoma presso la quale sono registrate, l’iscrizione in questo registro al fine di una più ampia partecipazione alle attività di protezione civile.
Volontari di protezione civile lavoratori autonomi: spetta un rimborso giornaliero fino 103,29 euro. Ai volontari impiegati in attività di protezione civile che siano lavoratori autonomi e che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero fino a 103,29 euro al giorno. A chi esercita attività di volontariato all'interno di un'associazione ed in modo non occasionale, il datore di lavoro deve, compatibilmente con le esigenze aziendali, dare diritto ad un orario di lavoro flessibile. Più precisamente, ai volontari lavoratori autonomi appartenenti alle organizzazioni di volontariato e legittimamente impiegati in attività di protezione civile, che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi (modello UNICO) presentata l'anno precedente a quello in cui è stata prestata l'opera di volontariato, nel limite di Euro 103,29 giornalieri lordi. La misura effettiva dell’indennità, volta a compensare il mancato reddito, è stabilita ogni anno con D.M. lavoro: dato che, per il 2016, la retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria è pari a euro 2.127,39, su questa base va calcolata l'indennità spettante per il mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro. Tale importo deve essere diviso per 22 o per 26, a seconda che la specifica attività di lavoro autonomo sia svolta rispettivamente in 5 o 6 giorni per settimana (Ministero del lavoro, decreto 9 marzo 2016). Lavoratori autonomi: adempimenti per la richiesta del rimborso. I volontari che siano lavoratori autonomi, al fine di percepire l'indennità prevista dal comma 3 dell'art. 1 della legge 18 febbraio 1992, n. 162, per il periodo di astensione dal lavoro, debbono farne richiesta all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione competente per territorio. La domanda deve essere inoltrata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui il volontario ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione. Alla domanda, che deve contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione, deve essere allegata l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata, nonché la personale dichiarazione dell'interessato di corrispondente astensione dal lavoro, resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.4. L'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una volta determinato l'ammontare dell'indennità spettante al volontario, sulla base dell'importo fissato annualmente con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale procede quindi al pagamento dell'indennità all'avente diritto. Ai fini della determinazione dell'indennità compensativa del mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro per l'espletamento delle attività di soccorso o di esercitazione, non si tiene conto dei giorni festivi in cui le medesime hanno avuto luogo, fatta eccezione per quelle categorie di lavoratori autonomi la cui attività lavorativa si esplica anche o prevalentemente nei giorni festivi.
Rimborso Inps: adempimenti del datore di lavoro. Come abbiamo detto, il datore di lavoro è obbligato ad erogare al lavoratore impegnato in operazioni di soccorso come Volontario della Protezione Civile la normale retribuzione, salvo poi poter far richiesta di rimborso. A tal fine va presentata apposita domanda all’Inps, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello dell'operazione. Quante giornate e ore sono rimborsabili? Sono rimborsabili le giornate e le ore di effettiva astensione dal lavoro del volontario di Protezione civile. Sono da escludersi le ore di lavoro prestate nella giornata prima dell'astensione o comunque effettuate dopo l'operazione di soccorso, nonché le giornate, di riposo settimanale, festivo, di ferie, del sabato in caso di "settimana corta", eccetera. L’Inps rimborsa solo per i lavoratori dipendenti iscritti presso le proprie gestioni. La domanda va presentata online e deve contenere:
le generalità del lavoratore;
l'importo della retribuzione corrisposta;
l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei Comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata;
una dichiarazione del datore di lavoro indicante la corrispondente astensione dal lavoro;
la dichiarazione del lavoratore attestante l'appartenenza al CNSAS.
Come diventare volontario della protezione civile. In molti vorrebbero diventare Volontario della protezione civile: vediamo quali sono i requisiti richiesti. Molti si chiedono come entrare nella protezione civile. Riportiamo le disposizioni della Protezione civile. Per poter svolgere attività di protezione civile come volontario a supporto delle istituzioni che coordinano gli interventi, è necessario essere iscritti ad una delle organizzazioni di volontariato di protezione civile inserite negli elenchi Territoriali o nell'elenco Centrale. Gli elenchi territoriali sono consultabili presso la Regione o la Provincia autonoma nella quale si intende svolgere – in prevalenza – l'attività di protezione civile e su questo sito, nella sezione volontariato. L’elenco Centrale, composto da poche organizzazioni nazionali di coordinamento, è consultabile sempre su questo sito nella pagina elenco centrale delle Organizzazioni di volontariato. Chi desidera diventare volontario di protezione civile può, al momento dell'iscrizione presso un'organizzazione di volontariato di protezione civile, valutare una serie di elementi che caratterizzeranno la propria attività nel settore scelto:
ambito territoriale di evento (nazionale, regionale, comunale ecc.);
ambito dimensionale dell'evento (tipo a), tipo b), tipo c) in base all'articolo 2 della legge n. 225 del 1992);
eventuale specializzazione operativa dell'organizzazione (sub, cinofili, aib);
livello di partecipazione con le attività istituzionali;
disponibilità richiesta;
vicinanza della sede alla propria abitazione.
I regolamenti delle varie associazioni possono prevedere adempimenti o limitazioni particolari (es. visita medica per lo svolgimento di mansioni particolari o requisito della maggiore età ai fini dell'iscrizione). Per un approfondimento sul ruolo del volontariato all'interno del Servizio Nazionale di protezione civile è possibile visitare la sezione volontariato. Un'altra possibilità di partecipazione è offerta (solo per alcune fasce di età) dal servizio civile; per avere informazioni su quest'ultimo, occorre consultare l'indirizzo serviziocivile.gov.it.
E per quanto riguarda i volontari dei vigili del fuoco? Per quanto riguarda l'iscrizione nel ruolo dei Vigili del Fuoco Volontari, allo stato attuale le iscrizioni del personale volontario sono sospese, fino al 2014 ho sentito dire, ma di questo non ho conferma. Quello che so di preciso è che la Legge n. 183 del 2011 (che sarebbe poi la Legge di stabilità relativa al 2012) ha disposto, tra le altre cose, l'applicazione di un tetto massimo di nuovi reclutamenti volontari. Di conseguenza tutti i Comandi che hanno già in archivio un numero di domande superiore a quello previsto dalla normativa, non possono nè istruire nuove pratiche, nè accettare ulteriori domande di iscrizione. Quindi, non ti resta che andare al tuo Comando Provinciale e chiedere se puoi almeno presentare la domanda. Per quanto riguarda le retribuzioni, bisogna intanto fare una distinzione fra Vigile Volontario vero e proprio e Vigile Volontario Discontinuo, che sono due figure diverse. Il vigile volontario vero e proprio, quello che fa servizio nei distaccamenti di personale volontario per intenderci, non percepisce uno stipendio ma prende comunque qualcosa, anche se poco. Praticamente, i vigili del fuoco volontari ricevono un compenso in base alle ore di intervento realmente prestate, nonchè per ogni ora di addestramento obbligatorio, che si effettua presso un Comando o comunque una sede con Vigili Permanenti. Quindi, alla fine prendi un tot ad intervento: se fai 12 ore di servizio ma in quelle 12 ore non succede niente, non guadagni niente. Se fai 4 ore di intervento, prendi per 4 volte il compenso orario, che si aggira intorno ai 6 euro l'ora (o almeno era così fino all'anno scorso, comunque il compenso non arriva a 7 euro l'ora). Poi c'è il Vigile Discontinuo: se sei iscritto nei ruoli dei Vigili Volontari come Discontinuo, quando c'è necessità vieni chiamato in servizio per un periodo che può essere di 20 giorni ma anche di 40 e anche, in certi casi, 100, se c'è necessità e se hai la disponibilità per farlo... Comunque sia, i richiami sono sempre di 20 giorni, quindi anche se fai 60 giorni di lavoro sono tre diversi contratti a termine. Come Vigile Discontinuo prendi uno stipendio vero e proprio, per 20 giorni prendi più o meno 1100 €, questo perchè prendi lo stipendio calcolato sui giorni lavorati, ai quali si aggiungono il rateo di tredicesima e la quota t.f.r (essendo un contratto a termine). Inoltre ti pagano eventuali straordinari e reperibilità, che sei libero di dare o non dare.
E poi chiamali, se vuoi, volontari (con contratto pubblico): I volontari della Croce Rossa.
Niente post terremoto per i soccorritori: pagati per non fare nulla, rimangono a casa. Con le scosse del 24 agosto pensavano di essere più utili in centro Italia che in Lombardia. Ma non sono partiti. Sono gli effetti della privatizzazione della Cri: esuberi e stipendi tagliati per alcuni addetti, mentre altri non escono più in ambulanza. E per coprire i buchi di bilancio si cerca di vendere il patrimonio immobiliare, scrive Michele Sasso e Monica Soldano il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Dalla Lombardia alle zone colpite dal terremoto. Per non stare con le mani in mano, per usare sul campo la propria esperienza di soccorritore. Nei giorni del post-sisma che ha devastato Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto per gli uomini della Croce rossa del comitato lombardo non c’è però nessuna missione: «Non c’è bisogno di voi» è la risposta arrivata dal presidente nazionale Francesco Rocca. I dipendenti che si sono fatti avanti sono tra i 200 lavoratori che dopo la privatizzazione del 2014 hanno deciso di mantenere il contratto pubblico. Da anni timbrano ma fanno poco. Le dieci ambulanze non escono dai garage. Sono autisti e barellieri ma non fanno più la loro professione. In quanto dipendenti pubblici, non possono fare servizi in convenzione (come, ad esempio, le ambulanze per il 118 o il trasporto di malati fuori dall’emergenza) perché esclusi dalla legge. E poi nel 2015 un altro passo verso il paradosso. «Da inizio anno non lavoriamo più sulle ambulanze e giriamo a piedi per Milano svolgendo un servizio di pochissima utilità, equipaggiati con uno zainetto pieno di garze e cerotti», ha raccontato al Fatto quotidiano Mirco Jurinovic, soccorritore e dirigente sindacale di Usb. Costano 4 milioni di euro all’anno ma non vengono utilizzati. È il risvolto kafkiano della privatizzazione. Ci sono voluti due anni per provare finalmente a trasformarsi in una struttura efficiente, indossando il vestito nuovo dell’associazione privata. Gli effetti non sono quelli sperati. Ecco come buttare al vento la passione di 150mila volontari, quasi tremila dipendenti tra personale civile, infermieri e dipendenti del Corpo, e impoverire il servizio d’emergenza in molte Regioni. Il piano di riorganizzazione pensato dall’ex premier Monti ha provocato evidenti cortocircuiti: esuberi e stipendi tagliati per una fetta di addetti, mentre altri vengono pagati per non fare nulla. Oltre al tentativo di svendita dell’immenso patrimonio di quasi 1.500 palazzi e terreni, il frutto di 150 anni di donazioni di chi pensava di fare del bene. Nella fase di transizione è intervenuto con due proroghe anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha messo sul piatto della finanziaria oltre 300 milioni di euro. Fondi necessari a pagare i debiti e tenere in piedi l’esercito di barellieri e operatori del primo soccorso. Emilia De Biasi, presidente Pd della commissione Sanità al Senato è tranchant: «La Croce rossa italiana è ancora un carrozzone con un patrimonio di sedi e competenze svilito. La riforma è un’urgenza: ci vuole trasparenza per tutta la gestione, e invece il ministero della Salute continua a prendere tempo». Nel 2012 si decide di dire basta alla crocerossina di Stato. Privatizzando le organizzazioni provinciali, quindi sciogliendo gli apparati centrali che non hanno mai conosciuto la spending review e «bruciato» un miliardo di euro negli ultimi dieci anni. E qui viene a galla il primo problema, la ricollocazione del personale: ancora adesso ci sono circa 2mila persone da piazzare. Il decreto firmato nel settembre 2015 dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia prevedeva esclusivamente il traghettamento verso i ministeri, o istituti come Inps o Inail. Un non sense riparato con la finanziaria, che allarga la possibilità anche al servizio sanitario nazionale, per gran parte degli interessati una collocazione naturale. «Temiamo che il ministero non riesca a gestire il ricollocamento - denuncia Nicoletta Grieco della Cgil - finora c’è stata una gestione scomposta e nessun coordinamento con le Regioni ed Asl locali. Mancano otto mesi alla fine dell’anno e il rischio è la mobilità, seguito dal baratro del licenziamento». In tanti hanno preferito non abbandonare l’uniforme e sono passati ai nuovi comitati. Con un salto all’indietro: lo status di associazione privata prevede contratti targati Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) con stipendi mensili decisamente inferiori, da 1.600 a 1.100 euro. Epicentro della cura dimagrante il Lazio, dove sono concentrati oltre 1200 dipendenti, su un totale nazionale di 2788 addetti. Disorganizzazione e casi-limite come quello di D.M., operatrice precaria che per 25 anni ha lavorato al Centro di educazione motoria (Cem) di Roma. Nel 2011 decide di fare causa per ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato e il Tribunale dopo due anni le dà ragione. «Con il nuovo corso mi è stato imposto di non mettere più piede al Cem. Spostata al comitato metropolitano, ho seguito l’emergenza freddo: un campo di tende per dare assistenza ai senzatetto. Il piano è durato dal 15 gennaio al 21 marzo e da allora ogni giorno timbro per non fare nulla». Mentre al centro per la cura di pazienti con gravi disabilità diventato di eccellenza grazie ai quattrini del leggendario canzoniere Mario Riva il personale è stato dimezzato e l’assistenza ridotta ai minimi termini. La privatizzazione avrebbe dovuto portare efficienza e risanamento economico. Nel primo anno - il 2014 - il «disavanzo di cassa è perdurante, posizione debitoria è preoccupante e pesante ricorso all’anticipazione bancaria», ha sottolineato la Corte dei conti. Così per coprire i buchi di bilancio la soluzione è drastica, vendere i gioielli di famiglia: 1.045 fabbricati e 413 terreni. Un’impresa non facile. L’ultimo tentativo risale al maggio 2014, quando 19 lotti tra palazzi e appartamenti vengono messi all’asta: da La Spezia a Schio, fino a Casale Monferrato e Pavia. Finisce all’incanto anche la storica sede sul lungomare di Jesolo, Venezia, e presto la stessa sorte toccherà al palazzetto ottocentesco del quartier generale di Roma. In Laguna il prezzo precipita: da 42 milioni è sceso a 34. Sull’eccessivo ribasso la deputata grillina Arianna Spessotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. La risposta del ministero della Salute è arrivata il 17 marzo scorso. Per il sottosegretario Vincenzo De Vito “nessuna svendita”: il ribasso di un quinto del valore è regolare, dopo che le prime due sedute sono andate deserte. Dopo c’è stato un nuovo sconto sul valore dell’immobile ma ancora nessun acquirente. Eppure, a Jesolo, partiti e sindacati non si danno pace perché vedono il rischio di smobilitare i servizi, con 50 dipendenti a spasso. E il via libera alla speculazione. «Quel palazzetto sul mare, con 18mila metri quadrati di spiaggia, ha dei vincoli ben precisi», attacca Salvatore Esposito di Sel. E anche per la Sovrintendenza dei beni culturali si tratta di un edificio di interesse storico, in cui non si possono rimuovere gli affreschi né alterare la struttura delle stanze. Per il conte Ottavio Frova, la donazione del 1928 si vincolava alla cura della “fanciullezza trevigiana”. Nel tempo è prima diventata una colonia per i malati di tubercolosi. Oggi è anche un centro per i rifugiati. Fabio Bellettato, ex capo della Cri Veneto, sul tema aveva lanciato un appello al presidente nazionale Francesco Rocca. Era in disaccordo sulla vendita del patrimonio immobiliare come unica possibilità di risanamento. La richiesta di Bellettato è rimasta inascoltata, mentre lui si è dimesso. Mancanza di democrazia, centralizzazione del potere e interesse solo per le missioni all’estero: sono le critiche mosse dai comitati periferici verso Francesco Rocca, avvocato che gestisce l’ente sinonimo di solidarietà ed aiuto come un padrone assoluto. Un esempio? Quando nel 2011 la funzionaria Anna Montanile ha denunciato alla trasmissione tv “Report” le incongruenze della gestione delle sedi è stata trasferita all’archivio storico. A fare ricerche sulle bandiere. Oggi mentre la Cri è alle prese con un serrato piano di risanamento, Rocca è spesso all’estero per missioni che fanno bene alla sua immagine di numero due della federazione internazionale: Iran, Siria, progetti post terremoto di Haiti ed emergenza profughi. «Non ho rimborsi né indennità, mi viene pagato solo l’albergo quando sono in missione», precisa Rocca a “l’Espresso”: «Da presidente non prendo stipendio, sono totalmente volontario. Purtroppo veniamo da trent’anni di assoluto abbandono. Abbiamo bisogno di dipendenti, ma non in quel numero e con quello spreco». Il presidente-volontario è stato per più di quattro anni commissario straordinario, voluto da Berlusconi (con un budget annuale di 320mila euro), da maggio 2015 è direttore dell’Idi di Roma, l’ospedale dermatologico più grande d’Europa. Di proprietà della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione è al centro di una storiaccia brutta di bancarotta fraudolenta, fatture false e un passivo patrimoniale di 845 milioni di euro.
Ambulanze, il business delle onlus. E il soccorritore lavora in nero, scrive Massimiliano Coccia il 19/05/2014 su “Il Tempo”. La Regione non indice bandi ma si affida unicamente a gettoni a chiamata. Gli operatori del 118 sfrecciano nel traffico a sirene spiegate. Sono i primi ad essere colpevolizzati in caso di ritardi nei soccorsi, sono gli ultimi ad abbandonare il mezzo a fine turno. Ma in tantissimi casi per stare su quelle autoambulanze non hanno un regolare contratto di lavoro. Colpa della crisi e dei tagli alla sanità. Ma, secondo molti, anche della situazione venutasi a creare in seguito ad alcune delibere regionali (271/2011 e 325/2011) che favoriscono nei servizi di trasporto extraospedaliero di emergenza le onlus rispetto agli operatori privati. Queste delibere, che violano il diritto europeo in materia (causa C113/13 della Regione Liguria), creano un sistema, che se confermato, lede in maniera forte ai principi di concorrenza tra privati e di tutela sia dei lavoratori che degli assistiti. Inoltre, essendo le «onlus» enti associativi senza finalità di lucro, non dovrebbero percepire lo stesso rimborso da parte di Ares che spetta ai privati e dovrebbero basarsi solamente sul lavoro volontario. Invece, come ci racconta G.A. (iniziali di fantasia), operatore del 118 dal 2008, molti di loro svolgono un lavoro dipendente a tutti gli effetti, stando sui mezzi 5 giorni su 7 senza assicurazione e senza contratto.
Come sei entrato a lavorare nel mondo del trasporto extraospedaliero?
«Nel servizio di ambulanze in convenzione o a chiamata "spot" per il servizio pubblico del 118 Lazio, ci sono entrato nel 2008, dopo aver perso l'ennesimo lavoro. Il mio contratto scade tra 15 giorni, dopo aver lavorato per molti mesi in nero, come lavorano molti che vengono chiamati per sopperire alle carenze dell'Ares 118».
E come venivi pagato in nero?
«Il gioco è semplice. Viene fatto firmare un foglio per il cui il volontario dichiara di prestare la sua opera senza fini di lucro, ma di fatto entra nel mondo perverso del lavoro in nero. Tutti percepiscono un "rimborso spese" che va dai 50 euro al giorno per 12 ore fino ai 70/80 euro per gli infermieri. Qualsiasi volontario avrebbe diritto ad un rimborso spese giornaliero che comprende il viaggio, il pranzo ed eventualmente un caffè al bar, solo che gli "pseudo volontari" come me, dovevano rientrare la sera a casa e procurarsi almeno 60 euro di scontrini o ricevute, altrimenti la mia giornata lavorativa andava persa. Ci sono "pseudo volontari" che fanno 25 turni al mese, secondo il fisco, come possono mantenere una famiglia solo con i rimborsi spesa?».
Ci spieghi il meccanismo di finanziamento di una "onlus" che si occupa di trasporto ospedaliero?
«L'Ares 118, per sopperire alla carenza di personale, incarica sia le "onlus" e sia le ditte di ambulanze private riconoscendo alle prime un rimborso di circa 450 euro per 12 ore e ai privati di circa 500 euro per 12 ore, con la differenza che i privati hanno i dipendenti in regola. Pagando persone a nero o sottopagandole si avrà una scarsa qualità del personale e del servizio. Vale la pena ricordare che in questo lavoro la parola d'ordine dovrebbe essere professionalità. Più volte in ambulanza ho lavorato con un infermiere neanche iscritto all'IPAVSI».
Quali rischi corri ogni giorno salendo su un mezzo di fatto privo di ogni assistenza previdenziale e assicurativa?
«I rischi in questo lavoro sono molteplici dati proprio dalla peculiarità del servizio, in particolare quelli infettivo ed epidemiologico. E la tutela assicurativa è inesistente. Anni fa ebbi un infortunio in servizio che fu refertato dal pronto soccorso del Pertini e l'unica preoccupazione della finta associazione di volontariato per cui prestavo servizio fu quella di farmi riferire che stavo svolgendo il turno da volontario».
Possiamo parlare di un sistema pianificato a tavolino per incassare i contributi pubblici sulla sanità e per fare cassa sulla previdenza lavorativa?
«Non so se sia pianificato o meno, ma trovo assurdo che la Regione non indica un bando per affidare la gestione di questi servizi e vada avanti con lo spot o il gettone a chiamata».
La questione del risparmio non riguarda solo voi operatori, anche il parco vetture è vetusto e non conforme alle direttive regionali. Quanti sono i mezzi non a norma nella Regione Lazio?
«C'è una delibera della Regione Lazio che vieta la circolazione dei mezzi di soccorso che abbiano maturato più di cinque anni di immatricolazione e servizio, ma in realtà vedo in giro ambulanze da museo con la totale indifferenza di tutti, in primis dalla centrale 118 che dovrebbe immediatamente bloccare quei mezzi».
Avete cercato di esporre il caso alla magistratura e alle forze dell'ordine?
«Io e altri colleghi abbiamo fatto denunce ed esposti ma non hanno portato a nulla. Ci hanno detto che la giustizia farà il suo corso, ma nel frattempo i primi a rischiare per questi disservizi sono i cittadini trasportati in situazioni critiche su mezzi vetusti e con personale sottopagato e non qualificato. A volte mi chiedo dove vadano a finire tutti i soldi che si mettono a bilancio per la sanità».
TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO. «Eravamo lì per aiutare, ci hanno trattato da sciacalli», scrive Simona Musco il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. I giornali nazionali li hanno sbattuti in prima pagina con accuse infamanti e senza lo straccio di una prova. «Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco». Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di «fare del bene». Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l'accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come «malviventi» - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano «tra le rovine di una casa diroccata» con «fare sospetto». Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. «Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv - racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni -. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l'invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta». Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull'Aspromonte, per tutti simbolo di una 'ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un'occasione. «In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero». I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. «Lontano, dunque, dalle case», sottolineano. I due passano da una divisa all'altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. «Era pur sempre un lavoro da fare», dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. «Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi», spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. «Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano -. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti». Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all'ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. «In quel momento - spiega Trimboli - è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare». È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell'ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell'auto, domande sul come e il perché si trovano lì. «I carabinieri hanno controllato l'auto ma non c'era nulla», spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. «Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato - racconta Grillo -. Ce n'erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano». I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: «per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli -. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo». I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. «È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c'è stato bisogno», conclude Trimboli. A loro carico, ora, c'è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. «Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare».
E poi ci sono gli sciacalli mediatici. Dapprima i media avevano diffuso le sue generalità e pareva fosse un pregiudicato napoletano. Ma invece non è così. Si tratta infatti di un nomade di etnia Rom arrivato appositamente da Napoli in Treno, scrive “La Voce del Trentino” il 26 agosto 2016.
Arrestato sciacallo ad Amatrice: è un pluripregiudicato napoletano, scrive “Il Mattino di Napoli” il 25-08-2016. I carabinieri del comando provinciale di Rieti, nell'ambito dei servizi messi in atto al fine di reprimere il fenomeno dello sciacallaggio a seguito del forte sisma, hanno tratto in arresto un pluripregiudicato napoletano, Massimiliano Musella, 41 anni, residente al Rione Alto. Una delle pattuglie poste in campo e composta dal comandante della stazione di Leonessa e da un militare dipendente dello stesso reparto, coadiuvati da militari del 7° rgt laives, nel pomeriggio odierno, nella frazione «Retrosi» del comune di Amatrice, hanno colto all'improvviso l'uomo che tentava di forzare con un cacciavite, la serratura di un'abitazione colpita dal sisma e disabitata. I militari lo hanno sorpreso alle spalle e l'uomo, vistosi braccato, ha tentato di divincolarsi ingaggiando con i militari, una violenta colluttazione, ferendo con il cacciavite, uno dei militari. I carabinieri al termine della breve colluttazione sono riusciti a immobilizzarlo e ad ammanettarlo. Dopo averlo disarmato, lo hanno accuratamente perquisito rinvenendo nella tasca dei pantaloni, un biglietto ferroviario datato 24 agosto 2016 tratta Napoli-Roma, confermando la tesi che il pregiudicato, era giunto sul luogo del sisma, prima in treno e poi in pullman, con l'intento di far razzie all'interno delle abitazioni colpite dall'evento tellurico. L'uomo, gravato da numerosi precedenti penali per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione e porto abusivo di armi è stato tratto in arresto con l'accusa di rapina impropria e lesioni personali e tradotto presso la casa circondariale di Rieti a disposizione dell'autorità giudiziaria locale. I militari, ricorsi alle cure mediche da parte dei sanitari presenti nel campo allestito per le vittime del sisma, sono stati giudicati guaribili in 6 giorni.
Il racconto degli angeli di Amatrice: «Così abbiamo arrestato lo sciacallo», continua Ebe Pierini su “Il Mattino di Napoli” il 26-08-2016. Lì dove non possono arrivare con le auto perché ci sono solo macerie loro arrivano a piedi. Sono stati i primi a giungere sul luogo del sisma ed ora sono 400 i carabinieri che pattugliano il territorio di Amatrice ed Accumuli, 24 ore su 24, per impedire che gli sciacalli entrino nelle case abbandonate per rubare. Com'è successo giovedì quando a finire in manette è stato il 41enne napoletano Massimiliano Musella. «Mentre transitavamo in auto per la frazione di Retrosi, vicino Amatrice, io e il mio collega, l’appuntato scelto Gianni Reali, abbiamo notato un uomo che armeggiava con un cacciavite nei pressi del portone di legno di un’abitazione – racconta il maresciallo Mauro Margarito, comandante della stazione di Leonessa – Siamo scesi dal mezzo. Io indossavo la pettorina dei carabinieri. Abbiamo intimato l’alt e lui è fuggito. Lo abbiamo rincorso e raggiunto e, mentre tentavamo di immobilizzarlo, ci ha offerto resistenza. Ne è nata una colluttazione. Siamo finiti tutti e tre a terra. Il caso ha voluto che in quell’istante passasse una pattuglia di colleghi del 7° reggimento Laives che ci ha aiutati ad ammanettarlo». «L’uomo è stato poi condotto presso il carcere di Rieti con l’accusa di rapina impropria e lesioni – aggiunge il capitano Emanuela Cervellera, comandante della compagnia di Città Ducale, dipendente dal comando provinciale di Rieti, che ha la competenza sulla zone di Amatrice ed Accumuli – Il maresciallo ha infatti riportato una distorsione dell’avambraccio sinistro, mentre l’appuntato scelto una ferita da taglio all’indice della mano destra e una contusione al gomito». «L’uomo ci ha minacciato dicendo che ci avrebbe denunciati perché quello che avevamo visto non corrispondeva al vero – racconta ancora il maresciallo Margarito – Ad insospettirci è stato anche il fatto che indossasse una pettorina con scritto security e che con sè avesse un grosso sasso oltre a un borsone. In tasca aveva un verbale di accertamento di violazione di 38 euro effettuato sul treno da Napoli a Roma in quanto non aveva pagato il biglietto, datato 24 agosto, il giorno del sisma. In un primo momento si è giustificato dicendo che era un soccorritore, ma ho comandato la stazione di Amatrice per due anni e mezzo e conosco tutta la gente del posto. Se fosse stato di lì lo avrei riconosciuto. Tra l’altro la mattina era stato già notato mentre cercava di oltrepassare i varchi di accesso alla città dicendo di essere un volontario». «La prevenzione dei furti fa già parte dei nostri compiti quotidiani – assicura il capitano Cervellera - Tranquillizzare la gente rappresenta un aiuto psicologico. Hanno lasciato tutte le loro cose all’improvviso ed è nostro compito farle loro ritrovare».
Terremoto, lo sciacallo arrestato ad Amatrice aveva annunciato l'impresa su Facebook: “Vado lì”, affonda il colpo Stella Cervasio nel suo articolo del 27 agosto 2016 su "La Repubblica". L'aveva scritto sul suo profilo Facebook il 24 agosto alle 18.48: "Vado lì". Dopo si è capito che intendeva nei paesi del centro Italia colpiti dal terremoto. M.M., 41 anni, di Chiaiano, ha preso un treno Napoli-Roma, è sceso alla stazione Tiburtina ed è salito su una corriera che l'ha portato ad Amatrice, quel nome di paese che aveva sentito in tv, spazzato via dal terremoto. Nella frazione di Retrosi i carabinieri l'hanno trovato ad armeggiare con un cacciavite al lucchetto di una porta di una delle case evacuate dopo il sisma. Si è girato e ha colpito i due uomini dell'Arma, che hanno un referto ospedaliero di cinque e sei giorni. "Che lavoro fa? Nessuno ", dicono al Comando provinciale di Rieti, dove peraltro sono presi da ben altri impegni, in queste ore. L'arresto di M.M., che è accusato di rapina impropria, lesioni e resistenza, è stato eseguito dai carabinieri di Città Ducale e deve ancora essere convalidato dal gip. L'uomo intanto è rinchiuso nel carcere di Rieti. Sul suo profilo Facebook, dove annunciava la partenza per i paesi terremotati, sono piovuti gli improperi di ogni genere, anche sotto le foto di statue di santi che aveva postato in precedenza, e le accuse di aver fatto vergognare i cittadini napoletani per aver battuto il peggiore dei record: è stato il primo (e finora per fortuna l'unico) sciacallo del dopoterremoto del Lazio. E purtroppo è targato Napoli, anche se il sindaco de Magistris, per segnare immediatamente la distanza della città da quest'azione, ha annunciato la costituzione di parte civile contro il responsabile. M.M è stato arrestato in precedenza una volta per droga e due volte per furto, quindi non è nuovo a questo tipo di lavori. Ma, pur vivendo ai Camaldoli, nel dominio del clan Polverino, non ne fa parte. M.M. ama piuttosto montare sui treni e fare bravate. Lo avevano visto anche l'anno scorso, alla prima udienza del processo contro Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Era arrivato con il gruppo innocentista che sui social ha anche diversi sottogruppi per la verità con non numerosissimi iscritti. Reggeva uno striscione che sosteneva che il carpentiere di Mapello, poi condannato all'ergastolo, fosse innocente. Sui giornali l'avevano descritto come "l'autista molto abbronzato, arrivato da Napoli ". E sarebbe andato anche a più di una udienza del processo. Secondo quanto i giornali di Bergamo scrissero, all'epoca avrebbe anche dichiarato davanti alle telecamere: "Un'accusa ingiusta e totalmente infondata - sostiene Massimiliano M.M, il napoletano che ieri mattina è arrivato in via Borfuro appositamente per seguire la prima udienza - non è lui il colpevole. Gli autori del delitto sono ancora in circolazione. Purtroppo le indagini non state condotte in modo adeguato".
Il video dello sciacallo: un falso grossolano, scrive Ugo Maria Tassinari il 26 agosto 2016. Un video supporta da stamattina una campagna virale sullo sciacallo napoletano a partire dalla notizia di stampa attivata da “Il Mattino” (proprio contro un suo concittadino). Un’onda di indignazione tale che il sindaco De Magistris ha annunciato la volontà di costituirsi parte civile. Peccato che il video non c’entri niente. A trascinare il fermato, infatti, sono poliziotti. E, a finale, arriva pure la smentita della Questura di Rieti, che racconta la reale dinamica. La polizia ha scongiurato il linciaggio di un innocente. Ecco la nota Agi: Roma – E’ polemica sullo sciacallaggio nelle aree devastate dal sisma: dopo una serie di denunce di individui sospetti sorpresi a rovistare tra le macerie, rilanciate anche dai media, la Questura di Rieti in un comunicato ha definite “prive di ogni fondamento” queste notizie. “I servizi di vigilanza, specificamente finalizzati al contrasto di possibili episodi di sciacallaggio, sono stati infatti attuati sin dai primi istanti con personale delle forze dell’ordine, e poi rafforzati nelle ore serali e notturne con l’arrivo dei reparti organici”, ha assicurato la Questura. Allo stato, “sentite anche le altre forze di polizia, non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati”. Sono stati eseguiti controlli su persone sospette o “semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi”, ma tutte le verifiche, conclude la Questura, “hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate”. Tra gli episodi segnalati c’era quello di un uomo identificato ad Amatrice perchè sorpreso con un trolley e sospettato di aver sottratto oggetti da alcune abitazioni. L’uomo ha rischiato il linciaggio da parte della folla, ma l’arrivo dei poliziotti ha evitato l’aggressione. Sempre ad Amatrice tre persone sono state fermate perché sorprese a rovistare nelle case abbandonate. Segnalazioni sono arrivate anche nell’ascolano nel comune di Arquata, in particolare nella frazione di Pescara del Tronto spazzata via dal terremoto. Secondo i soccorritori, si sono verificati casi già nel corso della prima notte del sisma. I carabinieri hanno intensificato i controlli in tutta l’area.
La versione corretta pubblicata dai media non ti aspetti.
Fermato un presunto sciacallo: rischia il linciaggio degli abitanti di Amatrice. Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice. Siamo nella zona alta vicino al giardino dove alcuni degli sfollati del terremoto cercano riparo dal sole. Un gruppo di abitanti del luogo ha notato un uomo di Napoli con una valigia piena e l'ha bloccato. Alla richiesta di far vedere cosa c'era dentro la borsa, il napoletano si è rifiutato. A quel punto sono intervenute le forze dell'ordine. Il video che IlGiornale.it ha realizzato in esclusiva mostra il momento del fermo. L'uomo grida aiuto dicendo "vi sbagliate, vi sbagliate". Le forze di polizia lo portano allora in un angolo al riparo dalla furia della folla che vorrebbe linciarlo. "Ma come si fa a rubare nelle case distrutte - dice molto alterato un ragazzo - entrano e si portano via tutto. Perché gli edifici non crollano quando ci sono queste persone dentro invece della gente perbene?". Alla conclusione di lunghe perquisizioni e accertamenti, i poliziotti in borghese ci fanno sapere che il presunto sciacallo "non è stato arrestato". Non sono stati trovati elementi certi per accusarlo. "Questa persona - aggiunge un ispettore della Digos - non ha commesso alcun reato a quanto pare". Ma è stato comunque allontanato dalla città: "Qui non serve", conclude l'ispettore. Il dubbio che fosse un delinquente rimane. Questa la ricostruzione dei fatti. Il presunto sciacallo sarebbe stato visto la prima volta da un ragazzo a pochi passi da un'abitazione dove si scavava tra le macerie. Avrebbe detto di dover riportare il caschetto protettivo ad un amico che stava lavorando all'interno della casa distrutta. Si sarebbe quindi spacciato per volontario. "Gli ho detto di darlo a me - racconta un ragazzo che era nei paraggi - ma insisteva per portarlo personalmente". Poco dopo l'episodio che ha scatenato il fermo. L'uomo, come detto, è stato notato con una valigia da alcuni cittadini di Amatrice e poi bloccato dalla Digos. "Diceva di essere un ingegnere", racconta il signore che l'ha intimato ad aprire la borsa. "Ma come? - fa eco un altro ragazzo - prima dice di essere un volontario e poi un ingegnere?". Durante il fermo avrebbe anche sostenuto di essere di Amatrice. Ma tutti gli abitanti assicurano di non conoscerlo. "Qui siamo tutti vicini - dice un signore - ci conosciamo bene". Il presunto sciacallo per provare a fornire un alibi avrebbe fatto il nome di un cittadino del luogo. Le forze dell'ordine lo hanno cercato per permettergli di fare un riconoscimento. Si trattava di un carabiniere. Il quale, appurato di non conoscerlo, ha avuto uno scatto d'ira. A raccontarlo è lo stesso militare. La polizia ci fa sapere che il sospettato non è un volontario registrato. Per questo motivo è stato allontanato dalla città. "Ci aspettiamo - conclude l'ispettore - di doverne allontanare altri". L'allerta sciacalli è altissima.
«Dagli allo sciacallo!». Gli untori di Amatrice, scrive Paolo Persichetti il 6 set 2016 su "Il Dubbio". Il caso dei rumeni Ion C. e Letizia A, fermati con il nipote di 7 anni con l'infamante accusa di sciacallaggio denunciato dall'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine di Rieti. Amatrice Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l'io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L'allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l'atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l'abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l'uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l'immancabile «nomade», avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che «allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati». Sono stati eseguiti - proseguiva il testo - controlli su persone sospette o «semplicemente presenti all'interno di aree interdette o in procinto di entrarvi», ma tutte le verifiche «hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate». Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c'è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L'esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà - come hanno raccontato al Dubbio - abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all'interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l'inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l'infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe «sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un'autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto». Dopo un'accurata perquisizione «venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l'accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell'arma, in attesa della relativa convalida da parte dell'autorità giudiziaria». La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all'interno gettati a terra. L'uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L'autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l'inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient'altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l'uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell'interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l'assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L'uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L'avvocato Conti ha sollecitato l'ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell'ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558).
TERREMOTO E SOLIDARIETA’. Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.
Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole".
Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.
Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.
LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania
TERREMOTO E SOCIAL NETWORK. "Tende no! Alberghi per gli sfollati", il tweet di Rita Pavone infiamma il web, scrive "L'Adnkronos.com" il 26/08/2016. "Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati". Con un tweet Rita Pavone scatena la polemica sul web parlando dell'assistenza agli sfollati, dopo il sisma. "Una volta che sono nelle tendopoli o nei containers, si rischia di veder passare anni prima che diano a questa gente una casa" aggiunge. Ma la 'Gian Burrasca' della canzone italiana, 71 anni appena compiuti, non si ferma: "Di cose ne ho viste. Si sono salvati solo in Friuli perché la gente del posto si è tirata su le maniche e ha fatto da sé". Per poi addolcirsi un po' per lasciarsi andare all'amarezza di chi come un po' tutti si sente impotente di fronte a questa tragedia. "In momenti come questi, le parole sono inutili - twitta con l'hashtag #terremoto -. Che il Signore ascolti le nostre preghiere".
Rita Pavone, sottoposta ad un linciaggio morale su Twitter, minaccia di lasciare il social, scrive Manuela Valletti il 31 agosto 2016. Twitter non perdona: lo ha capito Rita Pavone, sommersa da feroci commenti per aver preso le parti dei terremotati. Rita Pavone dà battaglia sui social per i terremotati. #Rita Pavone si è arrabbiata moltissimo per la reazione negativa che ha suscitato un suo post su Twitter: preoccupata per la sorte dei terremotati rimasti senza casa, ha scritto sul social questa frase:"Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i terremotati". Non l'avesse mai fatto! È stata tacciata di razzismo, di fascismo, di essere una fomentatrice delle masse e via di questo passo. La cantante ha tentato di spiegare con pacatezza il suo pensiero, dicendo che i terremotati nei containers ci rimangono per anni, e che di esempi di questo genere ne abbiamo avuti in tutti i terremoti fino ad ora verificatisi in Italia, ad esclusione di quello del Friuli, dove la gente del luogo non ha aspettato la politica, ma si è tirata su le maniche e ha ricostruito. Non c'è stato nulla da fare: le polemiche non si sono placate, e Rita era addirittura intenzionata a chiudere il suo account. Convinta di non essere né razzista né fascista, la Pavone è migrata su #facebookdove, senza demordere, ha provato a raccontare che cosa le era accaduto su Twitter, chiedendo ai suoi nuovi interlocutori se, secondo loro, aveva detto qualcosa di poco opportuno o di offensivo. Si è sfogata affermando che voleva solo difendere i suoi connazionali perché, anche se ora vive in Svizzera, si sente sempre italiana e poi ha tutti i diritti di dire la sua opinione, visto che in Italia paga regolarmente le tasse. Insomma, su Facebook Rita si è tolta qualche sassolino dalle scarpe e ha tacciato i frequentatori di Twitter di intolleranza, visto che non le hanno permesso di argomentare le sue ragioni e l'hanno anche apostrofata in modo offensivo, dicendole che era "solo una cantante" e quindi non all'altezza di intervenire in un dibattito così importante. Da Facebook è inaspettatamente arrivato un sostegno totale e uno sprone a non mollare. Per questo motivo Rita, anche se amareggiata, ha deciso di rimanere su Twitter. Diversi fans le hanno scritto che Twitter è molto snob e che lì, più che su altri social, vige il pensiero unico, quello dei cantanti "guru" che quando esprimono un concetto diventa vangelo. La Pavone, rinfrancata dall'affetto e dal sostegno dei suoi ammiratori, ha deciso di andare avanti con il dibattito per battere la meschinità di certe persone: ha ripreso il portatile e si è detta pronta a dare battaglia, anche se il campo questa volta non è "Ballando con le Stelle", ma il quotidiano di tanta gente che merita anche il suo aiuto.
Direttamente dalla pagina Facebook ufficiale di Rita Pavone: Ieri ho scoperto che i social sono molto poco...social. Ho bloccato così tanta gente che neppure l’ascensore rotto di un grattacielo…E sapete da cosa è nato il tutto? Da questo mio semplice twitter: “Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati”. Ho detto qualcosa di poco opportuno? Ho detto qualcosa di blasfemo? Ho detto qualcosa di offensivo? Beh… Eppure qui si è scatenato l’inferno…! Mi sono beccata di tutto: da fascista, a schifosa razzista, a fomentatrice di razzismo… Un delirio! Parrebbe un paradosso visto che difendevo i MIEI di connazionali – dico MIEI perché, per chi non lo sapesse, io ho un doppio passaporto, Svizzero e Italiano, ed essendo di origini italiane, cosa di cui vado fiera! è ovvio che ci tenga molto alla mia gente e al mio Paese, dove, tra l’altro, voto pure. Inoltre, pur abitando da quasi 50 anni in Svizzera, pago regolarmente anche in Italia fior di tasse: il 30% alla Fonte! Quindi, vedete, ho tutte le carte in regola per poter dire il mio pensiero senza venire azzannata da idioti somari. Sapete perché ho scritto quel tw? Perché in casi di cataclismi, si parla sempre di tendopoli o di containers che dovrebbero servire SOLO ed esclusivamente per l’emergenza. Ma poi una volta che il momento emotivo è passato, che non si contano più i morti, che non si fanno più servizi televisivi sui superstiti e che quindi del terremoto non se ne parla più, ecco che le tendopoli e i containers rimangono ma delle case da ricostruire neanche l’ombra. Così come le donazioni che vengono fatte dalla gente e di cui poi non si sa più nulla…Ho lavorato anni addietro nel Belice, e lì c’è gente che, 48 anni dopo (48 sic) vive ancora nei containers in attesa di una casa. Alla faccia dello stato di emergenza! Stessa cosa vale per l’Aquila…Cosa hanno ricostruito sino ad oggi? Niente! E sarà così, statene pur certi, anche negli anni a venire…Si sono salvati solo i terremotati dell’Emilia Romagna e del Friuli, poiché la loro gente si è tirata su le maniche e hanno ricostruito tutto da soli. Se aspettavano che lo facesse lo Stato…campa cavallo che l’erba cresce…. E’ vero che la gente teme gli sciacalli, i quali, una volta presi con le mani nel sacco dovrebbero essere buttati in una cella e gettata via la chiave per sempre ! e quindi preferirebbero non abbandonare mai le proprie case per non vedersi derubare del tutto, ma basterebbe una buona e stretta sorveglianza e questa povera gente non si vedrebbe costretta a stare all’addiaccio di notte ma potrebbe riposare in un comodo letto come fanno coloro che ospitiamo e che NON sono tutti in fuga da paesi in guerra, come ci vogliono far credere, ma, la maggior parte di loro, vengono da noi per trovare una situazione economica più favorevole. E in questo io non ci trovo assolutamente nulla di male. Detto ciò, sentirsi però poi dare dell’idiota e del “canta che è meglio”, che ho la … “pappa” nel cervello ecc.ecc, credo non faccia piacere a nessuno. O addirittura leggere “Si vergogni! Qui vengono fuori le sue vere origini …” come se io provenissi da una famiglia di ladri. Delle mie origini, gente, io vado fiera! Sono figlia di un operaio della Fiat, gran lavoratore, e di una casalinga…Sono la terza di 4 figli, e a 12 anni già lavoravo. In nero !!! A questi poveri schizzati, drogati nel cervello e fusi nell’anima, ho risposto: “Lavatevi la bocca, gentaglia. E quando avrete fatto quello che ho fatto io, per me stessa e da sola, solo allora forse potrete parlare!” Adesso avrete capito perché avevo deciso di chiudere il mio tw. Ma voi, Amici miei, con il vostro affetto e con i vostri bellissimi messaggi, mi avete indicato che non bisogna mai gettare la spugna. Soprattutto davanti alle meschinità e alla malvagità di certe persone. Allora ho rimesso i piedi per terra e mi sono rialzata, e adesso, credetemi, sono più combattiva che mai. GRAZIE !!
Rita Pavone, la zanzara: dal buonismo alla responsabilità, scrive Edoardo Varini su “L’Inkiesta” il 31 Agosto 2016. Desta scalpore il tweet di Rita Pavone sull'ospitare anche i terremotati – come gli immigrati – negli alberghi. Testualmente: «Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati». Il ragionamento non fa una grinza. Ma il problema è che ad essere terremotate, prima ancora delle aree colpite dal sisma, sono le teste dei nostri governanti e di tutti coloro che credono sia ancora una cosa up to date, emancipata, che "fa figo" ostentare la convinzione che gli uomini di colore sono alla nostra stregua. Che se solo lo devi ostentare, perdonatemi, è perché non lo pensi. È perché hai la coscienza sporca. Una frase di una tale lucidità non l'ha detta un accademico, un politico, un giornalista di fama, no, l'ha detta Rita Pavone, "Rita la zanzara", come dal titolo del film che la vede protagonista e che echeggia una testata studentesca del milanese Liceo Parini, sequestrata per oscenità pochi mesi prima dell'uscita del film. Tra i collaboratori del giornale da 50 lire a copia vi erano futuri giornalisti quali Walter Tobagi e Vittorio Zucconi, gente che sin da giovane con l'informazione ci sapeva fare. I soli che non lo compravano, il giornale, erano quelli di "Gioventù studentesca": da immaginarselo, la futura "Comunione e liberazione". Il testo incriminato era un'inchiesta sulla sessualità giovanile, dove si leggevano frasi per l'epoca intollerabilmente eversive quali: «Se potessi usare gli anticoncezionali non mi porrei limiti nei rapporti prematrimoniali», detto da una studentessa. Figuriamoci! Non è la prima volta che il nome di Rita Pavone si accosta a un capovolgimento del modo di pensare: allora, dal moralismo al Sessantotto. Oggi dal buonismo alla responsabilità.
Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.
Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri
E poi la pietra tombale...
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno».
TERREMOTO E BENEFICENZA. "Non darò nemmeno un euro per i terremotati: ci pensi lo Stato". Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva, si oppone all'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non prevenire i disastri dei terremotati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 30/08/2016, su "Il Giornale". In molti in Italia si sono mossi per fare qualcosa per gli sfollati del terremoto che ha colpito sei giorni fa il Centro Italia. Tantissimi hanno donato 2 euro per i terremotati attraverso il numero messo a disposizione dalla Protezione Civile. Molti, ma non Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva. Persona molto ascoltata da quelle persone vessate dal fisco e spesso minacciate da Equitalia. "Non do una lira per i terremotati". Una posizione scomoda e controcorrente. Che può essere apprezzata oppure no, ma comunque deve essere ascoltata. "Scusate - ha scritto - ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms". Lino Ricchiuti va a ruota libera. Non lo hanno "impressionato" le immagini del disastro, "i palinsesti stravolti" e "il pianto in diretta" di Renzi. "Non do un euro - dice - E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare". "Ecco perché non faccio beneficienza per il sisma". Il motivo? L'Italia ha già i soldi per far fronte alle emergenze. Ai terremotati ci dovrebbe pensare lo Stato con le tasse che tanti italiani pagano ogni giorno. Ogni giorno. Ogni mese. Ogni anno. "Non do un euro - continua Ricchiuti - perché è la beneficenza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie". Stanco di un'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non pensarci prima. Un Paese in cui è sempre meglio curare che prevenire, perché in fondo la beneficienza smuove i cuori di tutti. "Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro". Uno Stato che incassa oltre il 50% di quello che produce un suo cittadino, non merita altri soldi. "Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro". "Avrei potuto scucirlo qualche centesimo - ammette Ricchiuti - (...) ma io non sto con voi politici", perché "voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è. Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mio padre, che ha lavorato per 40 anni in campagna, prende di pensione in un anno meno di quanto un qualsiasi parlamentare guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro?". Il ragionamento, seppur emotivo, ha una sua logica. Certo: forse le raccolte fondi per un terremoto simile le avrebbero fatte anche nella efficientissima Germania. Però lì non è sempre un'emergenza. "Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica". Un fondo di verità c'è: l'Irpinia e L'Aquila insegnano. "Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese ogni giorno - conclude Ricchiuti-. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati". E quindi "io non do una lira", ma "il più grande aiuto possibile: la mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura".
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 31 agosto 2016: perché non si dovrebbe dare un euro in beneficenza ai terremotati. Mandare al diavolo questo clima solidaristico e dichiarare solennemente che non metterò un euro per il terremoto, sostenere che nessuno in effetti dovrebbe metterlo perché lo Stato ha tutti i fondi e le risorse per affrontare queste cose, non cedere al ricatto emotivo di un Paese culturalmente imperniato sull’emergenza anziché sull’organizzazione, votato al volontariato anziché al dovere professionale e civico, fondato sulla beneficenza, sul numerino da chiamare, l’sms da mandare, su giornali e telegiornali e cantanti e personalità che mostrano immagini della catastrofe con sovraimpressi gli estremi per restare arruolati al circo della fratellanza improvvisata: sì, la tentazione c’è, la voglia di chiamarsi fuori è forte.
Fiorello posta un video su Facebook pubblicato da “Corriere Tv” il 29 agosto 2016 per parlare della sua diffidenza nei confronti dei concerti organizzati per beneficenza: «meglio fare in privato», dice. «Ieri lutto nazionale, seguire i funerali è stata una cosa drammatica, genitori che piangono i figli, quando si sopravvive ai propri figli, me lo diceva mio padre - dice Fiorello - ...la macchina della solidarietà è partita alla grande, e occhio attenzione, sono stato già invitato ad almeno quattro manifestazioni per raccogliere fondi. Occhio a queste manifestazioni che facciamo noi del mondo dello spettacolo. Perché se per organizzare le cose devi spendere soldi, non devolvi tutto tranne le spese, allora non lo fai. O fanno tutti beneficienza o non vale la pena. Occhio a chi organizza questi spettacoli. Visto che ho ricevuto questi inviti - continua Fiorello - io mi fiderei di più se lo spettacolo fosse organizzato da una onlus o da una organizzazione affidabile, altrimenti la storia insegna...mi piacerebbe avere nome e cognomi. Spettacoli che si faranno pro terremoto bisogna stare attenti. Troppa gente dietro, troppi organizzatori, mi fanno paura. È meglio fare ognuno a modo suo, io preferisco fare la beneficienza privata, dai i soldi direttamente e il gioco è finito».
TERREMOTO E TRUFFE. Terremoto, un affare chiamato sisma: come evitare donazioni ai furbi. Lucrare sulle tragedie - Attenti alle associazioni che chiedono soldi senza indicare come verranno spesi, scrive Barbara Cataldi il 26 agosto 2016 su “Il Fatto Quotidiano". Pannolini, spazzolini, assorbenti, ma anche piatti di carta, sapone, scarpe: ieri beni di ogni genere sono stati raccolti in circoscrizioni e parrocchie. Mentre la terra tremava e le vittime venivano estratte dalle macerie, gli italiani si lanciavano in una commovente gara di solidarietà. Ma è stato inutile: Fabrizio Curcio, il capo della Protezione Civile ha stoppato i più generosi. “Non inviate cibo e indumenti, non abbiamo carenze, il modo migliore di aiutare è l’sms solidale al 45500“. Alla popolazione colpita servono solo soldi per la ricostruzione. Però si moltiplicano le reti di solidarietà per la raccolta fondi. Solo nella prima giornata la Croce Rossa ha raccolto 170mila euro (causale “sisma centro Italia” (Iban IT40F0623003204000030 631681). Ma le donazioni più numerose stanno arrivando attraverso il 45500 della Protezione Civile: due euro inviando ogni sms o chiamando da rete fissa. Anche Poste Italiane, in collaborazione con Cri, ha istituito un conto corrente ad hoc (causale “Poste Italiane con Croce Rossa Italiana – Sisma del 24 agosto 2016”, Iban IT38R0760 10300000 0000900050). Non sempre, però, le iniziative che vengono pubblicizzate, soprattutto su Facebook o whatsapp con passaparola tra amici e conoscenti, brillano per trasparenza. Spesso non si comprende chi tenga le fila dell’organizzazione promotrice o a cosa davvero servano i soldi raccolti. Il rischio di incorrere in un’associazione che utilizza il disastro per farsi pubblicità, o addirittura in chi mette in piedi una vera e propria truffa, è concreto. In passato c’è stato chi dopo il sisma in Emilia del 2012 ha intascato indebitamente 120.000 euro per il sostentamento fuori casa, mentre non si è mai mosso dalla sua abitazione inagibile di Crevalcore, chi dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 ha percepito più di 700.000 euro grazie a false dichiarazioni di danni mai subiti, o chi a Monza nel 2013 ha distribuito volantini per la raccolta fondi per le vittime dell’alluvione in Sardegna utilizzando il simbolo Cri, ma mettendo il proprio nome e numero di telefono. “Associazioni di solidarietà come la nostra, non devono raccogliere fondi – spiega Costas Moschochoritis, direttore di Intersos – a questo pensano le istituzioni. Noi dobbiamo offrire il nostro contributo per aiutare le persone colpite dal dramma, con servizi complementari, come il sostegno psicologico”. Da oggi gli psicologi volontari di Intersos saranno presenti nelle zone devastate dal sisma per aiutare bambini e anziani ospitati nel campo di Accumoli. Se si dà uno sguardo ai profili Facebook di tante associazioni, sorge il dubbio che il terremoto sia diventato un’occasione per promuovere il proprio marchio e raccogliere fondi per il proprio sostentamento, senza dare garanzie o spiegazioni su come i soldi verranno spesi. Action Aid, associazione internazionale per le adozioni a distanza, ha lanciato sui social il suo spot: “Emergenza terremoto Centro Italia. Non c’è tempo da perdere abbiamo bisogno del tuo aiuto adesso. Dona ora”. Ma per fare che? E così anche per Cesvi (cooperazione allo sviluppo dei Paesi più poveri). Sulla sua homepage c’è una foto di una donna tra le macerie. Si parla di un primo intervento per la distribuzione di beni di prima necessità. “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, DONA ADESSO”. Ma sul campo non c’è già la Protezione Civile? Inoltre il territorio colpito dal sisma è scarsamente abitato, nelle tendopoli c’è un numero di persone relativamente piccolo. Con i soldi delle donazioni, allora, cosa ci faranno? Ci piacerebbe saperlo prima di mettere mano al portafoglio. Save the children ha istituito un Fondo emergenza per l’allestimento di uno spazio a misura di bambino, che aiuti i più piccoli ad affrontare il trauma subito con l’aiuto di educatori esperti. Se si compila il form si scopre l’entità della donazione: 30 euro. Servirà solo per uno spazio di sostegno psicologico, che gli operatori di Intersos hanno messo in piedi gratuitamente? “Ad Amatrice abbiamo istituito uno spazio per ospitare i bambini – spiega Giusy De Loiro di Save the children – e aiutarli con un laboratorio di favole e disegni a superare il trauma. Le donazioni ci servono per pagare materiali e i professionisti che lavorano per noi”. “Abbiamo chiesto al ministero dall’Interno di gestire in modo centralizzato le campagne di solidarietà e le raccolte fondi – afferma Carlo Rienzi, del Codacons – Ciò per evitare gli errori del passato: quando i milioni di euro versati dagli italiani per alluvioni e terremoti sono rimasti inutilizzati”. Per evitare inganni è bene dare il proprio contributo sempre attraverso associazioni o enti che si conoscono; se chi promuove l’iniziativa non è un’istituzione dello Stato, è meglio donare solo quando è chiaro il progetto su cui i nostri soldi verranno investiti, in modo da poter verificare la sua realizzazione. Meglio fare la donazione solo dopo aver verificato l’esistenza dell’associazione e attenzione alle mail con richiesta d’aiuto, il link potrebbe essere stato creato per carpire i nostri dati.
ATTENZIONE ALLE TRUFFE SU DONAZIONI FANTASMA. Scrive il 25 Agosto 2016 Dominella Trunfio. C’è una mobilitazione generale nelle ultime ore perché davanti alle tragedie, il popolo italiano si stringe sotto la parola solidarietà. Chiunque nel proprio piccolo cerca di contribuire ad alleviare le sofferenze dei terremotati attraverso donazioni di sangue, indumenti, alimenti e denaro. E la speranza è sempre quella che effettivamente tutto vada a finire nelle mani giuste, ovvero di chi è rimasto senza famiglia, senza casa e senza certezze. I social network sono invasi da appelli e da eventi che parlano di centri di raccolta di beni di prima necessità. Tutte iniziative lodevoli, ma anche in questo caso la parola d’ordine è occhio allo sciacallaggio, per cui il consiglio è sempre quello di fare donazioni tramite enti che riteniamo attendibili come Comuni, Protezione Civile e associazioni fidate che hanno aperto conti iban dedicati all’emergenza terremoto, mai quindi a singole persone che si spacciano per persone di cuore. Lo scetticismo che spesso abbiamo nel donare, è dovuto principalmente a fatti di cronaca negativi che ci hanno fatto perdere un po' di fiducia. All’indomani del terremoto in Abruzzo, chi non ricorda lo scandalo dei 5 milioni di euro di donazioni che non sono mai arrivati nelle tasche dei terremotati? Lì, la questione era complessa e i soldi gestiti tramite sms, che sarebbero dovuti servire per la ricostruzione dell’Aquila, sono finiti alle banche, grazie al cosiddetto "metodo Bertolaso". Il paradosso era stato proprio il fatto che quei soldi destinati ai terremotati erano stati gestiti come qualsiasi fondo, per cui la condizione stessa di "terremotato" non andava a soddisfare i criteri di solvibilità. Insomma, senza aprire un dibattito economico, la sostanza è che le vittime del terremoto non avevano potuto accedere a quei fondi che erano stati donati proprio a loro, perché già destinati a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos con un fondo di garanzia bloccato per 9 anni, trasferito poi alla Regione Abruzzo. Migliore sorte non era toccata poi ai terremotati dell’Emilia Romagna, anche qui non si può dimenticare la lunga battaglia dei sindaci emiliani che davanti alle telecamere gridavano di non "aver visto un euro per la ricostruzione post terremoto". Dove erano (e sono) finiti i 15 milioni di euro che generosamente gli italiani e non solo avevano donato in beneficenza? Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, prova a dare una spiegazione attraverso le pagine del Corriere: «Purtroppo l’iter non si può comprimere più di tanto, se si vuole assicurare trasparenza. Innanzitutto una precisazione sulla cifra, i 15 milioni non sono versamenti ma promesse di versamento. La differenza è sottile ma decisiva. Nel senso che i vari gestori (Tim, Vodafone, Wind eccetera) prima di versare alla Tesoreria dello Stato l’importo corrispondente agli sms, devono effettivamente incassare la cifra. Io posso anche inviare un messaggio ma se poi per qualche ragione non lo pago, il gestore non versa».
TERREMOTO E BUROCRAZIA. Un Paese fragile ed esposto con una folle burocrazia. Una cifra enorme è stata spesa dallo Stato per le ricostruzioni post sisma. Ma secondo gli esperti sono almeno 12 milioni gli immobili ad alto rischio, scrive Antonio Signorini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Roma I terremoti hanno segnato l'Italia. Colpa della posizione geografica, al confine tra la zolla africana e quella euroasiatica, spiegano gli esperti. La frequenza è di un sisma distruttivo ogni cinque anni. Cento all'anno di quelli innocui, percepibili dalla popolazione. Ma la storia del nostro Paese è funestata anche dalle ricostruzioni. Processi lunghi, complicati e frutto di scelte opache. Alle difficoltà di tipo fisico di un post terremoto, ad esempio il recupero e la ricostruire centri storici semidistrutti e la sostituzione di vecchie case con nuovi edifici antisismici, si sommano gli effetti delle caratteristiche della nostra politica e della burocrazia. Ricostruzioni dai tempi biblici, continui rifinanziamenti e spese che aumentano di anno in anno senza controllo e senza che le popolazioni colpite ne traggano beneficio. Mali antichi, riassumibili in due cifre contenute in un rapporto del Consiglio nazionale degli ingegneri. Dal 1968 a oggi i terremoti sono costati 121 miliardi e 608 milioni di euro. Attenzione, è spesa pubblica, non gli effetti sul Pil che si sono fatti sentire su famiglie e imprese, che sono un'altra storia. Soldi stanziati dal 1968 a oggi, attraverso un numero incredibile di leggi e decreti, emanati anche a distanza di 40 anni dal terremoto di cui si occupano. Sono 137 in tutto. La stima, a costi attualizzati, è precisissima. Il terremoto più oneroso è stato quello dell'Irpinia del 1980. In tutto 52 miliardi stanziati da 33 diverse leggi, che impiegheranno somme fino al 2023. L'ultima legge sul terremoto campano varata è del 2008, 28 anni dopo la tragedia. Ancora più longevo il terremoto del Belice. Prima legge varata nel 1968, anno della tragedia, ultimo provvedimento nel 2007. La spesa complessiva è di 9 miliardi e 179 milioni e avrà effetti fino al 2018. Il sisma che ha distrutto L'Aquila del 2009 è costato 13,7 miliardi, quello dell'Emilia del 2012, 13,3. Quello del Friuli del 1976, 18,5 miliardi, ma ha impegnato solo 9 leggi e gli effetti finanziari si sono fermati nel 2006. Le ricostruzioni dei terremoti, senza contare le altre calamità naturali, rappresentano una voce importante della spesa pubblica che ha più volte fatto sollevare la questione se ne debba occupare lo Stato oppure, visto che le case sono beni privati, non sia meglio percorrere la strada delle polizze assicurative obbligatorie. Soluzione che finirebbe per fare aumentare le spese che devono affrontare i proprietari di immobili e metterebbe nei guai anche le compagnie assicurative. L'alternativa è quella di un piano generale di messa in sicurezza degli edifici che si trovano nelle aree a rischio. Le più pericolose sono quelle costruite prima del 1974, che sono il 50% del totale. Sempre secondo il Consiglio degli ingegneri, servirebbero circa 93 miliardi per mettere in sicurezza 12 milioni di immobili che si trovano in zone ad alto rischio terremoti. Meno di quanto ha speso lo Stato per ricostruire.
Colpa di un funzionario distratto: così Amatrice ha perso i contributi per salvare le case, scrive “Libero Quotidiano” il 26 agosto 2016. La burocrazia, un funzionario distratto, una legge sbagliata e addio contributi anti-terremoto. Spunta un sinistro retroscena sul sisma di Amatrice e sulle macerie. Secondo La Repubblica un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l'elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa ha determinato la perdita di due milioni di euro che sarebbero serviti per consolidare le abitazioni fragili. Invece sono arrivati solo duecento mila euro. L'inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva dovrà accertare le responsabilità. Di sicuro la burocrazia ha giocato un ruolo letale. Subito dopo il terremoto dell'Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati "categoria 1", cioè massimo rischio sismico. L'allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l'assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale. Questi soldi servivano ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure. Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Interventi che magari non salvano una casa ma le vite sì. In estate, la popolazione di Amatrice supera le 15mila persone, per l'ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750. Quindi quasi tutte le abitazioni private sono seconde case. Ad Amatrice - secondo La Repubblica - è accaduto che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda. Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l'opportunità del consolidamento antisismico. Ma c' è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre. La Regione Lazio ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la "residenza", e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l'ordinanza della Protezione civile. Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400. Diciotto piccoli interventi sull' ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Poco. Troppo poco.
Vittorio Feltri il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” contro lo Stato criminale: "Chi ha i morti sulla coscienza". Abbiamo svolto una breve ricognizione nei gangli della burocrazia e della politica e siamo riusciti con rapidità a scoprire leggi formalmente complete che disciplinano la materia edilizia antisismica. Non la facciamo tanto lunga per evitare di annoiarvi e arriviamo subito al nocciolo della questione: quelle leggi, approvate negli anni Ottanta (quindi in ritardo rispetto alla necessità), sono quasi sempre state ignorate, e si è bellamente costruito dovunque lungo la dorsale appenninica senza adottare le precauzioni fissate nero su bianco, come se queste non fossero mai state vergate. Cosicché la stragrande maggioranza degli edifici eretti negli ultimi decenni non è in grado di resistere alle scosse telluriche. Tanto è vero che in occasione di terremoti molte case cadono come foglie morte provocando stragi di umani, schiacciati dalle macerie. Non solo. Stando alle opinioni degli esperti, anche gli stabili vecchi o addirittura vetusti, con una spesa relativamente bassa, potrebbero essere messi in sicurezza, così come buon senso suggerirebbe in un Paese ad alto rischio sismico. Meglio prevenire una ferita che leccarsela. In sostanza, se le norme sopra citate fossero state tradotte in pratica avremmo addirittura risparmiato e, soprattutto, salvato migliaia di vite. Se poi si tiene conto dei miliardi investiti in varie ricostruzioni l'indomani di ogni catastrofe naturale, non è difficile capire che se quei capitali fossero stati utilizzati per rinforzare in senso antisismico palazzi e palazzine, oggi non saremmo qui a disperarci per quanto accaduto nelle Marche, in Umbria e nel Lazio, trascurando i tragici precedenti dell'Aquila, dell'Emilia eccetera. Era preferibile sborsare per proteggersi che non per finanziarsi le esequie. Ciò che sorprende e amareggia è un fatto: il primo a non rispettare le leggi dello Stato è lo Stato stesso. Il quale possiede una miriade di stabili non in regola con le disposizioni che ha solennemente emanato: scuole, Poste, tribunali, enti di ogni specie. La cosa è incredibile solo per chi non conosca lo stile della pubblica amministrazione, che da lustri non versa neppure i contributi per i propri dipendenti, salvo pensionarli ricorrendo al denaro della fiscalità generale. Una ingiustizia raccapricciante. Figuriamoci se uno Stato furbetto e cialtrone quanto quello che abbiamo descritto si preoccupa di controllare che i cittadini edifichino secondo i criteri da esso stesso studiati, varati e violati. Se poi la gente muore sotto il proprio tetto, pazienza, si parla di fatalità, di furia degli elementi e altre simili stupidaggini. La verità è una e basta: il nostro Stato è criminale e pretende correttezza dai “sudditi”. Il cattivo esempio viene sempre dall'alto. Vittorio Feltri
Terremoti e norme, palude di regole e regolette. Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica. Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori, scrive Gian Antonio Stella il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata», spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli. Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila «5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune». «Confesso però», ammise, «che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: «Mi sono stufato di contarle». Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro. La «scheda parametrica» varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come «caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure» e garantisce «tempi rapidi di istruttoria». Bene: la sola «Scheda Progetto - Parte Prima» è corredata da un «Manuale istruzioni» con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la «Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4» salgono a 271. Auguri. Un esempio di semplificazione? «Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche “Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.”»...Un altro? «Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II…». Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 «rideva nel letto» o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: «Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…». Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro. Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». Molto più di un elefante adulto. Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 «visto» e «vista», 1 «considerato», 1 «ritenuto», 1 «rilevato», 1 «ravvisata», 1 «atteso», 1 «acquisite»… Nella seconda i «visto» sono saliti a 9 più 1 «ritenuto», 1 «sentito», 1 «acquisite». Vecchi vizi. Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata.
TERREMOTO COME VOLANO DELL'ECONOMIA. La puntata di Porta a Porta andata in onda il 25 agosto 2016 dal titolo “Il cuore dell’Italia con loro Speciale Porta a Porta” che ha approfondito il disastro del terremoto del centro Italia, si è detta una grande verità, però sta facendo infuriare molti italioti benpensanti.
Bruno Vespa: “Questa sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia perché pensi l’edilizia che cosa non potrebbe fare”;
Graziano Del Rio: “Adesso L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa e anche l’Emilia è un grandissimo cantiere in crescita, farà PIL”; Bruno Vespa: “Darà lavoro ad un sacco di gente”. «Il Friuli era povero e col terremoto è diventato ricco». «Io incontrai un industriale davanti alle macerie della sua fabbrica. Era felice. Dico "ma scusi, le è crollata la fabbrica…". "Ma adesso la rifaccio più bella". Ecco, l’ottimismo, questo ci serve. Sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia».
Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione. La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile. Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile. Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.
Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”
Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.
Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.
Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".
E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:
riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);
riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);
riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);
riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.
In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.
TERREMOTO ED ADEGUAMENTO ANTI SISMICO. L'Italia dei terremoti, l'ingegnere: "Case antisismiche necessarie, le spese non sono il problema". Francesco Sylos Labini: "Ricostruire sullo stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere una follia, ma si può fare perché la decollocazione non funziona. Le norme tecniche per le costruzioni sono obbligatoria dal 2009, e sono ottime", scrive Katia Riccardi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". A guardarla bene, la mappa sismica dell'Italia dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (ordinanza Pcm del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b), resta impressa come una foto dai colori troppo accesi. Il viola al centro come un'arteria a rischio, i bordi più chiari, arancioni, gialli, verdi. L'Italia è un Paese ad alto rischio. Altissimo in alcune zone, in altre medio, solo una minuscola porzione si salva dai terremoti. Siamo capaci di guardare lontano da qui, in California o in Giappone, invece anche lo stivale scalcia spesso, una volta ogni 4-5 anni una catastrofe distrugge tutto, eppure, riesce ancora a sorprenderci. L'Abruzzo è la regione storicamente più colpita dai terremoti: L'Aquila 1786, la Marsica e Avezzano 1904, Messina 1908, 1915 di nuovo la Marsica e Avezzano. Nel 1919 il terremoto al Mugello, 1930 l'Irpinia, la prima volta in questo secolo, poi ce ne fu un altro. Nel 1933 la Maiella, 1943 Marche e Abruzzo, 1958 L'Aquila, 1963 secondo terremoto in Irpinia, 1968 il Belice, 1976 il Friuli con mille morti e nel 1980 di nuovo l'Irpinia, la provincia di Salerno e un pezzo della Basilicata. Poi tre giorni fa, il 24 agosto. E se le case normali crollano con scosse di intensità 5-6 della scala Richter, solo negli ultimi 16 anni in Italia ci sono stati oltre 110 terremoti di varia intensità, da 4 fino a quel 6,3 che ha raso al suolo L'Aquila nel 2009. Le case non costruite a norma, collassano. I muri mal collegati ai solai cadono lateralmente, i solai precipitano nel vuoto e schiacciano tutto. La scossa da sottoterra muove le fondamenta, i piani bassi oscillano e fanno traballare quelli superiori. Ma è la seconda scossa, che arriva in senso inverso, a spezzare l'edificio come ossa sul ghiaccio. Ci vogliono gomma, legno, un certo tipo di acciaio più plastico per ammorbidire una costruzione e consentirle di ballare. Ci vogliono colonne, pilastri di cemento armato piazzati in punti specifici. Il risultato dipende sia dalle caratteristiche della casa che dai tipi di intervento. Che vanno dal rafforzamento della struttura, per esempio con gabbie in cemento armato, all'applicazione di isolatori, dissipatori e smorzatori, ad altre ancora. E questo costa, fino al 10, al 20 per cento in più del costo base. C'è una differenza importante tra prevedibilità di un terremoto e la sua inevitabilità. Prevedere consente di scappare, forse di non morire, ma ricostruire resta comunque inevitabile. Ripartire dalle briciole è certo più oneroso che aggiustare. "Costruire una casa antisismica costa di meno che aggiustarne una, un edificio esistente deve mantenere le sue origini storiche", spiega l'ingegnere Francesco Sylos Labini, professore all'università la Sapienza di Roma, progettista dell'intervento di recupero del Palazzo del governo a L'Aquila. "Il Friuli dopo il sisma è stato ricostruito dov'era e com'era, con materiali nuovi, ma le piazze, le strade sono invariati. Anche nel centro Italia si può fare, certo, contrasterebbe contro tutti i criteri di ingegneria, e ricostruire nello stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere considerata una follia. Nello stesso tempo, gli italiani sono legati ai loro paesi, è difficile delocalizzarli, le New Town non sono state un esperimento riuscito. E ricostruire si può", dice. Aggiungendo che, tutto sommato, la spesa non è poi così sconvolgente. Insomma non è la scusa. "Ora va fatta l'analisi degli edifici, alcuni, quelli storici, sono rimasti in piedi, ma l'attenzione è su quelli che sono crollati, ci sono interi pezzi di paesi spariti. Un tempo si costruiva bene, bisogna analizzare perché. E dare i numeri è difficile. Diciamo che dai 100 ai 300 euro a metro quadrato è una valutazione plausibile. La struttura è il costo minore, perché è povera di materiali, quello che pesa sul totale sono pavimenti, finestre, impianti. E si deve pagare comunque. Lo scopo è ricostruire un edificio che non uccida, con scale e le strutture che restino in piedi. Per semplicità diciamo che se un edificio costa 100, la struttura 30-35, il resto è costo fisso" continua Sylos Labini, "che si possa costruire e consolidare, che si possano fare le cose bene, come a Norcia, è un dato di fatto". Arquata del Tronto è a pezzi, Norcia, poco distante, ha qualche ammaccatura ma è restata in piedi. "Dopo il terremoto del 1979 è stata messa in atto una ristrutturazione di Norcia e di tutte le frazioni, non è stato semplice, ci sono voluti anni, ma abbiamo voluto ricostruire tutto rispettando le norme antisismiche", racconta l'assessore del Comune di Norcia, Giuseppina Perla. "Dopo le scosse di ieri, le lesioni e i crolli più importanti li abbiamo avuti solo negli edifici vecchi non ristrutturati. Certo, questo non vuol dire che le case costruite con criteri antisismici non abbiano subito lesioni, ma sono lesioni contenute, che hanno salvato tante vite umane". Le case nuove devono essere costruite, per legge, secondo norme anti sismiche, gli edifici vecchi possono essere adeguati. Ma l'intervento è carico dei proprietari. In California e in Giappone lo Stato offre incentivi fiscali, ma lì buttano giù tutto e ricostruiscono. Riparano assi di legno, sostituiscono pezzi. Noi abbiamo case in pietra, patrimoni culturali, rocche, castelli, chiese, campanili. In alcuni casi viviamo in equilibrio su angoli di montagne. Sporgiamo in bilico. Costruiamo case una sopra l'altra, conviviamo con monumenti e conserviamo medioevo. Anche in città abbiamo palazzi in muratura, che se scossi diventano briciole in pochi secondi. L'Italia dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure ci vorrebbero 36 miliardi affinché il 70 per cento dei nostri 32 milioni di edifici ancora non adeguato al rischio, lo diventi. Che si adegui. La Protezione civile definisce normativa antisismica "l'insieme dei criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito a un evento sismico. "Dire che la normativa di ricostruzione e adeguamento sia stata disattesa è troppo generico - continua l'ingegnere - perché il non aver rispettato regole coinvolge singole responsabilità. Le norme ci sono, e sono ottime norme, in linea con l'Europa. L'attenzione o meno non è stata un'evasione di massa alla ricostruzione". Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati classificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le costruzioni. Il 63, 8 per cento dei nostri edifici sono stati costruiti prima che entrasse in vigore, nel 1971, una più efficace normativa antisismica. Dopo il terremoto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n.3274 del 2003, che riclassifica l'intero territorio nazionale in quattro zone a diversa pericolosità, eliminando le zone non classificate. Da quel momento nessuna area del nostro Paese può ritenersi non interessata al problema sismico. Il problema non sono i costi, ma i tempi. "Io di terremoti ne ho visti tanti", spiega Sylos Labini. "La cosa che mi ha sempre turbato erano le tendopoli, ora ci sono i mezzi e la tecnologia per diminuire i tempi e rifare rapidamente un tetto di una casa, è necessario stabilizzare le persone, anche psicologicamente, la normativa ha fatto passi enormi, e per ora la prevenzione è l'unico mezzo che abbiamo e che dobbiamo attuare. La burocrazia frena i tempi, all'Aquila ha rallentato tutto, ma c'è bisogno di un controllo per quanto possibile, che le cose non sfuggano in queste maglie capillari". Che le persone capiscano l'importanza di una ricostruzione sensata". I ministri delle Infrastrutture e dell'Interno insieme al Capo Dipartimento della Protezione civile emanano il 14 gennaio 2008 il decreto ministeriale che approva le nuove norme tecniche per le costruzioni. L'applicazione diventa obbligatoria dal 1 luglio 2009, come previsto dalla legge n.77 del 24 giugno 2009. Oltre la legge, che dovrebbe obbligare un intervento, restano le pietre a terra, per non dimenticare, per non trovare scuse. E per rimettere in piedi case in grado di ballare, non tombe.
Le cittadelle fanno risparmiare il 50% L'esperto: costruire ex novo costa meno. I casi Messina e San Francisco. Il sindaco Pirozzi: si deve radere al suolo, scrive Giuseppe Marino, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Ricostruire dov'era e com'era. Un mantra che torna dopo ogni terremoto. Ma il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, va controcorrente: «Amatrice è da radere al suolo completamente», ammette dopo aver partecipato a riunioni con i vertici di vigili del fuoco e Protezione civile. Il sindaco forse non lo sa, ma ha sfidato le ire dei venerabili maestri dei beni culturali. Dopo il sisma del 2012 un assessore provinciale di Mantova ventilò l'ipotesi di mettere in moto la ruspa sui ruderi delle chiese e Salvatore Settis, ex direttore della Normale di Pisa e archeologo con fama mediatica, lo paragonò ad Attila. Sta di fatto che il dibattito è aperto e che il restauro può essere costosissimo. Per L'Aquila ad esempio, si sono spesi 12 miliardi in 7 anni, e c'è ancora tanto da fare. Si va verso una Nuova Amatrice, magari costruita altrove? Pirozzi è pronto a demolire, ma non a spostare: «A parte la chiesa romanica di San Francesco, tutto il resto non c'è più. Vorremmo però ricostruire Amatrice nello stesso posto, magari con la stessa forma e con la stessa estetica». Per Gian Michele Calvi, direttore del Centro di ricerca in ingegneria sismica e sismologia dello Iuss di Pavia che ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione delle «new town» dell'Aquila, «costruire da zero costa molto meno, indicativamente una stima del 50% di risparmio non la trovo azzardata». Calvi cita come principale caso di spostamento di centri abitati e ricostruzione i villaggi coinvolti nel devastante sisma di Messina del 1908. «E nel 1906 a San Francisco - spiega - scelsero invece di far costruire rapidamente a privati new town affittate a un prezzo salato mentre si ricostruiva e poi ricomprate dalla mano pubblica e demolite, per spingere la popolazione a tornare al suo posto». Ci sono naturalmente anche esempi di restauro: «Sant'Angelo dei Lombardi in Irpinia e Gemona in Friuli sono i più citati - ricorda l'ingegnere - ma il primo fu lungo e costosissimo, il secondo fu frutto di una scelta drastica: si decise di privilegiare la ricostruzione delle attività produttive sulle residenze. Ad Amatrice il restauro è fuori luogo, ma si può anche scegliere di ricostruire nello stesso posto. Ma replicare tecniche ed estetica del passato è un'idea figlia di decenni bui dell'architettura in Italia. Costruire ex novo e bene si può». Nella scelta del luogo pesa anche un altro fattore praticamente dimenticato, con esiti disastrosi: i cosiddetti «effetti di sito», cioè caratteristiche del terreno che sono in grado di accelerare l'onda sismica o attenuarla. «Le norme tecniche recenti - dice Raffaele Nardone, consigliere nazionale dell'Ordine dei geologi - richiedono l'analisi geologica del sito, ma ammettono che eccezioni. Che in Italia sono diventate la regola. Ad Accumoli ad esempio non si è tenuto conto del rischio rappresentato dal terreno che è franato all'ingresso del paese, lambendo alcuni edifici. E la natura del terreno potrebbe aver influito anche nel crollo ad Amatrice. Non sempre è necessario spostare le case altrove, ma è indispensabile conoscere la natura del terreno. Magari investendo di più nella sicurezza della casa e meno nella bellezza, se bisogna scegliere».
Ristrutturazioni anti sismiche? Lo Stato penalizza i poveri. Le norme sulle detrazioni Irpef per gli adeguamenti anti-sismici hanno molte falle. Meno sgravi a chi è in difficoltà economiche, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Dopo il terremoto che ha abbattuto Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ci si chiede: lo Stato incentiva i cittadini ad adeguare le loro case alle nuove norme anti-sismiche? La risposta è semplice: sì, ma solo i ricchi. Chi guadagna 1.000 euro al mese, invece, si deve accontentare delle briciole. Vi sembra strano? Lo è. Anzi: è una follia. Cerchiamo di capire meglio. Sul sito dell'Agenzia delle Entrate è disponibile un documento che spiega nel dettaglio quali sono gli sgravi fiscali che il governo ha istituito nella speranza di far diventare a prova di terremoto gli edifici antiche. Le detrazioni per le ristrutturazioni anti-sismiche. In sintesi funziona così: il privato cittadino paga di tasca sua i lavori. Poi lo Stato concede uno sconto sulle tasse (Irpef) pari al 50% dell'importo speso (se fatto a partire da giugno 2012). Ovviamente c'è un tetto massimo, pari a 96mila euro. Bene. Nel caso in cui la casa sia costruita in una zona considerata "ad alta pericolosità" sismica, la detrazione sale fino al 65%. Ma c'è da affrettarsi, perché l'offerta scade il 31 dicembre 2016. Dall'anno prossimo potremo sperare di ottenere solo il 36% con un tetto massimo di 48mila euro. Son tempi di vacche magre: anche per proteggerci dal terremoto. Una volta ristrutturata la casa, comunque, al cittadino la detrazione non viene "regalata" in unica soluzione, ma in 10 comode rate annuali di pari importo. Ma c'è l'inghippo: "Ciascun contribuente - si legge - ha diritto a detrarre annualmente la quota spettante nei limiti dell'Irpef dovuta per l'anno in questione. Non è ammesso il rimborso di somme eccedenti l'imposta". In sostanza lo sconto non può essere superiore alle tasse da versare e quindi meno Irpef paghi e minori sgravi puoi ottenere. In questo modo le persone in difficoltà economica hanno uno sconto Irpef inferiore. E così non sono incentivate ad adeguare gli edifici alle norme sismiche, col rischio di morirci dentro. Il pensionato prende meno sgravi del Vip. Facciamo un esempio. Il signor Mario ha una pensione pari a 12.000 euro all'anno. Pochi: parliamo di 1.000 euro al mese. Con il lavoro di una vita mette da parte un bel gruzzoletto e un giorno decide di spendere 50mila euro per rendere la casa anti-sismica. A quel punto chiede la detrazione di 32.500 euro (il 65% di 50mila) che divisi in 10 anni significano 3.250 euro all'anno di quote detraibili. Ma visto che di Irpef (lorda) Mario deve pagare solo 2.760 euro (inferiori ai 3.250 euro di sgravio fiscale), perderà la differenza di 490 euro. E non può nemmeno chiedere un rimborso o farli diventare una diminuzione di imposta nell'anno successivo. Cornuto e mazziato. Quei 5mila euro a Mario avrebbero fatto sicuramente comodo. Se lo Stato fosse stato più generoso, forse, la casa l'avrebbe ristrutturata. Ma così sa di beffa: meno guadagni e maggiore sarà l'ingiustizia. Al contrario, chi è ha un reddito alto (e quindi paga più Irpef) s'intascherà per intero la detrazione. Se non basta, ecco la seconda anomalia: lo sgravio fiscale "extra" per le zone sismiche vale solo per la prima casa. Ma ad Amatrice, Accumuli e via dicendo, molti degli edifici erano abitazioni per le vacanze. Che quindi non avrebbero potuto ottenere la detrazione.
Adeguamento sismico, quanto costa l'edilizia che può salvare la vita. Si va da 100 a 300 euro a metro quadro. Per un palazzo di medie dimensioni si tratterebbe di una spesa di circa mezzo milione. Una cifra vicina a quelle spesso impiegate per interventi di altro tipo. Le detrazioni fiscali ci sono, ma parziali e spalmate nel tempo. E così i lavori per la messa in sicurezza sono una rarità, scrive Paolo Fantauzzi il 25 agosto 2016 su "L'Espresso". L'Italia ha una delle legislazioni più all'avanguardia, in tema di normativa antisismica. Il problema è che interessa solo le nuove costruzioni. E in un Paese dove l'edilizia storica di vario tipo rappresenta l'80-90 per cento, è come dire che - se i lavori sono eseguiti come si deve - solo una piccolissima fetta di edifici è davvero al sicuro. Oltre il 40 per cento del territorio italiano è a rischio sismico elevato e il 60 per cento degli edifici è stato costruito prima del 1974, quanto sono entrate in vigore le prime norme antisismiche. Almeno un terzo degli immobili andrebbe adeguato. Sulla base di questi parametri nel 2013 l'Oice, l'associazione delle organizzazioni di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica, stimava che il mercato per questo tipo di interventi valesse 36 miliardi. Perché pure se l'adeguamento costa salato, può salvare la vita. Ma di che cifre parliamo? “Con una spesa compresa fra 100 e 300 euro a metro quadro è possibile mettere al sicuro un edificio” spiega Camillo Nuti, a lungo docente di Tecnica delle costruzioni in zona sismica alla facoltà di Ingegneria di Roma Tre e attualmente ordinario di Progettazione strutturale ad Architettura: “Vuol dire 30 mila euro per appartamento di dimensioni medio-grandi e 200-600 mila euro per un classico condominio di quattro piani. Non poco ma si tratta di cifre che spesso, a pensarci, nel complesso vengono spese per una serie di interventi di tanti alti tipi ma assai meno importanti. Bisogna mettersi in testa che non ha senso rifare la cucina se poi le strutture della casa sono a rischio”. Il campionario dei lavori che si possono effettuare è lungo: isolatori o cuscinetti antisismici da disporre alla base degli edifici, l’utilizzo della fibra di carbonio attorno ai pilastri che riduce notevolmente il rischio di fratture, la disposizione di controventi dissipativi tra un piano e l'altro per ammortizzare le scosse, rinforzi tramite l’installazione di catene o il risarcimento delle murature. L’ultimo ritrovato, ancora allo studio, sono particolari pannelli in legno che coprono le tamponature all'interno e che sono in grado di fare da dissipatori. “È la dimostrazione che abbiamo un grande patrimonio di conoscenze e che le tecnologie esistono. Tutto sta a favorirne l’impiego” sintetizza Nuti. Ma ecco sorgere il problema economico. Chi effettua lavori di adeguamento sismico in zone a elevata pericolosità può recuperare il 65 per cento della spesa, ma in dieci anni. Proprio come previsto per gli interventi per il risparmio energetico. Il problema così è che, trattandosi di somme ingenti, in pochi vi ricorrono. Anche perché si tratta di un investimento sul futuro che non dà ritorni immediati in bolletta, né estetici, come nel caso di una ristrutturazione. Così, se la proposta di ricorrere ai margini di flessibilità concessi dalla Ue potrebbe essere una soluzione, si potrebbe pensare anche a un’altra strada: una detrazione immediata o quanto meno in un arco di tempo assai più ristretto rispetto a quello attuale. E le mancate entrate potrebbero essere compensate dal gettito Iva derivante dagli incentivi e dalle tasse pagate da imprese e progettisti. Con un mercato dei lavori stimato in 36 miliardi, solo l’imposta sul valore aggiunto potrebbe portarne sette nelle casse dell’erario. A meno che non si voglia pensare che la vita di una persona, dal punto di vista fiscale, valga quanto una caldaia a condensazione.
Come rendere antisismica la tua vecchia abitazione. Un sismologo ha ristrutturato la sua casa, costruita sessanta anni fa, rendendola sicura. Ecco come e con quali costi, scrive il 25 agosto 2016 Nadia Francalacci su Panorama. Il terremoto che devastato l'Italia centrale, distruggendo completamente interi paesi e estinguendo quasi intere comunità, ha riportato al centro del dibattito la necessità di adeguare le abitazioni agli eventi sismici. L'Italia, purtroppo, come viene ribadito in queste ore dall'Ingv, è un Paese che per sua natura è altamente a rischio eventi sismici. E la storia sia recente che passata ce lo ha ricordato. Dunque, si può trasformare le vecchie case in edifici antisismici? Lo si può fare e anche prezzi contenuti. Non occorre demolire e ricostruire ma solamente apportare piccole modifiche strutturali tali da rendere l’edificio “dinamico” alle scosse sismiche. Con questo articolo scritto a seguito del sisma che colpì l'Emilia Romagna nel 2012, Panorama.it, si era già occupato dell'argomento. Ecco che cosa ci suggerì l'esperto contattato. E i suoi suggerimenti sono sempre attuali. Paolo Frediani, sismologo e direttore dell’Osservatorio Sismico Apuano, dodici anni fa, ha ristrutturato la propria abitazione, una struttura costruita negli anni Cinquanta, rendendola “resistente” al terremoto con un investimento di "soli" 48 milioni di lire che grazie alle detrazioni, sono diventati poco più di 20 milioni. In sostanza,10-13 mila euro circa.
Geometra Paolo Benvenuti, lei ha progettato e seguito la ristrutturazione dell’abitazione del sismologo Paolo Frediani. Com'è riuscito a trasformare la vecchia villetta in un’abitazione che non uccide?
«I cedimenti strutturali che si verificano durante un sisma sono dovuti in gran parte all'enorme quantità di peso che la struttura “portante” dell'edificio deve sopportare. In particolare, mi riferisco al tetto. Durante un evento sismico tutti questi carichi passano da una situazione “statica” ad una “dinamica” in modo repentino ed è questo che ne favorisce il crollo. La problematica principale della villetta del sismologo Frediani costruita circa sessanta anni fa, era quella innanzitutto di legare le quattro pareti costruite in epoche diverse e con materiali differenti. Quindi, per rendere l’edificio dinamico, capace di assorbire il sisma, abbiamo dovuto costruire un cordolo all’altezza del solaio e lo abbiamo fissato alla muratura verticale, ovvero alle pareti, con tondini di acciaio e collante chimico. Poi abbiamo realizzato ex novo una struttura in acciaio per la copertura. Questo ha permesso di alleggerire il tetto».
Ma nel dettaglio quali sono state le fasi principali della ristrutturazione antisismica?
«Volendo mantenere nel locale sottotetto, un vano fruibile, si è pensato di modificare la struttura come da classica capanna con le falde a pendenza diversa, ad una copertura mista a capanna e a padiglione, questo ultimo fatto dovuto anche ad esigenze urbanistiche. Per realizzare il progetto occorreva un materiale leggero, maneggevole, coibentante e facilmente sagomabile proprio considerando la forma della copertura. L'abbinamento che abbiamo scelto è stato tra acciaio e pannelli autoportanti ardesiati. In questo modo si è evitato di aggiungere le tegole che sono pesanti e durante il sisma diventano pericolose. Le travi, invece, sono state collegate tramite idonee piastre di distribuzione ad un cordolo in calcestruzzo armato in modo da scaricare il peso di tutta la struttura sulla sottostante muratura. E’ fondamentale sottolineare che durante tutta la durata del cantiere, non è stato demolito il solaio e questo ha permesso a coloro che vi abitavano di non lasciare mai la villetta».
Con questo metodo di quanto è riuscito ad alleggerire il tetto?
«Di circa due terzi. In sostanza, con il metodo classico, il solaio in laterocemento e calcestruzzo avrebbe avuto un peso medio per metro quadrato di circa 290 chilogrammi mentre con il metodo antisismico abbiamo ridotto il peso a 100 kg per metro quadrato».
Oggi, quanto può costare un intervento come quello appena descritto?
«Calcolando una superficie di circa 90-100 metri quadrati, realizzare una ristrutturazione antisismica, può costare da 20 e 30 mila euro circa».
Ed è possibile intervenire con altrettanta facilità anche negli appartamenti? E con che costi?
«Negli appartamenti è più impegnativo anche perché il progettista deve necessariamente verificare e analizzare tutta la struttura portante dell’edificio e poi intervenire eventualmente sulla singola unità. Ma ad esempio l’istallazione di una catena che serve per collegare ovvero tenere unite, le due facciate opposte di un palazzo il costo può variare dagli 800 ai 1.200 euro a seconda della dimensione. Anche questo è un intervento antisismico, certamente minimo, ma pur sempre funzionale».
TERREMOTO E LOBBY. Il Fascicolo del fabbricato: Ecco poi, come la lobby degli ingegneri specula e tira acqua al suo mulino per creare burocrazia ed a loro ulteriore lavoro.
Terremoto: norme permissive, poche risorse e niente mappatura. “In zone a rischio l’80% dei fabbricati crollerebbe”. Alessandro Martelli, ingegnere sismico, e presidente del Glis: "L'enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio, non è in grado di sostenere questi sismi. La normativa però non impone né l’adeguamento né il miglioramento sismico e i finanziamenti che il governo dovrebbe stanziare arrivano con il contagocce". In più non esiste una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) più vulnerabili, scrive di Melania Carnevali il 25 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “L’80% dei fabbricati nelle zone ad alto rischio non reggerebbe un terremoto come quello della scorsa notte (leggi). Crollerebbero tutti”. Incluso scuole, ospedali, caserme, prefetture, ossia i luoghi considerati strategici in caso di emergenza, come un terremoto. A dirlo è Alessandro Martelli, ingegnere sismico, presidente del Glis (istituito dall’associazione nazionale italiana di ingegneria sismica), docente a cui nei primi anni Duemila venne tolta la cattedra ad architettura all’università di Ferrara in Costruzioni in zona sismica: “Dissero che era inutile nella regione”, racconta ailfattoquotidiano.it. Poco dopo ci fu il terremoto in Emilia. L’80% è la percentuale di costruzioni storiche in Italia, realizzate prima del 1981, anno in cui – dopo il sisma che devastò Irpinia – venne introdotto l’obbligo del rispetto di specifiche norme antisismiche per le costruzioni. Da allora la normativa viene aggiornata sisma dopo sisma, strage dopo strage, alzando di volta in volta l’asticella di sicurezza. E – salvo lavori non eseguiti come da progetto – le nuove costruzioni risultano sicure. “Il problema grave di questo territorio – spiega a ilfattoquotidiano.it Martelli – è l’enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio e non è in grado di sostenere questi terremoti”. Secondo il sismologo Massimo Cocco, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ben il 50% delle scuole è stato costruito prima del 1981. La normativa però non impone né l’adeguamento sismico, né il miglioramento sismico, se non nel caso di lavori che interessino le parti strutturali. E questo riguarda sia i privati sia il pubblico. I Comuni e le Regioni sono obbligati solo – da una legge introdotta nel 2002 dopo il terremoto in Molise, dove crollò una scuola, e operativa solo dal 2012 – a uno studio di vulnerabilità dei palazzi di loro proprietà. Ossia a verificare se sono sicuri o meno. Punto. Poi, di fatto, possono rimanere come sono: sicuri o no. Perché? I finanziamenti: nel Paese più insicuro d’Europa dal punto di vista sismico (insieme a Grecia e Turchia), si contano con il contagocce. “Il governo dovrebbe stanziare ogni anno una somma nella sua Finanziaria per arrivare alla sicurezza nel giro di un decennio – commenta Martelli, ingegnere sismico – E invece ogni anno dicono che non ci sono soldi, aggravando la situazione. Poi, quando ci sono terremoti di questo tipo, si spende tre volte tanto di quello che si saprebbe dovuto spendere. In Giappone, un sisma del genere, non avrebbe fatto notizia perché hanno investito molto nell’edilizia”. Ma il punto poi è anche un altro e, se possibile, peggiore: una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) a rischio non esiste. Quanti ospedali o quante scuole rischiano di crollare in Italia? Quante prefetture rischiano di non poter svolgere la loro funzione in caso di emergenza? Non si sa. Da anni il Consiglio nazionale dei Geologi si sgola per chiedere un “fascicolo del fabbricato”, ma la politica ha sempre risposto picche. “Noi lo definiamo ‘libretto pediatrico’ – spiega Domenico Angelone, consigliere nazionale dei geologi – perché conterrebbe tutte le informazioni del fabbricato: dalla nascita agli ultimi interventi, incluso la collocazione. Un fabbricato spesso può essere infatti considerato a norma dal punto di vista sismico, ma magari è situato su una frana. A noi mancano tutte queste informazioni. Ci sono costruzioni di cui non sappiamo proprio nulla”. L’unico dato certo, fornito dai geologi, è che in Italia circa 24 milioni di persone vivono in zone ad elevato rischio sismico: è la cosiddetta zona 1 (le zone sono 4), quella che prende parte dell’Appennino, dal sud dell’Umbria fino alla Calabria e una parte di Sicilia. Ma la prevenzione, secondo i geologi, è pari a zero. “Da anni diciamo che in Italia siamo ben lontani da una cultura di prevenzione – spiega il presidente del Consiglio nazionale dei Geologi, Francesco Peduto – Innanzitutto sarebbe necessaria una normativa più confacente alla situazione del territorio italiano: oltre al fascicolo del fabbricato chiediamo un piano del governo per mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici. Inoltre, affinché cresca la coscienza civica dei cittadini nell’ambito della prevenzione sismica, bisognerebbe cominciare a fare anche una seria opera di educazione scolastica che renda la popolazione più cosciente dei rischi che pervadono il territorio che abitano. Non dimentichiamo – continua il presidente dei geologi – che, secondo alcuni studi, una percentuale tra il 20 e il 50% dei decessi, in questi casi, è causata da comportamenti sbagliati dei cittadini durante l’evento sismico”. Prevedere un terremoto, secondo i geologi, è impossibile. “Sappiamo che l’Italia è un territorio a rischio – spiega Peduto – ma non è possibile sapere in anticipo dove verrà e di che intensità”. Quello che rimane quindi è la prevenzione. “Che, in Italia – chiosa il geologo -, è proprio ciò che manca”.
E dopo la lobby degli ingegneri ecco le pretese della confedilizia.
Terremoto, ingegneri: "La messa in sicurezza delle case italiane costa 93 miliardi. Il 50% non adeguate per un sisma", scrive "L'Huffington Post" di ANSA il 25/08/2016. "Per la messa in sicurezza del patrimonio abitativo degli italiani da eventi sismici medi" il costo complessivo è "pari a circa 93 miliardi di euro". E' uno dei dati forniti dal Consiglio nazionale degli ingegneri (su elaborazione del suo Centro studi), a seguito degli eventi tragici nell'Italia centrale. Il complesso delle abitazioni residenziali, recita il dossier, "si presenta particolarmente vetusto e, per questa ragione, potenzialmente bisognoso" di interventi: circa "15 milioni di case (più del 50% del totale) sono state costruite, infatti, prima del 1974, in completa assenza di una qualsivoglia normativa antisismica". E, inoltre, almeno "4 milioni di immobili sono stati edificati prima del 1920 e altri 2,7 milioni prima del 1945". Secondo i professionisti, la quota di immobili da recuperare, sulla base dell'esame dei danni registrati alle abitazioni de L'Aquila e delle condizioni del patrimonio abitativo raccolte dalle indagini censuarie, "è pari a circa il 40% delle abitazioni del Paese, indipendentemente dal livello di rischio sismico". Politiche di incentivazione, soprattutto fiscale, degli interventi per la tutela del patrimonio immobiliare e per la prevenzione dei danni da calamità. E' questa, secondo Confedilizia, la strada da seguire alla luce del terremoto nel centro Italia. Secondo l'associazione, "quel che certamente non serve - e che, anzi, porta danni - è ipotizzare obblighi generalizzati di intervento o di redazione di improbabili certificati ovvero riesumare proposte bocciate dalla storia: come quella di un obbligo assicurativo, contrastata anche dall'Antitrust, o quella del fascicolo del fabbricato, libretto cartaceo dichiarato illegittimo dai giudici di ogni ordine e grado e avversato anche dal Governo Renzi, che ha tempo fa impugnato una legge regionale in tal senso". Quanto al post-terremoto, il Governo in carica, con un provvedimento previsto dall'ultima legge di stabilità e attuato con una delibera pubblicata in Gazzetta Ufficiale proprio venti giorni fa, ricorda Confedilizia, "ha varato un sistema di gestione delle calamità naturali che permette a cittadini e imprenditori danneggiati di ottenere considerevoli aiuti per la riparazione o ricostruzione delle case e per il ripristino delle attività produttive. Confidiamo che le relative risorse siano incrementate, a beneficio delle popolazioni colpite dal sisma che ha colpito Lazio e Marche".
TERREMOTO E SPRECHI. I fondi per la ricostruzione spartiti in “consulenze d’oro”. Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto. 790 professionisti. Ingegneri, geometri, architetti e geologi che hanno avuto consulenze nella ricostruzione, scrive Paolo Festuccia il 31/08/2016 su "La Stampa". La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente. Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato. Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per «dividersi» consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi «hanno portato a casa cifre interessanti», afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro «sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento». Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni «mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra». Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. «Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi». Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai.
Terremoto: costruiscono, ricostruiscono, consulenti…stessa casta, scrive Riccardo Galli su “Blitz Quotidiano” il 31 agosto 2016. Terremoto, quelli che costruiscono prima del terremoto (male molto male) sono quasi sempre gli stessi che nel dopo terremoto riparano e ricostruiscono (finora ancora male). E sono gli stessi, proprio gli stessi che intercettano i fondi per la ricostruzione e li trasformano in buona parte in consulenze. Un’altra casta, fatta di geometri e asri, consiglieri comunali e ingegneri, avvocati, commercialisti, imprenditori, notai, perfino parroci. “Non sono i terremoti ad uccidere, ma i palazzi che crollano”, diceva e continua a dire Giuseppe Zamberletti, papà della nostra Protezione Civile, trovando una forse inaspettata eco nelle parole dal Vescovo di Rieti durante i solenni funerali di ieri. Ma di terremoto, e soprattutto di ricostruzione, si vive anche. Al punto che intorno all’emergenza vive e prolifera una vera e propria piccola casta. Una casta fatta di ditte e professionisti che costruiscono (male) e ricostruiscono dopo i crolli, dando tra la prima e la seconda cosa consulenze sui lavori da fare. Sempre le stesse persone. “Capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera -. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul Sole 24 ore che ad Amatrice il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma’”. Se tutto sia legittimo e legale ora, almeno nel caso dei comuni e dei lavori effettuati sugli immobili venuti giù col terremoto del 24 agosto, lo stabiliranno le inchieste e, come hanno ricordato i Finanzieri incaricati delle indagini dalla procura di Rieti: “Ora andremo a vedere perché sono sempre le stesse ditte ad effettuare i lavori, certo è strano, forse qualche dipendente pubblico non ha fatto benissimo il suo lavoro”. Il dis tra legale e illegale è in questi casi però sottilissimo e, in verità, per raccontare questo mondo che di terremoto e soprattutto emergenza vive, nemmeno rilevante. Perché come racconta Paolo Festuccia su La Stampa il 31 agosto 2016 parlando della ricostruzione post sisma del ’97: “Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. (…) Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai”. Si tratta, specie nelle piccole realtà e in un Paese dove le occasioni per i progettisti non sono all’ordine del giorno, anche di guerre fra poveri. Non è, o almeno non sempre, una rete votata al malaffare ma uno spaccato di quell’Italia che vive e sopravvive grazie al denaro pubblico, che considera questo alla stregua di un diritto e ha una capacità di prevenire tendente allo zero. Una casta che non gode di quell’aura negativa che circonda, ad esempio e purtroppo molte volte a ragione, i politici. E’, al contrario, una casta di cui la gente si fida: si ricorre sempre alle stesse ditte e agli stessi professionisti certo perché i lavori non vengono affidati attraverso gare d’appalto, ma anche perché il geometra fratello del sindaco, cugino della ditta che ha ristrutturato casa rappresenta una sorta di garanzia. Come dicono a Napoli: “però sparti ricchezza e addiventa puvertà”, e se sui fondi messi in campo per ogni ricostruzione quasi la metà finisce in consulenza, è conseguenziale che i lavori dovranno essere fatti al risparmio. Tanto ci sarò sempre tempo per rifarli, forse meglio, al prossimo crollo.
TERREMOTO E MONOPOLIO. Terremoto, i «professionisti» della ricostruzione. Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano. Il meccanismo che ha portato tanti affari in poche mani ha rallentato il dopo sisma, scrive Sergio Rizzo il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". C’era la fila, davanti alla porta di Pasqualino Fazio. Perché fratello del sindaco, Mariano Fazio? Oppure in quanto fratello di Antonio Fazio, altissimo dirigente della Banca d’Italia? Macché. Semplicemente perché era l’ingegnere di Alvito, paese di tremila abitanti in Ciociaria. I paesani lo conoscevano e si fidavano di lui. Non che l’essere fratello del sindaco e del futuro governatore della banca centrale rappresentasse un handicap, intendiamoci: il cognome Fazio ad Alvito è sempre stato una garanzia. E Pasqualino era gettonatissimo. Suo il progetto delle case popolari, prima del terremoto. Suoi anche i progetti per gli edifici pubblici, dopo il terremoto: il municipio del fratello e il convento di San Nicola. E le abitazioni private di quelli in fila davanti alla sua porta, lesionate dal terremoto. Perché nella dorsale appenninica perennemente martoriata da sisma ci fu una scossa anche ad Alvito, nel 1984. Che si portò via un bel po’ di calcinacci restituendoli poi con gli interessi: 10 miliardi di lire per la ricostruzione. Per come hanno sempre funzionato le cose in questo Paese è normale che andasse così. E così è sempre andata anche dopo. È il sistema. Il privato che ha la casa danneggiata con i contributi statali fa quel che vuole. Dà l’incarico a chi preferisce: non ha l’obbligo di fare una gara. C’è chi la considera un’anomalia. Ma di fronte alle obiezioni i governi di turno hanno sempre deciso che quei soldi pubblici vadano considerati come quattrini privati a tutti gli effetti. Fra chi intercettato definisce il disastro «una botta di culo» (L’Aquila), chi ride nel letto di notte mentre una intera città si sbriciola (ancora l’Aquila) e chi spera «in una botta forte» perché «in un minuto ne fa di danni e crea lavoro» (Mantova), capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul «Sole 24 ore» che ad Amatrice «il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma». Intrecci all’ordine del giorno, nell’Italia dei campanili. Quando c’è di mezzo un terremoto, però, le cose si vedono sotto una luce leggermente diversa. All’Aquila le pratiche per la ricostruzione private erano finite in pochi studi professionali. Il più noto, quello dell’ex autorevole presidente del locale ordine degli architetti, Gianlorenzo Conti, peraltro prematuramente scomparso poco tempo fa. Perché questa concentrazione di incarichi, che allora preoccupò non poco il responsabile della struttura di missione Gaetano Fontana? Forse l’idea che affidare l’incarico a uno studio locale conosciuto e ben introdotto con l’amministrazione potesse costituire una sorta di corsia preferenziale per i finanziamenti. Poco importa se l’ingegnere o il geometra è magari il responsabile del disastro. Di sicuro, questo meccanismo che ha portato tanti affari in pochissime mani ha finito per rallentare la ricostruzione. Aumentando i costi: quando all’Aquila si è passati dalle pratiche singole agli aggregati il fabbisogno finanziario si è ridotto di oltre il 20 per cento. Senza dire che in un Paese così carente di occasioni per i progettisti anche le catastrofi possono scatenare guerre fra poveri. Il 4 settembre 2012, tre mesi dopo il terremoto emiliano, l’ex presidente dell’ordine nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie fece approvare un codice etico per i professionisti volontari iscritti al suo albo, che prevede dure sanzioni per chi sfrutti economicamente questa sua posizione. Era successo che all’Aquila qualche architetto che aveva verificato «volontariamente» le lesioni di un edificio, fosse tornato alla carica con il proprietario proponendosi per pro-gettare la ristrutturazione. Il terremoto abruzzese è stato un formidabile banco di prova per i professionisti delle catastrofi: progettisti e imprese. Si andò avanti fin da subito con le procedure straordinarie della Protezione civile, e le scelte erano puramente discrezionali. Venne poi deciso di far lavorare prevalentemente le ditte locali, il che ha ristretto ancor più l’area dei partecipanti. La cosa non mancò di avere pesanti ripercussioni. Ci fu uno scontro interno all’Ance fra la struttura centrale e l’associazione territoriale delle imprese abruzzesi, che avrebbe voluto norme per limitare la partecipazione di concorrenti provenienti da altre Regioni. Per non parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta, registrate anche per i lavori del dopo terremoto nell’Emilia-Romagna. Ma questa è decisamente un’altra storia, rispetto al groviglio di fortissimi interessi locali. Certe imprese che hanno lavorato in Abruzzo sono le stesse già comparse nella ricostruzione del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Con significative diramazioni nella provincia di Rieti, perché fin lì è arrivato il cratere del sisma abruzzese: quindi i relativi fondi. E se lo schema resterà questo anche dopo Amatrice, il gioco è destinato a continuare. Nell’ambiente dei costruttori qualcuno ha già cominciato a far girare l’idea che si debbano precostituire liste di imprese pronte a lavorare nel reatino. Dove le ditte iscritte all’associazione dei costruttori non sono che una ventina. Idea, per fortuna, prontamente messa da parte. Almeno per il momento. C’è solo da augurarsi che tutto ciò serva ora d’insegnamento…
TERREMOTO E FONDI PER LA RICOSTRUZIONE. L'affare terremoto: morti, politica e banche, scrive Andrea Spartaco Martedì 06/01/2015 su "Basilicata 24". Storia di disastri finanziari e strani intrecci che portano alla Basilicata. Nel giugno 2006, appena un anno dopo il mandato elettorale, la giunta regionale lucana presieduta da Vito De Filippo (Pd) firmò due contratti di interest rate swap (Irs, ndr) con Dexia Crediop spa e Ubs Warburg. Bisognava finanziare opere e interventi nelle zone colpite dal terremoto del '98. Una cosa decisa velocemente. Del resto con Crediop il contratto di mutuo ventennale era già stato firmato sei anni prima da un'altra giunta Pd, quella del predecessore Filippo Bubbico. Si tratta d'un volume complessivo di circa mezzo miliardo di euro di contratti di emissione, acquisto, vendita e trasferimento di strumenti finanziari siglati al di fuori della Direttiva europea in materia di Appalti Pubblici di Servizi, sebbene a copertura di soldi pubblici. In Basilicata però, la storia del rapporto tra terremoti, fondi pubblici, Regione e banche, comincia prima. Ed è molto interessante.
Banche e morti. Nel periodo successivo al sisma dell'80 una rilevante massa di soldi (10mila miliardi di lire, ndr), disse la Commissione che s'occupò del terremoto, transitò attraverso istituti di credito di Campania e Basilicata. Soldi di terzi in amministrazione presso le banche locali in cui si contabilizzavano i fondi pubblici erogati per la ricostruzione, che partiti da 160 miliardi (mld, ndr) di lire nell'83, nell'87 erano lievitati a 800. “I ritardi in alcuni Comuni dell'opera di ricostruzione – scrisse – hanno procurato un ulteriore vantaggio agli istituti di credito delle zone, rappresentato dalle giacenze presso gli stessi di notevoli somme accreditate ex legge 219/81 e non ancora utilizzate”. Cosa restava di quei novanta secondi che colpirono tra Campania e Basilicata provocando 2.914 morti? Che alcune banche, ribadì la Commissione, avevano tratto da tale “tristissimo evento un rilevante tornaconto, realizzando in pochi anni incrementi di portata assolutamente eccezionale”. Le amministrazioni pubbliche avevano lasciato che ciò accadesse mentre la gente aspettava in containers (e aspetta ancora) che la propria abitazione venisse riparata o ricostruita. Tra '80 e '84 su un totale di 3.400mld spesi, 921mld erano i soldi trasferiti ai comuni. La Commissione puntualizzò il ruolo distorto avuto spesso da sindaci e banche locali nella gestione, e l'assenza di controllo pubblico. Nel luglio '90 il presidente Antonio Boccia (Pd) dichiarò che per la 219/81 la Regione non aveva avuto, e non aveva, “nessuna competenza in materia di insediamenti industriali”. Ma quanti soldi s'erano tenuti le banche per quel loro “rilevante tornaconto”? A settembre '90 ammontavano a 907mld.
Cosche, politica e appalti. Per la Guardia di Finanza il terremoto del '80 “costituì l’occasione per risolvere i problemi sia di reinvestimento sia di riciclaggio, ma anche della ricerca di nuovi spazi territoriali ed economici d’azione e dell’appoggio o della contiguità con pezzi delle istituzioni e in particolar modo con la politica”. A soli tre anni dal terremoto a Potenza i sindacati lanciavano un allarme, sollecitando l'applicazione della legge antimafia per le irregolarità nei pubblici appalti. L'allora vicepresidente del Consiglio Regionale Mario Lettieri affermò che c'erano processi assai preoccupanti “legati agli appalti pubblici e alla ricostruzione”. C'era una criminalità economica che scaturiva da “un intreccio tra affari e politica per cui gli appalti di opere pubbliche, gli incarichi di progettazione e le agevolazioni per gli investimenti industriali, stimolavano gli appetiti di cosche e gruppi locali e no protetti dai partiti di governo”. Nell '84 a Balvano, definita vicenda esemplare dalla Commissione terremoto per l'evidente disprezzo dei piani naturali nei lavori di infrastrutturazione, e i problemi di carattere idrogeologico provocati, per l'area industriale era stato fatto un progetto di partenza costato circa 33mld di lire, cifra nella quale “stranamente” non erano compresi 5,8mld per i costi dell'impianto di depurazione per le acque nere e per quelle industriali, né i costi per l'impianto di potabilizzazione, sollevamento e diramazione dell'acqua verso l'area industriale (passati da 3 a 6mld per difficoltà tecniche, ndr), né circa 8mld del movimento terra quota parte finita in discarica a costi esorbitanti e fuori da ogni regola di mercato si disse. Si parlò di 60mld spesi per una zona priva dei requisiti minimali per ospitare siti industriali, e di modifiche risultanti solo da spinte di progettisti, imprese e controllori “a scopo evidente di lucro”.
Soldi e coma profondo. Certo nel settembre del '98, pochi giorni dopo il nuovo terremoto, il Procuratore di Potenza Gelsomino Cornetta raccontò in una Commissione parlamentare “il problema” delle immense aree industriali create dopo il terremoto del '80. “Abbiamo indagato – dichiarò – e alle nostre modestissime forze è stato riconosciuto di aver fatto tutto ciò che era possibile, tant'è che il ministero competente ha recuperato parecchie centinaia di miliardi”. Si trattava d'un patrimonio aziendale costituito in gran parte da imprese che erano "scatole vuote", e che avrebbe creato “un problema di abbattimento e di eliminazione di rifiuti di natura industriale”. Quello stesso '98 una determina dirigenziale del Dipartimento programmazione economica regionale assegnava ancora al Comune di Balvano mille milioni di lire per infrastrutturazione della zona P.I.P (legge 64/86, ndr). Nonostante lo sforzo economico nel 2012 in un Consiglio regionale si presentò, per l'area di Balvano, una interrogazione all'allora assessore alle attività produttive Marcello Pittella. Lì, soldi del terremoto o meno, i disoccupati aumentavano, le opere infrastrutturali non erano finite, e la situazione della zona industriale era di “coma profondo”.
Meno male che c'è il sisma. "Per fortuna" dopo il sisma dell'80 arrivò quello del '98. Così non dovemmo solo ridare soldi al ministero, perché lo Stato ne portò altri. A occuparsi del mutuo firmato nel 2000 dalla Regione per gestire i 42mld di lire statali annui per ricostruire, fu appunto Crediop, capofila di un pool composto da Banco di Napoli, Banca Mediterranea, Banca Opere pubbliche e delle infrastrutture (Opi, ndr), Monte dei Paschi, e Banca di Roma (BdR, ndr). La partner lucana del pool, Banca Mediterranea, che proprio nel 2000 si fuse con BdR, era nata nel '92 da una precedente fusione tra Banca di Pescopagano e Brindisi (Bpb, ndr) e Banca di Lucania (Bdl, ndr) con uno spropositato aumento di capitale, da 4,5mld a ben 130. Eppure nel '91 l'Organo di vigilanza (OdV, ndr) aveva definito critica la situazione patrimoniale della Bpb accertando che “il controllo della Banca di fatto dal Presidente del Consiglio di amministrazione”, poi presidente di Mediterranea (con sede pure a Pescopagano, ndr), aveva favorito l'ingresso di gruppi a lui vicini come i Casillo, il cui fondatore Gennaro, ricorda Rocco Sciarrone in “Mafie vecchie mafie nuove”, era legato tramite il nipote Vincenzo ai boss Raffaele Cutolo e Carmine Alfieri. Vincenzo che, con Alvaro Giardili, scrive Nicola Tranfaglia in “Cirillo, Ligato e Lima”, fu il tramite per gli affari post-terremoto '80 del pidduista Francesco Pazienza. Giardili e Pazienza che s'incontravano con Antonio Gava (Dc, ndr), e Alphonse Bove, boss italo-americano legato al Sismi e “procacciatore d'affari per la ricostruzione”.
Il sistema terremoto. Del resto il presidente di Bpb fu definito nell'88 dalla stampa nazionale "uomo-chiave" d'un certo sistema di potere politico-finanziario che vedeva coinvolti il ministro Emilio Colombo e il sottosegretario Angelo Sanza. Lucani entrambi. All'epoca un uomo di fiducia del presidente disse a un notaio azionista di minoranza della Bpb "zitto sulla banca se non vuoi guai". Il motivo stava nella sua curiosità di volerci veder chiaro sui rapporti tra il presidente di Bpb e una delle imprese del terremoto. C'erano poi guarda caso quei rapporti tra direttore generale di Bpb e un'impresa di consulenza finanziaria che sempre guarda caso teneva i libri contabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti. Tre anni prima la Guardia di Finanza aveva spedito una bella documentazione a una procura lucana. Veniva fuori che i responsabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti, assieme ai responsabili di altre quattro imprese del medesimo "giro" erano stati denunciati dal Nucleo di Polizia Tributaria per emissione di fatture false e associazione per delinquere. Nell '86 il titolare di una impresa aveva denunciato d'esser stato costretto a "sfornare centinaia di fatture false" nei confronti di tali società perché aveva bisogno di lavorare. Dell'impresa con cui il presidente Bpb avrebbe avuto relazioni la Gdf aveva sottolineato che nel prendere gli appalti violava la legge antimafia. Certo in quel 1986 Banca d'Italia lo mandò un ispettore, ma l'anno dopo ricevette un incarico "ben retribuito" dalla banca ispezionata. Emblematico per capire l'andazzo di quegli anni è la condanna, in veste di direttore d'una banchettina che di quel fiume di soldi del terremoto aveva beneficiato, del presidente di Confindustria di Potenza a 3 mesi di reclusione per appropriazione indebita. Aveva lasciato un buco di 50mld di lire.
A che servono le banche? Il presidente della Bpb intanto, fedelissimo Dc, secondo l'OdV avrebbe pure favorito altri gruppi “coinvolti in oscure vicende post-terremoto” 1980 come Pafi, Baricentro e quell'Icla spa che ebbe in concessione 616mld di lire. Il parlamentare Enrico Iandelli in un'interrogazione parlò d'operazioni societarie e finanziarie come l'aumento di capitale della Bdl “sottoscritto in gran parte da compiacenti persone assai vicine” al presidente, la fusione con Bdl e il successivo aumento di capitale della Mediterranea “senza che la Banca d'Italia intervenisse come suo dovere, e supportata talora da anomale decisioni giudiziarie”. Comunque nel '94 pure Banca d'Italia non potè astenersi dal valutare in 508mld le perdite previste su crediti alla clientela. Tra le perdite c'erano pure 73,7mld per l’ammortamento della posizione del Gruppo Casillo. Banca d'Italia accertò “diffuse irregolarità” e pure che “possessori di significative quote del capitale della banca erano beneficiari di rilevanti finanziamenti erogati dall'azienda”. I rinvii ai problemi economici del Mezzogiorno usati come scusa dal presidente di Mediterranea (prima di Bpb, ndr), ricorda la memoria difensiva presentata contro BdR/Capitalia spa nel 2005 dagli azionisti di minoranza della Mediterranea dopo il suo crack, non avrebbero dovuto essere condivisi dall’azionista di controllo BdR (anch'essa dentro il pool Crediop quando la Regione firmò nel 2000 il mutuo per il terremoto del '98, ndr), ma Generoso Puzio, rappresentante BdR, era pure titolare del 50,03% delle azioni di Mediterranea.
Pareggiare i conti a Roma lasciando buchi altrove. In quello stesso 2000 BdR aveva rappresentato ai sindacati che stavano determinando il valore di stima delle attività di compendio di Mediterranea, non ancora incorporata, da conferire nella Mediterranea Servizi 2000 spa, società costituita immediatamente dopo la stipula nel 2000 dell’atto di fusione tra il presidente di Capitalia Cesare Geronzi e Leonardo Di Brina della controllata-incorporata Mediterranea, presto rinominata Nuova Banca Mediterranea. Per il pool di avvocati che rappresentò gli azionisti di minoranza della Mediterranea, BdR già nell'esercizio finanziario del '98 “preconizzava nel suo bilancio quello che un anno dopo sarebbe stato il valore di concambio fissato per la fusione”. Dall’attuazione di quel progetto di vendita di Mediterranea, scrivono, “Banca di Roma ha conseguito un corrispettivo di 284mln di euro, una plusvalenza di circa 202mln, utile a sanare, portandolo in attivo, il bilancio 2001”. La costruzione della nuova holding BdR/Capitalia avvenne proprio dopo la vendita di Nuova Banca Mediterranea per 284mln alla Popolare di Bari, altra consorella del circuito delle banche cooperative a responsabilità limitata che avevano fatto affari col precedente terremoto del 1980 (tipo la Banca Popolare dell'Irpinia, ndr), come se Mediterranea Servizi 2000 sin dall'inizio fosse stata destinata a una operazione da cui attendere un “lucroso corrispettivo e una cospicua plusvalenza”. Certo senza vendita, specificarono gli avvocati, il bilancio della BdR si sarebbe chiuso con una perdita di 120mln di euro.
Public finance? Crediop, capofila del mutuo firmato nel 2000, diventò società per azioni nel '90, iniziando un tour di quote societarie per banche che si concluse con l'acquisizione da parte della franco-belga Dexia Crédit Local de France, del Crédit Communal de Belgique, e dalla Banque Internationale à Luxembourg, e la partecipazione del circuito delle popolari con Banca popolare di Milano, Banco popolare, e via Em.Ro Popolare Società Finanziaria di Partecipazioni spa, della Banca popolare dell'Emilia-Romagna. Ancora nel 2009, stando alla Guida agli operatori al project financing, Dexia risultava il secondo operatore in Italia per volume complessivo di finanziamenti concessi, e primo a finanziare opere pubbliche. Quando finisce indagata nel 2010 dalla Procura di Bari per bond ventennali da 870mln di euro sottoscritti dalla Regione Puglia per ristrutturare il debito della sanità, Dexia in Basilicata ha in mano la rinegoziazione di sette mutui contratti dall'85 all'89 per circa 23,5mln di euro con scadenza nel 2019, e via Crediop (anche se non esiste più) e sempre con scadenza 2019, un altro mutuo da 10.329.137 di euro in cui capofila è la Banca popolare di Bari. E ancora, 18mln sempre via Crediop con capofila Banca infrastrutture innovazione e sviluppo (Biis, ndr) con scadenza 2020 per “finanziamento spese di investimento esercizio finanziario 2000”. E ancora circa 31mln di euro per investimenti nel settore trasporti con scadenza 2018. E ovviamente è capofila come istituto mutuante per quei fondi del terremoto del '98 con scadenza 2019, per 358.479.577 euro in cui compare anche la Banca Opi che nel novembre 2007 firmava a Milano proprio con Biis un piano per creare un polo unico nell'ambito della public finance, deliberando dal 1 gennaio 2008 la scissione per incorporazione del ramo aziendale di Opi a favore della Biis.
L'indebitamento perverso. Intrecci bancari o meno a fine giugno 2011 il gruppo Dexia era a rischio di smantellamento e i governi francese e belga, co-azionisti, si impegnarono a “fornire la loro garanzia ai finanziamenti”. Pochi mesi dopo la Commissione europea diede via libera con riserva alla nazionalizzazione di Dexia Bank Belgium, precisando che l'operazione costata quattro miliardi di euro era stata necessaria per la stabilità del sistema finanziario, ma che al momento non era in grado di valutare se fosse stata in linea con le norme Ue sugli aiuti pubblici. Due anni dopo Dexia, che aveva già beneficiato tra 2008-2009 di “sostanziali sostegni”, finisce assieme a Ubs in un'altra storia di contratti tossici di cui Angelo Canale, Procuratore regionale della Corte dei conti Toscana, aveva delineato gli effetti perversi sull'indebitamento del Comune di Firenze. Si scoprirono costi non documentati né dalle banche né dagli advisor, spesso le banche medesime, di cui il Comune s'era avvalso per le consulenze. Già nel 2008 il giornalista Nicola Piccenna aveva provato a spiegare in modo informale a diverse Procure che una banca come Dexia non poteva reggere, e fatto presente che di 12mld di euro di crediti solo 300mln erano garantiti, c'erano invece 12mld di debiti.
Storie di consuetudine. Guarda caso anche in Basilicata Dexia e Ubs, per la Corte dei conti, sul mutuo per i fondi del terremoto '98 avevano “svolto sia attività di consulenti finanziari dell’ente sia quella, successiva, di firmatari del contratto in derivati”. I contratti con Dexia e Ubs erano stati inoltre stipulati in inglese, “criticità di non poco rilievo” per la Corte dei conti lucana, e oltre a “diminuire la trasparenza del regolamento negoziale” la pubblica amministrazione si trova oggi ad applicare regole diverse da quelle dell’ordinamento interno. In una nota del novembre 2008 la Regione dichiarò d'essere in possesso delle traduzioni dei documenti, d'aver preso visione del contenuto degli stessi prima della loro sottoscrizione e aver richiesto un “parere” all'Ufficio legale dell'Ente sia riguardo alla tutela che la sottoscrizione di tale schema poteva garantire, sia alla interpretazione di alcuni istituti contenuti nell'accordo (legge e giurisdizione competente, ndr). Non si specificava l’esito della richiesta. Nel “Prospetto delle clausole specifiche” accettate dalla Regione Basilicata, continua la Corte, c'è scritto che “sarà regolato e interpretato in conformità alle leggi in vigore in Inghilterra” e che i contraenti sono obbligati “a sottomettersi alla giurisdizione dei tribunali del Regno Unito”, rinunciando “a qualsiasi eccezione di incompetenza per territorio in qualsiasi data, e per qualsiasi Procedimento aperto presso uno di tali tribunali”.
Beata vigilanza. Abbiamo dunque ricostruito il tessuto socio-economico talmente bene in Basilicata dopo due terremoti che la Regione non solo può permettersi di firmare a nome di tutti i cittadini debiti rinunciando alla giurisdizione italiana, ma disinteressarsi del precedente contratto, il debito residuo di 211,820mln di euro verso il pool di banche attaccate a Crediop (ancora in essere, ndr), e collocarsi in una “singolare” posizione contrattuale con gli Istituti firmatari dell’operazione in derivati. “Uno degli stessi, Dexia Crediop – scrive la Corte – è lo stesso istituto firmatario, sia pure in qualità di capogruppo e mandatario di una Associazione Temporanea di Imprese (in cui figuravano Banca Mediterranea e BdR appena fuse, ndr), dell’originario contratto di mutuo, e quindi viene a trovarsi sia pure in parte, nella posizione di creditore e debitore”. Si fa notare che nella relazione sull'esercizio finanziario 2013, la Regione non ha fornito “evidenza contabile” dell'ammontare ipotetico che deve incassare (se positivo) o pagare (se negativo) per uscire dal mutuo, specificando che verrebbe contabilizzato nel bilancio dell'Ente “solo” se fosse deliberata la chiusura del contratto. Valore che, sottolinea la Corte, tra 2007 e 2013 è costantemente negativo. La Regione ha dunque già sborsato parecchi milioni di euro. La Corte ricorda la natura “fortemente aleatoria” di tali contratti per le finanze di un’amministrazione pubblica, e insiste sul fatto che la Regione non ha indicato le “unità previsionali di base” e i “capitoli di spesa” sui quali ricade la gestione del mutuo. Fatti “pregiudizievoli degli equilibri dell’esercizio in corso e di quelli futuri”. Ma nel 2006 quando si firmavano swat per il terremoto del '98, una legge assegnava ancora un contributo quindicennale di 3,5mln di euro a decorrere dal 2007 per la prosecuzione nei territori colpiti dal terremoto '80-'81, e due anni dopo in un rapporto della Sezione di controllo della Corte dei conti sulla gestione dei fondi per il terremoto del '80, in relazione a quel rifinanziamento s'affermò che per “le opere in corso e da completare” il Dipartimento di protezione civile aveva inviato una nota nella quale aveva fatto presente che le Regioni interessate curavano “in toto” gli adempimenti relativi all’utilizzazione dei fondi, ma che al Dipartimento non era stato assegnato alcun potere di indirizzo, vigilanza, e controllo. Un fatto “grave” aver trascurato “semplici compiti di vigilanza”.
Quello che "sapevano tutti". Nel settembre 2007 il pm Annunziata Cazzetta, su procedimento penale aperto nel 2003 nei confronti della Banca popolare del Materano (Bpm, ndr), inviava al giudice Angelo Onorati la richiesta di rinvio a giudizio di 35 persone, tra cui funzionari della stessa e imprenditori locali, accusati di una serie di reati bancari. Una storia che si chiude anni dopo con l'assoluzione degli indagati e la fusione di Bpm con la Banca popolare del mezzogiorno. Tra gli indagati c'è Guido Leoni, all'epoca amministratore delegato della Bper, vicepresidente dell'Istituti banche popolari italiane, e consigliere di amministrazione di Em.Ro popolare, Banca popolare di Crotone, e infine Dexia Crediop. A Milano invece, sempre in quel 2007, viene aperto un fascicolo nei confronti dalla Banca Italease. Nelle intercettazioni autorizzate nel procedimento penale sull'aggregazione Banca popolare di Milano-Bper, il gip Cesare Tacconi sottolinea una telefonata tra Leoni (quello a cui nel 2004 Giovanni Conforti della scalata occulta Unipol diceva al telefono che “gli immobiliaristi sono inaffidabili e ricattano”, ndr), e Sergio Iotti (vicedirettore, ndr). “Pare ci siano buchi paurosi” dice Leoni a Iotti, “c'è un buco pauroso... lo sapevano tutti che vendevano questi derivati”. L'anno dopo Claudio Calza, consigliere del cda del Banco popolare del Materano, della Bper, e ovviamente pure della Dexia, è arrestato, nell'ambito dell'indagine sui derivati di Banca Italease, per associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita. Questa storia finanziaria finisce che nonostante chi vendeva questi derivati sapeva i “buchi paurosi” che creavano (e chi li firmava? sapeva?), in Basilicata fino al dicembre 2019, per i derivati dell'ultimo terremoto la Regione deve sborsare a Dexia 11.250.000euro l'anno. Quali benefici ne abbiano tratto i terremotati lo sanno solo loro.
TERREMOTO E RESIDENZE. Terremoto Amatrice, boom di richieste residenza. Fondi ricostruzione fanno gola, scrive il 4 settembre 2016 Spartaco Ferretti su “Blitz Quotidiano”. Ci sono gli sciacalli che cercano di intrufolarsi nelle case inagibili dopo il terremoto per rubare quello che è rimasto intatto. Poi ci sono gli sciacalli che cercano di mettere le mani anche sui giocattoli mandati per beneficenza ai bambini. E ancora ci sono gli imbucati, sciacalli di serie B, che cercano di scroccare pasti alle mense riservate a chi nel terremoto ha perso cari e casa. E infine ci sono i furbetti del terremoto. Quelli che cercano, se non di guadagnarci, almeno di non rimetterci. Funziona così: se ti crolla la casa ed è la tua prima e unica casa, quella fino a dove ieri vivevi, Stato come è normale ti aiuta per primo. Se poi avanza qualcosa si dà qualche incentivo anche a chi la casa la aveva ma non era la prima, era un di più, una seconda casa per le vacanze. Non sono e non possono essere loro, per forza di cose, i primi a essere aiutati. E così, racconta Il Messaggero, ad Accumoli, Amatrice e negli altri luoghi squassati dal terremoto, dopo il 24 agosto è successo qualcosa di strano: tante, troppe, persone, hanno chiesto la residenza in uno dei comuni distrutti. Facile capire che qualcosa non torni. Prima, quando casa ce l’avevi agibile, ad Amatrice non vivevi. Ora che la casa è inagibile o crollata, dichiari e chiedi di viverci. Il perché è presto spiegato da Valentina Errante per Il Messaggero: il procuratore Giuseppe Saieva, numero uno della procura di Rieti, ha aperto un altro fascicolo che questa volta non riguarda gli sciacalli responsabili di furti nelle case distrutte, quanto piuttosto quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. Ossia chi, dopo il sisma, ha chiesto il trasferimento di residenza, da Roma ai centri colpiti. All’attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l’ufficio Anagrafe. L’ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.
Terremoto: non solo sciacalli, si indaga su furbetti di residenza, scrive il 5 settembre 2016 Alberto Battaglia su "Wallstreetitalia.com". La Procura di Rieti ha aperto un fascicolo sulle richieste di residenza sospette che sono giunte al Comune di Amatrice nei giorni successivi al terremoto che ha devastato la città. Un volume di domande poco chiaro che potrebbe nascondere il tentativo di accaparrarsi una fetta dei contributi pubblici che saranno affidati ai residenti del paese per la ricostruzione degli immobili. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, non teme che i “furbetti della residenza”, così battezzati dai media, possano farla franca: “Gli uffici dell’anagrafe hanno avuto disposizione di informare i carabinieri e i vigili ogni volta che arrivano richieste di questo tipo”, ha detto. Alcuni “furbi” sono già stati individuati in un altro dei centri terremotati, Accumoli. Non è detto che dietro a ciascuna richiesta di residenza si celi un proposito fraudolento: la polizia giudiziaria avrà, appunto, il compito di discernere le domande di coloro che semplicemente si erano attardati a regolarizzare presso l’Anagrafe una residenza in atto già da tempo, da quanti si trovino in posizioni più dubbie. E’ il caso di coloro che reclamano una residenza presso immobili o strade ormai completamente distrutte dal sisma.
Furbetti ad Amatrice: è corsa alla residenza per avere i fondi statali, scrive il 4 settembre 2016 Adriano Scianca su "Intelligonews.it". Perché uno dovrebbe, proprio adesso che il paese, di fatto, non esiste più, affrettarsi per prendere la residenza ad Amatrice o ad Accumoli? Semplice: per godere dei fondi stanziati dallo Stato per il terremoto. È su questo terribile sospetto che sta indagando la procura di Rieti. Il procuratore Giuseppe Saieva ha aperto un altro fascicolo che sugli “amatriciani dell'ultim'ora”, quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. La procura ha chiesto ieri il sequestro di tutti i registri anagrafici dei comuni interessati dal terremoto, materiale che si aggiunge alla documentazione acquisita dai Carabinieri negli uffici della Provincia di Rieti e in quelli regionali del Genio civile sugli immobili che avevano subito migliorie antisismiche e sono crollati dopo le scosse. All'attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l'ufficio Anagrafe. L'ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.
TERREMOTO: ANTE E POST DI ILLEGALITA'. Terremoto, il videoracconto di Gatti: il rischio ad Amatrice era scritto, ma è stato ignorato. Il documento del Comune, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal sisma del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati, scrive Fabrizio Gatti il 26 agosto 2016 su “L’Espresso”. Il piano di protezione civile del Comune di Amatrice già prevedeva la distruzione del paese e i potenziali rischi per la popolazione: «Soprattutto nei piccoli borghi e anche nel capoluogo, caratterizzati da vie strette senza slarghi». È tutto scritto a pagina 18 del documento che per legge ogni amministrazione municipale deve predisporre. Si sapeva cioè dei pericoli. E come si è visto con il terremoto del 24 agosto, non si è fatto nulla per evitarli. «Si deve rilevare altresì che l'edilizia abitativa e non del territorio comunale è per lo più risalente all'Ottocento e ristrutturata con vari interventi risalenti al Novecento», è scritto nel piano di Amatrice tra non pochi errori di sintassi che abbiamo corretto: «Gli interventi in cemento armato e la sua diffusione sono sicuramente riconducibili agli interventi realizzati dopo il 1960, pertanto il rischio sismico è alto e lo testimoniano i danni riportati dall'edilizia pubblica e privata causati dal sisma del 1979 e da ultimo del 2009 che interessò la città dell'Aquila. Senza dubbio la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione». Il Comune di Amatrice ha il suo piano di protezione civile. Il documento, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal terremoto del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati. Nemmeno le strade sono sufficienti in caso di calamità: «Nelle frazioni spesso la viabilità di accesso e di esodo è garantita da una unica strada. Va pertanto opportunamente monitorata la viabilità in caso di eventi calamitosi». Il piano indica tra l'altro la zona dell'hotel Roma tra quelle a maggiore instabilità idrogeologica: «Le caratteristiche dei terreni alluvionali sabbiosi limosi depositatesi su formazioni più consolidate li rendono infatti generalmente instabili. Si segnala tuttavia la necessità, da parte dell'amministrazione comunale, di porre particolare attenzione nell'approvazione di progetti pubblici e privati, subordinando gli stessi agli esiti di una relazione geotecnica e geologica che garantisca la funzionalità del complesso opere-terreni per il mantenimento della sua stabilità». I geologi sanno bene che nei terreni alluvionali le onde sismiche amplificano i loro effetti sulle costruzioni sovrastanti. Il sito del Comune distrutto dal terremoto del 24 agosto pubblica il piano di protezione civile del Comune di Amatrice. Con i rischi, le misure di emergenza, gli indirizzi, le vie, i punti di raccolta per gli abitanti di Amatrice. Quindi per i residenti di Accumoli è un piano completamente inutile. Un caso di copia-incolla? Arquata del Tronto ha invece un piano di protezione civile, ma introvabile sui canali istituzionali sia del Comune sia del dipartimento nazionale della Protezione civile. Come edificio strategico per il paese il piano di Amatrice indica il municipio di corso Umberto 70, che però non ha retto alle scosse evidentemente per scarsa resistenza antisismica. Come luogo dove riparare eventuali sfollati, al primo posto è invece indicato proprio l'hotel Roma, nella zona segnalata poche pagine prima tra le aree più instabili: lo stesso piano di protezione civile, insomma, non tiene conto di quanto prescrive. Anche il Comune di Accumoli, dove la caduta del campanile ha ucciso un'intera famiglia, ha il suo piano di protezione civile. E lo pubblica sul suo sito Internet istituzionale. Però il documento è copiato integralmente da quello di Amatrice, comprese l'intestazione, le vie, le piazze, i nomi dei referenti, le caratteristiche del territorio. Un errore oppure un maldestro copia-incolla. Nel piano obbligatorio per legge, Accumoli è citata soltanto due volte come paese confinante di Amatrice. Quindi è uno strumento accessibile ai cittadini, ma completamente inutilizzabile. Il piano di protezione civile di Arquata del Tronto resta invece un mistero. Il sito del dipartimento nazionale della Protezione civile include il Comune tra quelli che hanno rispettato la legge. Ma non c'è modo di raggiungere il piano. E cercando sulla pagina del Comune non si trova. Non deve stupire, purtroppo. Gran parte dei sindaci italiani sono nella stessa situazione. E in Calabria, regione esposta a terremoti molto più potenti del sisma del 24 agosto, un terzo delle amministrazioni comunali è del tutto privo di un piano di protezione civile. E generalmente i paesi e le città che lo hanno adottato non lo rendono pubblico e facilmente accessibile ai cittadini. Nel frattempo, nell'importante periodo di pace tra un terremoto e l'altro, proprio nelle province più lacunose raramente le agenzie di protezione civile regionali e il dipartimento nazionale hanno esercitato i loro poteri-doveri di controllo per spingere i sindaci a rispettare la legge.
Terremoto, lo scandalo-fondi: i soldi c'erano ma non furono spesi. Ad Amatrice ed Accumuli i 4 milioni di euro messi a disposizione negli ultimi due anni per la messa a norma degli edifici privati non sono mai stati spesi, scrive Ivan Francese, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un terremoto giudiziario originato dal terremoto vero: è questa la prospettiva che si apre nell'ambito dell'inchiesta per disastro colposo che sarà aperta dal procuratore di Rieti dopo il sisma che nella notte fra martedì e mercoledì ha devastato Amatrice, Accumuli e Pescara del Tronto, al confine fra Lazio, Umbria e Marche. Un'inchiesta che con ogni probabilità parlerà di fondi pubblici stanziati per la messa a norma degli edifici, pubblici e privati, e mai spesi. Come è successo ad Amatrice, la città-simbolo che piange oltre duecento morti e che presto chiederà verità e giustizia. Non c'è solo la scuola "Romolo Capranica", restaurata nel 2012 e crollata come un castello di sabbia. C'è anche l'ospedale, per il cui restauro erano pronti due milioni di euro che non sono stati mai spesi. C'è il municipio, crollato anch'esso, per cui erano stati messi a disposizione fondi provinciali poi dirottati altrove. Tanti casi che lasciano sgomenti, altrettante domande a cui bisognerà trovare una risposta. E purtroppo il conto dei danni, in termini umani e materiali, non si ferma solamente agli edifici pubblici. Dopo il terremoto dell'Aquila del 2009, racconta Repubblica, la Protezione Civile ha messo a disposizione 965 milioni di euro per la messa a norma degli edifici privati secondo le direttive antisismiche. Fondi che prevedevano contributi statali dai cento ai duecento euro al metro quadro per la ristrutturazione degli immobili dei centri storici, generalmente quelli più a rischio. Eppure moltissimi di quei fondi non sono stati nemmeno richiesti, a causa dei bizantinismi della burocrazia, che imponevano ad esempio la gestione regionale dei fondi, ma tramite sportelli organizzati dai Comuni. Fra Amatrice ed Accumuli, dove il rischio sismico era pure altissimo (e tutti lo sapevano), non è stato speso nemmeno un euro dei quattro milioni stanziati fra 2014 e 2015. Una circostanza che grida vendetta.
Ricostruzione, soccorsi, polemiche. La maledizione del post-terremoto. Dalla catastrofe di Messina nel 1908 a quelle del dopoguerra, il susseguirsi di errori e ritardi ha caratterizzato quasi ogni sisma che ha colpito il Paese. Al punto da imporsi come un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, scrive Dino Messina il 28 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Appena passata l’onda devastatrice del terremoto, si pensa al dopo. Le esperienze possono servire per non ripetere gli errori e per rendersi conto dei passi compiuti. La storia del dopo terremoto è diventata un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, soprattutto da quando la stampa liberale ha assunto un ruolo centrale di stimolo e denuncia.
Basilicata, 1857. In questo senso è emblematica la vicenda del terremoto della Basilicata che nel 1857 distrusse i paesi della Val d’Agri e colpì severamente quelli della Valle di Diano. Lo Stato unitario non era ancora nato. E ai nostalgici del Regno delle Due Sicilie (ce ne sono ancora!) vanno ricordati i ritardi nei soccorsi più elementari dopo il sisma che il 16 dicembre 1857 provocò oltre diecimila morti (fonti ufficiali dello Stato borbonico) e secondo altri studi fece invece 19 mila vittime. Un fotogiornalista francese, Alphonse Bernard, arrivò nei luoghi del disastro ben prima dei soccorritori e dell’esercito e documentò la distruzione in fotoreportage i cui introiti furono in parte destinati alla popolazione decimata dalla catastrofe. Un pubblicista come Teofile Roller sulla stampa britannica denunciò che nel febbraio 1858, oltre due mesi dopo il sisma sotto le macerie di alcuni paesi come Montemurro non erano ancora stati disseppelliti i cadaveri.
Messina 1908. Il terremoto del 1857 era stato classificato come il terzo più grave della storia, ma quello del 28 dicembre 1908 che colpì Messina e fece 80 mila morti su una popolazione di 172 mila abitanti fu una vera ecatombe (foto sotto). Il tragico evento ebbe testimoni illustri come Giovani Pascoli e lo storico Gaetano Salvemini, che in quella giornata perse la moglie e cinque figli. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, ci furono ritardi ma non certo paragonabili a quelli borbonici. I primi importanti soccorsi arrivarono tuttavia dai marinai delle navi russe e inglesi oltre che dal personale della Marina italiana. In quella grave calamità ci fu un concorso di aiuti internazionale. Villaggi di baracche vennero donati dal re di Prussia Guglielmo II e dal presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt. Quando nel gennaio 1975 nella zona ci fu un altro non rilevante sisma l’inviato del Corriere della sera Antonio Padellaro documentò che ancora esistevano cinque quartieri di baracche risalenti al terremoto del 1908 in cui vivevano circa 25 mila persone. Nel 2002 un reportage di Alessandro Trocino rilevò che la popolazione nelle baracche del terremoto era scesa a 3.500 abitanti, ma che c’erano generazioni di famiglie per niente disposte a mollare la baracca del 1908, anzi la tramandavano di padre in figlio perché abitare lì dava il diritto di avere una abitazione nuova. Il più lungo post terremoto della storia.
Marsica 1915. Le ruberie compiute dopo il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 furono denunciate dal giovane Ignazio Silone, che all’epoca ancora si chiamava Secondino Tranquilli, in articoli scritti per l’Avanti!. Anche ad Avezzano, che fu il centro più colpito dal sisma che precedette di pochi mesi la nostra entrata nella Grande Guerra, vennero costruite delle baracche. I cronisti che andarono sul posto per il terremoto del 1983 scoprirono che alcune di quelle casupole erano ancora occupate, da locali o da turisti romani che avevano trovato una sistemazione per le vacanze invernali e non erano affatto disposti a lasciarle. Così alcune delle roulotte per il terremoto del 1983 vennero piazzate accanto alle baracche superstiti del 1915.
Vulture 1930. Si parla poco del terremoto del Vulture del luglio 1930 (foto sotto), che provocò 1.404 morti e che coinvolse 50 comuni in cinque province della Basilicata, della Puglia e della Campania. Il regime fascista non perse occasione per trasformare la tragedia in un’occasione di propaganda, sicché si vantò di aver costruito in pochi anni 3.746 case e di aver riparato 5.190 abitazioni. Il coordinamento della ricostruzione e dei soccorsi venne affidato ad Araldo di Crollalanza.
Belice 1968. Nel secondo dopoguerra il terremoto del Belice del 14 gennaio 1968, che causò 300 morti e 80 mila senzatetto, rimane come un simbolo negativo non soltanto per il ritardo nei soccorsi ma per una politica di ricostruzione sbagliata. Secondo la vasta letteratura di quel terremoto, sul posto arrivarono prima i cronisti dei soccorritori. La prima casa venne ricostruita nel 1977, nove anni dopo la tragedia! Sbagliata fu anche la scelta di ricostruire Gibellina (foto sotto), il centro maggiormente danneggiato, a 18 chilometri dal sito storico. La chiesa di quel nuovo paese crollò nel 1994 e il lago progettato per il recupero delle acque piovane rimase a lungo non funzionante. È stato calcolato che questa mancata ricostruzione sia costata allo Stato italiano non meno di sette miliardi di euro.
Friuli 1976. Un modello del tutto diverso venne riproposto per la ricostruzione dei paesi del Friuli devastati dal terremoto del 6 maggio 1976 (foto sotto), che provocò 989 vittime. Tra i paesi più colpiti, Osoppo, Gemona, Trasaglio, Buja, Maiano, Colloredo, Spilinbergo, Forgaria, Venzone. Un appello lanciato nell’agosto 1977 dagli abitanti di quest’ultimo centro riassume la filosofia del modello Friuli: «Respingiamo una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe estranei nella nostra stessa patria». I friulani sconfissero così l’Orcolat, l’Orco, come in lingua locale chiamano il terremoto, con una ricostruzione che teneva conto delle esigenze della popolazione, partiva dal basso, a differenza di quel che era avvenuto in Belice dove erano stati calati megaprogetti dall’alto. I paesi vennero ricostruiti pietra su pietra secondo una scala di priorità riassunta bene dal vescovo Alfredo Battisti: «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese». Nel 1983, sette anni dopo il terremoto, l’80 per cento della ricostruzione era stata ultimata.
Irpinia e Basilicata 1980. Il terremoto più grave nella seconda metà del Novecento, per numero di vittime ed estensione dell’area danneggiata, rimane quello dell’Irpinia e della Basilicata, che il 23 novembre 1980 provocò quasi tremila morti, poco meno di novemila feriti e 280 mila senza tetto. Tutto l’Italia si mobilitò in una gara di solidarietà. Chi scrive, allora giovane cronista, arrivò a Balvano, in provincia di Potenza (foto sotto), la sera del 24 novembre, in tempo per vedere i 77 sacchi che contenevano i corpi dei fedeli uccisi dal crollo della chiesa. Così assistette al dramma di un padre, un vecchio medico, a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, che aveva ingaggiato delle ruspe per far scavare sotto le macerie dell’ospedale dove giacevano i corpi dei due figli. Partirono diverse denunce per gli edifici nuovi che erano crollati perché i tecnici avevano ignorato le norme antisismiche. Numeri irrisori in confronto alle 382 persone arrestate per le vicende legate alla ricostruzione. Una ricostruzione che è costata ai contribuenti italiani più di 60 mila miliardi di lire. Una voragine provocata da contributi distribuiti a pioggia: gli aiuti invece di essere concentrati nei paesi seriamente danneggiati vennero esteri a 687 Comuni. Scandalosa anche la lievitazione di costi di alcune opere che talvolta superò il mille per cento. Una commissione d’inchiesta parlamentare denunciò inoltre che erano state consapevolmente finanziate imprese fallimentari.
Umbria e Marche 1997. Un veloce ritorno alla normalità ha caratterizzato la ricostruzione nel dopo terremoto che il 26 settembre 1997 fece undici morti e 32 mila senza tetto nell’Umbria (foto sotto, Assisi) e nelle Marche. La ricostruzione certosina della Basilica di San Francesco d’Assisi è lì a dimostrarlo. Un piccolo sisma, quello del 31 ottobre 2002 in Molise, causò una grande tragedia: il crollo di una scuola a San Giuliano che uccise 27 bambini e una maestra. Un processo dimostrò che quell’edificio era stato costruito in spregio alle più elementari norme di sicurezza.
L’Aquila 2009 ed Emilia 2012. Il sisma di questi giorni nel Centro Italia è stato definito un terremoto gemello di quello che il 6 aprile 2009 provocò all’Aquila (foto sotto) e nei comuni vicini 309 morti e 60 mila sfollati. Anche in questo caso si sono dimostrate fallimentari la filosofia e la pratica delle New Town. Il business della ricostruzione ha attirato personaggi senza scrupoli sia all’Aquila, dove qualcuno rideva per i soldi che avrebbe fatto con la catastrofe, sia in Emilia, sconvolta dal terremoto del 20 e 29 magio 2012. La rapida ricostruzione di questo cruciale territorio è stata inquinata dalla presenza di cosche di ‘ndrangheta calabresi infiltratesi al Nord.
Terremoto, crollate Torre civica e chiese dichiarate a norma. Terremoto, lo scandalo dei fondi antisisma deviati. Dai ponti non ristrutturati perché la Provincia aveva finito i suoi soldi agli stanziamenti deviati per altri scopi. Ecco come si sprecano le risorse destinate a evitare stragi, scrivono Dario Del Porto e Fabio Tonacci il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Due terremoti, quello dell'Umbria nel 1997 e quello dell'Aquila nel 2009, hanno fatto piovere sul territorio della provincia di Rieti 84 milioni di euro di fondi per la ricostruzione. Negli anni se ne sono aggiunti altri, di milioni. Della Regione, dello Stato, della Chiesa. Sette giorni fa, però, un altro sisma ha sollevato una verità che era sotto gli occhi di tutti: parte di quel denaro non è stato ancora speso, o è stato speso male, o, ancora, non è stato utilizzato per rendere gli edifici sicuri. E le rovine di Amatrice e Accumoli sono lì a testimoniarlo. Sei ponti in cerca di autore. Prendiamo i ponti. Due fondamentali vie di accesso ad Amatrice, la strada provinciale 20 e la statale 260, sono interrotte dal 24 agosto perché si sono danneggiati i ponti "Rosa" e quello di "Tre Occhi". Che ne è dei 611.000 euro che la Regione ha erogato nel 2014 "per interventi di mitigazione del rischio sismico" di sei ponti tra cui il "Rosa"? Rimasti nel cassetto. La provincia di Rieti non ha più un soldo in bilancio, e non riesce a trovare i 175mila euro della sua quota parte dell'intervento progettato. Dunque non può utilizzare i 611mila della Regione perché non ha i suoi 175mila da spendere. Il presidente della giunta Giuseppe Rinaldi, temendo di perdere i fondi, è stato costretto a inviare una lettera alla direzione regionale, nella quale spiega che "l'amministrazione intende confermare il proprio impegno al cofinanziamento", ma che per farlo dovrà "alienare immobili". Insomma, per aggiustare un ponte coi fondi del terremoto la provincia di Rieti si deve vendere un palazzo. Il campanile killer. Dopo il sisma del 1997, il Genio civile individuò sul territorio reatino 300 interventi di ricostruzione e miglioramento sismico per un totale di 79 milioni di euro messi a disposizione dallo Stato. Tra Accumoli e Amatrice c'erano 11 immobili e 10 chiese da sistemare. Prendiamone una diventata tragicamente famosa: il complesso parrocchiale San Pietro e Lorenzo ad Accumoli. È la chiesa con accanto un campanile costruito sopra il tetto di una casa: la notte del 24 agosto, quella torre campanaria di sassi, crollando, ha ucciso la famiglia Tuccio che abitava lì sotto, padre, madre e due bambini. Una grossa fetta dei fondi per gli edifici religiosi è stata gestita direttamente dalla Curia di Rieti, attraverso un ufficio tecnico creato ad hoc presso la diocesi, che ha predisposto le gare di affidamento. Il geometra che ha seguito tutte le pratiche si chiama Mario Buzzi, e adesso è in pensione. "Per il campanile non c'è stato mai alcun finanziamento specifico né alcun lavoro di ristrutturazione", spiega a Repubblica. Aggiungendo: "Non è vero che sono stati dirottati soldi per il miglioramento sismico dal campanile alla chiesa". La chiesa di Accumoli. E però nella lista delle opere finanziate del post-sisma 97 il nome della chiesa di San Pietro e Lorenzo, c'è. "Intervento sul complesso parrocchiale da 116mila euro". Si tratta del rifacimento del tetto di 200 mq della chiesa accanto al campanile, la cui gara d'appalto è stata vinta nel 2008 dalla Steta di Stefano Cricchi, uno dei figli di Carlo Cricchi, l'imprenditore reatino che si è aggiudicato commesse anche a L'Aquila. Per i lavori in Abruzzo, l'altro figlio, architetto, è sotto inchiesta per tangenti. "Chiariremo tutto, la nostra azienda non c'entra". Oggi Cricchi senior, cavaliere del lavoro, ha di che lamentarsi: "Noi non abbiamo fatto niente su quel campanile". Seduto al tavolo nel salotto della sua ditta, mostra disegni e capitolati. "Ci arrivano minacce di morte su Facebook e via mail perché tutti ormai credono che siamo stati noi a ristrutturarlo, ma non è vero". L'appalto per "riparazione e miglioramento sismico" della chiesa valeva 75mila euro (il resto, 41 mila euro, era per la progettazione). Steta lo vince con un ribasso del 16 per cento, dunque 59mila euro. Nel capitolato si scopre una cifra sorprendente: "Per il miglioramento antisismico c'erano appena 509 euro", spiega Cricchi. "Il progetto imponeva di inserire nella muratura 33 euro di ferro, praticamente una sola barra, e di fare alcuni fori da riempire non con il cemento, ma con la calce". Il grande equivoco. Eccolo il grande equivoco della ricostruzione dopo ogni disastro. La confusione tra il "miglioramento sismico" (piccoli interventi che non modificano sostanzialmente la stabilità dell'immobile) e l'"adeguamento", molto più costoso. Quasi tutto ciò che è stato fatto coi fondi dei terremoti, per forza maggiore scarsi e non sufficienti a coprire ogni spesa possibile, è miglioramento: i 200mila euro investiti nella scuola Capranica, in parte crollata; i 250mila euro messi nella Chiesa Santa Maria Liberatrice, inagibile; i 400mila del Teatro all'inizio del corso principale di Amatrice, distrutto; i 90mila della Torre Civica di Accumoli, lesionata; i 260mila euro della Chiesa di Sant'Angelo, venuta giù due settimane dopo l'inaugurazione. Fabio Melilli, deputato del Pd, è stato dal 2006 al 2010 il sub-commissario di Rieti per il terremoto dell'Umbria: "Quando mi sono insediato, era stato ultimato appena il 20 per cento dei lavori, nonostante fossero passati quasi dieci anni dal sisma". La normativa era fatta male: lo stesso progetto doveva superare due volte lo stesso esame. "Per dare il via alla gara di appalto - ricorda Melilli - servivano le autorizzazioni del Genio civile, del comune, della Soprintendenza. Una volta avute, il progetto andava in commissione dove c'erano gli stessi rappresentanti del Genio civile, del Comune, della Soprintendenza. Si perdeva un sacco di tempo". Tant'è che dei 5 milioni arrivati dopo L'Aquila, ne sono stati spesi appena tre. Il denaro immaginario. Una coperta quasi sempre corta. Si tira da una parte, ci si scopre dall'altra. Per il consolidamento del municipio di Amatrice c'erano 800mila euro, ma l'amministrazione guidata da Sergio Pirozzi ha deciso di spostarli sull'istituto alberghiero. Questo è rimasto in piedi, il municipio è franato. Coperta corta, che a volte si sfalda nelle mani di chi la vorrebbe usare. L'ospedale "Francesco Grifoni" da sette anni attendeva un intervento "urgente" di messa in sicurezza. I soldi, 2,2 milioni di euro, vengono pescati dal fondo per l'edilizia scolastica. Si è fatta anche la gara di appalto, vinta dal Consorzio cooperative costruzioni. Ma quel denaro, hanno scoperto i dirigenti della Asl di Rieti quando tutta la procedura era ormai avviata, esisteva solo sulla carta. Il fondo statale, per il Lazio, si era prosciugato.
Le carte riservate sui lavori eseguiti nei paesi del sisma e i certificati di chi ha fatto i collaudi su edifici pubblici. Gli «ancoraggi» dichiarati e mai fatti, scrivono Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini il 29 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. C’è un documento riservato che dimostra le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice e Accumoli dopo il sisma del 1997 dell’Umbria. È la relazione dell’ente attuatore su 21 appalti assegnati per la messa a norma degli stabili. E svela nei dettagli anche alcuni casi clamorosi, come quello della Torre Civica di Accumoli, manufatto del XII secolo che è il più antico del paese, gravemente danneggiato dalla scossa della notte del 24 agosto scorso. E quello della caserma dei carabinieri, crollata per il terremoto. Ma anche le procedure seguite per numerose chiese e complessi parrocchiali. Si tratta di 2 milioni e 300 mila euro, soldi pubblici che si aggiungono agli altri 4 milioni spesi dopo il 2009. Il dossier elenca i soldi stanziati, gli interventi effettuati, il nome dei progettisti, le ditte incaricate. Indica anche l’effettuazione dei collaudi per la convalida di quanto era stato fatto. Interventi per una spesa ingente, che evidentemente non erano stati svolti adeguatamente, visto che alcuni edifici sono stati distrutti dal sisma di sei giorni fa e altri risultano gravemente lesionati. E questo avvalora il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati. Atti che riguardano le strutture pubbliche, ma pure le abitazioni private. Ai Vigili del fuoco sono già arrivate numerose segnalazioni di cittadini che raccontano di aver acquistato la casa con la certificazione dell’avvenuto «ancoraggio» proprio per scongiurare il pericolo di crolli. E invece, dopo la scossa che ha devastato interi paesi, si è scoperto che nulla del genere era mai stato fatto. Controlli saranno effettuati anche dai magistrati di Ascoli che indagano sui crolli avvenuti ad Arquata e Pescara del Tronto. In particolare bisognerà verificare come mai alcuni edifici di Arquata — l’ufficio postale, la scuola, il Comune e la caserma dei carabinieri — dovranno essere demoliti perché dichiarati inagibili nonostante dovessero essere perfettamente a norma. Caso esemplare è quello della Torre Civica di Accumoli, edificio storico conosciuto anche a livello internazionale. Lo stanziamento iniziale di 100 mila euro viene ridotto a poco più di 90 mila. L’impresa individuata è la «Giuseppe Franceschini». Responsabile del procedimento è l’architetto Cappelloni. È l’esperto che segue altri progetti, compreso quello del complesso parrocchiale in cui è inserita la chiesa di San Francesco, dove il campanile è crollato e ha travolto un’intera famiglia. Vengono effettuati due collaudi: uno l’11 ottobre del 2012, l’altro il 28 maggio 2013. Non vengono evidenziati problemi e la verifica concede il via libera. Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato: le scosse di sei giorni fa non hanno lasciato scampo e la Torre risulta gravemente lesionata. L’edificio è venuto giù. Storia analoga è quella della caserma dei carabinieri di Accumoli. Dopo il terremoto dell’Umbria si decide di effettuare lavori di ristrutturazione e vengono stanziati 150 mila euro. La ditta prescelta è la «Impretekna». Responsabile del provvedimento è il geometra Granato che risulta aver seguito ben nove progetti. Anche in questo caso i lavori sono classificati come «ultimati e collaudati». Sembra che sia tutto regolare, almeno a leggere le carte. E invece la sede dei carabinieri ha subito danni gravissimi. Sono i documenti ufficiali a dimostrare che la chiesa di Accumoli e il campanile erano stati inseriti in un «sistema» ben più ampio che prevedeva la ristrutturazione dell’intero complesso parrocchiale. Spesa prevista: 125 mila euro che scendono a 116 mila. L’appalto se lo aggiudica la «Ste.Pa» che evidentemente poi concede alcuni subappalti. Alla fine arriva il collaudo e la pratica si chiude. Nessuno immagina che in realtà i soldi stanziati per il campanile siano stati utilizzati per la chiesa. E soprattutto che non sia stato effettuato alcun adeguamento antisismico, ma semplici migliorie che nulla garantiscono. La notte del 24, dopo la prima fortissima scossa, il campanile si sbriciola e uccide quattro persone. Viene giù anche la chiesa di San Michele Arcangelo di Bagnolo, frazione di Amatrice. A disposizione erano stati messi 100 mila euro. Ente attuatore in questo caso era la Curia vescovile di Rieti che aveva indicato anche gli esperti responsabili dei lavori. E adesso saranno proprio gli ingegneri e gli architetti incaricati di occuparsi del controllo delle attività a dover chiarire ai magistrati che cosa sia accaduto tra il 2004, quando si decide di mettere a norma gli edifici, e il 2013 quando risultano effettuati gli ultimi collaudi. Nei prossimi giorni i magistrati coordinati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva — i pubblici ministeri Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Marvotti — acquisiranno la documentazione su tutti gli stabili crollati. La decisione è quella di aprire un fascicolo su ogni edificio in modo da poterne ricostruire la storia ed effettuare le eventuali contestazioni a chi ha seguito le ristrutturazioni. Per questo verranno interrogati gli architetti e gli ingegneri indicati nella relazione sui lavori decisi dopo il sisma dell’Umbria. Saranno loro a dover chiarire come mai si decise di effettuare — nella maggior parte dei casi — soltanto delle «migliorie», chi diede le indicazioni sugli interventi e soprattutto che cosa fu scritto nelle relazioni finali per ottenere il via libera dei collaudatori. Questi ultimi dovranno invece chiarire che tipo di controlli furono svolti, consegnando anche la documentazione relativa a ogni progetto seguito. L’attività dei pubblici ministeri in questa prima fase dell’inchiesta si muove su un doppio binario: da una parte gli edifici pubblici e dall’altra le abitazioni private. In questo secondo caso l’attenzione si concentra soprattutto sui cosiddetti «ancoraggi». Nei giorni successivi al terremoto sono arrivate numerose segnalazioni di persone che hanno raccontato di aver comprato il proprio immobile e di aver ricevuto — al momento dell’acquisto — la certificazione sulla messa in sicurezza rispetto al rischio sismico. Quando i palazzi sono crollati è apparso evidente come non fosse stato effettuato alcun intervento mirato. Per questo bisognerà confrontare gli atti di compravendita con quelli registrati nei Comuni. Partendo naturalmente dagli edifici crollati che hanno provocato morti e feriti.
Al setaccio incarichi e consulenze sui fondi del dopo terremoto 1997. Gli inquirenti vogliono capire come sono stati spesi tre milioni di euro. Indagini sui collaudi che mancano e sui lavori che non sono stati ultimati, scrive Paolo Festuccia il 30/08/2016 su “La Stampa”. Quasi tre milioni di euro. Per la precisione 2 milioni 995 mila euro. A tanto ammontano i finanziamenti che sono piovuti su Accumoli e Amatrice per i danni subiti dal sisma del 1997. A questi si deve aggiungere il finanziamento - ma fuori dal sisma dell’Aquila - che la Regione Lazio elargì al comune di Amatrice al fine di migliore la sicurezza della scuola «Romolo Capranica» e di altre strutture presenti sul territorio. Intorno a questo fiume di denaro, nelle prossime ore, si concentrerà l’attenzione della Procura di Rieti. L’obiettivo, è quello di accertare come siano stati elargiti i contributi pubblici, e soprattutto come sono stati conferiti gli incarichi a una quarantina di professionisti tra ingegneri, architetti e geometri. È questo il dubbio che anima l’iniziativa degli inquirenti. Un interrogativo che incontra anche le richieste dei cittadini, sia quelli che hanno o non hanno subito danni, sia soprattutto i familiari di chi, proprio sotto quelle strutture appena restaurate, ha perduto la vita. A cominciare dalla famiglia Tuccio di Accumoli (mamma, papà e due figli piccoli) annientata dal crollo del campanile del complesso parrocchiale di San Pietro e Lorenzo restaurata con 125 mila euro con tanto di collaudo. Insomma a distanza di quasi vent’anni, dunque, quel sisma che colpì duramente e tragicamente l’Umbria e alcuni luoghi simbolo come Assisi o Camerino nelle Marche, torna protagonista insieme al terremoto dello scorso 24 agosto. Nel territorio di Amatrice le strutture restaurate sono state tredici per un milione 860 mila euro. Ben 630 mila euro di «questi fondi - assicurano fonti - sono stati elargiti alla Curia… e mai rendicontati…». Solo due opere al maggio di quest’anno erano state collaudate. Si tratta della Chiesa di San Michele Arcangelo (100 mila euro) e di Icona Passatore per 200 mila euro. Le altre tre strutture, per un valore in euro di altre 330 mila euro (affidate come Ente attuatore alla Curia di Rieti) non risultano ancora restaurate. C’è poi il singolare caso delle caserme dei Carabinieri. Quella di Accumoli, nei fatti, è andata completamente distrutta. Ad Amatrice i lavori della caserma non sono ancora ultimati (150 mila euro) e anche l’altro edificio preso in affitto in attesa del rientro nella caserma principale è di fatto ancora inutilizzato. È davanti a queste cifre e alla presenza di tante consulenze che la procura vuole andare fino in fondo. Capire non solo come gli incarichi siano stati conferiti ma soprattutto quali rapporti sono intercorsi tra chi ha ricevuto e chi ha conferito l’incarico. Affidi più volte distribuiti a stesse persone che in talune circostanze figuravano come progettisti e in altri come collaudatori. In tutto sono una quarantina i professionisti che a vario titolo hanno partecipato alla distribuzione dei lavori che solo in parte a distanza di quasi vent’anni sono stati collaudati. In un caso, addirittura, la chiesa di Sant’Angelo di Amatrice i lavori sono ancora in fase di esecuzione. Capitolo a parte, invece, merita la scuola «Romolo Capranica» di Amatrice. La città fu tagliata fuori dai finanziamenti per il sisma aquilano del 2009. Ottenne allora una finanziamento ad hoc dalla Regione Lazio (5 milioni di euro) per una serie di lavori da svolgere sia nel palazzo che comunale che nella scuola alberghiera. Per la «Romolo Capranica» ci fu un accordo di programma in base al quale il commissario per il sisma Fabio Melilli rese ente attuatore il comune stesso per una cifra di 170 mila euro. Soldi che si aggiunsero ai circa 500 mila che lo stesso sindaco Pirozzi aveva ottenuto dalla Regione e che il comune appaltò autonomamente per i lavori.
39 anni fa l'assassinio del colonnello Russo e del prof. Costa, scrive il 20 Agosto 2016 AMDuemila. L’omicidio avvenne in modo plateale perché la “mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare”. Così scriveva il giornalista Mario Francese, che da quella stessa mafia fu assassinato il 25 gennaio 1979. Il 20 agosto del 1977, alle ore 22.00, in contrada Ficuzza di Corleone un commando formato da Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pino Greco, Filippo Marchese e Giuseppe Agrigento uccise il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e l'amico Filippo Costa. Secondo gli inquirenti quella sera a sparare fu Leoluca Bagarella, mentre Pino Greco e Giovanni Brusca rimasero da appoggio, e Agrigento e Marchese erano all'interno delle auto parcheggiate, pronti per la fuga. Russo fu sicuramente tra i primi investigatori a comprendere la necessità di spostare l’attività investigativa sui grandi appalti e sull’interesse che avrebbero inevitabilmente suscitato nel sodalizio criminale che stava per assumere il controllo di Cosa nostra nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento, che proprio in questa terra avrebbe avuto il suo centro nevralgico intono alle figure di Riina e Provenzano. Giuseppe Russo, secondo gli investigatori, fu tra i primi a capire le potenzialità dei corleonesi di Riina e Provenzano e a studiare le contromosse per arginarli. Così come fu pioniere nell'individuare gli interessi e le attività del gruppo mafioso che si stava organizzando intorno alle figure di Michele Greco, Riina, Provenzano e Bagarella, negli anni in cui si sarebbe consolidato il controllo della mafia sui finanziamenti pubblici e i grandi appalti per la ricostruzione del Belice, dopo il devastante terremoto del 1968. Quando fu assassinato, Russo era il comandante del Nucleo Investigativo del capoluogo siciliano, l'organo di punta nella lotta alla mafia, e uomo di assoluta fiducia dell'allora comandante della Legione carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Grazie al suo costante impegno furono realizzate con successo diverse operazioni investigative contro ogni forma di criminalità e, in particolare, contro le varie organizzazione mafiose. Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa. Così il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, ricordò quel tragico omicidio: “Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due. Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia. Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo. Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava? - si chiede ancora il giornalista - No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”.
La ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice. Un modello di gestione. Zero infiltrazioni mafiose e illegalità arginata. La narrazione ufficiale del Pd nazionale e regionale esclude ogni tipo di anomalie durante la fase post sisma emiliano. Eppure le inchieste giudiziarie e giornalistiche dicono altro, scrive Giovanni Tizian il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Sulla via Emilia messa in ginocchio dal sisma del maggio 2012 è nata la narrazione della ricostruzione pulita. Nella roccaforte del Pd, del resto, tutto deve procedere secondo le regole. Criminali, mazzette e clan, non avrebbero trovato spazi, recita questa narrazione. Frammenti di questo racconto trionfalistico giungono anche in queste ore, a pochissima distanza dalla notizia che Vasco Errani sarà con tutta probabilità il commissario del post terremoto che ha ridotto in un cumulo di macerie i borghi storici di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Errani, appunto, scelto in virtù dell'esperienza emiliana. Dove, però, non tutto è come sembra. E sono molte le cose che il governo centrale e quello regionale non dicono. «Ha saputo garantire rigore, serietà, legalità e trasparenza. E noi oggi abbiamo ricostruito il 70 per cento di quello che avevamo, evitando infiltrazioni mafiose», intervistato da Repubblica Bologna il sindaco di San Felice Sul Panaro, Alberto Silvestri, mostra tutto il suo entusiasmo per la nomina decisa da Matteo Renzi. San Felice è il paese del cratere sismico tra i più colpiti. Il primo cittadino della bassa modenese, però, sa bene che non tutto è andato per il verso giusto. Soprattutto in tema di illegalità e inquinamento mafioso. Vicino a San Felice, per esempio, si trova Finale Emilia. Lasciamo per un momento da parte la questione mafia, perché l'ultimo episodio che ha riguardato questo comune ha a che fare con un fatto di ordinaria furbizia imprenditoriale. Al centro dello scandalo una scuola media da 5 milioni di euro, nuova di zecca e pronta per essere inaugurata. A distanza di quattro anni esatti, però, nella ricostruzione qualcosa non ha funzionato. Chi ha realizzato l'opera, per limare sui costi, avrebbe utilizzato cemento cosiddetto “depotenziato”. Materiale fragile. Così per inquirenti e investigatori la struttura della scuola media Frassoni non sarebbe sicura. Il paradosso è che il luogo scelto per edificare l'istituto era considerato tra i più sicuri del paese. Tanto, spiegano gli inquirenti, da indicare l'area come luogo di rifugio per la popolazione nel caso di terremoti. Cittadini beffati due volte, quindi. Perché avrebbero raggiunto una zona con un edificio, dicono i pm, per nulla sicuro. L'inchiesta “Cubetto” - termine che indica i campioni di calcestruzzo da sottoporre ad analisi di resistenza - è ancora in corso. Bisognerà attendere i risultati delle analisi del materiale sequestrato, e poi l'incidente probatorio. Coinvolte due importanti aziende. Entrambe con un ruolo in Confindustria. C'è la Betonrossi Spa, per esempio, attiva in tutta Italia e leader del settore. E la A&C di Mirandola, il cui proprietario Stefano Zaccarelli era presidente dell'associazione costruttori di Confindustria Modena, ha lasciato dopo la notizia dell'indagine a suo carico. L'inchiesta non è finita. Il prossimo atteso passaggio sarà l'incidente probatorio. Sarà questo il momento decisivo per verificare effettivamente la tenuta della struttura. La procura vorrebbe ottenerlo prima del prossimo anno scolastico. Tra gli indagati anche il direttore dei lavori, un tecnico della Regione, Antonio Ligori. In realtà, si legge nel suo curriculum, è collaboratore di una società “In house”, la Finanziaria Bologna Metropolitana S.p.a. Durante la ricostruzione post-sisma, ancora in corso, è stato incaricato della Direzione Lavori di numerosi cantieri per realizzare edifici pubblici, «per conto del Commissario Delegato alla Ricostruzione (cioè Vasco Errani ndr)». Ligori, 51 anni, negli ultimi quattro anni ha ottenuto la direzione di 33 strutture, più tre progettazioni. È responsabile di cantieri che valgono in tutto 75 milioni di euro. Ma non è la prima ombra che si addensa sulla ricostruzione post sisma. Anzi, è solo l'ultima di una lunga serie di anomalie. Prima, come documentato da “l'Espresso” ormai tre anni fa, l'intromissione della 'ndrangheta nella filiera dello smaltimento delle macerie. Poi i subappalti finiti ad aziende legate ai clan e i sospetti su una cricca di professionisti che si sarebbero arricchiti con i fondi per la ricostruzione. E infine il caso del cemento “fragile” usato per una scuola pubblica. Per quanto riguarda le macerie, il meccanismo con cui la 'ndrangheta ha potuto lavorare è molto semplice. In piena urgenza con la catena del subappalto, le strade dei paesi terremotati sono state battute dai camion dei clan. Hanno smaltito una quantità importante di detriti, non residuale, stando a quanto scritto dagli investigatori del Gruppo interforze guidato dal poliziotto Cono Incognito. Un team, questo, costituito ad hoc per vigilare sulle opere da realizzare nella ricostruzione. Hanno lavorato sodo, e prodotto decine di misure interdittive, escludendo numerose aziende, alcune delle quali già attive nei cantieri emiliani, dalla “White list”, gli elenchi della Prefettura ai quali è necessario iscriversi per poter lavorare nella ricostruzione. C'è stato poi il caso della Bianchini costruzioni. Leader nel territorio della bassa. Fino a quando la procura antimafia di Bologna e i carabinieri di Modena non hanno scoperto la sua vicinanza alla 'ndrangheta emiliana. Così prima è scattata l'interdittiva antimafia, e due anni dopo i proprietari sono finiti nella maxi indagine Aemilia (oltre 200 indagati, ora imputati) sui clan calabresi emigrati nelle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza. La vicenda Bianchini conduce esattamente al cuore della ricostruzione. Alle cose che non hanno funzionato in materia di prevenzione. La società ha continuato a lavorare anche dopo il blocco della prefettura. Con un'altra società, è stato sufficiente cambiare il nome. Per queste anomalie la prefettura di Modena aveva disposto persino l'accesso nel Comune di Finale Emilia. La commissione scrisse una relazione in cui evidenziava diverse criticità nella gestione degli appalti. Il Prefetto chiese lo scioglimento, ma il Viminale archiviò il caso. A luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all'epoca da Augusto Bianchini - ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall'indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all'intermediazione dei boss delle 'ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia. In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un'intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L'Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità. Ma la ’ndrangheta si è infilata nella ricostruzione anche ad un altro livello. Ci sono indagini che tuttora proseguono, e puntano verso le figure dei tecnici. Collaboratori o assunti da imprese contigue alle cosche. Il sospetto è raccolto dall'Arma dei Carabinieri che ricevono la segnalazione di una donna sfollata. Si era rivolta a loro perché non la convinceva la dinamica in cui era finita: l’ingegnere incaricato di redigere il progetto di ricostruzione aveva assoldato un professionista di fuori regione, facendo lievitare le spese. Quell’ingegnere ha rapporti con uomini del clan. Ed è socio di uno studio tecnico della bassa emiliana, tra i lavori ottenuti anche la progettazione della sicurezza di un cantiere post sisma a Finale Emilia. Tutto questo -tralasciando episodi minori di truffe e raggiri - nella narrazione renziana della ricostruzione emiliana non può esistere. Il rischio è di passare dalla parte dei “gufi”.
Terremoto: la mafia è già pronta a guadagnare. Fermate subito quelle mani. Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la ricostruzione non sia un business. Ma un valore, scrive Lirio Abbate il 29 agosto 2016 su “L’Espresso”. La ricostruzione post terremoto è il punto da cui adesso si deve ripartire. Potranno speculazioni e criminalità restare fuori da questa tragedia? Si riuscirà a non fare business sulla morte e il dolore? Dovrà pur servire a qualcosa l’esperienza amministrativa e giudiziaria fatta su un territorio altamente sismico. E queste nuove vittime non dovranno servire a sostenere vecchi business e nuovi appetiti per le mafie e i mafiosi. Questa tragedia che ha colpito l’Italia centrale dovrà necessariamente attingere all’esperienza fatta dopo il sisma dell’Aquila e dell’Emilia. Ferite ancora aperte, anche per il dolore inflitto da imprenditori-sciacalli e organizzazioni criminali che su queste tragedie non hanno visto la morte come sofferenza, ma un motivo, spesso illegale per arricchirsi. La storia italiana di ogni ricostruzione ci ha consegnato non solo sofferenza e dolore, ma soprattutto malaffare. A cominciare dal Belice, passando per l’Irpinia, fino ad arrivare in Abruzzo e in Emilia Romagna. Le mafie si sono lanciate sui ruderi dei paesi distrutti come se i cocci caduti dalle abitazioni in cui sono morti donne e bambini, studenti e pensionati, fossero pepite d’oro da raccoglie. A tutti i costi e con tutti i mezzi irregolari. I protocolli di legalità pensati e firmati in questi decenni si sprecano. Qualcuno ha funzionato, altri sono stati raggirati. Ad ogni modo, sul dopo terremoto si è sempre trovato un prestanome di mafiosi, un’impresa irregolare che ha messo le mani sugli appalti. È stata ancora una volta fotografata un’Italia illegale che si contrappone alla grande solidarietà che questo Paese è capace di offrire a chi ne ha bisogno. L’esperienza quindi ci dice che il grande business della ricostruzione non viene mai ignorato dalla criminalità organizzata, e per questo motivo occorre attuare tutti gli strumenti necessari per evitare l’inquinamento mafioso. Perché sulle emergenze è più facile che le organizzazioni trovino spazi e modi per infiltrarsi e lucrare. E guadagnare sulla morte. Negli ultimi vent’anni è stata combattuta la mafia, ma meno efficacemente la corruzione. E mafia e corruzione sono sempre più intrecciate. Lo ha dimostrato l’inchiesta “mafia Capitale” che ha messo in luce un modello tipicamente mafioso; un modello, come ripete il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, «che già aveva funzionato per gli appalti post terremoto in Campania» e che vede un intreccio tra mafia, politica e imprenditoria. La caratteristica della criminalità mafiosa è la mimeticità nell’area grigia: ovvero esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria, delle professioni. Non basta intervenire con la repressione ma bisogna prevenire: l’educazione ai valori della Costituzione è fondamentale per recuperare il rispetto della legge. Soprattutto dopo una nuova tragedia come questa del terremoto.
"La ricostruzione post terremoto boccone ghiotto per la mafia". Il procuratore antimafia Roberti: "Non si ripeterà lo scandalo Irpinia. Abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti", scrive Luca Romano, Domenica 28/08/2016, su "Il Giornale". "I rischi ci sono, inutile nasconderlo. E la ricostruzione post terremoto è storicamente il boccone ghiotto di consorterie criminali e comitati d'affari collusi". A dirlo, in una intervista a Repubblica, è il procuratore Antimafia Franco Roberti, che aggiunge: "Però va detto che abbiamo alle spalle gruppi di contrasto consolidati, esperienza, attività importanti. E abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti". Secondo il procuratore, che seguì in prima persona come pm di Napoli il terremoto dell'Irpinia oggi "l'esperienza e le acquisizioni scientifiche e giudiziarie ci dicono che se una casa è costruita bene, se sono state rispettate le norme anti sismiche, di fronte a un evento drammatico quel corpo di fabbrica può lesionarsi, incrinarsi: ma non può polverizzarsi e implodere. Ecco perché, senza azzardare previsioni, immagino ci sia molto da approfondire". I rischi di infiltrazioni mafiose, perché sottolinea Roberti "i guadagni dei clan cominciano proprio dal calcestruzzo scadente", "sono sempre alti ma l'esperienza drammatica del sisma a L'Aquila ci lascia anche un modello importante che ha funzionato bene". Il magistrato parla infatti di "un modello costruito da tutti insieme, dal lavoro della Procura distrettuale della città colpita, dal monitoraggio della Procura nazionale antimafia, dagli uffici giudiziari competenti e naturalmente dall'Anticorruzione ". Sulla collaborazione con l'Anac infine precisa "l'Anticorruzione fa bene il suo lavoro di prevenzione della corruzione, nella acquisizione e gestione degli appalti. Mentre la procura nazionale svolge il suo monitoraggio sugli eventuali collegamenti mafiosi delle imprese che concorrono agli appalti".
La sfida di Cantone: "Modello Expo per ricostruire senza mafia e ladri". L'intervista. Il presidente dell'Autorità anticorruzione: "Non sarà una grande abbuffata", scrive Liana Milella il 27 agosto 2016 su "La Repubblica”. "Vedo due pericoli, tutti italiani, anche in questo terremoto, la mafia che ne approfitta e s'infiltra nella ricostruzione e le grandi abbuffate dei soliti speculatori". Ma Raffaele Cantone, il presidente dell'Autorità anticorruzione, prim'ancora di suggerire la sua strategia per evitare entrambe le minacce, vuole raccontare cos'ha provato alle 3 e 36 di mercoledì notte: "Per chi, come me, ha vissuto il terremoto del 1980 in Irpinia, pur abitando in una zona non direttamente colpita, la prima cosa è il grande dolore che provo e la solidarietà forte per chi si è visto crollare addosso la casa. Poi c'è la preoccupazione per gli speculatori in agguato".
L'Italia è questo purtroppo. Solidarietà e malaffare...
"Sì, vedo due Paesi inconciliabili. Quello dei volontari che arrivano da tutta Italia e scavano fino allo sfinimento con una gara di solidarietà che coinvolge l'intero paese. Ma poi si fa fatica a pensare che è lo stesso paese delle grandi abbuffate, di chi ne approfitta e specula, di chi, quella famosa notte del terremoto dell'Aquila, rideva pensando agli affari che avrebbe fatto. Da un lato c'è un pezzo d'Italia bellissimo, dall'altro c'è chi pensa che sui morti si possono fare più affari".
Renzi ha citato lei e l'Anac. Un'altra grana?
"La vedo come un'importante manifestazione di fiducia, che mi inorgoglisce sia a titolo personale che per il lavoro svolto dall'Autorità in questi due anni. E poi già penso al futuro e a cosa potremmo fare".
Ha già un'idea?
"Dipende dalle scelte politiche. L'Anac può avere una funzione proficua se riesce a ricreare una situazione analoga a quella di Expo o del Giubileo. Ma perché ciò avvenga gli organi decisionali che gestiscono gli appalti devono essere uno solo o al massimo pochi. Un'attribuzione polverizzata a vari soggetti impedirebbe o renderebbe difficile un controllo a 360 gradi. Per le risorse che abbiamo non possiamo seguire 50 stazioni appaltanti".
Il terremoto però ha distrutto molte case private.
"È molto importante capire quale parte della ricostruzione sarà oggetto di interventi pubblici. Se si decide di seguire il modello aquilano - contributi singoli e lavori a cura dei privati - l'Anac potrà avere un ruolo relativo. Potrà seguire soprattutto la ricostruzione delle strutture pubbliche".
Lei cosa suggerisce?
"Esempi possibili ci vengono dagli ultimi terremoti. All'Aquila si è optato per le new town in attesa della ricostruzione. Un'opzione criticabile, ma che al momento sembrava razionale perché funzionale a un'intera città caduta. In alternativa bisogna comunque trovare formule per ricostruire rapidamente e questa è l'opzione decisamente preferibile".
Ma qual è quella di Cantone?
"Il modello Expo, sperimentato anche in altre situazione note e meno note. La vigilanza collaborativa, oggi prevista pure nel codice dei contratti, utilizzata tra l'altro per Bagnoli e per il Giubileo. Ma le soluzioni vanno calibrate sulle tipologie degli eventi. La priorità è dare subito le case, perché adesso vanno bene le tende, ma ad Amatrice tra poco farà freddo, quindi l'urgenza è sistemare 2mila persone. La logica delle new town fu quella, anche se poi fallì del tutto perché non furono ricostruite le vecchie case".
Lei ricordava l'intercettazione della notte dell'Aquila. Teme anche ora la grande abbuffata?
"Bisogna evitare che i soldi pubblici finiscano in operazioni illecite. Ma quando Renzi parla di modello Anac pensa anche al rischio di infiltrazioni mafiose, perché tra le imprese che provvedono alla rimozione dei detriti e al movimento terra il rischio di infiltrazioni è altissimo. È necessario un controllo preventivo come avvenne per il terremoto in Emilia. Bisogna evitare il grande bubbone del sisma in Irpinia, non solo per il clamoroso spreco di denaro pubblico, ma perché proprio allora la camorra, da associazione dedita ad affari tradizionali, divenne imprenditrice".
Il codice degli appalti, su cui si riversano tante critiche, potrà creare difficoltà?
"Mi sento di escluderlo. Il codice consente di fare qualsiasi tipologia di appalti. Comunque sarà una delle priorità dell'Anac verificare se possono esserci provvedimenti attuativi da emettere che potrebbero incidere sulla ricostruzione".
Ad Amatrice crolla una scuola costruita senza garanzie sismiche. Non è anche questa una minaccia?
"Su quell'appalto bisogna accendere subito una luce. Sarebbe ingiusto dare giudizi su due piedi, ma se il terremoto fosse avvenuto in un altro momento dell'anno finiva come a San Giuliano di Puglia. Una strage di bambini. La scuole di Amatrice era stata ristrutturata nel 2012 ed è caduta. In teoria anche un edificio perfetto può cadere per un terremoto fortissimo. L'Autorità giudiziaria e noi dell'Anac ce ne occuperemo per individuare le responsabilità".
Repubblica ha scoperto che ci sono fondi per il rischio sismico neppure spesi...
"Non è il momento di fare polemiche perché il dolore deve prevalere su tutto, ma bisogna individuare le responsabilità di chi avrebbe potuto utilizzare quel denaro e non lo ha fatto e se questo incide sulla capacità di questi amministratori di gestire la ricostruzione".
Renzi e il terremoto in Centro Italia: «Prendiamo esempio dall’Emilia», scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. Il presidente del Consiglio non parla di Errani commissario ma cita la ricostruzione dopo il sisma del 2012. Ma i Cinque Stelle attaccano. Non parla di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione in Centro Italia, ma designa l’Emilia-Romagna come un modello per il post-terremoto. Matteo Renzi, nella enews pubblicata lunedì, fornisce le coordinate per l’immediato futuro delle zone terremotate. «La storia italiana - scrive il presidente del Consiglio - ci consegna pagine negative nella gestione del dopo-terremoto, come l’Irpinia, ma anche esempi positivi. Su tutti il Friuli del 1976, certo. Ma anche l’Umbria di vent’anni fa. E soprattutto penso al modello emiliano del 2012». Quel territorio, sottolinea il premier, «ha `tenuto botta´, come si dice da quelle parti, ricostruendo subito e bene. Le aziende sono ripartite, più forti di prima. E la coesione mostrata è stata cruciale per raggiungere l’obiettivo». Secondo Renzi «dovremo prendere esempio da queste pagine positive. E fare del nostro meglio - senza annunci roboanti - per restituire un tetto a queste famiglie e restituire un futuro a queste comunità». Ma i grillini partono all’attacco. Il deputato Michele Dell’Orco lancia un primo tweet in cui accosta il nome del «disoccupato» Errani all’inchiesta Aemilia. «Il Governo — ha rincarato poi via web Dell’Orco — chiama Vasco #Errani per la ricostruzione: “verrà adottato il modello Emilia’” Modello Emilia??! Dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c’è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma- rimarca il parlamentare M5s- la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? Vogliamo ripetere gli stessi errori? Io no». In casa Pd scatta il contrattacco. «Il deputato 5 stelle Dell’Orco- reagiscono in una nota i parlamentari dem Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari- straparla, o peggio, se parla con convinzione allora diffama. Perché se c’è un aggettivo che chi lo conosce associa al nome Vasco Errani è onesto, oltre che competente». E, dunque, «far intendere, come fa il collega Dell’Orco con il suo tweet, che ci sia una qualsivoglia connessione tra la nomina di Errani a commissario straordinario per il sisma nel 2012 e l’inchiesta Aemilia è mistificare la realtà. Perchè se c’è una cosa per cui Errani ha lavorato, in questi anni, è proprio l’obiettivo per cui ogni euro speso per il cratere sismico fosse rintracciabile e impiegato in maniera legittima».
Cinque Stelle e leghisti contestano Errani e la validità del "modello Emilia". M5S e centrodestra bocciano la scelta dell'ex governatore come commissario per la ricostruzione e citano le infiltrazioni della criminalità emerse dal processo Aemilia. Di Maio: "Renzi usa il terremoto per ricucire il Pd". La replica di Guerini, scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. La tregua e l'unità nazionale sul terremoto è già finita. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, non ha gradito la scelta di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione delle aree devastate dal sisma. E lo stesso atteggiamento di chiusura adottano anche Lega e Forza Italia. Il primo affondo è lanciato dal deputato grillino emiliano Michele dell'Orco. "Il governo - dice il parlamentare - chiama Errani per la ricostruzione e verrà adottato il modello Emilià. Modello Emilia? Ma dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c'è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma - conclude Dell'Orco - la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? vogliamo ripetere gli stessi errori?" Un attacco durissimo che viene rilanciato anche da Laura Castelli, capogruppo grillina alla Camera: "Quanto accaduto in seguito al commissariamento di Errani in Emilia lo conosciamo tutti, arriva anche a includere inchieste che hanno sottolineato quanto la 'ndrangheta entri in questi appalti e in queste ricostruzioni", dice Castelli. Poi arriva l'affondo di Luigi Di Maio, membro del direttorio M5S che scrive su Facebook: "Mi lascia sgomento un presidente del Consiglio che poche ore fa ha guardato negli occhi i sopravvissuti dell'ennesimo terremoto e adesso pensa di sfruttare la tragedia per ricucire il Pd affidando l'incarico di commissario per la ricostruzione a Vasco Errani. Gestisce un'emergenza con le logiche del congresso di partito. Vasco Errani non può essere il commissario al terremoto del Centro Italia. Ora serve un profilo al di fuori del sistema dei partiti". Un altro colpo al clima di unità arriva dalla Lega. "In Emilia Romagna Errani ha fallito completamente, vorremmo evitare un fallimento due. Chiediamo a Renzi di non fare nomine in base a logiche di equilibrio interne" dice il senatore leghista Gian Marco Centinaio. Poi tocca al leader Matteo Salvini: "La Lega è pronta ad aiutare e collaborare con tutti per il bene delle persone colpite dal terremoto ma non a guardare in silenzio il ripetersi di vecchi errori, sprechi e ruberie. Il fallimento e la lentezza della ricostruzione in Emilia non si devono ripetere". E critiche arrivano anche dal centrodestra. Il consigliere regionale di An-Fdi Tommaso Foti accusa: "Neppure abili prestigiatori possono nascondere che, nella bassa modenese in particolare, si registrano ritardi gravissimi nella ricostruzione". E da Roma Maurizio Gasparri fa sapere: "Nessuna apertura nei confronti di Renzi e della sua fallimentare politica". Secondo il vicepresidente forzista del Senato "FI farà proposte per la ricostruzione delle zone terremotate e darà piena disponibilità in ogni passaggio parlamentare con uno spirito di coesione che è doveroso e che altri non sempre hanno dimostrato in occasioni analoghe a ruoli inversi. È però certamente un avvio sbagliato quello della nomina di Errani a commissario". A Di Maio ha replicato Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd: "Mi spiace che Di Maio utilizzi una tragedia come quella del terremoto per aprire un'inutile polemica con il Pd e il presidente del consiglio - ha detto Guerini - . Errani è un ottimo amministratore che ha già dato prova di capacità, competenza ed efficienza come commissario per il terremoto in Emilia, esperienza che potrà mettere a disposizione per la delicata opera di ricostruzione delle zone del Centro Italia colpite dal sisma. È tempo di unità e responsabilità per dare risposte alle popolazioni colpite così duramente e non di polemiche".
TERREMOTO E GIUSTIZIA. Per i morti dell'Aquila solo 9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione. Responsabilità difficili da stabilire. Perizie contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice, scrive, nascondendo le responsabilità delle toghe e da antiberlusconiano, Paolo Fantauzzi il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe, innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati, Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo. A meno che non intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi. Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni), altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime. Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa. Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione, spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si riescono a provare condotte colpevoli». A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni, come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le responsabilità. Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio (costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi. Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29 vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia, condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello. Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79 (nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno impugnato la sentenza. Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di salute. Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia. Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella. Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44 giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato. Ora è ai servizi sociali.
Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, Enzo Boschi scrive al Corriere della Sera, scrive "Il Foglietto" il 26 Novembre 2015. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviata dal geofisico Enzo Boschi al direttore del Corriere della Sera, all’indomani della sua piena assoluzione in Cassazione. “Caro Direttore, a pagina 25 del suo giornale del 21 novembre 2015, in basso a destra, in una decina di righe di una piccola frazione di colonna, con il titolo "Sisma all'Aquila. Assolti gli Scienziati", è apparsa la notizia che la Cassazione ci ha assolto definitivamente. Eravamo già stati assolti con formula piena un anno fa nel processo d'appello. Ovviamente lei è padrone di pubblicare come meglio crede ciò che crede opportuno. Tuttavia, giornali prestigiosi come La Repubblica, La Stampa e Il Messaggero ... hanno dato un adeguato risalto alla notizia. Lo scopo di questa mia lettera non è quindi di recriminare con lei, ci mancherebbe. Piuttosto vorrei farle notare la sproporzione fra il trafiletto di sabato e il lungo articolo apparso sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2012, all'indomani della nostra condanna nel processo di primo grado. È un articolo scritto da un'anziana Signora, autrice di libri dimenticabili e dimenticati. Non ha mai seguito il processo svoltosi a L'Aquila, dove peraltro non mi sembra siano capitati giornalisti del Corriere. Ciononostante, la Signora sembra far fatica, nell'empito del suo sfogo, nel trattenersi dal chiedere per noi la pena di morte per impiccagione. Ebbene, se avesse seguito il processo, cioè se avesse provato l'esperienza di scrivere di cose a lei note, forse si sarebbe accorta di qualche incongruenza. Per esempio, il Sindaco Cialente durante la sua deposizione al processo dichiara che era rimasto fortemente impressionato dalle mie dichiarazioni sulla pericolosità sismica abruzzese, tanto da prendere misure cautelari. La cosa può essere verificata senza dubbi di sorta! Lo dichiara anche in un’intervista successiva alla deposizione, che può essere trovata sul web. Addirittura arriverà a chiedere lo stato di emergenza per la sua città. Il 2 aprile 2009, quattro giorni prima del terremoto, Il Centro, il più importante giornale abruzzese, dedicherà a questa sua richiesta un'intera pagina. L'incongruenza, che poteva esser compresa anche dalla Signora, risiede nel fatto che il PM e il Giudice di primo grado hanno ignorato le dichiarazioni di Cialente mentre sono state uno degli argomenti che hanno portato il Giudice del processo d'appello ad assolverci con formula piena. Inoltre, se la Signora era così convinta nell'accusarci di aver rassicurato gli aquilani, l'avrà senz'altro fatto sulla base di riscontri. Strano che nessuno abbia trovato alcunché che giustifichi la sua indignazione. Mi rendo conto che a una certa età anche un viaggio Roma-L'Aquila-Roma può essere faticoso ... Potrebbe allora coltivare il dubbio come fanno le persone colte e intelligenti e di conseguenza informarsi. Invece, nell'articolo, la Signora ci indica come riferimento morale la Senatrice Pezzopane, all'epoca, credo, Presidente della Provincia de L'Aquila. Ebbene la invito, caro Direttore, ad ascoltare sul web alcune conversazioni fra la Pezzopane e la Stati, all'epoca Assessora per la Protezione Civile della Regione Abruzzo, cioè (titolo V della Costituzione) la massima e unica autorità in materia di sicurezza dei cittadini abruzzesi. Per sua comodità le allego una pagina della trascrizione del dialogo "illuminante" Pezzopane-Stati ...Mi farebbe piacere che anche la nostra spietata accusatrice ne prendesse visione ... forse potrebbe anche trovarne una qualche ispirazione per uno dei suoi romanzetti. Non credo che lei pubblicherà questa mia lettera. In fondo quando uscì l'articolo, il Corriere era diretto da altri. Mi piacerebbe tuttavia conoscere la sua opinione su un fatto: perché, secondo lei, la richiesta di stato di emergenza non fu concessa? Se fosse stata concessa forse non ci sarebbero state vittime ... o sarebbero state molte meno. E perché, secondo lei, nessun giornale si è posto questa domanda? Una ragione ci sarà, c'è sempre una ragione ...Grazie per l'attenzione. Enzo Boschi”.
TERREMOTO DELL’AQUILA. C’E’ IL COLPEVOLE! CAMORRISTI, SCIENZIATI & FACCENDIERI TUTTE VIOLE MAMMOLE. Scrive il 9 dicembre 2015 Paolo Spiga su "La Voce delle voci". Dentro il primo! Terremoto dell’Aquila, 309 corpi sotto le macerie quel maledetto 6 aprile 2009. Finalmente la implacabile giustizia comincia a colpire, il pugno di ferro dei magistrati a farsi sentire. In galera i progettisti che hanno inventato case di cartone? I costruttori che hanno usato materiali scadenti? Chi ha impugnato compassi, ruspe e betoniere per la ricostruzione post sisma? Casalesi arrivati in un baleno a impastare calcestruzzo, subappalti e milioni di euro? Politici collusi? Colletti bianchi? Scienziati della commissione “Grandi Rischi” che non hanno allertato sugli imminenti pericoli? No. La mannaia è scesa sul capo di Livio Bearzi, il preside del convitto “Domenico Cutugno” dove persero la vita tre studenti e altri due rimasero feriti. Condannato a 4 anni per omicidio colposo, avendo “omesso di valutare l’enorme pericolo incombente” e colpevole – secondo gli ermellini del palazzaccio di Roma – di non aver fatto uscire in tempo i ragazzi dal convitto killer. Eccolo, dunque, il Grande Colpevole, Bearzi. E chi se ne frega se più volte, nei mesi precedenti, aveva denunciato alla Provincia – proprietaria dell’istituto – tutte le insidie rappresentate da una struttura costruita addirittura duecento anni prima, e con tutti i segni dell’età nelle strutture! “Non c’è alcun pericolo – avevano rassicurato – prima o poi daremo a sistematina. Ma per ora potete stare sereni”. Renziani ante litteram, i solerti amministratori della Provincia? Ma per fortuna oggi giustizia è fatta. Il mostro di Cividale è assicurato alle patrie galere. Forse perchè – avranno pensato i togati – porta anche sfiga. Si era salvato per miracolo, quasi quarant’anni fa, nel 1976, dal terremoto che sconvolse il Friuli: era con i calzoncini corti, allora, studente del convitto. I terremoti, forse, sono nel suo Dna: e anche per questo la galera è sacrosanta. Un fesso pericoloso, il preside, secondo la giustizia di casa nostra: non fu in grado di capire quanto i cervelloni, gli Einstein della commissione “Grandi Rischi” potevano tranquillamente non sapere, come ha poche settimane fa stabilito la stessa Cassazione. Ergo: i geni come Franco Barberi ed Enzo Boschi, che conoscono ogni piega del territorio e “ascoltano” il nostro suolo come neanche una mamma con il bimbo in grembo, sono giustificati circa il loro clamoroso flop e, per di più, non sono colpevoli di aver in somma incoscienza “rassicurato” i cittadini e tranquillizzato il popolo bue aquilano (giusta vittima sacrificale). Il preside Bearzi, invece, doveva “prevedere” il futuro: gli è mancata – gigantesca colpa – la palla di vetro…Caritatevole, corre in soccorso del condannato a 4 anni di galera il procuratore capo dell’Aquila Franco Cardella: “posso soltanto esprimere la mia solidarietà per il dramma della persona. Un uomo di scuola che perde i propri studenti è come il capitano che vede affondare i marinai”. Uno Schettino sulle scole d’Abruzzo: solo che il comandante, che ha sulla coscienza i 32 morti del Giglio, è libero (per ora) come un fringuello. Ma il lavoro, a quanto pare, ferve nel foro dell’Aquila. Un iper attivismo per far luce su tanti altri colpevoli di quelle morti sotto le macerie del sisma. Alcuni avvocati parlano di “oltre 200 procedimenti aperti”. Un pò – c’è chi racconta – “come quando Fantozzi dava i numeri sui gol per le partite della Nazionale, 15 a 7 o 24 a 12. Solo che qui la situazione non è tragicomica, ma solo tragica, perchè si tratta di giustizia finora negata ai familiari delle vittime”. Numeri a parte (la quota di 200 sembra davvero campata per aria, a meno che non vengano comprese eventuali – e poco immaginabili – liti condominiali post sisma) è la qualità delle inchieste e dei relativi processi che desta non poca preoccupazione. “Una delle indagini cardine riguarda la malcostruzione dei balconi per il progetto Case – racconta un architetto – alcune centinaia di situazioni. Ma con tutto quello che è successo sembra il classico topolino…”. Tutto quello che concerne la malcostruzione di prima, la prevenzione zero, la non informazione dei cittadini sui rischi, i soccorsi e l’emergenza, le varie fasi della ricostruzione post sisma…, su tutto questo – un vero ben di Dio – non si muove una foglia. Affaristi, politici, camorristi, faccendieri d’ogni specie possono dormire sonni tra tanti morbidi guanciali. Perchè la giustizia di casa nostra funziona così: basta un preside in galera perchè non ha suonato la campanella…
Magistrati al posto di scienziati. Pontificano su terremoti, su ogm, su stamina, su Xylella, su prospezioni, su onde herziane. Fanno spesso buchi nell'acqua, sprecando tempo e risorse, scrive Domenico Cacopardo. Se David Bowie, il duca bianco, che aveva raffigurato se stesso nei panni di un marziano che cade sulla terra, si reincarnasse in Italia avrebbe di che rimanere, nel giro di qualche ora, stupificato (magnifico neologismo attribuibile alla rabbina Barbara Aiello). Nel mondo della tecnologia, figlia della scienza, in Italia scoprirebbe che gli scienziati non vanno di moda, né vanno di moda i termometri. Il potere giudiziario, infatti, conferendo a se stesso un esercizio del potere che va al di là del sapere scientifico, ama aprire e condurre processi alle fonti del sapere, spesso contestate, per meri interessi di botteguccia da chi la scienza non sa dove sta di casa. Pensiamo al caso L'Aquila con i sismologi condannati e assolti in appello. Pensiamo al caso Stamina, una ciarlateneria che, per alcuni anni, è stata presa sul serio da magistrati che hanno creduto alla pietra filosofale, più che alle valutazioni del Consiglio superiore di sanità, contribuendo alle illusioni di ammalati e loro familiari sulle virtù terapeutiche di un metodo inesistente sul piano scientifico e su quello dei risultati. A quanto è dato di capire da un breve giro sul web, Stamina esiste ancora ed è illegalmente praticato nel territorio della Repubblica italiana. Pensiamo al caso della Xylella (Xylella fastidiosa, batterio Gram negativo che vive e si riproduce all'interno dell'apparato conduttore della linfa grezza) che ha colpito grandi superfici pugliesi coltivate a olivi. Per combatterla, l'Unione europea e lo Stato italiano, hanno avviato un programma di abbattimenti di essenze malate e di essenze sane, in prossimità, appunto, di quelle colpite per realizzare una specie di cortina sterile a difesa del resto delle piantagioni. Ovviamente, sono sorti subito comitati e comitatini di oppositori della misura profilattica, supportati da sedicenti tecnici o da tecnici veri che, tuttavia, non hanno responsabilità specifiche nella gestione del problema. Ebbene, anche in questo caso non si trova di meglio che processare gli scienziati che hanno identificato il batterio e che hanno indicato le terapie difensive da attuare. Anche per il Muos siciliano, alcuni magistrati, in contestazione degli studi del Consiglio superiore di sanità (con il Cnr), hanno avviato un procedimento nei confronti dei realizzatori dell'opera, vitale per la sicurezza dell'Occidente e dell'Italia, sulla base di non dimostrate né dimostrabili conseguenze nei confronti della popolazione civile. In Puglia, l'ipotesi di ampliare le aree di prospezioni petrolifere in mare Adriatico, nell'interesse primario della bilancia dei pagamenti italiani e dell'economia nazionale e regionale, incontra l'opposizione di Notriv, una specie di Notav, mobilitati nella ingiustificata opposizione a una possibile via di rilancio economico. Il presidente della Regione, Emiliano, i cui passi da borghese da grand-élite non disdegnano le vie della smaccata demagogia, indulge nell'appoggio ai Notriv, per ricostruirsi un'immagine, dopo il deterioramento provocato da anni di potere. La Lucania, ora, gode degli effetti positivi dei ricavi da estrazione di petrolio, dopo avere combattuto tale possibilità. Messina è governata da un desperado agitatore che è riuscito a convincere l'elettorato della città a eleggerlo sindaco sulla stupida e autolesionistica promessa Noponte. Anni di studi di scienziati buttati nel cesso da un professore di ginnastica con la vocazione del protestatario. Certo, onesto rispetto ai soldi, ma privo dell'onestà intellettuale di ammettere che chi sa più di lui, sa più di lui. Vedrà anche il nostro David Bowie, marziano in Italia, che si processano i termometri non le febbri. In passato, da una procura italiana furono mandati avvisi di garanzia o mandati di comparizione a Reagan, Gorbaciov, Mitterand per commercio di armi nucleari. Il commercio di armi è stato anche il settore elettivo di alcuni magistrati per avviare procedimenti nei confronti di capi di governo e ministri della difesa. Tutti finiti in una bolla di sapone. In tema di termometri, sembra di questo genere il processo alle agenzie di rating in relazione al quale si sarebbero svolti costosi (e di dubbia utilità) accessi in uffici americani. La prima vittima di questo caos, è il sistema giudiziario italiano: migliaia di magistrati tessono la tela per una giustizia operosa e tempestiva, in silenzio facendo senza apparire, mentre altri appaiono senza fare (il caso de Magistris e le recenti assoluzioni di tutti coloro che lui aveva accusato di vari reati contro l'amministrazione). Eppure ci vorrebbe poco, se il governo Renzi, che si autoqualifica governo del fare, decidesse di mettere alla prova la capacità dell'Associazione nazionali magistrati di convenire una piattaforma di iniziative amministrative e legislative per dare ai processi tempi normali, analoghi a quelli degli altri paesi. Con ciò getterebbe un bel guanto di sfida. Per quel che riesco a capire, la sfida sarebbe accolta e dal caos creativo (e distruttivo) passeremmo a un ordine creativo, capace di battere la strada della certezza del diritto, della pena e della sentenza, un qualcosa che sembra, appunto, appartenere più a Marte che all'Italia repubblicana e democratica. Basterebbe riflettere sul felice esito della questione della caserma Manara, finalmente ceduta - ma solo dopo l'avvio di un'azione di coordinamento e pungolo della presidenza del consiglio - all'amministrazione della giustizia che lì concentrerà gli uffici giudiziari civili, lasciando l'infelice pseudobunker di Piazzale Clodio a quelli penali in una purtroppo ritardata razionalizzazione del sistema giustizia romano. Non è infatti vero che in Italia non si può cambiare nulla: fa solo comodo a pochi non cambiare nulla. Per gli altri, per la collettività cioè il cambiamento è vitale. Basterebbe pensare com'è cambiato il paese per la semplice (mica tanto) costruzione dell'Alta velocità Torino-Milano-Salerno per capire come serve intervenire nelle arterie della penisola rendendole tal quali la modernità pretende. Il nostro Bowie, infine, rimarrebbe senza parole osservando come una parte della sinistra storica italiana è fisiologicamente conservatrice e combatta tutto ciò che comporta, in fin dei conti, nuova occupazione (il ponte sullo Stretto) e futuri benefici per la collettività. La vecchia psicopatologia, tutti uguali, perciò poveri e disperati che ispirò le politiche economiche dell'Urss, continua ancora a colpire nella Corea del Nord e, per fortuna solo in modo marginale, in Italia. ItaliaOggi. Numero 016, pag. 5 del 20/01/2016.
Giustizia folle dopo L'Aquila: 200 inchieste, poche condanne. Anche in Abruzzo il sisma del 2009 scatenò le procure. Ma il bilancio è un flop: 19 processi e assolti a pioggia, scrive Giuseppe Marino, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". Il dolore causato dal terremoto dell'Aquila, così come quello di Amatrice, non è risarcibile, eppure è nella natura umana cercare un colpevole. Ma a nessuno gioverà il tormento ricaduto sulle spalle di decine di persone finite nel mirino della magistratura dopo la tragedia. Spesso con risultati modesti, un copione da non ripetere ad Amatrice e dintorni. All'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, proprio come sta accadendo ora tra Ascoli e Rieti, cominciò a spirare un potente vento giustizialista e non solo tra chi aveva legittimamente diritto a chiedere conto delle morti. La Procura dell'Aquila avviò duecento fascicoli di inchiesta sui crolli. A distanza di sette anni, i dibattimenti che risultano effettivamente aperti sono solo 19 e le condanne una manciata. Ci sono poi altri processi collaterali, come quello contro la Commissione Grandi rischi, terminato con una sola condanna. Ma è anche sul piano della «qualità» delle condanne che si può nutrire qualche dubbio visto l'esito di tanto sforzo giudiziario. Anche allora, come oggi, giornali e tv diedero in pasto all'opinione pubblica notizie di losche macchinazioni per appropriarsi cinicamente di soldi pubblici in barba ai rischi per gli edifici, sospetti su clamorose truffe nelle costruzioni che poi furono causa di morti. A guardare bene però, fin qui a pagare sono state un pugno di uomini, a loro volta spesso già colpiti personalmente dal terremoto. Sono due i casi clamorosi che hanno condotto a condanne definitive. Per i ragazzi morti alla Casa dello studente sono stati ritenuti colpevoli tre tecnici che eseguirono un restauro e il presidente della commissione di collaudo. Per il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila, sotto le cui macerie morirono tre studenti, è stato condannato a 30 mesi un ingegnere della Provincia, ma in carcere è finito solo il povero preside Livio Bearzi, che in quell'edificio viveva con la sua famiglia, incolpato di «aver omesso di valutare l'enorme pericolo incombente» e non aver evacuato preventivamente l'edificio. Un caso umano, che ha spinto anche una richiesta di grazia e si è presto tramutato in servizi sociali per Bearzi. Tutti assolti in Cassazione invece per uno dei crolli più letali, quello dell'edificio di via XX Settembre, che provocò nove vittime. Bearzi non è l'unico caso umano tra i condannati. Ci sono anche un 80enne e un 84enne, accusati di aver conferito l'incarico di direttore dei lavori di restauro di un palazzo nel quartiere di Pettino a un geometra anziché a un ingegnere: quattro anni di carcere, nonostante il palazzo abbia retto al sisma dando modo a tutti gli inquilini di salvarsi e sia crollato solo dopo nove giorni. Ed è stato invece prosciolto il geometra. Ci sono poi tecnici che hanno dovuto combattere anni in tribunale. Come l'ingegner Diego De Angelis. Fu processato per il crollo di un palazzo di cui aveva curato gratis il restauro del tetto. Era il condominio in cui viveva e in quel disastro morì la figlia Jenny. Sette anni con il tormento per la perdita e per le accuse infamanti per poi essere assolto in Cassazione. «In una città come L'Aquila, con un sisma così forte molti crolli erano inevitabili - dice Gianluca Racano, avvocato aquilano che ha seguito alcuni processi - ma concentrare tutte le energie sulla caccia al colpevole è fuorviante, il problema della cultura anti sismica è politico».
Nordio, il pm contro: "Trovare i colpevoli? Una caccia alle streghe". "La nostra società non ammette l'imponderabile, non sarà facile dimostrare chi e se ha sbagliato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". La caccia alle streghe non gli è mai piaciuta e la rotta non cambia nemmeno oggi. Anche se ci sono i morti, i crolli, le rovine. «Dopo il terremoto - dice Carlo Nordio - si è scatenata una corsa spasmodica alla ricerca del colpevole, si additano presunti responsabili di qua e di là, ma questo meccanismo mi lascia perplesso. Mi pare che la società contemporanea, laicizzata, cerchi il capro espiatorio per superare tragedie che altrimenti sarebbero insuperabili, con il loro carico di morte e di dolore». Va controcorrente anche questa volta il procuratore aggiunto di Venezia, uno dei magistrati più famosi d'Italia, prima con un editoriale per il Messaggero, poi con questa intervista al Giornale.
Dottor Nordio, che cosa non la convince?
«Viviamo in un mondo che non accetta più il lutto, il cataclisma, il terremoto che ci annichilisce e annulla le nostre presunte certezze. Un mondo che ha perso il senso del sacro».
Certo, ma qui parliamo di costruzioni inadeguate, di ritardi, di soldi mal spesi o dimenticati.
«Un attimo, questo viene dopo».
E prima cosa c'e?
«Se la società non ammette più che ci sia qualcosa che sfugge al proprio controllo, allora subito dopo il disastro parte la caccia al colpevole. Per forza. A prescindere».
Scusi ma l'Italia è piena di tecnici che hanno chiuso gli occhi e di collaudatori che hanno certificato ristrutturazioni che gridavano vendetta.
«Non sono nato ieri e faccio di mestiere il pubblico ministero, ma segnalo un modo di ragionare che secondo me è distorto. Si parte in automatico alla ricerca del colpevole e, siccome siamo in Italia e tutto viene giurisdizionalizzato, il colpevole diventa imputato a furor di popolo e va alla sbarra. Mi pare che in questi giorni si stia assistendo allo stesso fenomeno».
Guardi che sono stati i suoi colleghi a denunciare anomalie, stranezze, incongruenze. Dovrebbero forse fingere che tutto è stato fatto a regola d'arte?
«Ovviamente no, ma ci vuole cautela, non si può procedere impulsivamente, sulla base di sentimenti e risentimenti».
Si faranno indagini e verifiche e alla fine chi non ha rispettato la legge sarà punito. Non è giusto che sia così?
«Si, purché si sappia che sarà molto difficile dimostrare le colpe che tutti oggi danno per sicure».
Perché?
«Perché non è affatto semplice arrivare a una condanna per omicidio colposo o per disastro colposo, il reato classico del terremoto. Attenzione: nel processo non basta stabilire che i lavori siano stati fatti male, no si deve dimostrare che se fossero stati eseguiti nel migliore dei modi quella casa oggi non sarebbe in macerie, quel campanile non sarebbe venuto giù, quella chiesa sarebbe ancora al suo posto. Capisce?»
Non si può andare avanti per slogan o tesi semplicistiche?
«L'Italia è un Paese complesso, parliamo di un patrimonio che ha centinaia di anni, parliamo di beni che hanno avuto una vita lunga e travagliata, parliamo di opere con vincoli di ogni tipo. Naturalmente per gli edifici costruiti negli ultimi anni il discorso è più facile, ma molte abitazioni sono il risultato finale di interventi spalmati nel tempo».
Il paragone con il Giappone non regge?
«Non sono mai stato in Giappone ma mi pare che i nostri borghi e le nostre città abbiano una fisionomia assai diversa dalla loro».
L'indignazione di oggi lascerà il posto ad un'interminabile guerra di perizie?
«È un rischio concreto: perizie e controperizie in un estenuante duello fra le parti. Con un ulteriore problematica: se scopriamo che i privati per risparmiare non hanno effettuato le migliorie previste che facciamo, mettiamo sotto inchiesta le famiglie dei morti?».
D'accordo, ma l'Italia è il Paese delle tangenti, delle abitazioni realizzate più con la sabbia che con il cemento, dello scandalo dell'Irpinia. Vuole forse passare con la spugna su decenni di ruberie?
«No, dobbiamo perseguire la tangente, il falso, l'abuso, ma il disastro colposo non ammette scorciatoie. E poi dobbiamo metterci in testa che nel codice penale non esiste l'imponderabile, anche se nel nostro Paese sono stati processati perfino i professori che non avevano previsto, poveretti, il terremoto dell'Aquila».
PARLIAMO DI RIFIUTI.
Rifiuti in viaggio nell'estate del caos: il Sud li esporta, il nord ci guadagna. L'inchiesta di Paolo Griseri del 26 luglio 2016 su “La Repubblica”. Nel Mezzogiorno gli impianti scarseggiano e l'immondizia emigra a spese dei cittadini. Alle 8 del mattino del 7 gennaio 2012, al molo 44 del porto di Napoli l'attracco della nave olandese Nordstream portò sollievo all'intera città. La nave avrebbe infatti trasportato all'inceneritore di Rotterdam qualcosa come 250mila tonnellate di rifiuti così liberando l'area vesuviana da un'emergenza che durava da anni. Ma a che prezzo? Le indiscrezioni dell'epoca parlarono di 100 euro a tonnellata. In tutto un contratto da 25 milioni tra l'amministrazione comunale e la società olandese. Molti gridarono al successo: i 100 euro erano quasi la metà dei 173 a tonnellata pagati all'epoca per trasferire la stessa immondizia in Emilia o in Puglia. Il turismo dei rifiuti, da allora, non si è certo fermato ed è un ottimo indicatore per misurare il tasso di inefficienza e di populismo della classe politica italiana. Risale ad appena due settimane fa un accordo tra le Regioni Puglia ed Emilia Romagna per portare da Sud a Nord 20mila tonnellate di rifiuti al costo di 192 euro a tonnellata. Di quel costo, 60 euro sono per il trasporto, 118 andranno agli inceneritori di Bologna e Ferrara che smaltiranno il rifiuto e altri 14 euro a tonnellata saranno destinati ai due Comuni che ospitano gli impianti. Che cosa giustifica i lunghi viaggi dei rifiuti attraverso l'Italia? E chi ci guadagna? I casi più recenti sono quelli di Puglia e Sicilia. In ambedue le Regioni la chiusura di discariche, private delle autorizzazioni necessarie per problemi ambientali, ha fatto crescere il livello di allarme. "Non farò la fine di Bassolino", ha promesso il governatore pugliese, Michele Emiliano, evocando proprio l'emergenza rifiuti a Napoli nei primi anni Duemila. Se l'Emilia accoglierà (e si farà pagare) i rifiuti pugliesi, Toscana e Piemonte sono i candidati più probabili per trattare quelli siciliani. Filippo Brandolini, romagnolo, presidente nazionale di Federambiente, l'associazione delle società che trattano i rifiuti, spiega che "in generale i problemi sono legati al fatto che nel Sud gli impianti di smaltimento sono meno numerosi che al Nord". "Basta molto poco - aggiunge - perché il sistema vada in crisi. La scarsità di impianti è legata al fatto che spesso le amministrazioni locali preferiscono portare altrove i rifiuti, pagando, piuttosto che affrontare le proteste dei cittadini per la realizzazione degli impianti di smaltimento. L'emergenza maggiore oggi è quella dei rifiuti organici che derivano dalla raccolta differenziata. Un recente inconveniente proprio a un impianto pugliese ha finito per mettere in difficoltà l'intera rete italiana". Ormai, sottolinea Federambiente, dei trenta milioni di tonnellate di rifiuti che ogni anno produce in media la Penisola, la parte maggiore, 13,5 milioni, proviene dalla raccolta differenziata. Dodici milioni di tonnellate finiscono invece in discarica. Gli inceneritori bruciano circa 5 milioni di tonnellate. Sono infine 300mila le tonnellate che ogni anno finiscono all'estero, anche partendo da Regioni del Nord: "Si tratta di un residuo secco che viene ridotto in coriandoli e diventa combustibile", spiega Brandolini. Il sistema italiano è particolarmente frammentato. La raccolta e lo smaltimento sono affidati a 463 aziende sul territorio nazionale, ma a queste vanno aggiunti circa 1.000 Comuni che smaltiscono in proprio, su terreni talvolta demaniali ma spesso di proprietà di privati. La frammentazione è molto spinta, al punto che il 4 per cento delle 463 aziende realizza il 40 per cento del fatturato del settore. Uno dei risultati della grande dispersione di aziende, anche qui soprattutto al Sud, è l'aumento dei costi a carico dei cittadini. Non solo perché gli oneri industriali aumentano, ma anche perché aziende con limitata capacità di trattamento finiscono per conferire nelle discariche o creare le condizioni per dover trasferire altrove i rifiuti, con un ulteriore aumento della spesa. Senza considerare l'effetto ricatto di quei privati che, proprietari di un terreno in un piccolo Comune, possono proporre tariffe fuori mercato sapendo che l'amministrazione non ha alternative. Così, nel 2015, la spesa media italiana per i rifiuti in una famiglia di tre persone che vive in un appartamento di 80 metri quadrati è stata di 271 euro. Ma si tratta di una media. Perché la stessa famiglia al Nord ha speso 239 euro, al Centro 279 e al Sud addirittura 317. La strada per abbattere i costi dovrebbe essere quella della concentrazione delle aziende e di una migliore distribuzione geografica degli impianti alternativi alle discariche. Secondo i dati del rapporto Ispra, nel 2014, dei 44 inceneritori italiani, 29 erano al Nord, otto al centro e sette al Sud. Insomma, tutto fa pensare che il "turismo dei rifiuti" sia destinato a proseguire anche negli anni a venire.
Sorpresa: anche gli alberi vanno a dormire. Uno studio ha analizzato i movimenti delle piante durante la notte, scoprendo che nelle ore buie rami e foglie si rilassano, come se anche gli alberi si addormentassero, scrive Anna Lisa Bonfranceschi il 7 giugno 2016 su "La Repubblica". Il Famoso naturalista Linneo aveva trasformato lo scandire del tempo da parte delle piante in una piccola opera d'arte. Nei suoi instancabili studi di botanica, si era accorto che alcuni fiori sbocciavano a diverse ore del giorno, e aveva sfruttato questa peculiarità per far costruire degli orologi floreali nei giardini dell'Università di Uppsala: diversi fiori disposti in circolo, secondo le ore di schiusa. Anni dopo un'altra star della biologia, Charles Darwin, avrebbe osservato come lo scorrere del tempo lasciasse segni anche sulle piante, parlando di sonno relativamente ai movimenti di steli e foglie durante la notte. Ma davvero le piante hanno un orologio interno? Davvero dormono? Sì, stando almeno ai risultati di uno studio preliminare pubblicato su Frontiers in Plant Science. In realtà a stupire non è tanto l'adattamento del comportamento degli organismi viventi, piante comprese, al ritmo del giorno e della notte. D'altronde, l'evoluzione ha operato giocando su una serie lunghissima di albe e tramonti. A stupire i ricercatori è stata l'osservazione piuttosto di veri e propri movimenti notturni in due esemplari di betulla - uno in Austria e uno in Finlandia - analizzati con la tecnica del laser scanner, durante notti calme e senza vento, a ridosso dell'equinozio autunnale, così da garantire la stessa illuminazione in entrambi i siti. Le misurazioni effettuate dal team di Eetu Puttonen del Finnish Geospatial Research Institute, a capo dello studio, mostrano infatti che di notte, i rami e le foglie degli alberi si rilassano, afflosciandosi in maniera visibile nei dati acquisiti dal laser. "L'intero albero si abbassa durante la notte, e questo diventa visibile nel cambio di posizioni nelle foglie e nei rami", ha spiegato Puttonen: "Non si tratta di grandi cambiamenti, parliamo di appena 10 cm per alberi con un'altezza di 5 metri, ma erano cambiamenti sistematici e apprezzabili dalla precisione dei nostri strumenti". In particolare, continuano gli scienziati, i movimenti erano graduali e la posizione più bassa veniva raggiunta un paio d'ore prima dell'alba. All'arrivo del sole, invece, gli alberi riprendevano vigore, come risvegliandosi, ma non è chiaro se a far da sveglia fosse proprio la luce del sole o un orologio interno delle piante. Anche se, scrivono gli scienziati nel paper, il fatto che alcuni rami riprendessero posizione prima dell'arrivo del sole fa propendere per l'ipotesi di un orologio interno. A contribuire a questi movimenti potrebbe essere il fotoperiodismo della pianta o il bilancio idrico, spiega András Zlinszky del Centre for Ecological Research, Hungarian Academy of Sciences, tra gli autori del paper. "I movimenti della pianta sono sempre strettamente connessi con il bilancio idrico delle singole cellule, che è influenzato dalla disponibilità di luce attraverso la fotosintesi". Quindi, in sostanza, a dirigere l'orchestra è comunque indirettamente il Sole, attraverso la fotosintesi. Per capire qualcosa di più sul sonno delle piante serviranno però studi più approfonditi, e che considerino, oltre necessariamente a più esemplari, il comportamento delle piante nel corso di diverse giornate, anche lontano dalla luce naturale. Dove potrebbe portare, praticamente, tutto questo? Per esempio grazie a studi simili potrebbe essere possibile capire meglio i meccanismi con cui gli alberi utilizzano l'acqua durante la giornata, e usare queste informazioni nell'industria del legno o della gomma, dove le preferenze in fatto di contenuto idrico sono diverse: meglio poca nel primo caso e tanta nel secondo.
L'AGRICOLTURA NELLA TEMPESTA PERFETTA. Deflazione che comprime i prezzi, cambiamenti climatici sempre più estremi, una burocrazia feroce e il colpo di grazia con l'embargo russo: per chi lavora la terra è un momento difficilissimo. Dal latte alle arance siciliane, spesso i prodotti dei campi sono venduti sottocosto con il risultato che in 15 anni sono fallite oltre 300mila imprese. A salvarsi è solo chi riesce a saltare la filiera distributiva, ma non tutti se lo possono permettere, scrive "La Repubblica" l'8 giugno 2016.
Un caffè vale 11 uova, il paradosso dei prezzi, scrive Jenner Meletti. Bisognerebbe tornare al baratto per capire l'economia "reale". Il contadino italiano, per avere un caffè da 1 euro, dovrebbe andare al bar mettendo sul bancone 11 uova, oppure un chilo di carne di toro o di maiale, 6 chili di frumento tenero o di mais, quasi 3 chili di riso o 2 di mele. Se produce arance, in cambio della tazzina, ne deve consegnare 6 chili. Gli va meglio con le patate o con i pomodori di serra: ne bastano 2 chili. L’allevatore di vacche deve portare almeno 3 litri di latte e magari il barista gli chiede 10 o 20 centesimi in più in cambio della "macchia". Non è in incubo e nemmeno uno scherzo: questi sono attualmente i prezzi veri dell’agricoltura italiana, ovviamente all'ingrosso, che entrano nei bilanci delle aziende agricole rischiando di farle crollare. Deflazione è purtroppo una parola ora conosciuta anche nelle campagne: secondo l'indice alimentare della Fao i prezzi all’inizio del 2016 sono scesi al livello di sette anni fa. Scarse differenze. Fra l'Italia, l'Europa ed il resto del mondo non ci sono molte differenze. La Fao registra in particolare i prezzi dei cereali, della carne, dei prodotti lattiero caseari, degli oli vegetali e dello zucchero. L'ultimo rilevamento – gennaio 2016 contro dicembre 2015 – ha accertato una diminuzione dei prezzi pari all’1,9%, riportando così il listino ai livelli del 2009. Calo dello zucchero del 4,9% (per la maggior produzione del Brasile), calo del 3,0% per i lattiero caseari, calo dell’1,7% per i cereali, stessa percentuale per gli oli vegetali. Per la carne i prezzi diminuiscono dell’1,1% (lieve aumento solo per la carne di maiale). Esiste un pericolo crack per i coltivatori italiani? "C’è un rischio consistente – risponde Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti nazionale – di abbandono delle attività, soprattutto in settori che richiedono fortissimi investimenti". L'esempio del latte. "Facciamo l'esempio del latte - continua Bazzana - Il prezzo è fermo o in diminuzione ormai da anni. Il latte spot – quello che non è sotto contratto ma viene messo sul mercato per la trasformazione – nel 2000 veniva pagato 33,83 centesimi al litro. Nel 2008 è salito a 50,62 e in questi giorni è pagato 23,46. Il latte alla stalla – con contratto e raccolta – oggi viene pagato 37,29 centesimi. Per questo latte nel 2008 l’allevatore incassava 43,29. Basterebbero questi numeri per comprendere la gravità della crisi. Ma c’è di più. In questi anni i coltivatori hanno dovuto fare investimenti giusti ma anche pesanti per il benessere animale, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente. Nelle stalle le sale di mungitura sono piastrellate, negli allevamenti di polli gli animali sono a terra o nelle gabbie più spaziose. In agricoltura sono stati eliminati 500 principi attivi ritenuti dannosi ed al loro posto ci sono prodotti più ecologici ma più costosi. Tutto questo mentre i prezzi di vendita continuano a diminuire. Sarà difficile andare avanti. Dalla fine delle quote latte sono già state chiuse 1500 stalle. Senza interventi seri - stabilendo ad esempio che il prezzo della vendita non deve essere inferiore al costo di produzione - le stalle vuote (basta un giorno per chiuderle, servono anni per trovare i milioni necessari per riaprirle) saranno solo l'inizio di un ulteriore abbandono dell’agricoltura". Non è solo una questione di soldi. "Se non sei più in grado di produrre alimenti sani perché non ti pagano il prezzo giusto, il cibo arriverà – anzi, sta arrivando - da altri paesi che hanno regole e controlli più leggeri o comunque diversi dai nostri. Così la sicurezza viene messa in discussione. Il mercato alimentare è come quello della benzina: il petrolio va su e soprattutto giù ed i prezzi alla pompa restano fermi. Così è per il latte, la pasta, il pane e quasi tutto il resto. Crollano i prezzi in campagna ma il consumatore non se ne accorge. Se invece, di fronte al crollo del latte, si abbassassero anche i prezzi del formaggio, il consumo salirebbe e aiuterebbe la ripresa". Un’illusione, almeno per ora. Con il latte a 37,29 – il migliore – un mezzo litro di microfiltrato oggi costa 1 euro. Paghi soprattutto la lavorazione, il packaging, il trasporto, la pubblicità e tutto il resto. E così in tasca all’allevatore, dell’euro pagato per mezzo litro microfiltrato, arrivano poco meno di 19 centesimi. Pochi centesimi decidono. Nella guerra commerciale spesso sono proprio pochi centesimi a decidere il successo o il fallimento. Si risparmia su tutto. In tante pubblicità si cita la mitica nonna con i suoi biscotti, le torte, dolci vari. La "nonna" però usava il burro, mentre adesso vanno alla grande l'olio di palma e la margarina. Tutto spiegato dai prezzi. Il burro in questi giorni sul mercato europeo costa 2823 euro la tonnellata, la margarina 980 euro e l'olio di palma scende a 751. Se vuoi battere la concorrenza, non hai scelta. "Noi della Coldiretti – dice Lorenzo Bazzana – crediamo che solo fissando un prezzo non inferiore al costo di produzione si possano salvare le aziende contadine e risalire la china. Se invece si va avanti così, si rischia forte. Se costruisci un’automobile puoi cercare di risparmiare sugli optional. Ma non puoi usare materiali scadenti nelle gomme o nei freni. Altrimenti vai a sbattere".
Il peso di burocrazia, cemento e sanzioni, continua Jenner Meletti. Dal 2000 ad oggi – questa la denuncia di Confagricoltura, Cia e Copagri – in Italia sono state chiuse oltre 310mila imprese agricole. Per dire basta sono scesi in piazza, nei giorni scorsi, migliaia di contadini e allevatori. Antonio Dosi è il presidente della Cia, Agricoltori italiani, dell’Emilia Romagna ed è vice presidente nazionale della stessa associazione.
È possibile fermare questa emorragia?
"Il numero è enorme ma può salire ancora vertiginosamente se non si mette mano ai tanti problemi in campo: i ritardi nei pagamenti comunitari, la burocrazia asfissiante, i prezzi all’origine in caduta libera e le vendite sottocosto, le incognite dell'embargo russo, gli investimenti bloccati, la difesa del “Made in Italy”, la cementificazione del suolo, l’abbandono delle aree rurali, i danni da fauna selvatica. Sono ancora troppi i problemi non risolti: dalla burocrazia ai prezzi sul campo, che schiacciano inesorabilmente il reddito, impedendo innovazione e sviluppo. Basti pensare che solo la macchina amministrativa - tra ritardi, lungaggini, disservizi e inefficienze - sottrae all’agricoltura 4 miliardi di euro. Ogni azienda è costretta a produrre ogni anno 4 chilometri di materiale cartaceo per rispondere agli obblighi burocratici, 'bruciando' oltre 100 giornate di lavoro. Per non parlare del crollo vertiginoso dei prezzi alla produzione e della forbice esorbitante nella filiera tra i listini all’origine e quelli al consumo".
Quanto resta, rispetto al prezzo pagato dal consumatore, nella tasche di chi produce?
"In media per ogni euro speso dal consumatore finale, solo 15 centesimi vanno nelle tasche del contadino. Solo per fare alcuni esempi le arance sono pagate agli agricoltori il 40% in meno di un anno fa: ovvero 18 centesimi al chilo, contro i 2 euro al supermercato, con un rincaro che dal campo alla tavola tocca il 1111%. O ancora un agricoltore, per pagarsi il biglietto del cinema, deve vendere 30 chili di melanzane che oggi valgono 26 centesimi al kg (-61% in un anno), mentre al consumatore vengono proposte a 1,90 euro con un ricarico del 731%".
L'embargo russo ha poi aggravato i problemi.
"Tra frutta, verdura, carni e prodotti lattieri, il blocco di Mosca alle nostre produzioni agricole è costato finora 355 milioni di euro, con esportazioni made in Italy dimezzate in quasi due anni. Anche per questo siamo scesi in piazza. Ci sono tematiche fondamentali che vanno affrontate e risolte al più presto e che devono essere comprese anche dall’opinione pubblica. Perché il settore primario ha un valore inestimabile a livello produttivo, culturale e di salvaguardia dell’ambiente che deve essere sostenuto e non lasciato, appunto, nell’immobilità".
Il costoso pedaggio del clima che cambia, scrive Valerio Gualerzi. "Sotto la neve il pane, sotto la pioggia la fame". Come ci ricorda il proverbio, è dalla sua invenzione che l’agricoltura è costretta a fare i conti con i capricci del tempo. L’ultimo bollettino dei danni diramato dalla Cia è eloquente: le bombe d’acqua che hanno colpito a maggio il Paese hanno causato grosse perdite soprattutto alle ciliegie. In Puglia sono andati distrutti quasi 80 milioni di euro di frutti da inizio campagna. Mentre a Ferrara, ma anche in diverse aree del Bolognese, del Basso Veneto e del Mantovano, la situazione climatica atipica ha provocato nei frutteti un grave fenomeno di "cascola", la caduta anormale e prematura dei fiori e dei frutti. La confederazione parla di "un colpo durissimo, tanto più che la Puglia è la prima regione in Italia in termini di produzione di ciliegie, rappresentando il 40% del totale nazionale, con 17mila ettari investiti (di cui 15mila nella sola provincia di Bari), 600mila quintali prodotti, un volume d'affari di 300 milioni di euro e un fabbisogno annuo di manodopera stimato in 2 milioni di ore lavorative". Tempi difficili anche per peri e albicocchi del ferrarese, con perdite tra il 50 e il 60%. Qui a compromettere l’andamento sono state le brusche e improvvise variazioni di temperatura dalla fine di aprile con minime tra 0 e 4-5 gradi e fenomeni di brina seguiti da termometri schizzati, nei momenti centrali della giornata, anche a 28 gradi in pieno sole. Se è vero che da sempre una grandinata, una gelata o un botta di caldo possono facilmente rovinare il raccolto, è altrettanto vero però che quanto sta accadendo ora nei campi italiani è qualcosa di molto diverso dal naturale rischio che ogni contadino si assume nel momento in cui pianta un seme e sceglie di affidarsi alla clemenza del tempo. L'eccezionale si sta trasformando in normale e l'anomalo in consueto. Il riscaldamento globale aumenta infatti la sia frequenza che la violenza degli episodi meteo estremi e l’Italia, come certificano il IV e il V Rapporto realizzati dall'Ipcc (l'organismo Onu che analizza, valuta e sintetizza le pubblicazioni scientifiche in materia di clima), si trova nel cuore di un cosiddetto hot spot, ovvero in una zona particolarmente sensibile a cavallo di diverse fasce climatiche dove i cambiamenti saranno (e hanno iniziato ad essere prima di quanto stimato a suo tempo) particolarmente accentuati. Il puntuale "piagnisteo" che arriva dalle associazioni di coltivatori e agricoltori sui danni del maltempo non è più quindi maliziosamente attribuibile solo alla proverbiale furbizia contadina per mettere le mani avanti sui prezzi, ma è un problema concreto che purtroppo promette solo di peggiorare. Solo per rimanere alla produzione delle ciliege, il pezzo pregiato di questa stagione, in un articolo pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, il professor Carlo Fideghelli del Centro ricerche per la frutticoltura, spiega: "La frutticoltura europea è prevalentemente concentrata nei paesi mediterranei e la maggior parte delle cultivar attualmente coltivate ha un fabbisogno in freddo invernale che varia da 6-700 a 1000-1200 ore (calcolate convenzionalmente da ottobre a febbraio al di sotto di 7,2°C), in linea con il normale andamento climatico. Il progressivo innalzamento delle temperature invernali, che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni, fa registrare, con sempre maggiore frequenza, un accumulo di freddo che non supera le 500-600 ore, riportando di attualità un problema che sembrava risolto". Anche le gravissime perdite con cui hanno dovuto fare i conti l'olivicoltura italiana nel 2014 in seguito all’attacco della mosca olearia, sono stata favorite dal clima che cambia. "Purtroppo gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e hanno conseguenze dirette sulle coltivazioni: dal 2007 a oggi, per gli effetti combinati di maltempo e siccità, caldo e gelate improvvise, l’agricoltura ha già pagato un conto di 6 miliardi di euro.", commenta il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Il bilancio stilato da Coldiretti è persino più pesante: 14 miliardi di euro di danni nell'ultimo decennio a causa delle bizzarrie del tempo. "È chiaro, quindi - insiste la Cia - che ora come in futuro, c’è bisogno di azioni più incisive tanto per la prevenzione quanto per i risarcimenti alle perdite subite dagli agricoltori". In tal senso, conclude Scanavino, "è sempre più necessario rafforzare e rendere più tempestivi sia gli interventi in caso di crisi sia gli strumenti di gestione del rischio, come ad esempio quelli assicurativi e mutualistici".
Arance crack: prodotte a 20, vendute a 5, scrive Antonio Fraschilla. Una crisi senza fine. Ogni anno un nuovo record negativo. La produzione di quello che era una volta l’oro della Sicilia, adesso è soltanto un peso. Anche nell’ultima stagione la vendita di agrumi, arancia rossa su tutti e limoni, ha fatto registrare numeri a dir poco bassi e perdite per tutti i produttori. "È stata un’annata disastrosa, credo sia stata la peggiore di sempre – dice Giovanni Pappalardo, agrumicoltore e direttore Coldiretti Catania – quest'anno i prezzi sono scesi a 5 centesimi al chilo e non si sono coperti i costi di produzione perché per il coltivatore il costo al chilo per le arance è di circa 20 centesimi. Insomma, nessuna remunerazione per il lavoro, ancora piante con arance non raccolte e dove le arance sono rimaste sulla pianta l’imprenditore non può fare i lavori per mantenere l’agrumeto pronto per la prossima stagione. Quindi crescerà ancora l’abbandono della coltivazione di quello che una volta era il fiore all’occhiello dell’agricoltura siciliana e italiana". I numeri dell’ultima stagione sono impietosi. Nell'Isola, leader assoluta nella coltivazione di agrumi in Italia, la superficie di arance coltivate è 53mila ettari: soltanto dieci anni fa erano 60mila. La produzione totale è scesa quest'anno a 11,7 milioni di quintali, nel 2006 si produceva un milione di quintali in più di arance. Ma il problema è che questi numeri non sono sufficienti a spiegare il calo della redditività: prima un quintale valeva quattro volte di più. Adesso il prezzo alla vendita scende di anno in anno a causa di una filiera troppo lunga, di una concorrenza agguerrita e per certi versi sleale dei paesi del Nord Africa e di un settore produttivo che non riesce a fare sistema: in Sicilia non vi sono grandi cooperative di produttori che possono imporre prezzi e marchi. L'arancia rossa nei supermercati di Catania è venduta a 1 euro e in alcuni casi anche 1,5 euro al chilo, nel resto d'Italia i prezzi sono stati ancora più alti. Qui ci guadagnano tutti: dal commerciante che acquista sulla pianta alla grande distribuzione. Tutti tranne i coltivatori. Ma a cosa è dovuto il crollo del prezzo? "La risposta è semplice – dice Pappalardo - incide l'embargo russo, che di fatto riduce la domanda. E incidono gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero. Lì la mano d'opera costa 30 dollari al mese, noi un operaio lo paghiamo 50 euro al giorno più contributi. Loro in Nord Africa possono utilizzare pesticidi, noi no. Questa è concorrenza sleale". Secondo l’osservatorio Coldiretti il rischio è che la produzione di agrumi scompaia e con questa anche la spremuta di arancia rossa. Negli ultimi quindici anni una pianta di arance su tre è sparita, una su due se si parla di limoni. Se si allarga poi l'orizzonte a tutta la produzione agrumicola italiana, negli ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari di agrumi e ne sono rimasti 124mila, dei quali 30mila in Calabria e 71mila in Sicilia. "Il disboscamento delle campagne italiane – sostiene la Coldiretti - è il risultato di una vera invasione di frutta straniera con le importazioni di agrumi freschi e secchi che negli ultimi 15 anni sono praticamente raddoppiate per raggiungere nel 2015 il massimo storico di 480 milioni di chili".
Asparago contro mais, vince chi salta la filiera, scrive Janner Meletti. Loris Braga, quando lo andiamo a trovare, sta seminando il mais nelle immense campagne del ferrarese, in quella che era la valle paludosa del Mezzano. Roberto Lodi sta raccogliendo gli asparagi nel suo fondo, Corte Roeli di Malalbergo. Due modi diversi di coltivare la terra, e soprattutto di affrontare il mercato. "Sto seminando – racconta Loris Braga – e ancora non ho venduto il mais dell’anno scorso. Prezzi troppo bassi, ci avrei rimesso. In questi giorni il prezzo sembra in leggera ripresa, sopra i 17 euro al quintale, e ogni settimana cresce di una decina di centesimi, che sono poi quelli che permettono di pagare il magazzino. Ma basta la notizia di una nave che arriva carica di mais per fare abbassare subito il prezzo. In sintesi: sto spendendo soldi e fatica per seminare e ancora non so se e a quanto venderò la produzione dello scorso anno". Sognando 20 euro al quintale. Grandi campi – qui imperava il latifondo – di soia, barbabietole e mais. "Il mercato dei cereali c’è sempre stato. A rovinare noi produttori è soprattutto la speculazione. Il 70% del mais viene comprato all’estero – anche se è meno ricco di proteine e grassi – e con il 30% italiano gli speculatori giocano come il gatto con il topo. Se in prezzo scende, comprano. Appena sale anche di poco, non si fanno più sentire, fino al nuovo ribasso. Fino a una ventina di anni fa c'era più stabilità dei prezzi ed era possibile programmare una rotazione delle colture sapendo che comunque il pane lo avresti portato a casa. Fino a quattro o cinque anni fa il mais era venduto ancora a 20 o 21 euro al quintale e si faceva reddito. Venti euro sarebbe un prezzo onesto anche oggi ma ormai sembra impossibile. Perché continuo a seminare? Questa è terra benedetta per i cereali e soprattutto per il mais. Qui vicino a Comacchio produciamo 120-130 quintali per ettaro contro un media della provincia di Ferrara di 90-100 e medie ancora più basse in quasi tutta la Valpadana. Chi produce molto meno di noi, e magari non ha ancora venduto i sacchi dell’anno passato, non so proprio come possa tirare avanti. Capisce adesso perché ogni anno l’agricoltura perde migliaia di ettari?". Davanti alla bottega di Campagna Amica alla Corte Roeli di Malalbergo c'è la fila. Al momento della nostra visita è tempo di asparagi verdi: i migliori sono venduti a 4 euro al chilo. Roberto Lodi ha 8 ettari di terra. “Inizio a fine marzo con gli asparagi e finisco a novembre con i miei cachi che hanno ormai cento anni. In mezzo, albicocche, pesche, prugne, pere, mele, con tanta attenzione a quelle specie che stavano scomparendo, come le pere dottor Guyot e abate Fetel". C'è anche l’agriturismo. Nei prossimi giorni arriveranno cuochi stranieri per imparare a cucinare gli asparagi e a preparare i tortelloni. “Ho capito da tempo che se non tagli la filiera non ci salti fuori. I miei asparagi a 4 euro costano comunque molto meno di quelli dei supermercati e sono più freschi e buoni. È per questo che i miei clienti arrivano da Ferrara, da Bologna, da Modena, in un raggio di 20-25 chilometri". Una posizione fortunata (poche centinaia di metri da un casello autostradale) e soprattutto la capacità di tenere aperta la Bottega tutto l’anno. "Vendo frutta e verdura fresche ma soprattutto le conservo. Faccio l’esempio delle pere Abate, che sono Igp. Se le do ai commercianti, prendo 0,37 euro al chilo. Nella Bottega, appena raccolte, sono vendute a 1,50 al chilo. Le altre le faccio sciroppare in un laboratorio e mezzo chilo è venduto a 3,5 euro. Ci sono spese in più, certo, per la lavorazione, il vasetto, lo sciroppo ma un chilo di Abate così mi viene pagato 7 euro. E posso incassare tutto l’anno". Le ricette valore aggiunto. Non pretende di insegnare agli altri agricoltori, Roberto Lodi. "E chiaro che chi produce migliaia di quintali di grano o di mais non può certo vendere a bottega in azienda. Io dico soltanto che, dove è possibile, questa è la strada giusta da prendere. Arrivi qui, vai nei campi di asparagi, li puoi anche mangiare nel nostro agriturismo, magari ti fai insegnare qualche ricetta… Ci sono verdurai di Bologna che mi telefonano e mi dicono: portami gli asparagi, il prezzo fallo tu, non importa. Sono soddisfazioni. Quando penso che ci sono colleghi che consegnano i frutti del loro lavoro ai commercianti o all’industria e non sanno quando e quanto saranno pagati, sto male per loro. L’agricoltura deve cambiare. Io posso solo indicare il pezzo di strada che ho scelto".
Stato, partito e ambientalisti sono la peste dell'agricoltura. Burocrazia, tasse, consorzi inutili inventati per piazzare amici degli amici. Una denuncia (ma divertente) sulla vita nei campi, scrive Camillo Langone, Sabato 28/05/2016, su "Il Giornale". La Campagna e il Partito, ecco il titolo giusto per il Contromano Laterza che invece, per considerazioni credo più politiche che di marketing, si intitola Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore. La Campagna è quella della Bassa Toscana, talmente bassa che un altro po' e diventa Tuscia, per non dire Lazio. Il Partito così come la valle non ha nome perché l'autore nella Bassa Toscana ci vive e vorrebbe continuare a farlo senza subire rappresaglie ma io, che abito altrove e non dipendo dall'arbitrio delle amministrazioni comunali, posso dirlo: è l'eterno Partito un tempo francamente comunista e oggi nominalmente democratico, quindi democratico nel senso della vecchia Ddr (Deutsche Demokratische Republik) o di Aristotele, che considerava la democrazia una degenerazione della buona politica. Leggo il libro di Antonio Leotti e ringrazio Dio di abitare in città. Nella stessa provincia di Siena in cui vennero girati gli spot del Mulino Bianco, un millennio fa, la vita dei campi risulta avara di soddisfazioni, nient'affatto bucolica, quasi miserabile. L'autore mette subito in guardia i lettori da eventuali slanci romantici: «Diffidate di chi vi esorta a ritornare ai mestieri della terra. A meno che non abbiate ingenti capitali, eredità da sperperare... E non credete a quello che dicono i media, non credete a questa storia che i giovani tornano in campagna. Ma dove sono? Io non ne ho visto neanche uno. E fanno bene a non venirci. Cosa ci verrebbero a fare? A confrontarsi con i fatturati, davvero degradanti, che l'agricoltura è in grado di esprimere? A farsi il fegato grosso con l'arroganza dei burocrati scelti accuratamente tra le schiere dei sadici patologici? Andate a trovare qualche agricoltore e per una volta, invece di soffermarvi sulla bellezza dei paesaggi, chiedete che vi mostrino i libri, la contabilità. Lì c'è la verità, tutto il resto è leggenda». In questa tirata quasi céliniana consiste il cuore del libro che è un assalto all'arma bianca contro i panzer dell'ambientalismo, dello statalismo e ovviamente del Partito, terribile entità che da settant'anni, con sigle diverse ma senza soluzione di continuità, «di padre in figlio, da zio a nipote, da cugino a cugino, da amico ad amico», in provincia di Siena produce sindaci, assessori, funzionari, dirigenti davanti ai quali il comune cittadino, o il comune contadino, può soltanto genuflettersi. Amministratori che senza posa inventano «consorzi di qualità per la promozione del territorio», ciascuno dotato di statuti cervellotici e ovviamente appiattenti, anti-qualitativi, fitti come sono di leggi, norme, regole. E che poi corrono a Firenze alla festa del Partito per un dibattito sull'agricoltura, durante il quale una bella parlamentare (chi sarà mai? Niente nomi nel libro) ripeterà la parola territorio come un disco rotto, e Leotti, che si trova sul palco in veste di scrittore-agricoltore, la parola territorio, dirigista e retorica, non la sopporta più. La bella parlamentare poi si metterà a elogiare il mondo contadino del bel tempo andato e Leotti, che quel mondo lo ha conosciuto davvero, sbotta: «Io me le ricordo le case senza bagno e senza riscaldamento». Gli amministratori che applaudono le belle parlamentari sono gli stessi che se lui vuole restaurare una vecchia casa gli vietano, adducendo motivi paesaggistici, di spostare anche una sola tegola, mentre a pochi metri autorizzano la costruzione di una scuola che sembra un omaggio all'architettura rumena «epoca Ceausescu». E che gli impediscono di abbattere le vecchie querce malate che incombono sulla strada mettendo a rischio automobili e passanti. Salvo poi, dopo anni di riunioni e costosi dossier, intimargli di procedere al taglio entro sei giorni. Il settimo scatterebbe la «denuncia all'Autorità Giudiziaria ai sensi dell'art. 650 del Codice Penale». L'autore vuole ottemperare e, grazie a una squadra di boscaioli macedoni sta per farlo, ma all'ultimo momento spuntano gli ambientalisti che, animati da «un'ideologia paranoide», lo accusano di ogni nefandezza, e per procedere bisogna chiamare i carabinieri. Mai una gioia nella vita di Leotti che ha lasciato Roma dove lavorava come sceneggiatore (Radiofreccia, Il partigiano Johnny, Vallanzasca...) con l'idea di campare sulle terre di famiglia, per accorgersi, dopo tante fatiche e spese, di essere caduto dalla padella alla brace, dalla crisi del cinema a quella dell'agricoltura, dal conformismo (in parte condiviso) della sinistra dei salotti al totalitarismo (tutto subito) del Partito innominato e innominabile. Un fiume di guai che almeno ha prodotto questo libro buffo e morale, dal messaggio martellante: che non vi venga in mente di darvi all'agricoltura.
Avetrana, 28 febbraio 2016. La strage degli alberi.
Il commento del Dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger, youtuber.
Mi ero ripromesso di non occuparmi più della politica locale per la sua inutilità, ritenuta stantia e stagnante e periodicamente riproposta da gente di destra e di sinistra ambiziosa e senza alcun valore, ma di fronte alla desertificazione che l’odierna amministrazione di destra di Avetrana sta attuando alla fine del suo mandato non è possibile rimanerne complici con il proprio silenzio. Questi signori stanno per finire di tagliare tutti gli alberi piantati dall’ultima amministrazione di sinistra, affinchè alla fine del loro mandato non ne rimanga nessuna testimonianza. Nessun motivo o giustificazione può essere avvalorato dalla logica. Hanno usato la scusa delle radici che spaccano il manto stradale; delle foglie che sporcano, del pericolo di cadute per cedimento. Hanno usato, addirittura, la scusa della presenza della Processionaria su qualche albero, per tagliarli tutti. Usano il metodo Xylella: Tabula Rasa. Come dire: se il cane ha le pulci o le zecche, il coglione non disinfesta i parassiti, ma uccide il cane suo e dei suoi vicini. E, comunque, anche se chi ha piantato gli alberi, lo ha fatto con negligenza o imperizia, sapendo della dannosità dell'albero cresciuto, non si uccide senza ritegno un essere vivente, istigati da gente più cattiva e ignoranti di se stessi. Di questo passo si tagliano gli alberi, prima piantati da qualcuno e poi ritenuti dannosi da altri; poi si uccidono i cani randagi nati senza colpa propria, ritenuti pericolosi; poi si uccidono gli esseri umani vecchi, malati e disabili inutili per la società, oppure i figli non voluti. Questi signori non hanno alcuna cultura ambientalista e naturalista. Usare la potatura o la disinfestazione, o limitare lo scempio non è ipotesi alla loro portata. Meglio eliminare ogni pianta dal paese. Il verde ci rende differenti dall’africa sahariana. Credevo che fosse il rosso il colore da costoro odiato…invece è il verde. Che peccato condividere il paese con gente che non ama la Natura, anche perché chi non ama la Natura, non ama l’uomo.
“Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi. Chi inquina paghi, anche per il patema d'animo".
Ambiente ed ambientalismo ed ecologismo. Distinzione sui termini dietro cui si nascondono ideologie e fondamentalismi, bugie ed odio contro l'uomo.
"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui mangiano. Da ciò si può dedurre il trattamento delle sue risorse agro alimentari. L’Italia dove, addirittura, quello che mangiamo non è quello che appare ed è insito di dubbi sulla sua genuinità e provenienza. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali. Da ciò si può dedurre il trattamento che ella riserva alle persone. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
Animali ed animalisti. Distinzione sui termini dietro cui si nascondono ideologie e fondamentalismi, bugie ed odio contro l'uomo.
IL VERDE PUBBLICO È SEMPRE PIÙ MARCIO. Senza fondi, a corto di personale e spesso costretti a bloccare gli appalti sulla scia degli scandali, i Comuni italiani faticano a garantire la manutenzione di parchi e giardini. Un problema che mobilita associazioni e comitati cittadini, ma completamente assente dalla campagna elettorale nelle grandi città. La legge nazionale impone censimenti, piani e regolamenti, ma sono rari i municipi che riescono a rispettare gli obblighi, compreso quello che prevede un nuovo albero per ogni neonato. E alla vigilia delle elezioni in pochi sanno che i sindaci sarebbero tenuti a presentare il loro "bilancio arboreo", scrive "La Repubblica" il 25 maggio 2016.
Mafie, incompetenza e leggi ignorate, scrive Alessandro Cecioni. La rappresentazione plastica del disastro sono le centinaia di portavasi lasciati vuoti nel semenzaio comunale di San Sisto, a Roma. Sopra c'erano piante di azalea ora sparite, depredate dalle coop di Mafia Capitale con la complicità ben retribuita di funzionari infedeli. È l’esempio, il peggiore certo, di quello che può accadere quando, con i Comuni senza più né uomini né risorse per far fronte alla manutenzione ordinaria e straordinaria, i 550 milioni di metri quadrati di alberi, prati, fiori, viali e parchi che compongono il verde pubblico italiano (dati riferiti ai 120 capoluoghi di provincia) vengono dati in gestione ai privati. Un patrimonio che diviso per il numero di italiani corrisponde a 30,3 metri quadrati per abitante, un dato che non ci metterebbe nemmeno male in un'ipotetica classifica mondiale. A New York, per dire, ogni cittadino ha a disposizione 23,1 metri quadrati, a Parigi 11 e mezzo: ma provate a cercare un arredo rotto o rifiuti abbandonati a Central Park o nel Giardino delle Tuileries. O nei parchi di Londra, che sono comunque immensi e fanno dei londinesi dei cittadini fortunati con i loro 105 metri quadrati a testa. Ai romani ne toccano 16,5 a testa, ma ci sono 20mila alberi ridotti a un mozzicone che aspettano di essere sostituiti, panchine spaccate, prati che sembrano giungle. Consola poco quindi il recentissimo rapporto Istat sul verde urbano che segnala qualche progresso quantitativo (nel 2014 ogni cittadino italiano che vive nelle città capoluogo disponeva in media di 31,1 metri quadri, con forti differenze regionali) ma non lo stato qualitativo. La foto sfocata delle statistiche. "Il problema è proprio questo: il degrado del verde pubblico. I dati statistici non riescono a cogliere l'aspetto decisivo della qualità di prati, alberi, attrezzature. Anche i dati che pubblichiamo nel nostro rapporto annuale 'Ecosistema urbano' ci dicono, per esempio, che Matera ha quasi mille metri quadrati di verde per abitante, ma non ci dicono in che condizioni si trovano e se per raggiungerlo devo prendere la macchina o ci posso andare a piedi, non ci dicono se le panchine ci sono o sono devastate", sottolinea Alberto Fiorillo, responsabile Aree urbane di Legambiente. La riprova sta nelle centinaia di comitati a difesa del verde che si contano in Italia. E sta nei dati del sondaggio fatto nel 2013 da Eurobarometro in 79 città e 4 agglomerati urbani europei sulla percezione della qualità del verde urbano. Il 71% dei napoletani e 6 palermitani su 10 si dichiarano insoddisfatti dello stato dei loro parchi e giardini. Un tesoro urbano. Eppure il verde urbano è un bene prezioso. "È importantissimo per i comportamenti della popolazione. Il verde è il colore della calma – dice Mariella Zoppi, dicente di Urbanistica, presidente del corso di laurea magistrale in Architettura del paesaggio all’Università di Firenze - quindi svolge una funzione psicologica, sociale. Sotto il profilo ambientale, poi, ha effetti benefici sulla qualità dell'aria. Io credo che sia un elemento fondamentale nella transizione verso una nuova società. Per questo considero sbagliato il taglio della spesa pubblica in questo settore". Legge quadro. Da tre anni è in vigore la legge 10/2013, una vera e propria legge quadro sullo sviluppo e la salvaguardia del verde pubblico in Italia. Il fulcro è il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico istituito presso il ministero dell'Ambiente. E' al Comitato che è demandato il controllo sulle norme che riguardano la tutela degli alberi monumentali, del rispetto dell’obbligo per i Comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato. E' il Comitato, ancora, che emana circolari attuative della legge e che indica i criteri che le amministrazioni territoriali devono seguire in materia di urbanizzazione per mantenere e incrementare il verde pubblico con particolare riferimento agli alberi. Le sanzioni, amministrative e penali, sono previste solo nei casi di abbattimento o danneggiamento delle piante monumento dei Parchi della rimembranza nati dopo la Prima Guerra mondiale, ma ci si sta attrezzando anche per gli alberi monumentali (anche se la definizione "monumentale" è ancora oggetto di dibattito) il cui censimento nazionale è a buon punto, mentre per quanto riguarda il rispetto della norma "un albero per ogni nato o adottato" la sanzione può essere solo "politica". "La legge – spiega Massimiliano Atelli, presidente del Comitato – introduce il ‘Bilancio arboreo’, ovvero il computo di quanti alberi ha trovato un sindaco al suo insediamento e quanti ne lascia alla fine del mandato. Saranno poi i cittadini, con il voto, a sanzionare o premiare il suo operato". Strumenti ignorati. Le amministrazioni locali hanno tre strumenti di governo per parchi e giardini: Censimento del verde, Regolamento del verde e Piano del verde. Il primo fa una fotografia precisa di quello che c’è in una città: quanti alberi, di che specie e in quale condizione di salute si trovano. A redarlo sono stati 53 capoluogo di provincia sui 73 analizzati dal X rapporto Ispra. Il Regolamento deve indicare invece prescrizioni e indicazioni tecniche sulla progettazione del verde (sia pubblico che privato). Lo hanno adottato solo 36 Comuni, 7 dei quali solo per ciò che riguarda il verde pubblico. Poi c’è il Piano, lo strumento più ignorato. Dovrebbe integrare la pianificazione urbanistica per dare una "visione strategica sullo sviluppo del sistema del verde urbano e peri-urbano", come si legge nella Relazione 2015 del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. In Italia lo hanno approvato solo sei comuni capoluogo (Savona, Reggio Emilia, Bologna, Ravenna, Forlì e Taranto), mentre Milano e Bergamo hanno norme in materia nel Piano per il governo del territorio. Il tradimento dell'albero per ogni nato. In attesa del giudizio elettorale, però, sono pochi i Comuni che piantano un albero per ogni neonato. Nella legge è previsto che i municipi inviino a chi ha registrato il proprio figlio all’anagrafe un certificato in cui si dice che tipo di albero è stato piantato e dove. Fantascienza. A Firenze si pianta un albero per ogni classe d’età: c’è quello del 2001, del 2002 ecc. A Torino si è esteso il concetto anche agli arbusti, in altre città della norma si è persa traccia. "A Roma ci sono 25mila nuovi nati all’anno. Non saprei come pagarli considerando che ognuno costa 300 euro fra impianto e manutenzione nei primi due anni. E poi in 10 anni fa 250mila alberi, una foresta. Dove li mettiamo?", si giustifica Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma. "Quella del territorio a disposizione è una scusa – sostiene Massimiliano Atelli – la legge prevede che si possano chiedere terreni in prestito al Demanio. O che si usino gli alberi previsti per i neonati per sostituire quelli abbattuti". E comunque 250mila alberi in dieci anni non possono spaventare se Sadiq Khan, neosindaco di Londra, ha annunciato di voler piantare due milioni di alberi in 10 anni. "In Cina ne vogliono piantare un miliardo da qui al 2020", chiosa Atelli. Risorse scarse. A preoccupare sono le risorse, sia in termini di soldi che di personale, con cui i responsabili del verde pubblico dei vari Comuni devono fare i conti. "Le faccio l’esempio del mio Comune – dice Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italiana direttori e tecnici dei pubblici giardini – Da trent’anni lavoro a Treviglio, 30mila abitanti, provincia di Bergamo. Lo scorso anno per far fronte a tutta la gestione del nostro verde pubblico avevo un budget di 230mila euro, quest’anno saranno 150mila". "Noi - aggiunge Mori – oggi abbiamo mezzo centesimo per ognuno dei 40 milioni di metri quadrati di verde che gestiamo a Roma". L'associazione che Cerea presiede è nata 60 anni fa e conta 400 iscritti in rappresentanza di 200 Comuni. Prima erano ammessi solo i dipendenti degli enti locali, da tre anni è stata aperta ai funzionari delle municipalizzate perché spesso i Comuni ricorrono a loro per la gestione del verde. "Non sempre con grandi risultati – ammette Antonello Mori – a Roma con Ama, per esempio, si è aperto un contenzioso sulla gestione delle aree per i cani nei giardini pubblici. Chi deve raccogliere gli escrementi e disinfettare l’area? Per noi loro, si tratta pur sempre di rifiuti speciali. Ma Ama non la pensa così". "Poche risorse, ma oneri immensi per i responsabili dei Servizi giardini – dice ancora Stefano Cerea – perché se un albero cade, in città, stia sicuro che fa danni. A volte, purtroppo anche delle vittime. E’ accaduto ultimamente a Roma, a Catania, a Napoli. E l’avviso di garanzia dopo il sindaco colpisce il responsabile tecnico. Non solo, siamo anche indicati spesso come nemici del verde dagli ambientalisti, magari perché abbiamo tagliato degli alberi potenzialmente pericolosi. Tre anni fa il dirigente del verde pubblico di Padova si è visto recapitare una busta con un proiettile”. Sul fronte delle risorse umane il problema arriva da lontano, dal 1975 quando la chiamata diretta nella pubblica amministrazione è stata cancellata e non è stato più possibile assumere chi usciva dalle scuole giardinieri, le scuole di formazione dei Comuni. Dal 2001, poi, nel Pubblico Impiego c’è il blocco del turnover, è possibile un’assunzione ogni 5 pensionamenti. E questo ha riflessi sull’organico in termini quantitativi. "Ma da noi a Roma il blocco è iniziato prima, di fatto non ci sono assunzioni dal 1990 e dei 1800 addetti del Servizio Giardini presenti nel 1980 oggi di operativi ne restano 250, con un’età media che supera di gran lunga i 50 anni", dice ancora Antonello Mori. E' vero però che a Roma nel 2004 ci fu una corsa a trasformare i giardinieri in personale tecnico, così sul campo rimasero 270 persone in meno. Fu di fatto l'apertura agli appalti esterni, molto spesso per affidamento diretto, un meccanismo che ha permesso al sistema di Mafia Capitale di fare man bassa. Problemi di gestione che appaiono insormontabili, quindi, anche se proprio la legge 10 permette di affidarla ai privati. Due le strade che si possono seguire. La prima è quella della sponsorizzazione: un'azienda sceglie un giardino o un parco e si impegna nella sua manutenzione o al suo ripristino presentando un progetto all’amministrazione comunale che lo approva e poi controlla che tutto venga fatto secondo i criteri decisi. In cambio lo sponsor può utilizzare lo spazio per eventi, campagne pubblicitarie e altre iniziative, garantendo però sempre la fruibilità pubblica. Una modalità applicata con successo in particolare a Milano. La seconda strada la indica Antonello Mori, del servizio Verde pubblico di Roma: "E’ quella del mecenatismo. Ben vengano i privati, le aziende, ma niente uso esclusivo del bene. Un cartello ricorderà chi ha finanziato la manutenzione del giardino. Di più non concediamo. Sta funzionando. L'esempio più recente è il ripristino del Giardino degli aranci sull’Aventino". "Su questo – precisa Atelli – noi siamo a disposizione per consigli e aiuti pratici. Purtroppo molti ci ignorano, preferiscono fare da soli, o anche non fare niente". E intanto parchi e giardini vanno in malora.
Senza manutenzione Roma chiude i cancelli, scrive Cecilia Gentile. Un cancello serrato con un cartello: "Vietato entrare per rischio caduta alberi". È così che succede a Roma. Se un temporale fa ondeggiare pericolosamente le fronde non si procede alla messa in sicurezza ma si chiudono i parchi perché non ci sono i soldi e non c'è personale. È la Caporetto della manutenzione del verde: gli effetti si vedono nei giardini e nei parchi chiusi e nell'incuria imperante. Ora che è primavera inoltrata e che l'erba cresce prepotentemente prati e giardini si sono trasformati in giungle. Il colpo di grazia ad un settore già ridotto ad ancella del bilancio comunale lo ha dato lo scandalo Mafia Capitale. Una volta appurato che verde e migranti erano i pozzi senza fine da cui si alimentava il malaffare l'allora giunta Marino ha congelato tutti gli appalti con le Coop che per conto del Comune si occupavano della manutenzione. Una scelta obbligata quella del ricorso agli affidamenti esterni. Il Servizio Giardini del Campidoglio dispone infatti soltanto di 250 giardinieri per curare l'immenso patrimonio verde della capitale. Solo le alberature sono 330mila. Un tempo i giardinieri comunali erano 1.800 poi sono andati progressivamente riducendosi con i pensionamenti e il blocco del turn over. Appena insediata, l'allora assessore all'Ambiente della giunta di Ignazio Marino, Estella Marino, aveva annunciato un cosiddetto "appaltone" per il monitoraggio delle alberature di prima grandezza, pari a 86mila fusti, la cui altezza raggiunge almeno i venti metri. Ma la gara è stata bandita soltanto il 29 giugno 2015. Il termine per presentare le offerte, arrivate da 130 candidati, si è chiuso il 15 settembre 2015. Si è appena conclusa la fase dei controlli, ora si passa al vaglio delle offerte e probabilmente la pratica finirà nelle mani del prossimo sindaco. Da parte loro, i candidati sindaci non sembrano aver tenuto in gran conto l'emergenza del verde nel loro programma elettorale. Malgrado a Roma parchi e ville, un tempo vanto della capitale, siano agonizzanti. Gli appalti ponte banditi dal Comune in attesa dell'assegnazione dell'appaltone, 16 in otto mesi nel corso del 2015, del costo di 200 mila euro ciascuno, sono esauriti o in via di esaurimento. Inutile pensare che in queste condizioni la capitale possa dar corso alla legge del 1992 che prescrive di mettere a dimora un albero per ogni nuovo nato. In città nascono 25mila bambini all'anno. Il problema adesso è mettere in sicurezza e curare il patrimonio esistente che sta andando in malora.
Napoli, dopo 20 anni la città ancora aspetta, scrive Anna Laura De Rosa. Vent'anni per realizzare il Parco della Marinella in pieno centro. Ma quell'oasi verde ancora non c'è. Alberi, aiuole, giostrine e un piccolo campo sportivo. Il progetto firmato dall'architetto Aldo Loris Rossi nel 1997 mostra un polmone verde di 30mila metri quadrati atteso inutilmente da ragazzini ormai trentenni. L'intervento rientra nel Grande progetto Napoli Est. L'appalto finanziato con fondi Por vale 5 milioni ed è stato aggiudicato dopo una serie di affanni burocratici. È una saga fatta di sequestri e incendi dolosi, occupazioni abusive e ricorsi da parte delle ditte in graduatoria. I lavori non sono mai partiti. E sul parco restano le macerie. Montagne di rifiuti e topi tra l'erba alta. Una discarica nel centro di Napoli. L'area in cui dovrebbe sorgere il parco, detto anche Villa del Popolo, si trova di fronte a due quartieri senza spazi verdi abitati da circa 25mila persone. Il primo passo significativo per la realizzazione si ha nel 2010, con il trasferimento della proprietà dei terreni dal demanio al Comune. Un enorme campo rom abusivo occupa però l'area negli anni dell'abbandono. Nel 2012 cominciano lo sgombero delle baracche e una serie di interventi di rimozione rifiuti. Via quintali di copertoni, legno e materiale speciale. Una speranza si accende a settembre 2014, quando la gara d'appalto viene aggiudicata al consorzio temporaneo d'impresa Ream. Neanche il tempo di recintare l'area di cantiere che scatta il ricorso al Tar della seconda ditta in graduatoria. Le battaglie legali vanno avanti fino ad oggi mentre un incendio doloso appiccato da ignoti divampa nel parco che finisce sotto sequestro. Le sezioni unite si pronunceranno sulla gara il prossimo 22 giugno, ma i lavori non potranno partire subito poichè sono scadute le verifiche antimafia. Il vicesindaco Raffaele Del Giudice, in carica da 10 mesi con l'amministrazione de Magistris, ha avviato da qualche giorno la realizzazione di una fogna nel parco, in modo da sbloccare almeno una parte dei lavori. "E' assurdo. Un quartiere che per 20 anni ha sognato questo parco è ancora senza spazi verdi - protesta Del Giudice, ex responsabile di Legambiente Campania - Serve un osservatorio nazionale su ritardi e contenziosi nella realizzazione di opere pubbliche, non ci possiamo più permettere tempi biblici. I tribunali hanno bisogno di personale per la trascrizione delle sentenze. Ce la stiamo mettendo tutta, la nostra amministrazione ha dato un'accelerata". Del Giudice ha riattivato la prassi della messa a dimora di un albero per ogni nato, disattesa da anni: grazie a un accordo con la forestale, alberelli di piccoli dimensioni sono stati sistemati nel vivaio comunale e saranno piantati a breve. Pubblicato anche il bilancio arboreo di fine mandato. Il verde urbano attrezzato gestito dall'amministrazione è passato dai 4 milioni e 722 mila metri quadri del 2011 ai 4 milioni e 991 mila metri quadri del 2015 con un incremento del 4.41 per cento. In città ci sono più di 60 mila alberi di alto e basso fusto, di cui però molti hanno superato i 50 anni e richiedono quindi maggiore cura. In 5 anni sono stati abbattuti più di duemila alberi e piantati 4208 arbusti. La città spera di vedere finalmente l'arrivo di alberi al Parco della Marinella. Un sogno rimandato a dopo le elezioni.
A Milano la svolta con Pisapia, scrive Ilaria Carra. Al settore verde la giunta guidata da Giuliano Pisapia ha prestato molta attenzione. In particolare si è cambiato l’approccio: sono 33mila i metri quadrati di aiuole trasformate da stagionali in perenni, in modo che siano sempreverdi tutto l’anno. Si è spinto molto poi sul fronte della partecipazione dei cittadini: sono 392 le aiuole condivise dai milanesi e 13 i nuovi giardini condivisi, 150 i condomini che hanno trasformato marciapiedi in aree verdi sottraendo spazi a parcheggi abusivi e 20mila metri quadrati di terreni in più per orti. Uno sforzo che ha conosciuto però anche contestazioni. Le critiche più dure sono arrivate dai difensori del verde sacrificato per i lavori del futuro metrò 4, circa 500 alberi tagliati per far spazio ai cantieri in vari punti della città oggetto di una battaglia di alcuni gruppi di cittadini. Dopo decenni, in tema verde, la giunta Pisapia ha dedicato tempo infine per risolvere la annosa questione della paulonia, secolare albero in Brera molto difeso dalle signore del quartiere che rischiava di dover lasciare il posto al progetto immobiliare della società proprietaria dello spicchio di area di grande pregio in via Madonnina: con una permuta di aree, la paulonia è salva e il quartiere è accontentato.
Alberi urbani vittime delle potature selvagge, scrive Alessandro Cecioni. L’intervento più visibile, e più criticato, sul verde pubblico sono le potature. "È un punto dolente nel quale noi ci troviamo fra due fuochi – dice Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma – da una parte ci sono quelli che considerano gli alberi un pericolo, oppure che si sentono danneggiati da rami troppo vicini alle finestre, dall’altra ci sono i cittadini pronti a fare le barricate appena si sfoltisce una pianta. Quello che posso dire è che a Roma non si pota più in modo selvaggio da almeno 20 anni. Niente capitozzature per intenderci". "È falso, le capitozzature ci sono eccome – lamenta Sanzio Baldini, già docente universitario di Gestione del verde urbano e Tecnologia forestale, autore di diversi libri in materia – solo che le chiamano capitozzature lunghe, perché non sono più fatte dove si allargano i rami, ma un paio di metri più in alto. Però anche così si creano delle ferite che lasceranno spazio alle spore e ai funghi, agli insetti. Si condanna la pianta". "Capitozzare è un retaggio che viene dalla gestione contadina, quando si doveva fare frasca per gli animali. Oggi è realizzata nella versione 'lunga' (il modo descritto dal professor Baldini, ndr) anche perché è semplice e non richiede nessuna perizia", rincara la dose Carlo Mascioli, dottore forestale consulente di enti pubblici e di privati. "Il problema – aggiunge – è che sul verde pubblico c’è purtroppo una grandissima ignoranza di fondo, nella scelta degli alberi che vengono messi a dimora, nella scarsa programmazione e progettualità". "I problemi che può creare un albero in città vengono da lontano – spiega il professor Baldini – dalla distanza di un albero dall'altro, dalla vicinanza o meno delle case, dai lavori stradali che sono stati fatti con conseguente taglio delle radici. Poi a tutto questo si prova a porre rimedio con le potature. Con le capitozzature lunghe che di fatto spostano il baricentro dell’albero e lo rendono meno stabile, più pericoloso. Perché queste ferite alle piante vengono inferte da persone che non hanno la minima idea di quello che fanno. Non escono da scuole come quella di Monza, non hanno studiato la natura degli alberi. Sapesse quante volte ho sentito dire ‘tagliamo, tanto ramo più, ramo meno...’". "Lei lo sa quanto ci mette una pianta a dare copertura al taglio di un ramo di 5 centimetri di diametro? Dai 15 ai 18 anni. La ferita si rimargina in un tempo lunghissimo. Qualcuno crede di superare il problema mettendoci del mastice, ma gli alberi sono esseri viventi, si muovono”, dice ancora Baldini. "Non solo: un platano alto 35 metri, perché in quel posto quella è la sua altezza naturale, una volta potato drasticamente ripartirà verso l’alto, per tornare a 35 metri - aggiunge Mascioli – La natura è questo. Se lo si vuole più basso va curato in modo diverso, da persone competenti". "Il problema di fondo resta questo – dice Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico – si deve distinguere fra verde orizzontale, i prati, verticale, gli alberi, e verde di pregio. Per il verde orizzontale si possono anche impiegare persone con conoscenze minori, per gli altri servono degli specialisti".
L'eccellenza perduta delle scuole giardinieri, scrive Alessandro Cecioni. "Disaffezione verso le professioni del verde, anche a causa della chiusura di fatto delle scuole giardinieri di maggiore tradizione". Così si legge nella Relazione annuale del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. "Erano, e in alcuni casi sono restate, un'eccellenza didattica, ma non più per il settore pubblico. Una delle tante eccellenze cui il nostro paese ha rinunciato", dice con amarezza Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italiana direttori e tecnici pubblici giardini. Certo, quando nel 1975 furono cancellate tutte le deroghe che permettevano la chiamata diretta dei dipendenti comunali, le scuole giardinieri videro il loro destino segnato. Prima ci si iscriveva a una di queste, si facevano quattro anni di studio, sia teorico che pratico, e c’era la certezza di entrare a far parte dei giardinieri comunali. "A Roma negli anni 80 c'erano 2mila ettari di verde pubblico, la metà di ora - dice Antonello Mori, direttore del Servizio ambiente e giardini del Comune di Roma - e 2mila addetti al servizio. Ora con il doppio di verde i giardinieri sono 250, con molti ultracinquantenni, gli ultimi usciti dalla Scuola. Quando li vedo salire sui cestelli per le potature, magari a venti metri d'altezza, qualche paura ce l'ho”. Per loro niente corsi di "tree climbing", arrampicarsi sugli alberi per fare così la manutenzione straordinaria delle piante. È una tecnica che data un paio di decenni nata negli Usa. Si insegna, insieme a molte altre cose, nella Scuola agraria del Parco di Monza. "La scuola più famosa e più bella”, dice ancora Cerea. "Ormai i dipendenti pubblici che vengono da noi a specializzarsi non ci sono più - spiega Filippo Pizzoni, direttore della Scuola – siamo un centro di formazione professionale postdiploma accreditato alla Regione Lombardia, prepariamo personale che poi potrà lavorare in aziende, in proprio, in ogni campo legato alla cura, progettazione e realizzazione di giardini e parchi". I numeri parlano da soli: 150 corsi di formazione ogni anno, 1500 allievi. Fra i corsi più seguiti quello per giardiniere professionista (600 ore), quello per arboricoltore (320 ore). E ancora quello per imparare a fare il fiorista, oppure per avere il titolo a occuparsi di giardini storici. E, naturalmente, i due corsi per tree climbers tenuti dagli specialisti americani Mark Chisholm e Brian Noyes. A Roma la Scuola Giardinieri, nata nel 1926 e chiusa di fatto all’inizio degli anni 90, ha riaperto cambiando pelle. "Facciamo corsi per i privati cittadini che amano il giardinaggio – dice ancora Antonello Mori – durano 5 mesi, da febbraio a giugno, 20 lezioni di due ore l'una. Il costo è 150 euro. Abbiamo aperto le iscrizioni on line e in 4 giorni sono arrivate 520 domande". Per tenere delle lezioni verranno anche alcuni docenti della Scuola di Monza.
LE TERRE DEI FUOCHI. “L’Italia è una terra dei fuochi”. Lo rivela l’Istituto Superiore della Sanità. Ma l’informazione balbetta, scrive Marco Mastrandrea su "Articolo 21" il 13 gennaio 2016. «’O vogl’ squartat viv’», «‘o giurnalist’ je a spacc a cap’», «ve ne dovete andare». Sono solo alcune delle parole dei camorristi che hanno minacciato e aggredito fisicamente diversi giornalisti che hanno solo svolto il proprio mestiere nella Terra dei Fuochi. Nello Trocchia, Marilena Natale, Sandro Ruotolo, per fare qualche nome. Ed è proprio Ruotolo che attualmente vive sotto scorta dopo le minacce di Michele Zagaria, numero uno del clan dei Casalesi, a scrivere dal proprio profilo facebook: con la pubblicazione dell’11 gennaio a cura dell’Istituto Superiore di Sanità emerge «il più grande atto di accusa contro lo Stato, lo si aspettava da 20 anni, ora è arrivato: l’Italia è una terra dei fuochi». Il rapporto dell’ISS giudica «in eccesso rispetto alla media regionale» il tasso di mortalità, ricoveri e tumori nell’area. L’allarme drammatico riguarda anche i bambini: «si osservano eccessi di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori e eccessi di tumori del sistema nervoso centrale, questi ultimi anche nella fascia 0-14 anni». Dopo tante difficoltà e tante battaglie condotte da giornalisti, studiosi, comitati e società civile finalmente una notizia che determina la gravità in cui versa un’area dove è presente un’importante fetta della popolazione campana. Ma se alcuni si sono sacrificati per raccontare una terra in difficoltà e soggiogata alla camorra, i quotidiani del 12 gennaio non sembrano ritenere i dati del rapporto ISS un caso grave, al punto tale da compiere una scelta editoriale di rilievo. Per “Il Mattino”, storico quotidiano partenopeo, la notizia va collocata nella sezione locale e solamente dopo il dibattito attorno alle comunali 2016 e la “festa dall’avvocato al barista” in doppia pagina sul Napoli, infatti, la squadra di calcio ha vinto il cosiddetto “campionato d’inverno”. E pensare che gli ultimi giorni del 2015 “Il Mattino” aveva rivelato con un’inchiesta di Gigi Di Fiore in parte le cifre contenute nel rapporto dell’ISS. Per il “Corriere della Sera” la notizia va posta nella sezione cronache a pagina 22 e dedica un minibox nella parte inferiore della prima pagina; la vicenda non viene menzionata affatto dalla prossima quarantenne “La Repubblica”. “Il Tempo” si arrischia con il titolo ad effetto: “La Terra dei Fuochi rom: 2000 roghi”, un’inchiesta in cui dall’area campana si fa un balzo nella Capitale con tanto di mappa corredata. Il lavoro del quotidiano si concentra su “la Terra dei Fuochi de’ noantri” con il dito puntato nei confronti della situazione “esplosiva nei campi rom”: appena citata la vicenda campana che funge da allaccio per l’inchiesta romana. D’altra parte, le parole di Sandro Ruotolo spingono ad approfondire il lavoro giornalistico e l’impegno di tutti attorno alla vicenda come necessità da cogliere in quanto sfida quotidiana non solo per chi abita queste terre: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più. Non sono Howard Beale del Quinto potere. E non sono uno scienziato. Ma un giornalista che ha raccontato la terra dei fuochi. Accusato di aver “esagerato”, di essere un catastrofista. Il rapporto dell’istituto superiore della sanità è una pessima notizia per tutti, perché purtroppo certifica quello che tutti sapevano e che in tanti hanno finta di non sapere. La terra dei fuochi è diventata la terra dei morti per avvelenamento. Noi che siamo vivi non lo possiamo sopportare più».
Il poliziotto comunista che ha scoperto la terra dei fuochi. Roberto Mancini è l'investigatore che per primo si è messo sulle tracce dei veleni sversati in terra di Gomorra. "Io morto per dovere" è il libro in uscita la prossima settimana che racconta la sua storia: dal collettivo comunista alle informative in cui descriveva il sistema camorra- massoneria- politica che ha ucciso un'intera regione. Fino alla sua morte, stroncato da un tumore contratto durante i sopralluoghi sui terreni colmi di veleni, scrive Giovanni Tizian il 5 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Dalla barricate degli anni '70 alla trincea della terra dei fuochi. Sempre in prima linea. Sempre a sinistra e per la giustizia sociale. Nel collettivo studentesco del liceo Augusto di Roma all'alba degli anni di piombo, e poi poliziotto col Manifesto sotto braccio. Con o senza divisa, Roberto Mancini non ha mai abdicato ai suoi ideali. A 17 anni lottando con i “compagni” per una società più giusta, a 20, con il tesserino da sbirro, indagando sui crimini più squallidi. Il poliziotto Mancini non è un eroe. Negli ultimi anni della sua vita ha tentato in tutti i modi di sfuggire a questa etichetta. Lui sapeva bene che gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani. È comodo indicare l'eroe e poi starsene sul divano a guardare le imprese dei tanti paladini che salveranno questo mondo. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. I suoi sopralluoghi sui terreni inquinati e l'aria avvelenata respirata durante l'inchiesta sono stati la causa della malattia che lo ha ucciso lentamente. La storia di Roberto adesso è un libro dal titolo "Io, morto per dovere" in uscita il 12 febbraio. Scritto dai giornalistiLuca Ferrari e Nello Trocchia, edito da Chiarelettere, con la prefazione di Beppe Fiorello e la postfazione della moglie Monika Dobrowolska Mancini. La vita del poliziotto che scoprì la terra dei fuochi sarà anche un fiction (in onda il 15 e il 16 febbraio su Rai Uno), e sarà proprio Fiorello a interpretare Mancini. Il libro è un racconto intimo della gioventù di Roberto. Gli scontri coi fascisti e le sassaiole negli anni caldi delle rivolte, il sogno della rivoluzione, la vicinanza a Democrazia proletaria, la ferma condanna della lotta armata. E infine, quando il sogno di un mondo migliore era ormai stato distrutto dal piombo dei terroristi rossi e neri e dal compromesso storico, la scelta di entrare in polizia, «perché bisogna provare a cambiare il sistema dall'interno», tenendo sempre ben distinte la parola legalità dal concetto di giustizia sociale, che non sempre coincide con la prima. Frammenti di vita, speranze e illusioni, che gli autori riportano fedelmente facendo parlare i testimoni di quel periodo e gli amici più cari di Mancini. La prima parte del libro è un flusso di emozioni. La passione politica e l'impegno che pagina dopo pagina si trasformano in delusione per come evolve la società, stretta tra violenza e ingiustizia sociale. Ma “Io morto per dovere” è soprattutto un focus sul lavoro del poliziotto comunista. Le sue inchieste, le sue informative, i suoi rapporti inediti inviati alla procura antimafia di Napoli. Nomi, cognomi, affaristi dei rifiuti, massoni, politici complici che negli anni sono stati promossi a incarichi di prestigio. Un buco nero della democrazia dove regna il malaffare. Tutto questo, Roberto, l'aveva scritto prima di tutti gli altri detective. L'aveva intuito e indagato. L'informativa più importante di tutte è quella dei primi anni '90. Lì, tra quelle pagine intestate Criminalpol, c'era già tutto il sistema svelato dalle inchieste del 2000. Gomorra, Mancini, l'aveva conosciuta e raccontata due decenni fa. Ma nessuno lo ascoltò. Fino a quando un magistrato di Napoli non ha alzato il telefono e lo ha chiamato nel suo piccolo ufficio del commissariato di San Lorenzo. La richiesta del pm è semplice: gli chiede di sbobinare tutte quelle telefonate della sua vecchissima informativa perché gli servono nel processo contro Cipriano Chianese, l'inventore dell'ecomafia, il broker dei veleni, ora sotto accusa per disastro ambientale. Finalmente, l'impegno di Mancini viene riconosciuto. Chianese ha lavorato indisturbato fino ai primi anni del Duemila. Nelle discariche gestite da Chianese sono finite le schifezze d'Italia. Rifiuti industriali delle aziende del Nord. E rifiuti “legali” con l'autorizzazione dello Stato. Eppure, quel Chianese è lo stesso che Mancini descriveva, già nel '90, come un pezzo grosso del business illegale della “monnezza”. Quando era un avvocato, di Forza Italia, candidato al Parlamento. A metà tra massoneria, camorra e politica. Una cerniera tra tre mondi, i cui interessi stavano avvelenando una terra bellissima e fertilissima. Se solo quel documento eccezionale fosse stato considerato nella sua importanza probabilmente quei territori non sarebbero stati uccisi. Ormai è tardi per impedirlo. L'omicidio ambientale è compiuto. Roberto Mancini è morto di tumore. I complici insospettabili del clan dei rifiuti hanno fatto carriera. Ma non tutto è finito, non tutto è perso. C'è ancora una speranza per Roberto. È nell'opera di verità che sta cercando di compiere il pool antimafia della procura di Napoli. Il magistrato Alessandro Milita rappresenta l'accusa contro Chianese. In quel processo i rapporti firmati Mancini stanno giocando un ruolo decisivo. Dà fastidio alla camorra anche da morto. E in fondo, il compagno Roberto è contento così.
La fondina a destra e «il Manifesto» sotto braccio. Pubblichiamo un capitolo tratto dal libro 'Io, morto per dovere' di Luca Ferrari e Nello Trocchia, sulla storia del poliziotto Roberto Mancini. La storia è diventata anche una fiction, interpretata da Giuseppe Fiorello, in onda su Raiuno il 15 e il 16 febbraio, scrive il 5 febbraio 2016 “L’Espresso”. In libreria dal 12 febbraio per Chiarelettere il libro "Io morto per dovere, la vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi" di Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini. La storia è diventata anche una fiction per la televisione, interpretata da Giuseppe Fiorello, che sarà trasmessa su Raiuno il 15 e il 16 febbraio. Quando Roberto parte per Trieste per seguire un corso di sei mesi, mamma Giovanna alla stazione Termini lo stringe in un forte abbraccio. Non una lacrima di fronte a lui, ma a casa afferra i panni del ragazzo, li annusa, se li passa sul viso e scoppia in un pianto dirotto. «Robe’, sei nato per farmi soffrire» ripeterà per giorni nella sua solitudine. Un nuovo cambiamento radicale, l’arruolamento in polizia dopo gli anni del liceo vissuti con la paura costante guardando in tv gli scontri di piazza e pregando perché il figlio «ribelle», come lo chiamava una delle sue docenti, tornasse a casa sano e salvo. E pensare che poco dopo sarebbe arrivata anche l’assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, ma Roberto ha fatto ormai la sua scelta definitiva: sarà uno sbirro in prima linea e non un capotreno. In quel periodo Mancini tiene un fitto carteggio con Gianni Angelici e la corrispondenza con l’amico scolpisce il suo stato d’animo. «Il mio allontanamento altro non è stato che il “frutto dei tempi”, non trovarsi più a proprio agio nell’ambiente nel quale sono cresciuto, in cui ho passato i momenti più belli e divertenti nonché i più tristi. Ho condiviso con tutti voi i miei pensieri, i miei stati d’animo di persona triste, ma a un certo momento mi sono reso conto che quelle cose erano ormai superate, storicamente determinate, e che era inutile continuare a vivere situazioni ormai passate, che era futile impegnarsi per ricercare episodi e momenti che, a loro tempo, avevano suscitato emozioni originalissime, ma che ora risultano assiduamente patetiche e nostalgiche.» E ancora: «La tristezza sale sempre più, il senso di nullità pervade tutto il mio essere». Roberto rimugina i pensieri mentre li scrive, quel cambiamento in atto lo sta mettendo senz’altro a dura prova: «Sono privo di qualunque certezza. Mi aiuterebbe molto in questo momento, e anche in altri, averti vicino per cercare di capirci fino al limite del possibile. [...] Erro misero e solo». Al giuramento la famiglia arriva al completo. La madre lo ritrova, fiero, dopo pochi mesi, nella sua divisa di ordinanza. C’è anche lo zio Betto, quello che era stato pestato dai neri, che si guarda intorno attonito e che mai avrebbe immaginato di trovarsi in quel luogo ad applaudire, orgoglioso, il nipote comunista e guardia. Di lì a poco Roberto sarebbe diventato il più giovane viceispettore di polizia d’Italia. Tornerà presto a Roma, al ministero dell’Interno. Come al solito testardo, capace. Sarà lui stesso, sul letto d’ospedale, poco prima di morire, a enfatizzare lo spirito che l’ha sempre contraddistinto, scrivendo: «L’essere quel che sono mi ha penalizzato. La professionalità dovrebbe essere l’unico elemento di giudizio, dovrebbe essere sempre presente nella valutazione delle capacità di un investigatore. E invece no! È obbligatorio obbedire agli ordini superiori al di là di ogni logica, al di là di ogni buon senso e così la carriera è assicurata». E ancora: «Per fare carriera devi essere quel che non sei. Devi uniformarti al comportamento della massa. Non devi discutere le decisioni dei superiori. Soprattutto non devi dimostrare che ne sai di più di chi deve decidere!». Sono queste le regole per avere successo in polizia, ma Roberto non si piega e qualcuno nell’ambiente non gli perdona il suo odio per la neutralità. «Il manifesto» sotto braccio procura la reazione di alcuni colleghi: «Ci siamo messi il nemico in casa» è la frase che serpeggia nei corridoi, e Roberto finisce a mettere in ordine le auto di servizio nella rimessa. All’Ucigos – l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali – dura poco: quello strazio, quell’ordine rarefatto, quella disciplina finta, quell’imposizione, quella boria, quel retaggio fascista non fanno per lui. Roberto parte di nuovo, inizia il suo giro per l’Italia, passerà diversi anni tra la Toscana e l’Umbria. Ogni città amori e sogni, divisa e conflitti. Tornerà a Roma alla Criminalpol per iniziare a occuparsi di crimine organizzato, siamo a metà degli anni Ottanta. Quell’esperienza lo porterà a indagare poco dopo sull’organigramma imprenditoriale, affaristico e politico che ha saccheggiato risorse pubbliche e devastato territori.
Tra roghi e indifferenza la Terra dei Fuochi continua a bruciare, scrive Marco Cesario il 3 Agosto 2015 su “L’Inkiesta”. Napoli. Il viaggio nella Terra dei Fuochi comincia quasi sempre qui, lungo una tetra strada che serpeggia tra caseggiati, pescheti e campi coltivati che s'estendono a perdita d'occhio. L’asse mediano è una strada a scorrimento veloce che collega Napoli e i comuni dell'hinterland partenopeo ai paesi del casertano. Basta percorrerne pochi chilometri per essere investiti dal lezzo acre e pungente dei roghi che spuntano qua e là nel territorio appestando l’aria di chi ci vive. Le rare piazzole di sosta che costeggiano la strada sono trasformate in improvvisate discariche a cielo aperto. Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, fu il primo nel 2003 a coniare il termine “Terra dei Fuochi” in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che tempestavano la zona. Oggi come allora niente è cambiato e l’aria continua ad essere irrespirabile. Ogni giorno decine di segnalazioni vengono raccolte sulla pagina Facebook “La Terra dei Fuochi” mentre i riflettori su queste terre si sono quasi spenti, salvo riaccendersi improvvisamente quanto si torna a parlare di tumori che colpiscono gli abitanti della zona. Percorrendo questa strada, viene improvvisamente in mente quanto nota Alessandro Iacuelli nel suo libro-inchiesta “Le vie infinite dei rifiuti”. C'è stata una vera e propria mutazione del registro dello smaltimento dei rifiuti tossici. La tecnica di smaltimento con grossi camion e ruspe all’interno di cave abusive o laghi artificiali, dopo le decine di inchieste della magistratura, le dichiarazioni dei pentiti e i successivi scavi, è stata oramai accantonata e rimpiazzata da una nuova tecnica, più leggera ma ugualmente nociva perché costante. Il “piccolo smaltimento”. Piccoli furgoni o motocarri con fusti che vengono lasciati in un posto e poi bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. Spesso ad appiccare questi roghi sono poveri diavoli che non sono altro che l’ultima catena del processo. I roghi sprigionano alte colonne di fumo nero e altamente tossico. Ecco cosa rende l’aria qui completamente irrespirabile. I fusti vengono bruciati con una tecnica rudimentale ma molto efficace: una base di pneumatici fuori uso sui quali vengono deposti i rifiuti tossici ricoperti di benzina. A Frattamaggiore, Luigi Costanzo è medico di famiglia ISDE Napoli, e fa parte di una rete di medici che lavora per la creazione di un registro tumori del territorio. «Io sono medico di famiglia – spiega a L’Inkiesta Costanzo - e ho circa 1600 assistiti. Il medico di famiglia è quello che tocca con mano le realtà del territorio e conosce da vicino le patologie che ne colpiscono gli abitanti. Con altri colleghi abbiano cercato di raccogliere dei dati che noi come medici di famiglia abbiano nei nostri database. In questi database è già presente un piccolo registro tumori. Se incrociamo i dati di tutti i medici di famiglia del territorio possiamo, a tempo zero e a costo zero, effettuare una fotografia del territorio. Un progetto del genere è stato fatto a Casoria e si chiama EPI.CA (EPIdemiologia CAncro ndr). Sia i pediatri sia i medici di famiglia hanno estrapolato dei dati ed hanno dimostrato che c’è un aumento d’incidenza di tumori nel territorio dove questi medici di famiglia esercitano la propria professione. Io, per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani. Nello specifico per quanto riguarda il tumore alla mammella, su 1600 pazienti, ho cinque donne che sono al di sotto dell’età dello screening della mammella, che è i 45 anni, affette da patologie tumorali. Oltre a questo però, possiamo anche agire ad un secondo livello, ovvero quello della geo-localizzazione. Conoscendo dove abitano i pazienti possiamo anche geo-localizzare la malattia ovvero sapere se in una determinata area c’è una concentrazione maggiore di patologie rispetto ad un’altra. È un’operazione importante perché in quelle aree in cui ci sono picchi di malattia possiamo stabilire se è stato commesso anche qualche delitto ambientale e lasciare in seguito gli scienziati e gli epidemiologi studiare i nostri dati grezzi e stabilire il nesso e l’impatto sulla salute umana. In attesa del famoso registro tumori dunque possiamo già fornire delle prime risposte a quelli che sono i problemi che attanagliano il nostro territorio». Luigi Costanza è un medico di famiglia: «Per quanto riguarda la mia esperienza, ho assistito ad un aumento di patologie tumorali che colpiscono soprattutto giovani». Era il lontano 1991 quando un certo Mario Tamburino, camionista italo-argentino, correva in ospedale a Pozzuoli per un improvviso bruciore agli occhi che gl’impediva anche di vedere. Di li a poco sarebbe diventato completamente cieco. Quel bruciore era provocato da gocce di una sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti tossici (ben 571) che lui stesso aveva caricato a Cuneo, in Piemonte, presso un’azienda specializzata nello smaltimento di rifiuti pericolosi, e aveva scaricato in una fossa nelle campagne di Sant’Anastasia, a Nord di Napoli. Dall’inchiesta che ne scaturì nacque la parola “ecomafia” e si palesò un business di miliardi tra l’imprenditoria del Nord Italia e la classe politica campana. Due anni prima, nell’albergo ristorante ‘La Lanterna’ di Villaricca, un conciliabolo di politici, camorristi, mafiosi, esponenti della Loggia Massonica P2 e servizi deviati stringevano un patto diabolico per sotterrare nella Campania Felix milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Ma gli scavi sarebbero iniziati molto tempo dopo grazie anche ad un metodo innovativo. A raccontare i passi salienti che hanno portato ai primi scavi è Sergio Costa, generale e comandante Regionale in Campania del Corpo Forestale dello Stato. «È accaduto circa quattro anni fa – dice a L’Inkiesta - quando io sono stato nominato Comandante provinciale di Napoli del Corpo Forestale dello Stato. Essendo considerato un esperto di investigazioni antimafia ambientali, ho iniziato, con quella nomina, a studiare fascicoli, a raccogliere dati e a elaborare un metodo investigativo innovativo: ho messo in relazione tutte le ortofotogrammetrie, le foto aeree degli ultimi vent’anni, le banche dati italiane, le ho raffrontate con ogni singola zona della superficie della Campania, soprattutto le zone di Napoli e Caserta, ed ho avuto l’idea di incrociarle con lo studio dei campi magnetici della crosta terrestre. Mettendo insieme foto in cui è palese che ci sono stati determinati movimenti e dati che dicono che non c’è un campo magnetico normale ma c’è qualcosa di anomalo ho tratto certe conclusioni. In più c’è stata l’attività di polizia info-investigativa (testimoni, denunce, prove sul territorio). Mettendo insieme tutti questi elementi e grazie anche alla creazione di un’équipe di esperti siamo riusciti a convincere il giudice ad effettuare il sequestro ed il successivo scavo. Col tempo abbiamo individuato le discariche di Caivano, Casal di Principe, Castel Volturno, Villa Literno, fino a quest’ultima recentissima di Calvi Risorta che potrebbe essere forse la più grande d’Europa (è grande circa 25 ettari). Finora abbiamo disseppellito circa 5 milioni di metri cubi di rifiuti tossici ma questo potrebbe essere solo il 25% del totale. Il resto è ancora da disseppellire». E i roghi quotidiani? «I roghi - spiega il generale Costa - dal punto di vista criminale, hanno la stessa matrice delle discariche abusive. Si tratta di rifiuti che attività in nero in regime di evasione fiscale ed evasione contributiva smaltiscono, seppelliscono o accatastano e bruciano. Si tratta di aziende che producono in nero e dunque smaltiscono in nero. Se non si aggrediscono queste aziende non si possono ottenere risultati di nota».
Come se non bastassero le tonnellate di rifiuti tossici seppelliti in queste terre oggi il ‘biocidio’ continua dunque sotto forma di roghi, che proliferano a tutte le ore del giorno e della notte, come ricorda l'attivista Vincenzo Petrella dei Volontari Antiroghi di Acerra. «Noi siamo un gruppo di volontari che nasce dalla necessità di dare un freno a tutti questi roghi appiccati a tutte le ore del giorno – spiega Vincenzo – e soprattutto la sera e a notte inoltrata. Giriamo la sera dalle 23 in poi facendo il giro di tutta la periferia a caccia di roghi appiccati, soprattutto in quelle campagne isolate dove potrebbero bruciare per tutta la notte e nessuno se ne accorgerebbe. Noi segnaliamo subito i roghi alle autorità e aspettiamo l'arrivo dei vigili del fuoco. Ma teniamo sott'occhio anche gli sversamenti». Enzo Tosti è un attivista che conosce molto bene le zone e fa parte del Coordinamento Comitati Fuochi. Davanti alla chiesa di Caivano, dove padre Maurizio Patriciello, simbolo della battaglia per la rinascita di un territorio inquinato dai rifiuti versati, s’appresta ad accompagnare un gruppo di missionari nella zona della discarica Resit di Giugliano, spiega: «Quando Legambiente parlò per la prima volta di Terra dei Fuochi parlava di un’area molto circoscritta, ovvero del cosiddetto triangolo della morte tra Nola e Marigliano. Oggi dobbiamo renderci conto che l’area non è soltanto circoscritta a quel triangolo ma è molto più vasta. Partiva da quelle zone per arrivare all’agro aversano e fino al litorale domizio, ovvero un’area che interessa milioni di abitanti. La zona è stata declassata da SIN (sito d’interesse nazionale) a SIR (sito d’interesse regionale) ma non perché la situazione sia migliorata ma perché lo stato se n’è voluto semplicemente lavare le mani. La Campania è soltanto la punta di un iceberg che evidenzia un sistema produttivo italiano ed internazionale non sostenibile e che non tiene conto né della vita umana né dell’ambiente. Il rogo poi non ha una matrice diversa da quella del seppellimento dei rifiuti tossici ed è strumentale ad un indotto industriale che lavora localmente al nero. Parliamo dell’industria tessile e calzaturiera locale collegata con le grandi griffe nazionali ed internazionali. A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi continuano. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». «A che punto siamo oggi? Tutto quello che ha sbandierato il governo non è servito a nulla perché i roghi proseguono. La Terra dei Fuochi continua a bruciare». Enzo Tosti, padre Maurizio Patriciello ed un gruppo di missionari si recano dunque in prossimità della discarica Resit. Qui la camorra ha sversato tonnellate di rifiuti pericolosi. Il 23 luglio scorso un incendio è divampato all’interno della discarica. Dietro le transenne ancora s’intravede un cumulo fumante. «È una sorta di autocombustione interna - nota padre Maurizio Patriciello - Chissà cosa ci hanno seppellito, qui è proprio un inferno e lo stato ci ha completamente abbandonati. Ricordo quando scoppiò il problema dei rifiuti in Campania. Ne hanno approfittato per mettere a tacere il problema più grosso e grave, ovvero quello delle discariche di rifiuti tossici». Enzo Tosti spiega che quando sei sotto vento e quell’aria ti entra nei polmoni stai male. «Io ho avuto conati di vomito e sono stato male tutto un pomeriggio dopo aver respirato quell’aria». È necessario allontanarsi dalle transenne, troppo pericoloso restare li. Dopo qualche minuto, proprio a fianco alla discarica, un contadino passa in auto. Si ferma a parlare con il parroco. «Don Maurizio - dice - qui potete aiutarci solo voi». Fa riferimento non solo alla discarica fumante che intossica l’aria ma anche a quei prodotti che non sono inquinati ma che nessuno compra più. Oramai oltre i danni ambientali ci sono anche quelli collaterali. Anche se i prodotti ortofrutticoli sono controllati e sani è difficile piazzarli sul mercato. Il vento spinge le esalazioni lontano eppure l’odore acre è insostenibile. Per evitare spiacevoli conseguenze, il gruppo si muove poche centinaia di metri più in là per un’altra visita sorprendente. Attaccato ad un'altra discarica e a poche centinaia di metri da un sito dove rifiuti pericolosi continuano a bruciare, sorge un campo rom dove risiedono settanta famiglie (circa trecento persone) di cui duecento bambini. I bambini giocano tra i rifiuti di una discarica a cielo aperto e respirano a pieni polmoni le esalazioni della discarica che pure quando il vento soffia in una certa direzione giungono fino a qui. Difficile non chiedersi come si possa lasciare vivere dei bambini in mezzo a discariche e esalazioni tossiche. È quasi come lasciarli in mezzo alle bombe. I missionari abituati a luoghi poveri d'Africa e del Sudamerica forse non si aspettavano di vedere tanta miseria e abbandono in un paese “civilizzato” come l'Italia. Uno dei responsabili del campo racconta che è lo Stato ad averli messi li dopo successivi sgomberi da altri campi. «Ci hanno messo qui per far morire i nostri bambini di tumore» protestano. Dopo un po’ il gruppo di missionari viene circondato da un gruppo di bambine. Sono incuriosite dai nuovi arrivati. Alcune sono bellissime, dagli occhi verdi ed i capelli arruffati. Altre camminano con i piedi scalzi nella melma sorridendo. Sguardi speranzosi ed innocenti il cui futuro è più cupo che mai. Il pensiero va subito ad Anna Magri, che qui, nella Terra dei Fuochi ci ha perso un figlio, il piccolo Riccardo, di soli ventidue mesi. Coi suoi grandi occhi verdi che si velano di tristezza nel ripercorrere le tappe di quella tragedia, Anna racconta la diagnosi, le cure e poi il terribile epilogo. Da allora, una ricerca continua delle cause e poi l’amara scoperta, quella Terra dei Fuochi e quelle discariche di rifiuti tossici disseminate ovunque. Dal dramma però nasce anche l’esigenza di federarsi con altre mamme, altri cittadini, attivisti per proteggere altre vite innocenti, per scoprire la verità, per aiutare questa terra martoriata a risorgere. Ultime tappa del viaggio a Villaricca. Maura Messina è nata qui ed ha solo ventisei anni quando le diagnosticano un tumore. Ha un’energia contagiosa e gli occhi che sprizzano una gioia quasi incontenibile. «Da quando sono guarita ogni giorno per me è Capodanno» dice sorridendo. Basta guardarla negli occhi per crederle. Ma la sua è stata una battaglia dura, che continua tutt’oggi. Maura racconta le cure, la paura, la difficoltà di mantenere le amicizie, il sostegno della famiglia e del ragazzo che l’hanno aiutata ad affrontare questa dura tappa della sua esistenza. Cosi, decisa a combattere contro il suo personale e terribile nemico, s'imbarca nella prova più dura e dolorosa della sua vita usando anche i mezzi della letteratura e del disegno per sopravvivere. Ne nasce così un diario che, con delicatezza, sensibilità e un tocco d'ironia, racconta per parole e per immagini la storia di una viaggiatrice in un altro mondo, quello difficile e oscuro della chemioterapia, da cui deriva il titolo del suo libro “Storia di una kemionauta” (Homo Scrivens). Non so se è la battaglia contro la malattia ad averla forgiata, la catarsi della letteratura oppure è proprio la sua natura gioiosa ma sentendola ridere di gusto tra le mura serene della sua casa è come se la Terra dei Fuochi tutta intera ridesse. Dei suoi mali, delle sue paure, della sua insospettabile forza.
Il Sud avvelenato dalla “monnezza di stato”: un nuovo libro sulla terra dei fuochi. Antonio Giordano, oncologo e docente alla Temple University di Philadelphia, e il giornalista Paolo Chiariello firmano un libro che ripercorre la storia dello scempio che ha portato alla terra dei fuochi tra le provincie di Napoli e Caserta, tra stato colluso, politica inerte, scienza negazionista e stampa omertosa, scrive Nunzia Marciano il 22 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Monnezza di stato: è già nel titolo, esplicativo, diretto, duro, drammatico e paradossale che ben si comprende il lavoro dovizioso che diventa denuncia di Antonio Giordano, oncologo e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia (oltre che columnist di recente acquisizione de La VOCE di New York), che, a quattro mani con il giornalista Paolo Chiariello, ripercorre lo scempio che ha portato alla terra dei fuochi, al disastro tra le provincie di Napoli e Caserta. Le Terre dei Fuochi nell’Italia dei veleni, questo il sottotitolo del libro con prefazione a cura di Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia edito dalla Minerva Edizioni. Le “terre”, perché non c’è solo la Campania, la morte non c’è solo tra Acerra, Giugliano e Casal di Principe. Il libro va oltre. Scoperchia i legami fittissimi tra la Camorra senza scrupoli, la politica inerte, lo stato connivente, la scienza negazionista e la stampa silente. La strada per uscirne c’è, “la strategia”, ci dice Giordano, “è nelle bonifiche di quei territori e soprattutto nella prevenzione per la popolazione (3,5 milioni di abitanti, nda) che vive quelle zone. Cittadini che sono suscettibili a sviluppare patologie in maniera più elevata rispetto ad altre zone”. Tra gli aspetti clamorosi poi, c’è l’atteggiamento della scienza “omertoso”, come lo definisce Giordano, su qualcosa che si sapeva da 40 anni. E neppure la necessità di non creare allarmismo può giustificare un atteggiamento del genere, poiché, continua l’oncologo, “l’allarmismo vale se si dicono cose non vere”.
Antonio Giordano: prima la conoscenza, poi la protesta. Quante sono le terre dei fuochi? L'Italia è tutta avvelenata?
«Nel libro analizziamo la realtà campana che, grazie all’attività della magistratura, della stampa, ma anche dei cittadini che si sono riuniti, spontaneamente, in associazioni, hanno portato alla ribalta un problema che affligge quel territorio così come altre zone d’Italia e, più in generale, del mondo. Pensiamo, ad esempio, all’Africa diventata la discarica dei Paesi più industrializzati, ma anche all’America. È evidente che il business dei rifiuti tossici è globale e che non conosce confini, tuttavia diversi sono i rimedi. In Texas, per esempio, sono state effettuate opere di bonifica che hanno drasticamente ridotto il problema e l’impatto sulla salute dei cittadini. In Italia troppo poco è stato fatto».
Nel suo libro ha evidenziato i legami strettissimi tra camorra, politica, imprenditoria e, persino scienza. Legami strettissimi, dicevamo. Come combatterli se anche la scienza diventa connivente quando nega l’evidenza?
«Il problema, come diceva, investe differenti categorie sociali. Questo è il motivo per cui non mi stanco di profondere il mio impegno all’interno delle scuole e delle università. La nostra generazione e quella precedente hanno fallito. La speranza del mondo sono i giovani di oggi».
Nel libro si parla di camorra e di mafia, ma anche di terrorismo. Qual è la differenza tra questi due tipi di criminalità?
«Sinteticamente possiamo dire che il terrorismo ha combattuto e combatte lo Stato dall’esterno mentre la camorra, così come la mafia, ha le sue estensioni e ramificazioni negli organi dello Stato attraverso referenti insospettabili e di spicco».
Il suo libro è molto divulgativo. Crede che basti scrivere per diffondere l'informazione? Crede nelle manifestazioni di piazza, nei cortei, nelle associazioni? È quella la strada da imboccare, quella della protesta?
«Credo che la protesta fine a se stessa debba essere definita sterile. La conoscenza dei problemi, invece, e la conseguente protesta, possono accendere i riflettori sulla questione ambientale e sconfiggere l’immobilismo in cui ci hanno costretti a vivere per oltre quarant’anni. Oggi i cittadini vogliono sapere, sono desiderosi di informarsi e di contare nelle decisioni che riguardano se stessi e le loro famiglie. Un esempio recente è quello dei cittadini di Ercolano che si sono stretti intorno al loro parroco, Don Marco Ricci, per raccogliere le firme e denunciare l’aumento delle patologie tumorali in una zona dove insiste una discarica di rifiuti tossici. Ecco l’opinione pubblica ha finalmente coscienza del problema e si unisce per denunciare. Dove i politici non provvedono, tradendo il mandato che gli hanno conferito gli elettori, si trovano di fronte alle proteste. È finito il tempo in cui ci si affidava alla classe politico dirigenziale. Oggi la gente ha capito che deve muoversi in prima persona».
L'America è oramai la sua seconda patria. Ma ci sono anche lì "terre dei fuochi" o è un fenomeno made in Italy?
«È innegabile che anche l’America viva il problema dell’inquinamento. La differenza rispetto all’Italia consiste nella certezza della pena. I colpevoli, una volta assicurati alla giustizia, pagano anche attraverso importanti risarcimenti ai danneggiati e alle loro famiglie. Inoltre, la classe politica americana così come quella amministrativa è più sensibile ed educata alla tutela del territorio. Forse perché beneficia, da sempre, di un maggiore e più costante ricambio generazionale».
Nel 1992, ha individuato e clonato il gene oncosoppressore RB2/p130, che ha una funzione di primaria importanza nel ciclo cellulare dal momento che controlla la corretta replicazione del DNA e, quindi, previene l'insorgenza del cancro. Lei, ad oggi, dirige lo Sbarro Istitute di Philadelphia: quali passi avanti sono stati fatti dalla sua scoperta? Ci sarà davvero un giorno la cura per il cancro? E, infine, crede che se ci fosse una cura "alternativa" questa potrebbe essere ostacolata dalle multinazionali farmaceutiche che non avrebbero interesse a diffonderla?
«I passi fatti dagli scienza dagli anni Novanta ad oggi sono immensi e sono sicuro che nel prossimo futuro ci saranno delle cure sempre più specifiche e tagliate su misura rispetto al male del paziente. Del resto questo già sta accadendo. Relativamente alle multinazionali posso dire che il condizionamento della ricerca da parte loro si concretizza maggiormente in quei Paesi in cui la ricerca è poco finanziata dal Governo, come ad esempio avviene in Italia. In America, invece, questo fenomeno è fortemente ridotto. Le grandi scoperte avvengono all’interno delle Università da sempre sostenute dal Governo Federale Americano. Mi auguro, quindi, maggiori investimenti nel settore della ricerca scientifica in Italia. Nessuno è immune, nessuno è innocente, nessuno che può tirarsene fuori. Tra gli attori del disastro sinonimo di morte che ha infangato anche l’immagine di ciò che ancora c’è di buono, c’è anche la stampa. E senza nascondersi dietro ad un dito, lo sottolinea il giornalista Chiariello: “Il ciclo dei rifiuti – spiega – era in mano ad aziende proprietarie di importanti testate nazionali ed è per questo che i messaggi in passato non sono stati divulgati, anche perché allora senza i social network, non c’era interesse a che le informazioni passassero. Oggi c’è un bel pezzo di società che ha capito che bisogna liberarsi da un'informazione non corretta”».
Una criminalità onnipresente, uno Stato inerme, una politica collusa, un'imprenditoria malsana, una scienza negazionista. E un'informazione che tace. Questi gli attori dello scempio, come descriveresti le responsabilità di ciascuno?
Qualunque discorso serio intorno ai veleni che respiriamo, alle acque avvelenate, alle terre che hanno ingoiato rifiuti d’ogni genere, non può prescindere da una premessa: non esiste solo una terra dei fuochi in Campania. È un dramma che colpisce anche altre regioni dove però si finge che il problema non esista. L’Italia è un Paese che deve sciogliere un nodo serio: ogni anno il giro d’affari in euro del traffico di rifiuti speciali, ossia della sola produzione industriale, si aggira sui sette miliardi di euro. Quel che inquieta è la discrasia nei dati tra rifiuti industriali prodotti e quelli smaltiti. In pratica sappiamo che produciamo un tot di tonnellate di rifiuti industriali, ma poi di fatto legalmente abbiamo dati secondo cui vengono smaltite decine di migliaia di tonnellate in meno. Che fine fanno questi rifiuti industriali che mancano all’appello? Dove vanno a finire? Chi li smaltisce? Dove vengono smaltiti? Molte tonnellate le stiamo trovando sotto terra tra Napoli e Caserta. Noi lo sappiamo. Sappiamo che questi rifiuti sono stati affidati a cifre irrisorie da imprenditori del Nord ai camorristi del clan dei Casalesi che hanno fatto fortune incredibili interrando tutto in Campania e in altre regioni del Sud. Se ne parla poco inspiegabilmente ma Lazio, Molise, Puglia hanno subito lo stesso affronto, le stesse ferite. E ora veniamo al resto della domanda. Tutto questo è potuto succedere perché Stato e Antistato spesso sono andati a braccetto. Negli anni passati si è realizzato tra Napoli e Caserta un patto scellerato tra Stato, Camorra e imprenditoria deviata, sulla pelle dei cittadini».
L’informazione è stata silente, ha taciuto?
«I fatti dicono che un giornalista è stato ucciso (Giancarlo Siani) perché voleva fare luce sui rapporti Stato-camorra. I fatti dicono che uno scrittore, Roberto Saviano, vive scortato, da fantasma, ed è costretto a stare fuori dai confini nazionali perché vogliono ucciderlo in quanto colpevole di aver acceso un faro permanente sui loschi traffici del clan dei Casalesi, quelli che hanno accumulato miliardi di euro con i rifiuti interrati sotto i nostri piedi. I fatti dicono che senza questi giornalisti e senza la gente che è scesa in piazza, si è ribellata, il dramma della terra dei fuochi non avrebbe mai avuto l’attenzione che meritava. Quanto alla scienza negazionista o positivista, non amo partecipare ai dibattiti sul nulla. La scienza si fa nei laboratori e negli istituiti specializzati, dove nasce una sana competizione. Quando la scienza esce da questi ambiti, diventa marketing e spesso fa anche cattiva comunicazione non è più scienza ma qualcos’altro. Non ne posso più di politici che parlano di scienze, scienziati che fanno politica, giornalisti che dicono messa e preti che fanno i reporter».
Vittime delle terre dei fuochi sono i cittadini. Quanta consapevolezza credi ci sia oggi rispetto al passato?
«Credo che l’attenzione e la consapevolezza della gente sia massima in questo momento. Troppi morti per tumori, troppa disattenzione dello Stato hanno costretto la gente a documentarsi, a confrontarsi anche con esperti per capire che cos’è successo, che cosa sta succedendo nella loro terra, perché tanti di loro muoiono di tumori, che cosa c’è di vero nella questione delle falde acquifere avvelenate, dei camorristi che hanno interrato i veleni».
Molti studi sulla terra dei fuochi, che in realtà sono "le" terre dei fuochi, partono dall'America: credi che all'estero ci sia una diversa libertà di ricerca e di conoscenza e, soprattutto, di espressione?
«In Italia libertà e indipendenza della ricerca scientifica, così come la libertà d’espressione e d’informazione sono aspetti della nostra quotidianità da incentivare, migliorare. C’è sempre troppa politica dietro scienza e informazione. Se siamo arrivati tardi a stimolare una sensibilità seria rispetto ai temi dell’ambiente forse la responsabilità è stata anche di una informazione un po’ superficiale e di una scienza che non sempre ha brillato per indipendenza dal potere politico. Sapere che il Governo federale americano trova risorse per finanziare una ricerca sulla salubrità dell’ambiente e delle acque in un pezzo d’Italia (la zona tra Napoli e Caserta) dove ci sono suoi concittadini che lavorano (militari e civili delle basi USA) fa piacere, fa rabbrividire che l’Italia non usi la stessa attenzione per i suoi cittadini sul suo territorio».
Molto spesso la stampa tace perché (come sottolineavi) è condizionata da chi ne detiene la proprietà. Questo significa che in Italia non esiste un'informazione libera? Come può un cittadino fidarsi degli organi di informazione?
«La libertà d’informazione quando è condizionata non la si può più definire libertà, proprio perché ha un limite nel momento in cui può essere condizionata. Dire che dietro certi gruppi editoriali importanti ci sono gruppi economici o anche politici è la rappresentazione di una verità fattuale che rende il nostro Paese una sorta di unicum nella comunità internazionale occidentale. In fondo quando parliamo di confitto di interessi, concentrazioni editoriali, a questo ci riferiamo. Poi però devo aggiungere che anche in questi gruppi editoriali, è il giornalista che può e anzi deve ritagliarsi il massimo della libertà. È qui, in questi contesti, che un giornalista italiano riesce a stabilire se è un cane da guardia delle istituzioni piuttosto che un cane da salotto o da riporto dei potenti di turno».
Monnezza di Stato descrive meccanismi e collusioni. Quali sono le difficoltà che incontra chi vuole raccontarli?
«L’Italia è un grande Paese, una grande democrazia e qualunque difficoltà incontri sul tuo cammino per raccontare una tragedia come quella della terra dei fuochi, dei veleni interrati, del futuro dei nostri figli avvelenato da camorristi e imprenditori senza scrupoli può essere superata grazie alla grande capacità che abbiamo di raccontare la realtà. Non esiste alcun impedimento se non la tua intelligenza nel cogliere il dramma, la tua capacità nel trovare le fonti giuste per raccontarlo e soprattutto il modo per illuminare pagine buie della nostra storia recente. Nella questione terra dei fuochi lo Stato ha avuto gravi comportamenti omissivi e commissivi. Lo Stato è andato a braccetto con i mafiosi in alcuni frangenti. Lo Stato ha agevolato l’esportazione verso la Campania di rifiuti industriali smaltiti illegalmente. Lo Stato ha ora l’obbligo di bonificare e controllare che le risorse usate non finiscano nuovamente nelle mani dei camorristi che hanno sporcato».
Carpiano, la terra dei fuochi in versione lombarda. Veleni oltre i limiti di legge: contaminati ettari di terreni tra il Pavese e il Milanese, scrive Patrizia Tossi il 16 settembre 2015 su “Il Giorno”. Dodici ettari di terreni contaminati dai veleni, un’area agricola coltivata tra il Sud Milano e il Pavese piena zeppa di metalli pesanti, diossina e sostanze potenzialmente pericolose per i geni umani. Secondo il dossier dell’Agenzia di ricerca europea di Ispra, i livelli di diossina presenti nel suolo sarebbero 25 volte superiori ai limiti di legge a causa di presunti «sversamenti pirata». Tutti sapevano da anni: il primo dossier europeo risale al 2007 e poi ce n’è stato un altro nel 2011, ma finora una fitta coltre di silenzio ha avvolto quel «quadrilatero nero» tra Carpiano, Landriano, Pairana e Bascapè. «L’ennesima terra dei fuochi lombarda», denuncia la consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Iolanda Nanni, prima firmataria di un’interrogazione al Pirellone: «Ho iniziato a scavare tra le carte a seguito di una segnalazione dei cittadini – spiega Nanni, da tempo in prima linea per denunciare i problemi ambientali del territorio lombardo – ed è emersa una situazione inquietante. Le due ricerche Ispra attestano la contaminazione oltre i limiti di legge dei terreni da metalli pesanti, Pcb, furani, composti geno-tossici (vale a dire in grado di alterare il Dna, scatenando nel medio-lungo periodo l’insorgenza di tumori), che avrebbero inquinato i suoli con ricadute tossiche e nocive sulla catena agro-alimentare. Le istituzioni sapevano da anni, ma nessuno è mai intervenuto». Il dossier dell’Agenzia europea per l’ambiente non lascia spazio a dubbi e parla di un’area, per la maggior parte, «direttamente e soprattutto indirettamente pericolosa per la salute degli animali e dell’uomo». Ma non solo. «Ispra ipotizza uno ‘spargimento pirata’ di rifiuti tossici sui terreni – continua Nanni – e nello studio 2011 denuncia uno “stato di compromissione del suolo e della stessa vita degli organismi vegetali e animali che sono presenti nel suolo” della zona. È un’emergenza sanitaria gravissima, la Regione non può più tacere. Alla nostra interrogazione devono seguire risposte concrete». La cosa assurda è che quei terreni sono coltivati con prodotti destinati alla vendita, senza che nessun ente abbia mai imposto la sospensione dell’attività agricola, almeno a livello precauzionale. «Mi domando come sia possibile che le istituzioni competenti non abbiano immediatamente denunciato la situazione alla Procura competente – conclude Iolanda Nanni – affinché si verificassero le responsabilità penali, allertando contemporaneamente la Procura Antimafia di Milano. E come sia possibile che, dal 2007 a oggi, le istituzioni non abbiano vietato la coltivazione dei terreni contaminati, al contempo ingiungendo in modo perentorio all’azienda proprietaria dei terreni l’immediata e tempestiva bonifica dei terreni stessi, nonché il sequestro di qualsiasi prodotto agro-alimentare frutto dei terreni contaminati già presente sul mercato». E il sindaco di Carpiano? Nessuna denuncia, nessuna ordinanza per vietare la coltivazione dei terreni, nessun allerta per i cittadini. «E' vero che il caso è noto da tempo –risponde il primo cittadino Paolo Branca – ma la competenza sulla materia ambientale è del Pirellone. La Regione ha aperto un tavolo tecnico per approfondire la vicenda e noi, come Comune, abbiamo partecipato. È stata chiesta all’Arpa un’attualizzazione dei dati con nuove analisi sull’eventuale presenza di sostante inquinanti sui terreni, ma non ha ancora risposto». E prosegue: «Non mi risulta che esista un esposto in Procura. Come Comune non possiamo fare nulla. Il nostro è un territorio molto vasto, quei terreni si trovano lontano dal centro abitato e riguardano più da vicino gli abitanti di Landriano. Non ci sono odori, il caso è talmente datato che la componente volatile di eventuali sostanze inquinanti è già evaporata anni fa. Penso che sia più probabile che ci siano più metalli pesanti e sostanze tossico nocive nel terreno». E la falda? «Difficile valutare se sia stata contaminata la falda, bisognerebbe fare un’indagine accurata. L’agricoltore è attento a non coltivare una determinata area, ma 12 ettari sono tanti, non si tratta di un fazzoletto di terra, non posso dire se i veri perimetri sono gli stessi di quelli indicati dall’agricoltore».
Rifiuti, è qui la terra dei fuochi. Cinque volte più della Campania. La denuncia di fondatore di Marino Ruzzanenti, ambientalista fondatore di «Cittadini per il riciclaggio»: «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni», scrive Bruna Bianchi il 5 giugno 2015 su “Il Giorno”.
Terra dei Fuochi del Nordè un’espressione che fa inorridire.
«E allora chiamiamola l’immondezzaio d’Italia». Marino Ruzzenenti ha l’età della memoria storica, quella di chi ha accumulato la lunga esperienza di cittadino di Brescia e la forza morale di un ambientalista convinto. Non è fanatico, non fa barricate: mette in fila i fatti e i dati. «La provincia di Brescia smaltisce 57 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, quella di Caserta, nella Gomorra di Saviano, 10 milioni».
La verità fa male se si mettono in fila altri dati: l’incanto delle colline moreniche dei laghi, quelle dolci e succose di Franciacorta, le bellezze della Brescia antica attorniate da cave piene di amianto, pcb, metalli ferrosi. Ogni tanto qualcosa si incendia, i fumi neri escono dai comignoli degli impianti di trattamento e poi tutto tace e il lavoro dei camion e dello smaltimento prosegue, un tempo selvaggio, ora approvato a suon di piani e delibere.
«La situazione del Bresciano è del tutto eccezionale. Noi tumuliamo in discarica circa il 70 per cento dei rifiuti speciali della Lombardia. Questo territorio è diventato di rifiuti per vocazione»
Torniamo indietro nel tempo.
«Fino agli anni ’80 non c’era una legge sullo smaltimento dei rifiuti speciali e le cave di terra e sabbia erano buche perfette. Le aziende pagavano il proprietario e buttavano tutto lì».
Che tipo di scorie?
«Il 50 per cento dei rottami dell’industria siderurgica ha trovato posto in tutta la provincia di Brescia».
Altro?
«Non ci manca proprio niente! Abbiamo anche quattro discariche di scorie radioattive. Per una sola, a Lumezzane, è stato costruito un bunker».
E sottoterra c’è quello che ancora non è stato trovato...
«Decine e decine di cave chiuse nascondono rifiuti fantasma ricoperti da terra e erba. Sappiamo che esistono ma non sappiamo dove siano».
Signor Ruzzenenti, lei, insieme a Legambiente e altre associazioni ha fatto un lavoro certosino di denuncia.
«C’è un’indagine in corso alla procura di Brescia sui rifiuti tossici provenienti dall’estero. Come si dice? Rifiuto chiama rifiuto. Ormai qui è stata fatta una scelta produttiva, come le armi. Ad esempio, lo smaltimento dell’amianto a Montichiari in teoria è legale, ma quando un camion si è rovesciato è stato scoperto che non era trattato come avrebbe dovuto essere prima di finire in discarica. I controlli sono praticamente impossibili. Con l’autocertificazione si possono trasformare rifiuti pericolosi in non pericolosi».
È un bell’affare, no?
«Lo stanno facendo a spese nostre. Compreso Manlio Cerroni, il re della monnezza di Roma».
I bresciani cosa dicono?
«Cominciano a ribellarsi, osteggiano le nuove discariche. Hanno già dato tanto».
C’è anche l’inceneritore più potente d’Europa.
«Anche quello. In una città già avvelenata dalla Caffaro...»
Pure la Valcamonica ha scoperto la sua gatta da pelare...
«Il sindaco di Berzo Demo si è ritrovato in casa migliaia di metri cubi di scarti di alluminio provenienti dall’Australia».
Cosa chiede ai politici?
«Basta discariche e almeno una mappatura per sapere dove sono nascosti altri veleni. Non è tutto inquinato, sia chiaro: dobbiamo solo individuare il marcio per evitare che si estenda».
"Terra dei fuochi" alle porte di Torino, scoperta una discarica con 450 tonnellate di veleni. I finanzieri torinesi nella discarica abusiva a ridosso dell'abitato. Blitz della Guardia di finanza a San Gillio, alle porte del capoluogo: denunciato il titolare di un'immobiliare proprietaria dell'area dove erano stoccati rifiuti industriali pericolosi di ogni tipo compresi 120 quintali di amianto. I complimenti del ministro Galletti: "Liberiamo l'Italia dagli inquinatori", scrive il 28 agosto 2015 “La Repubblica". C'erano 450 tonnellate di rifiuti speciali pericolosi in un capannone industriale abbandonato a San Gillio, nel Torinese, alle porte del capoluogo e a ridosso del centro abitato. A scoprire la "terra dei fuochi" piemontese sono stati i militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Torino. I finanzieri hanno notato sul piazzale, visibile anche dall'esterno, "cumuli disomogenei" di rifiuti in evidente stato di abbandono. Dopo aver individuato il proprietario e l'utilizzatore dell'area, che si estende per circa cinquemila metri quadrati, i "baschi verdi" sono entrati per le verifiche sui materiali eseguite insieme all'Arpa Piemonte. E' stata confermata la grave pericolosità dei materiali, riconducibili in parte all'attività di officina meccanica ed elettromeccanica e di stampaggio di materiali a freddo, svolta negli anni scorsi da una ditta di San Gillio dichiarata fallita nel maggio 2006, e in parte ad una società immobiliare attuale proprietaria del sito. Al termine delle attività di rilevazione, spiega la Finanza, sono stati sequestrati rifiuti speciali e pericolosi per circa 450 tonnellate, delle quali 430 provenienti da lavori di demolizione, 12 da fibra d'amianto e la restante parte, per oltre 6 tonnellate, di prodotti chimici da decontaminare. Il percolato dei materiali rinvenuti dai finanzieri, in parte, avrebbe potuto finire negli scarichi per il recupero dell'acqua piovana. Al momento l'amministratore unico dell'immobiliare proprietaria del sito è stato denunciato per deposito incontrollato di rifiuti; è anche stato segnalato al Comune per le violazioni in materia di edilizia e urbanistica, per avere effettuato lavori di demolizione in assenza di autorizzazione. Proseguono gli accertamenti per la messa in sicurezza del sito e per verificare eventuale contaminazione ambientale. "Liberare l'Italia dagli inquinatori": ribadendo questo obiettivo il ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, si è complimentato con la Guardia di finanza. "Le mie congratulazioni - ha detto - per l'importante operazione che ha permesso il sequestro di 450 tonnellate di rifiuti pericolosi nel Torinese. Contro chi avvelena il nostro territorio abbiamo scelto di condurre una battaglia senza quartiere, affiancando al tenace lavoro di magistrati e forze dell'ordine l'introduzione degli ecoreati nel Codice penale: una vera svolta per restituire la certezza ai cittadini di vivere in zone sicure sotto il profilo ambientale e liberare l'Italia dagli inquinatori".
Duemila incendi l’anno, ecco la terra dei fuochi de’ noantri, scrive Grazia Maria Coletti il 12 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Situazione esplosiva nei campi rom. I romani stremati dal fumo si ribellano. E in Campania l’Istituto di Sanità accerta aumento di tumori in 55 comuni La mappa dei roghi. Se ogni porta di casa deve essere una Porta Santa, tuteliamo anche le porte sante delle case dei romani, soffocate dal fumo dei rom. È questo il messaggio che arriva dagli esposti piovuti sui tavoli del prefetto di Roma, Franco Gabrielli e del commissario Francesco Paolo Tronca, impegnati nei giorni del Giubileo e dell’allarme terrorismo. Duemila roghi tossici in un anno e un solo arresto (due rom fermati dai carabinieri a Castel Romano a settembre), è questa la caporetto delle pene esemplari del decreto "terra dei fuochi" che non hanno fermato la terra dei fuochi "de’noantri". E i romani esasperati, chiedono un piano di salvataggio dai "terroristi-rom", «gli unici al momento - dicono - ad attentare alla vita di adulti, vecchi e bambini». Hanno ragione di temere? I risultati drammatici della ricerca dell’Iss sui 55 comuni della "Terra dei fuochi" campana ci dicono che in quella zona «si muore di più che in altre zone d’Italia», ci si ammala «più di cancro», anche tra i «bambini» nella fascia «0-14», e si «registrano più ricoveri». L’Europa ha condannato Roma più volte. 172mila390 i metri quadri di terreno, l’equivalente di 40 campi da calcio, sequestrati come discariche abusive dallo Spe della polizia locale del vicecomandante del Corpo Antonio Di Maggio. Interpellanze del parlamentare europeo Giovanni La Via e della Angelilli. Ma a Roma nessuno ha ancora monitorato l’aria prodotta dai quasi 2mila roghi, contati da Il Tempo con l’aiuto dei cittadini di ogni quadrante, perché una mappa ufficiale ancora non c’è. Considerando una media di 3-4 roghi a settimana, tutti i giorni d’estate, e giorno e notte, accesi anche più volte al dì, nei campi legali e tollerati - che ci costano 24 milioni di euro l’anno - si arriva a quasi mille. Altrettanti nella miriade di accampamenti abusivi, nella riserva delle Valle dell’Aniene, sotto i cavalcavia, sgomberati e ripopolati, con fonderie illegali in ogni quartiere: da Magliana a Tor Sapienza, da Ponte di Nona, a Ciampino, dal Nuovo Salario a Ciampino, da La Rustica fino alla provincia romana, specialmente a est. Come racconta la mappa pubblicata qui a fianco. E quando tira il vento non si salvano nemmeno i Parioli, come aveva già denunciato su queste pagine anche il comico Enrico Montesano. Mentre il web fa il pieno di post sulla pagina facebook "richiesta la chiusura del campo di via di Salone", dove i vigili del fuoco di La Rustica vengono presi sempre a sassate, che porterà alla manifestazione popolare in primavera per chiedere la chiusura anche di via Salviati, La Barbuta, vicino all’aeroporto di Ciampino, Castel Romano sulla Pontina, la Monachina, sull’Aurelia, Lombroso a Torrevecchia. Ma gli inceneritori a tutti gli effetti di rifiuti tossici speciali, da cui si sprigiona diossina, sono presenti anche in centinaia di microaccampamenti nelle radure del Pratone delle valli, nelle valli di Quartaccio, segnalazioni nel quartiere Quintiliani, Pietralata, via dei Durantini. Il comitato di quartiere Tor Sapienza è stato il primo a contare i roghi: «155 roghi in 15 mesi da via Salviati», con il presidente Roberto Torre che nei giorni scorsi lanciava l’anatema contro l’immobilismo. «152 roghi tossici in un anno da via di Salone» dice Franco Pirina, del Caop Ponte di Nona - qui i roghi, ultimamente, durante la notte e solo al mattino la gente si rende conto dell’aria irrespirabile». Il conto sale vertiginosamente con il campo di via Candoni, alla Magliana, e Candoni bis, fucina che arde, notte e giorno, e avvelena l’aria dei quartieri Marconi, Magliana, Casetta Mattei, Muratella, agli autisti della rimessa Atac servono gli antinebbia. Il capogruppo di Forza Italia in XI Municipio, Marco Palma, ha chiesto «l’esercito» al posto dei vigili urbani. «Già messi "ko" da schiere di minorenni». Aperte le «indagini» a un anno dall’esposto in Procura presentato dal consigliere regionale Fabrizio Santori.
Brucia la città, ma nessuno spegne i roghi, scrive Maria Lombardi il 4 febbraio 2016 su “Il Messaggero". Il fumo s'alza sulla via Olimpica, poco prima dello svincolo per Tor di Quinto, e disegna un arcobaleno nero. Dalla nuvola bassa e puzzolente sbucano comitive di rom, scavalcano il guardrail e attraversano la strada anche se non ci sono strisce pedonali, lasciandosi alle spalle il villaggio di lamiere che perennemente arde. C'è una Roma che brucia senza sosta, ignorata, ci sono intere zone della città condannate ai roghi, un inferno velenoso, peggio di qualsiasi altro inferno. C'è un'altra terra dei fuochi a dieci chilometri dal Quirinale e si va allargando. Quartieri soffocati dalle nubi pesanti delle baraccopoli. Magari ci fossero solo le polveri sottili, qui si respira aria ancora più malata e non si sa di che. Anneriranno in fretta le lenzuola bianche che i cittadini hanno appeso alle finestre, verranno presto corrose dai vapori di diossina. «Basta roghi criminali», c'è scritto. Decine e decine di striscioni nei palazzi di Conca d'Oro, Tiburtina, San Basilio, Casal Bertone, La Rustica, Tor Sapienza, Ponte di Nona. Chi abita in queste zone si sente perduto, il fumo dei rifiuti bruciati nei campi per prendere il rame può uccidere. Gli appelli finora non sono serviti, adesso è il momento della protesta corale, l'urlo esibito ai balconi. Roghi criminali, appunto, perché di crimini si tratta. Il reato esiste dal dicembre 2013 «combustione illecita di rifiuti», prevede il carcere dai 2 ai 5 anni, stessa pena per chi trasporta gli scarti con l'intenzione di dargli fuoco. Eppure gli incendi di Roma nessuno riesce a spegnerli.
Terra dei Fuochi, il sequel. Terni, Rieti e Viterbo nuova frontiera per rom e colletti bianchi, scrive “Libero Quotidiano” il 5 febbraio 2016. Terra dei Fuochi, il sequel. Come al cinema, il cancro criminale che affligge la Campania ha un seguito... a Roma e non solo. A raccontarlo è il giudice Mauro Santoloci, gip di Terni, membro della Commissione ministeriale per la revisione del Testo Unico ambientale e autore, con Valentina Vattani, di una collana di pubblicazioni sul tema delle eco mafie, intervenuto a Corretta informazione sui temi ambientali. Fonti ufficiali e fonti ufficiose, corso di aggiornamento promosso dall'Ordine dei Giornalisti dell'Umbria. "Sorvolando Roma di notte – ha spiegato Santoloci – non è difficile individuare un corollario di fuochi, in particolare nei pressi della tangenziale. Sono i roghi appiccati nei campi rom, destinati a smaltire rifiuti. Un meccanismo pericoloso, per la salute e per l'ambiente, nonché nocivo per le attività legali di smaltimento". Secondo le informazioni in possesso del magistrato "i rom si appoggiano ad una flotta di furgoni, guidati talvolta da schiavi bianchi, vale a dire persone disagiate, ad esempio immigrati, che per pochi euro ti smontano un pannello di amianto senza rispettare alcuna regola di sicurezza, lo caricano su un camion, lo portano alla discarica abusiva. Una giro per orchestrato, grazie anche alla conoscenza delle lacune (buchi neri, li chiama il gip, ndr) della nostra giustizia. Ad esempio, un vigile urbano mi ha raccontato che, in due mesi, ha fermato lo stesso mezzo trentasette volte, senza riuscire però a sequestrarlo". Il sequestro non è possibile, perché? La risposta è nell'ex art. 240 co. 1 c.p., che elenca i requisiti di confiscabilità di un autoveicolo usato per un illecito e la cui applicazione potrebbe sollevare incertezze sul nesso di asservimento/strumentalità che deve legare la cosa al reato. Interpretazioni normative a parte, ciò che lascia basiti è la ramificazione di questa piccola criminalità: seppure non classificabile come eco mafia, infatti, la rete rom è estesa è guarda già oltre la Campania e la zona di Roma. Ad esempio, Rieti, Viterbo, Terni sono "candidate" ad diventare una nuova Terra dei Fuochi. Santoloci: "In seguito ad azioni di repressione delle forze dell'ordine, è plausibile che l'attenzione dei criminali si sposti altrove, in città poco distanti dalla Capitale come questa (Terni, ndr) o come il reatino e il viterbese. Dopo aver appurato, chiaramente, che le aree interessate siano più 'tranquille', gli illeciti potrebbero trovare nuovi siti". I campi nomadi nei quali si "accendono" i fuochi sono un problema, vero, ma ostacolo non inferiore è quello dei colletti bianchi, vale a dire professionisti ed imprenditori insospettabili che alimentano il giro di affari che ruota intorno allo smaltimento abusivo. Il gip: "Alla Guardia Costiera chiedo di controllare non solo la bolla di carico, ma anche di aprire i container: i documenti sono in regola, però a bordo della nave hai tonnellate di materiale che poi viene trasformato e che torna, in Italia, sotto forma di prodotto per il mercato". Ecco cosa significa "colletto bianco": far apparire corretto ciò che non lo è. Come uscirne? Fra le soluzioni, il giudice propone anche una "formazione continua" sul tema dei rifiuti per le forze dell'ordine, sia per capire le modalità di gestione del traffico illegale, sia per rendersi conto che la domanda "è di mia competenza"? di fronte ad un potenziale illecito non è assolutamente da porsi. Nessun riferimento, invece, alla questione inceneritori che, proprio in queste settimane, ha ri-assistito a polemiche e manifestazioni di protesta dei comitati ambientalisti. In particolare, nelle ultime ore, il Comitato No Inceneritori di Terni ha aspramente criticato il voto favorevole all'articolo 35 dello Sblocca Italia, che permette la creazione di una rete di smaltimento a livello nazionale. Secondo il Comitato, infatti, ciò andrebbe a scapito di Terni i cui due impianti si troverebbero così a bruciare consistenti quantitativi di immondizia. Una circostanza che nulla ha a che vedere con la lotta al malaffare, ma che tuttavia lascia perplesse le organizzazioni cittadine, preoccupate per le eventuali conseguenze a livello ambientale e sanitario.
Terra dei Fuochi in Toscana, scrive Vanessa Roghi, storica, l'11 luglio 2015 su “Internazionale". Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna. Quando Beppe Fenoglio scrive Un giorno di fuoco, negli anni della sua giovinezza, l’acqua del fiume Bormida è già rossa, porca e avvelenata, ma la parola ambientalismo, in Italia, non esiste o è patrimonio di illuminate minoranze. Non si pronuncia mai, tuttavia, in presenza di un’altra parola: lavoro. Semmai fabbrica, ma lavoro no. Perché, come nella morra cinese, lavoro spazza via ambiente; che, come la carta, avvolge il sasso, la fabbrica. Ma è sempre meno forte della forbice, il lavoro appunto. Quando Beppe Fenoglio descrive il fiume Bormida, l’Acna di Cengio la conoscono solo i suoi abitanti e gli operai che ogni giorno timbrano il cartellino e producono coloranti e gas tossici, da più di mezzo secolo. Quando nel 1963 esce Un giorno di fuoco, Beppe Fenoglio è morto di cancro, ed è passato solo un anno dalla sentenza che ha costretto i contadini della val Bormida a risarcire l’Acna, ora di proprietà della Montecatini, per le spese di un processo durato 24 anni nel quale gli abitanti della valle hanno osato far notare che in effetti va bene l’acqua rossa, ma il fatto che nei campi non cresca un filo d’erba non va bene, o no? La Montecatini è cresciuta negli anni del fascismo, ha allargato la sua attività in vaste aree del Piemonte, della Liguria, della Toscana, dell’Emilia Romagna: risorse da sfruttare, acqua, manodopera a basso costo e sono nate alcune delle industrie più importanti della chimica italiana. “Montecatini”, scrive Alberto Prunetti Amianto “non è quella famosa delle terme e di Miss Italia, ma la Montecatini aspra delle Colline metallifere della Val di Cecina, in alta Maremma. La Montecatini che diventerà Edison, poi Montedison, poi si smembrerà in altre società, svenderà alcuni stabilimenti (…)”. La Montecatini, dalla quale sgorgheranno fiumi e fiumi di storie, storie di minerali e di fabbriche, storie di lavoro, scrive ancora Prunetti, “che hanno avvelenato e rovinato i polmoni con la silicosi, per poi impestare di fanghi rossi il mare di fronte all’arcipelago toscano e alla Corsica, smaltire ceneri di pirite nelle miniere scavate decenni prima e intossicare di metalli pesanti i fiumi e il mare”. Risorse naturali, acqua, manodopera a basso costo: vengono scavate nuove miniere, ampliate quelle esistenti: rame, zolfo, piriti, fino al grande incidente, quello del 1954, quando a Ribolla, vicino Grosseto, esplode il pozzo Camorra e muoiono 43 minatori. La storia è nota. Luciano Bianciardi e Carlo Cassola sulla tragedia pubblicano I minatori della Maremma. Poi arriva la prima grande crisi industriale dopo gli anni del boom, la crisi che porta l’Eni a rilevare la Montecatini, è il 1966, nasce la Montedison, l’Italia è in fase di “congiuntura”, ma l’industria chimica continua a crescere, a creare centinaia di posti di lavoro. La parola ambientalismo è sempre poco usata, poco la usa anche Antonio Cederna, pure tra i pochi in Italia a porre all’attenzione della politica il problema della tutela dell’ambiente insieme a quello della qualità della vita dei cittadini. Proprio nel 1966 pubblica su L’Espresso un’inchiesta sulla distruzione delle coste italiane, la sua attenzione è rivolta principalmente alla speculazione edilizia, nessuno ancora si pone il problema di come ben più grave sia la questione dell’inquinamento. Eppure gli abitanti della val Bormida continuano le loro battaglie, denunciano l’Acna, ancora non esiste l’orrenda espressione nimby (non nel mio giardino) e nessuno si permette di trattarli come dei terroristi, come succederà anni dopo ai loro omologhi della val Susa; ma in quei primi anni settanta lavoro vince su fabbrica che vince su ambiente. Questo fino al 1976 quando esplode a Seveso un reattore chimico destinato alla produzione di triclorofenolo, parola incomprensibile, ma tutti, dai quarant’anni in su ne ricordano un’altra: diossina. Ascoltatelo Marco Gisotti che racconta quel 10 luglio e la diossina sprigionata nell’aria che ricopre tutta la Brianza. Bisogna ricordarsele queste tappe, partire da lontano, allargare lo sguardo nel lungo periodo se vogliamo ricucire le tappe che da Seveso e diossina, e Acna e Cengio, portano a un altro luogo della memoria del movimento ambientalista italiano, ovvero l’incidente della Farmoplant che oggi possiamo ricordare attraverso un libro, La terra bianca, chi l’ha scritto si chiama Giulio Milani, la storia che racconta è questa. 17 luglio 1988. Il serbatoio Rogor della Farmoplant esplode. Tutti ricordano la nube nera che si solleva dalla fabbrica e spinge le persone a fuggire dalla città avvelenata. Quasi un anno prima, il 25 ottobre del 1987 il 75 per cento degli aventi diritto aveva votato per il referendum che chiedeva la chiusura immediata della fabbrica. È il primo referendum consultivo d’Europa per chiedere la chiusura di una fabbrica. L’eco ormai attutita di Seveso è appena stata risvegliata dal boato di Cernobyl. Risponde sì il 71,69 per cento, la fabbrica deve essere chiusa, perché dall’anno della sua apertura, il 1976, ci sono stati quaranta incidenti, il più grave, un incendio nel 1980 al magazzino esterno del Mancozeb – un pesticida cancerogeno tutt’ora impiegato in viticoltura. Segue la revoca immediata delle licenze per la produzione di Rogor e di Cidial, i due insetticidi considerati più pericolosi. Il 2 novembre 1987, scrive Milani, “la gerenza della Farmoplant licenzia in tronco tutti i dipendenti, perché afferma che senza la produzione di queste due richiestissime sostanze non ci sono le condizioni per proseguire l’attività”. Ma la Farmoplant vince il ricorso e tutti i lavoratori sono di nuovo assunti. Lo stabilimento riprende la produzione. “Naturalmente il Comune di Massa, Lega ambiente e i Verdi fanno ricorso al Consiglio di Stato contro la sospensione del Tar, e a marzo del 1988 il Consiglio di Stato sospende la sospensione”. Seguono mesi di commissioni, ricorsi e controricorsi. Il ministro dell’ambiente è Giorgio Ruffolo, la persona giusta al posto sbagliato, come titolerà il mensile di Legambiente, per la sua inerzia nell’affrontare il disastro che gli si riversa addosso. E arriva l’estate del 1988: gli ambientalisti propongono di impiegare gli operai, “durante la riconversione dell’impianto, nella bonifica dei 65 ettari di terreno contaminato dal complesso industriale, ma il progetto non viene neppure preso in considerazione dalla Montedison”. Nessuno si pronuncia, né il sindaco, né il ministero, né il consiglio dell’azienda. “In questa attesa il 17 luglio esplode proprio il serbatoio dei formulati liquidi che conteneva Rogor e cicloesanone”. L’annuncio del tg diffonde il panico nelle regioni confinanti malgrado il tono pacato al telegiornale di Luigi Frajese. Muoiono i pesci, muoiono le anguille, il divieto di balneazione appare sulle spiagge di Massa. Ma cresce la consapevolezza che senza determinate condizioni di sicurezza lavorare uccide, non stanca, come scrive nel suo libro un altro figlio di queste terre, Marco Rovelli. Un disastro ambientale che riguarda però anche un altro fondamentale settore produttivo, e questa è l’altra grande storia che Milani ricostruisce: “È stata Tangentopoli a indicare in che misura anche per il versante ligure-apuano e apuo-versiliese l’infiltrazione mafiosa – insieme all’arrivo della chimica di Raul Gardini – abbia accompagnato la nascita di un’economia di rapina a esclusivo appannaggio delle multinazionali del carbonato di calcio, fondata sul riciclaggio di proventi al nero e il commercio di rifiuti pericolosi”. Salvatore Calleri è il presidente della fondazione Caponnetto e, racconta Milani, ha denunciato come la Toscana, con trentacinque diverse organizzazioni criminali censite, non sembrasse rendersi conto di rappresentare una potenziale terra di conquista delle mafie. La chiama, Calleri, auto-omertà. Un silenzio indotto dalla paura di andare a incidere negativamente sulla rappresentazione pubblica della Toscana, marchio nel mondo, di buongoverno unito ad assenza di inquinamento del territorio, ma la “terra dei fuochi”, dice uno dei testimoni del libro di Milani “è anche qui, da noi e da ben prima”. Decidere quale sia la vocazione di un’area non è cosa semplice: polo chimico o cave di marmo, o addirittura turismo, o altro? “La Farmoplant”, scrive Milani, “chiude nel 1988. La Dalmine nel 1990, è l’ultima grande industria ad andarsene dalla zona. Gli operai della Dalmine sono l’aristocrazia. Ma dalla sera alla mattina perdono il lavoro in 1.500”. A quel punto la vocazione sembra essere una e una solo, quella del marmo: “Adesso i sindaci si stracciano le vesti per i lavoratori del lapideo”, dice a Milani un operaio in pensione, “ma in tutta la provincia è un miracolo se contano ancora duemila occupati con l’indotto e sono disposti a perdere la ricchezza delle montagne e dell’acqua, a sborsare cifre colossali per il continuo ripristino del dissesto prodotto dall’escavazione, dai trasporti su camion e dalla strozzatura della rete fluviale, a mettere a repentaglio la vita delle persone sotto le alluvioni e le frane pur di salvarli: chiediamoci come mai”. Qualche anno fa Roberto Barocci ha pubblicato un prezioso libretto, ormai esaurito, per Stampa alternativa, si intitolava ArsENIco. Come avvelenare la Maremma fino alla catastrofe ambientale. In questo si faceva la stessa, identica domanda: perché le istituzioni avevano accettato l’inquinamento delle zone minerarie della bassa Toscana, il colpevole ritardo delle bonifiche ambientali, ritardo che aveva finito per avvelenare terreni e corsi d’acqua, e corpi, dalle Colline Metallifere giù fino alla costa? Si domandava l’autore nell’introduzione: “Chi governa nel nostro paese? Nella Regione Toscana? Dove vengono prese le decisioni importanti che riguardano le risorse strategiche, dalla salute alle risorse idriche, al lavoro, alla qualità dell’ambiente…? Chi sono i mercificatori che si piegano a interessi di pochi e riescono ad imporre queste scelte anche agli onesti? Come può avvenire tutto ciò?”. “Avevamo bisogno di lavorare e le cose che dicevano sulla pericolosità delle produzioni ci parevano esagerate. Le istituzioni, i partiti, i sindacati, i tecnici: per tutti l’insediamento era sicuro, anzi, una vera benedizione per la zona industriale e per il nostro avvenire. I quadri dell’azienda abitavano nei dintorni della fabbrica, ma anche i politici abitavano non lontano. Se il pericolo c’era, c’era per tutti. Come si poteva pensare di essere ingannati fino a questo punto?”. Alla fine, comunque, questo rimane l’interrogativo più lacerante lasciato aperto dall’inchiesta di Milani, non le mafie, non le morti, non la fine del lavoro, ma questo: se il pericolo c’era, c’era per tutti, perché inquinare, avvelenare, uccidere? Mi raccontava qualche anno fa Sandro Veronesi una scritta che aveva visto una volta su muro: “Chi inquina l’acqua beve pure lui”. Ci ho pensato tutto il tempo a questa scritta mentre leggevo il libro di Milani, così come ho pensato alle acque rosse del fiume Bormida, all’arsenico della Maremma. Chi inquina la terra ci vive pure lui. Deve essere dunque solo una questione d’amore, senza altre spiegazioni, come suggerisce nella sua recensione a Milani, Annalisa Andreoni, parafrasando Brecht: “Sventurata la terra che non è amata dai suoi”.
Cantone: “Balle spaziali sulla Terra dei fuochi, mai trovato un fusto radioattivo”. “Vivo a Giugliano, piena Terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento”. “Mai trovati fusti radioattivi. Mai, nemmeno un fusto. Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione”. “Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochi’”. Raffaele Cantone (da un’intervista di al quotidiano Il Foglio – di Salvatore Merlo).
Lo smacchiatore d'Italia. Renzi e De Magistris, la politica e la giustizia, le banche popolari e l’antimafia, la simpatia per il Msi e il rischio di fallire. A tu per tu con Raffaele Cantone. Scusi dottore, lei è un moralista? “Ebbene sì”, scrive Salvatore Merlo il 2 Gennaio 2016 su “Il Foglio”. L’immagine suggerisce confidenza. Quante volte al giorno sente Renzi?
“Poche. Usiamo WhatsApp”. Ovviamente lei è un elettore del centrosinistra, si sente dire questo gran togato che gode della massima fiducia di Matteo Renzi. Silenzio. Occhi in movimento, come seguissero di soppiatto qualche orbita segreta, ticchettando calcoli occulti. Sorriso appena diffidente. Poi tutto d’un fiato: “Veramente ho votato anche altro”. Non mi dica Berlusconi. “Questo non dovrei dirglielo, ma una volta da ragazzino a Napoli feci ‘filone’ a scuola…”. E che sarà mai. “… E andai con gli amici a sentire un comizio di Gianfranco Fini che era allora il capo del Fronte della gioventù”. Ma va’. Poi Alleanza nazionale? “Movimento sociale. La mia collocazione è la destra”. Legge e ordine, dunque. Nulla a che fare, come si vede, con la formazione politico giudiziaria di Pietro Grasso o di Luciano Violante, più Antonio Di Pietro che Gian Carlo Caselli. “Ma non ho mai fatto politica, nemmeno all’università. Credo di non aver mai nemmeno votato per i rappresentanti d’istituto al liceo. Non mi sono mai iscritto a un partito”. E adesso? “Adesso faccio il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione”, trecento persone impiegate in un labirintico palazzo che si affaccia su Galleria Sciarra, a un passo dalla Fontana di Trevi, un luogo che per sapienza del destino fu anche l’epicentro del primo grande scandalo di corruzione della storia d’Italia: nel 1893 il padrone di casa, principe Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, fu implicato nell’affaire della Banca Romana. Così Raffaele Cantone, questo signore magro, di media altezza, semplice nel vestire (con un tocco eversivo: calze a rombi colorati in campo verde), cade ironicamente dalle nuvole: “Lei apre nuovi orizzonti alla mia fantasia”. L’autorità Anticorruzione nel palazzo del primo grande scandalo di corruttela. “E’ un divertente contrappasso”. Ma viene pure da pensare che altro stile non ci sia stato mai, sotto sotto, nelle cose d’Italia. “La corruzione è un fatto sistemico, fisiologico”, arieggia lui, con l’espressione dell’entomologo che descrivendo gli insetti giustifica anche la propria esistenza. “Nel 1900, il presidente del Consiglio Giuseppe Saracco istituì una commissione per indagare sulla corruzione e il clientelismo nel comune di Napoli. Gli atti di quella commissione sembrano scritti oggi”. Manzoni diceva che l’Italia è “pentita sempre e non cangiata mai”. E Cantone: “Se dovessimo ritenere che l’illegalità è immanente, dovremmo dire che c’è un tratto antropologico nel nostro paese. E io questo non posso accettarlo”. Renzi ha caricato di aspettative salvifiche totali questo magistrato che molti anni fa fece condannare all’ergastolo il boss della camorra Francesco Schiavone (“mai fatto il giudice, soltanto il pubblico ministero”). E già qualcuno lo chiama lo “smacchiatore”, come fosse un prodotto per lavanderia, da supermercato, da banco, è pronto all’uso e non c’è nemmeno bisogno di agitarlo: l’Expo (“è stato un successo, potremmo vivere di rendita ma non lo facciamo”), Mafia Capitale, poi le ecoballe in Campania, e ora anche le banche popolari, dopo il fallimento di Banca Etruria e di Banca Marche. “La storia degli arbitrati apparentemente non c’entra niente con l’Autorità anticorruzione”, ammette l’uomo della renziana provvidenza. Ma poi aggiunge: “Il nostro compito è di creare un meccanismo, un sistema per stabilire chi avrà diritto agli indennizzi e chi no”. Ma non tocca alla Banca d’Italia? “Quando avremo finito questa nostra conversazione dovrò incontrare il governatore Ignazio Visco. Ma guardi che l’Autorità è già dotata di una camera arbitrale. Voglio dire che non ci occupiamo di una faccenda completamente estranea alle nostre competenze. Insomma, non ci è stato mica chiesto di riformare il calcio!”. E appena pronuncia queste parole Cantone si blocca, come sfiorato da un’inafferrabile ombra associativa, da un dubbio… E se succede? Mai dire mai, dottore. Non sia precipitoso. E d’altra parte lui è stato investito del ruolo di autorità morale, di vestale della legalità, di salvifica fatalità dell’italico destino, anche se dice che non è vero, che è una supersemplificazione rozza, persino inquietante. “Cercare un salvatore è molto deresponsabilizzante per una società”, dice. “Sono le democrazie poco mature che cercano demiurghi e super-eroi”. Il Foglio lo ha spiritosamente eletto uomo dell’anno appena trascorso: il suo nome rimbalza ogni giorno e più volte al giorno tra i più alti seggi dell’empireo politico nazionale. Cantone è stato candidato a tutto: sindaco di Roma, presidente della Campania, sindaco di Napoli, e persino presidente della Repubblica. “La invito a verificare l’abisso che c’è tra le funzioni che i giornali tendono ad attribuirmi e quelle che effettivamente esercito”. E allora gli si riferiscono alcuni commenti ironici che lo riguardano, su Twitter. “Anche io vado a dormire. #Cantone mi rimbocchi le coperte?”, scrive @ValentinaMeiss. Poi un falso e ironico Gianni Cuperlo: “Dalle urne spagnole esce un paese ingovernabile. L’unica è chiamare Cantone”. E ancora: “Stanotte l’ho visto finalmente. Cantone Natale che scendeva per i camini a portare i regali”. E poi @FabrizioRoncone: “L’Inter ha chiesto a Cantone di seguire dal punto di vista psicologico Melo. Cantone, all’inizio un filo riluttante, ha accettato”. Persino Mara Maionchi, la madrina di “X Factor”, alla domanda su chi secondo lei dovrebbe essere il prossimo giudice nel reality show di Sky ha risposto così: “Ma che domande sono? Cantone, ovviamente”. Lui ascolta e sorride, con un atteggiamento di ritegno che pare allo stesso tempo di allerta. “Di tutto questo colgo l’aspetto ironico e positivo”, soffia, con una limatura di sorriso. “Ma respingo l’idea che io sia una specie di mister ‘Wolf’ o peggio una fogliolina di fico. E poi, guardi, che essere evocato per un compito non significa che lo stai svolgendo”. Sindaco di Roma? “Nessuno me lo ha mai chiesto, e io non avrei mai nemmeno accettato”. Sindaco di Napoli? “Me lo chiesero”. Eh, allora vede. Ora a Cantone tocca occuparsi anche delle banche, degli indennizzi, degli arbitrati… “Non sfuggo alle responsabilità, se sono confacenti alle funzioni della struttura che presiedo. Sarebbe sbagliato tirarsi indietro. Ma non sono disposto a fare cose per le quali mi sento inadatto. Roma, per esempio, non è la mia città. Non farei mai il sindaco”. E insomma ad animarlo è la certezza di essere attore e non agito. E c’è d’altra parte una foto, scattata da Filippo Sensi, il portavoce di Palazzo Chigi, nella quale Renzi è ripreso di spalle mentre Cantone gli sussurra qualcosa all’orecchio. L’immagine suggerisce confidenza, un rapporto intimo e segreto. Quante volte vi sentite al giorno? “Quasi mai”. Mai? “Ogni tanto un messaggio su WhatsApp”. E all’orecchio di Renzi lei cosa sussurra? “Davvero non sono in grado di sussurrare nell’orecchio del presidente del Consiglio… Che peraltro è uno che non si fa sussurrare nell’orecchio da nessuno”. Non ascolta. “Tiene in considerazione le opinioni”. Diciamo così. Anche nel governo Berlusconi, con le dovute differenze, s’intende, c’era una specie di Raffaele Cantone. Era uno che faceva tutto, risolveva problemi, si chiamava… “Guardi che faccio gli scongiuri, se mi paragona a Guido Bertolaso”, ride. Perché gli scongiuri? “Perché è finito male. Bertolaso è stato molto a lungo un personaggio positivo. Poi è andata com’è andata. Alla fine, gratta gratta, questo è sempre il paese dell’osanna e del crucifige, è sempre il paese di Masaniello. C’è una parte d’Italia che prova una contorta soddisfazione a veder cadere un simbolo nella polvere. La caduta permette poi di dire che nei comportamenti borderline siamo tutti uguali”. Ma in realtà la storia politica d’Italia è piena di tecnici finiti malissimo, e non per comportamenti borderline. Persino Mario Monti oggi si aggira per il Senato con la maestà malinconica delle rovine. E lo stesso vale per i troppi commissari alla spending review, per i super prefetti delle mille emergenze italiane e per tutti i salvatori della patria che con indifferente pendolarità questo paese ha masticato e sputato via in sembianze tragiche, o macchiettistiche. Tutte falene che si accostano al freddo fuoco del linguaggio politico e vengono immancabilmente e cinicamente buttate via dai loro sfruttatori non appena le loro grazie appassiscono. Dottor Cantone, per lei sarà diverso? “La tendenza a nominare commissari ogni volta che c’è un guasto è la prova che il sistema non funziona. Ma io non sono chiamato a gestire un’emergenza, non sono il tipico commissario, parola che evoca l’idea della straordinarietà. Il mio è un compito che sta nella fisiologia dell’amministrazione”. E davvero tutto in lui svela l’impegno di una vocazione stabilita fin dalla sua nomina, mantenuta nell’intonazione libera, ma accordata sui tempi musicali del renzismo, persino nel sorriso, che in lui non è raro ma è attento, come studiato. Lei è un moralista, dottor Cantone? “La parola morale non mi dispiace. Preferisco però la parola ‘etica’, quell’insieme di principi ai quali ancorare la propria attività. Dunque se con moralista si vuol intendere qualcuno che crede nella forza dell’etica, allora sì, sono un moralista”. In un paese in cui tuttavia i moralisti sono finiti troppo spesso moralizzati. L’Antimafia sociale, politica e giudiziaria è precipitata in una nera pozza con l’affaire dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata per corruzione e abuso d’ufficio a Caltanissetta. “L’incarnazione più completa e sorprendente, preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia”, dice Cantone. La morale è dovunque conforme ai valori mutevoli nello spazio e nel tempo: con la prerogativa però, in Italia, di essere di generale convenienza. Si fanno anche carriere politiche così. “Perché l’Italia ha sete di legalità. Dunque ci sono anche i cinici, gli opportunisti, o gli sciocchi, come viene spesso raccontato, che la utilizzano. Ma io mi chiederei perché esiste questa patologia politica”, la patologia dei magistrati che per esempio fanno grandi inchieste pirotecniche, poi le abbandonano prima della sentenza come Antonio Ingroia, e ancora prima che un giudice smonti tutto in tribunale si candidano alle elezioni. “Questa patologia esiste perché c’è una domanda forte di legalità nel paese, che si esprime anche in questo modo. Con tutti gli inestetismi del caso. Luigi De Magistris, quando venne eletto deputato europeo, fu tra i più votati in assoluto. E a Napoli, quando si è candidato sindaco, è stato un plebiscito. La domanda da farsi è: perché De Magistris prese tutti quei voti?”. E perché li prese? “Li prese perché le persone ritengono che quello della legalità sia un nervo scoperto del paese. Se la gente vuole l’angelo vendicatore c’è un motivo. Può essere che sia immaturità dell’elettorato, ma può darsi che invece sia soprattutto un fortissimo desiderio di legalità. Allora la politica invece di lamentarsi della patologia, dovrebbe domandarsi perché la patologia ha grande successo. E porvi rimedio”. L’inchiesta che rese famoso De Magistris, la notissima Why not, si è poi afflosciata come un pallone sgonfio, anzi alla fine a essere condannato dal tribunale di Roma è stato proprio De Magistris: un anno e tre mesi per abuso d’ufficio. “Il paese accetta gli errori, le contraddizioni, gli inestetismi e le cadute di stile, come quella di candidarsi nello stesso collegio in cui si è indagato con grande clamore. Accetta persino il sospetto della strumentalità, e lo fa perché questi aspetti sono considerati meno importanti di una battaglia di principio. Della battaglia per la legalità”. E lei dottore, lei ritornerà a fare il magistrato? “Ad oggi la mia idea è di tornare in magistratura, ma il mio incarico all’Autorità anticorruzione scade nel 2020”. E insomma c’è tempo. E mai Cantone è stato iscritto a un partito, come dice. Ma a una corrente della magistratura, sì. “Al Movimento per la giustizia, che era la corrente di Giovanni Falcone. Sono stato presidente dell’Anm regionale in Campania. Sono stato segretario del Movimento per la Giustizia a Napoli, ho sempre fatto parte attiva nel mondo della magistratura organizzata. A Napoli creammo una lista che si chiamava “Primo maggio”, c’era anche De Magistris”. Siete amici. “Con Luigi? Eravamo amici, anche se lui mi ha un po’ punzecchiato di recente. Aveva la stanza accanto alla mia in procura”. E De Magistris, o’ sindaco di Napoli, è uno dei tanti magistrati contagiati dall’infezione della politica, uno di quelli che ha fatto “l’operazione”, contribuendo non poco all’ambiguità dei tempi. “De Magistris si è dimesso dalla magistratura”. Ma non sono troppi i magistrati in politica e nelle amministrazioni, persino quelli in aspettativa? “E’ un diritto che non si può negare, e un sistema che non garantisca il libero accesso alle cariche amministrative o rappresentative sarebbe un sistema ben poco democratico. Certo, ci vogliono regole d’accesso, ma il pluralismo delle provenienze arricchisce la democrazia. Il problema vero è il periodo successivo, sono le cosiddette porte girevoli”. Cioè i magistrati che dopo aver fatto politica tornano a indossare la toga, e senza passare dal via. “Alfredo Mantovano oggi è giudice in tribunale”, ricorda Cantone. E Michele Emiliano, da pubblico ministero di Bari, nel 2004 si fece eleggere sindaco della città in cui aveva indagato. Oggi è presidente della regione Puglia. Emiliano è un politico o è un magistrato? “La scelta delle dimissioni è un fatto personale. Non può essere obbligatorio”. Tuttavia Pietro Grasso si è elegantemente dimesso dalla magistratura. “Ma era prossimo alla pensione!”. Pausa. Sorriso. “Guardi, una cosa è sicura: chi ha fatto politica, poi non può tornare a fare il giudice esattamente come gli altri”. Sabino Cassese ne ha scritto sul Corriere di recente, persino il Csm ha evidenziato il problema. “Ma non può essere il Csm a intervenire. Sono la politica e il Parlamento che devono fare una scelta di fondo. La magistratura ordinaria ha già fatto molto, come organismo, nel “self-restraint”: ha rinunciato agli arbitrati, alla giustizia sportiva… Tocca alla politica assumersi la responsabilità di una scelta. Non si può prevedere per legge che un certo ruolo all’interno del ministero della Giustizia sia riservato a un magistrato, e poi stupirsi con recitato scandalo se è un magistrato a ricoprirlo”. E forse vuole dire che in questo astratto paese il nodo pratico e urgente delle questioni si diluisce sempre in dosi omeopatiche tra sguaiatissimi dibattiti da talk-show serale, tra furbizie e urlanti sceneggiate. E un motivo c’è se Cantone non è precisamente amato dai suoi colleghi dell’Associazione nazionale magistrati. La sua è una lingua basica, apparentemente priva di trappole, trabocchetti, doppi fondi. Sulla Terra dei fuochi, per esempio, Cantone non liscia il pelo del senso comune: “Vivo a Giugliano, piena terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento”. Fusti radioattivi, inferno atomico nelle campagne intorno Casal di Principe. “Mai trovati. Mai nemmeno un fusto. E quando sono stati trovati rifiuti interrati, non erano mai dove diceva lui”. Ma la televisione sparava forte, per mesi, ci fu anche una prima pagina del New York Times. “Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione”. A Caivano, padre Patriciello, prete di strada e di popolo, malediva i pomodori dal pulpito. “Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochi’”. E insomma, dice Cantone, l’emotività è gratuita, fine a se stessa, il suo proposito non è la risoluzione dei problemi (che per loro natura sono pratici, non filosofici né sentimentali), ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al suo libero e spensierato gioco ai danni dell’azione e persino dell’efficienza. E queste sono evidentemente posizioni che gli condensano attorno al capo vaste nubi di antipatia. Come quando, a Milano, presentando il libro dell’ex magistrato Piero Tony, disse che le correnti della magistratura “sono un cancro”. E Md? “Non mi piace l’utilizzo della giustizia come lotta di classe”. E l’Anm? “Non mi sento rappresentato”. E il Csm? “Un centro di potere vuoto”. Oggi Cantone dice che “molti di quei giudizi erano semplificati, perché si trattava della presentazione di un libro. E forse certe parole non le avrei dovute utilizzare, anche se esprimevano concetti di cui sono ancora persuaso. Per quelle frasi ho ricevuto attacchi violentissimi sulle mailing list della magistratura, ma ho anche ricevuto un numero rilevante di messaggi privati, di mail di incoraggiamento personale, da parte di moltissimi colleghi, attestati che ritengo importanti”. Anche l’Anm l’ha criticata. “Persino in questi giorni leggo giudizi molto severi nei miei confronti sulla questione degli arbitrati, critiche da parte di colleghi che a Napoli appartengono alla lista dalla quale anche io provengo, magistrati che forse mi votarono persino. Vede, l’Anm non è la magistratura. E la magistratura non è un monolite. E’ un potere diffuso che rozzamente alcuni politici pensano si muova come un partito. E’ ridicolo. E’ una cosa tecnicamente impossibile. La magistratura è composta da molti uomini e molto diversi. E anche l’esercizio di critica, la vivacità persino dura con la quale si discute, ne è una prova, oltre a essere un sintomo di salute democratica”. Berlusconi parlava di partito dei giudici. “Non solo Berlusconi. Ci sono uomini politici che pensano di poter influenzare un tribunale o una procura favorendo delle nomine, ingraziandosi alcune personalità della magistratura. Ma non è così che funziona. Questa è un’idea sciocca. Con tutti i suoi difetti la magistratura italiana non soltanto è un’istituzione libera da condizionamenti, ma è un fondamentale presidio di legalità”. Con tutti i suoi difetti. “La magistratura ha spesso esorbitato, ci sono stati esempi di protagonismo esasperato. Ma l’umanità, si sa, è un legno storto”. E bene ancora non si capisce quale ruolo lui sia destinato a giocare in quel labirinto di specchi, strumentalizzazioni e furberie che da circa vent’anni è il conflittuale e intrecciato rapporto tra politica e giustizia. Mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, attore del renzismo e agito da Renzi, sottoposto alla maledizione che sempre grava sugli uomini della provvidenza, Cantone è una delle creature più enigmatiche della nuova era italiana: non è Di Pietro e non è nemmeno De Magistris, non è uno di quei pm che ha indagato la politica e ha poi indossato la pelle dell’imputato. “Faccio solo il mio mestiere”, dice lui, gettando uno sguardo distratto all’orologio, nel suo studio ammobiliato come un ministero di fascia alta, divano e poltrone come si deve, l’arazzo settecentesco, il ritratto del presidente della Repubblica. “E’ mezzogiorno, devo scappare”, dice. Va dal governatore della Banca d’Italia. Come un ministro. Forse di più.
Tutta la verità e le intercettazioni sui giornalisti a “libro paga” dell’ILVA. Scrive “Il Corriere del Giorno” il 4 ottobre 2014. E nel frattempo da 2 anni l’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, sui giornalisti coinvolti nelle intercettazioni dorme sonni profondi. Sino a quando? Un folto pubblico di giornalisti, era presente nella biblioteca civica “Acclavio” a Taranto dove si è svolta due una conferenza sul tema: “La deontologia dei giornalisti nei massimari della giurisprudenza dell’Ordine”. Un’ occasione solo per raccogliere ulteriori crediti (in questo caso 5) per assolvere all’ obbligo formativo richiesto a tutti gli iscritti all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, o forse per alcuni la voglia di pulire la propria coscienza? Presenti fra i relatori il vice presidente del Consiglio di Disciplina Nazionale Elio Donno, il consigliere dell’Ordine pugliese Piero Ricci e il presidente del Consiglio di Disciplina pugliese Paolo Aquaro. La presenza del collega Aquaro, che sta seguendo insieme agli altri componenti del Consiglio di Disciplina un procedimento disciplinare sui comportamenti vergognosi di alcuni giornalisti tarantini coinvolti a pieno titolo, e per loro fortuna allo stato attuale senza responsabilità penale, nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” avviata dalla Procura della Repubblica di Taranto e conclusasi con un recente richiesta di rinvia a giudizio per 49 imputati e 3 società, . Un’indagine interna, quella dell’Ordine dei Giornalisti della quale si attendono da oltre due anni gli esiti. Lo scorso 30 novembre del 2012, il Consiglio dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, si riunì in seduta straordinaria con all’ordine del giorno l’ esame della squallida vicenda che coinvolgeva dei giornalisti tarantini, emettendo uno scarno comunicato di poche righe per dire semplicemente quanto segue: “Il Consiglio ha deciso di procedere ad approfondimenti ascoltando in fase preliminare i giornalisti coinvolti che saranno convocati nei prossimi giorni, perché possano fornire la loro versione dei fatti”. Sono passati due anni da quel giorno ed un’imbarazzante silenzio è calato su questi approfondimenti. Pressochè impossibile, ricevere qualssi tipo di aggiornamento, notizia, neanche la più piccola indiscrezione sullo stato dell’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti pugliese. L’unica certezza è che vi sono state le audizioni di alcuni giornalisti che negli anni scorsi avevano fatto da scendiletto ai dirigenti dell’ILVA ed in particolare all’addetto alle pubbliche relazioni Girolamo Archinà, successivamente licenziato dai Riva. Di concreto, come immaginabile, nulla. Il silenzio più totale. Alcuni dei giornalisti coinvolti, paradossalmente ricoprano incarichi direttivi in giornali e telegiornali tarantini. Resta da capire con quale credibilità per loro e le varie testate. Durante la solita “lezioncina” sul corretto svolgimento della professione giornalistica, è arrivata la coraggiosa domanda che ha creato non poco imbarazzo ai giornalisti presenti: “scusate, a che punto è il procedimento disciplinare per i giornalisti intercettati nell’inchiesta Ambiente Svenduto?” A farla coraggiosamente, ma soprattutto giustamente è stato il collega Cataldo Zappulla, un coraggioso freelance, rivolgendosi a Paolo Aquaro. La risposta-reazione del giornalista che è presidente del Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, è stata però succinta, per non dire fredda: “E’ in corso”. Chiaramente, come prevedibile nessuno dei presenti si è minimamente soffermato sulla vicenda chiarendo il numero esatto dei giornalisti coinvolti. Il consigliere dell’ordine dei giornalisti Paolo Aquaro, avvicinato da una frrelance a fine conferenza, le ha detto che “non si può sbilanciare ed ha ammesso che l’inchiesta è resa meno spedita per la mancanza di documentazione. Insomma, mancherebbero gli atti della Procura, nonostante le richieste avanzat”. Sara vero? Noi ne dubitiamo fortemente in quanio, il Consiglio dell’ordine ha dei poteri di “persona giuridica di diritto pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge n. 69/1963) ed ente pubblico non economico (art. 1, comma 2, del Dlgs 29/1993, oggi Dlgs n. 165/2001)” Non a caso infatti, l’Ordine dei Giornalisti è sottoposto alla vigilanza della Direzione Affari Civili del Ministero della Giustizia (art. 24 della legge 69/1963). “Sono assoggettati al controllo della Corte dei conti gli ordini e collegi professionali – nella qualità di enti pubblici non economici nazionali, di cui è menzione nell’art. 1 comma 2 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 – in quanto ricompresi tra gli enti di diritto pubblico, a loro volta assumibili tra le amministrazioni pubbliche di cui al comma 4 dell’art. 3 l. 14 gennaio 1994 n. 20” (C. Conti, Sez.contr. enti, 20/07/1995, n.43; – FONTE Riv. Corte Conti, 1995, fasc. 5, 48; ). Ne consegue che l’Ordine dei Giornalisti di Puglia, ha il diritto e dovere di acquisire gli atti in mano alla Procura della Repubblica di Taranto, invece di limitare la sua sinora sterile azione alla semplice lettura di articoli di giornali o di ascoltare altre informazioni raccolte in giro verbalmente quà e là. L’unico a dire qualcosa di più ma veramente ben poco, è stato il consigliere dell’Ordine, il collega Piero Ricci: «Non posso dirvi il numero esatto dei giornalisti coinvolti. La situazione è abbastanza delicata, ma secondo me il numero è ancora incompleto perché non abbiamo avuto ancora tutti i nomi e tutte le carte. Finché non li abbiamo non possiamo fornire un numero definitivo. Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento, perché ciò che abbiamo è insufficiente per aprire altri procedimenti disciplinari. Sono convinto che bisognerà aprirne altri. Questo, adesso, possiamo dire all’opinione pubblica. Speriamo di avere la necessaria collaborazione per delineare un quadro completo della situazione». E dopo due anni stiamo ancora al “Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento” ??? Come non dare ragione poi a Beppe Grillo ed a quanti propongono la chiusura dell’Ordine dei Giornalisti !?! Di fatto, Ricci ha avvalorato le voci di corridoio che circolano da tempo fra i giornalisti di Taranto. Infatti nelle carte e nel materiale della Procura non figurerebbero solo i nomi già pubblicati di alcuni giornalisti. La rete dei “pennivendoli” complici di Archinà e sul libro paga dell’ILVA in realtà è di fatto più estesa ed ancora attiva. Sarebbe il caso che il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia invece di organizzare corsi e conferenze inutili, che senza i crediti professionali, andrebbero deserti, si dessero fare e svolgessero il loro dovere istituzionale ed il loro compito professionale e morale. Le omissioni nell’applicazioni delle norme di legge, infatti, sono perseguibili penalmente. I “pennivendoli,”, i giornalisti “marchettari” vanno sanzionati ed in modo evidente ed esemplare. Lo impone il necessario rispetto nella Legge, ma sopratutto il dovuto massimo rispetto nei confronti dei dei lettori e telespettatori che hanno diritto a ricevere un’informazione corretta su quanto è accaduto ed accade intorno all’ ILVA. «Anche nel mese di ottobre 2010 – si legge nell’ordinanza del gip Patrizia Todisco – si registravano eventi di rilievo sul fronte dei rapporti tra Archinà e Assennato, il direttore generale di Arpa Puglia e su quello dei rapporti che Archinà intratteneva con la carta stampata e che gli consentivano di manipolare letteralmente la maggior parte dell’informazione locale che, con sistematicità, risultava accondiscendente, alle indicazioni e ai suggerimenti di Archinà”. Nelle pagine del provvedimento del GIP si legge un rapporto diretto e colluso con i giornalisti di due testate giornalistiche di Taranto. Vengono riportati i nomi sia di Michele Mascellaro il direttore di Taranto Sera (quotidiano che ha cessato le pubblicazioni riapparendo successivamente ed ancor oggi in edicola sotto il nome di Taranto “Buona Sera” ) , che del giornalista Pierangelo Putzolu che all’epoca dei fatti era caposervizio per la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia attuale il direttore editoriale a Taranto “Buona Sera” . In particolare fu Putzolu, il 24 agosto del 2010, a consentire la pubblicazione, sul Quotidiano all’interno della rubrica “Punto di Vista”, un articolo dal titolo “L’allarme berillio e i fondi pubblici per la bonifica”, firmato da un fantomatico Angelo Battista, spacciato come “esperto ambientale”, ma che secondo quanto accertato e scritto dal gip Patrizia Todisco non esisterebbe, ed in realtà sarebbe stata scritta e firmata con un nome di fantasia da Girolamo Archinà. Di seguito vi proponiamo i passaggi più interessanti e significativi della “macchina del fango” giornalistico, messa in piedi dai Riva ed Archinà con il portafoglio sempre aperto.
Come volevano “bruciare” gli ambientalisti. Nico Russo, coordinatore di Taranto Futura, non piaceva all’ ILVA ed
Archinà. Era quindi necessario trovare un modo per bruciarlo. Archinà al telefono con l’avvocato Perli trova la soluzione ideale: segnalarlo a Michele Mascellaro. L’uomo, alla guida del quotidiano locale Taranto Sera (ora Taranto “Buona Sera”) , è abituato a riportare le notizie con i “toni che vogliamo noi” diceva la “longa manu” della famiglia Riva.
Archinà (ILVA): “Avvocato se io per bruciare questo Russo, se io la facessi chiamare dal direttore di Taranto Sera, che è poi quello che trascina le notizie per il giorno dopo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Eh”.
Archinà (ILVA): “Ritiene opportuno che gli spiega lei, magari senza interviste glielo spiega“.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Si, ma io non farei interviste eh!”.
Archinà (ILVA): “Non interviste. No! No! Gli dà notizie…in modo che lo scrive lui”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Come si chiama questo?”.
Archinà (ILVA): “Michele Mascellaro. La faccio chiamare io”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ma è…c’è da fidarsi?”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro! E’ nostro! E’ nostro! Si….”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhhh”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro per intero!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ok”.
Archinà (ILVA): “E’ quello…è quello che ha fatto scoppiare la questione Berillio!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ah…Ok. Va bene”.
Archinà (ILVA): “Le do il suo numero perchè così lui riporta la notizia, così con il tono che vogliamo noi.…”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Certo”.
Archinà (ILVA): “In modo che Russo domani se vuole tenere la conferenza stampa deve stare attento”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhh… va bene”.
Archinà (ILVA): “Va bene? quindi provvedo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mi…Mi…Mi interessa molto quell’accesso agli atti”.
Archinà (ILVA): “Si, si, si certo. Certo va bene.”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Grazie arrivederci…ci sentiamo buongiorno….”
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Le intercettazioni tra Mascellaro (direttore di Taranto Sera) e Girolamo Archinà (pubbliche relazioni ILVA) svelano i sistemi usati dalle aziende per gestire i rapporti con la stampa locale:
Archinà (ILVA): “comunque è andato… mò ti faccio una confidenza, non ti far trapelare niente quando lo vedi. E’ andato ieri in maniera improvvida e senza avermi avvisato, Cattaneo (ufficio stampa ILVA – n.d.r) da Walter Baldacconi (direttore responsabile STUDIO 100 – n.d.r). Vabbè ma voleva fare i soliti incontri giornalistici. Come li ha fatti con te e con gli altri, no? In maniera…alla milanese maniera"!
Mascellaro (Taranto Sera): "Si".
Archinà (ILVA): “E si Baldacconi l’ha portato da Cardamone…”
Mascellaro (Taranto Sera): “Ah…quanto gli hanno chiesto?”
Archinà (ILVA): “Appena è arrivato, dice “sa noi dall’ ENI abbiamo ricevuto una promessa di un milione di euro, poi Roma l’ha bloccata, per questo noi li stiamo attaccando”.
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah".
Archinà (ILVA): “Ehhhh va buò. Dice che ne è tornato scandalizzato".
Mascellaro (Taranto Sera): "AhAhAhAhAhAh Ah AhAhAh (risata)".
Archinà (ILVA): “ Va buò !”
Mascellaro (Taranto Sera): "Ma non ti ha detto quanto gli hanno chiesto a lui?"
Archinà (ILVA): “No vabè ma mica lo fa così lui (Cardamone). So che sono tre o quattro volte che mi chiama oggi. e non gli rispondo a Cardamone."
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah. ho capito".
Archinà (ILVA): “Va buò va! Ci sentiamo domani”.
Mascellaro (Taranto Sera): “Beato a chi gli è amico”.
Archinà (ILVA): “Ciao! Un abbraccio”.
Mascellaro (Taranto Sera) : “Ciao Girolamo ciao”.
Il 31 agosto dello stesso anno anche “Taranto Sera” pubblicava la seguente notizia: “Esclusiva: documento top secret dell’Arpa smentisce tutto. Un affare di milioni dietro la finta emergenza berillio”. In un dialogo intercettato Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore di Taranto Sera, e Girolamo Archinà si parlavano così al telefono:
Archinà (ILVA): "Mai hai visto? Tutti i giornali ti hanno seguito eh!"
Mascellaro (Taranto Sera): "Che mi tieni a fare a me?"
Archinà (ILVA): "Hai fatto uno scoop hai fatto…"
Mascellaro (Taranto Sera): "L’ho scritto anche: “Nostra esclusiva”".
Ma non è finita qui. In un altro passaggio dell’ordinanza, inoltre, si parlava l’emittente televisiva “Studio 100” di Taranto citata da un’annotazione della polizia giudiziaria “Si ritiene che il contratto pubblicitario rappresenti solo un escamotage per mascherare la dazione di denaro da parte dell’ILVA al gruppo di Cardamone per ottenere una linea editoriale favorevole”. Sempre scorrendo gli atti, secondo la polizia giudiziaria “dalle attività tecniche emerge che l’ILVA ha commissionato ad un’agenzia pubblicitaria degli spot (al costo di 120.000 euro) che verranno trasmessi dal network facente capo ai Cardamone. Appare chiaro che il pressing di Gaspare Cardamone abbia sortito gli effetti desiderati in quanto evidentemente ha ricevuto una sostanziosa commessa pubblicitaria da parte dell’ ILVA la quale, a sua volta, come ritorno potrà essere tranquilla che non riceverà attacchi mediatici ed anzi potrà sfruttare i predetti media a proprio favore anche mediante una campagna di comunicazione tesa a ridimensionarne la figura [in senso favorevole ad essa Ilva] agli occhi dell’opinione pubblica, al fine di non apparire sempre e solo come causa principale dell’inquinamento ma anche come uno stabilimento proteso all’incremento dello sviluppo eco-sostenibile dei propri impianti”.
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Una conferenza telefonica tre, da una parte della cornetta c’è Girolamo Archinà, dall’altra lo scomparso Emilio Riva, patron dell’ILVA ed Alberto Cattaneo, dirigente della comunicazione in azienda. Oggetto della discussione gli spot su una televisione locale.
Emilio Riva (patron ILVA): “Archinà!”
Archinà (pubbliche relazioni ILVA): “Si dottore l’ho chiamata poco anzi, mi hanno detto che era impegnato”.
Emilio Riva (ILVA): “Sono qua con Cattaneo ” (responsabile comunicazione ILVA).
Archinà (ILVA): “Ti saluto”.
Cattaneo (ILVA): “Con questi cavolo di spot che vogliamo fare su Studio 100?”
Archinà (ILVA): “Siii”
Cattaneo (ILVA): “Ma ce li mandano in onda o no?”
Archinà (ILVA): “Ma allora io, me lo chiesi. Contrattualmente li devono mandare per forza in onda, io non vedo nessun problema di questo tipo. Era l’unica cosa quando me lo chiese il ragioniere, era di vedere un pò, se mandare gli spot, poi non aumentano gli appetiti degli altri esclusi, Questo era l’unico problema. Ma per Studio 100, non è un problema, lo devono mandare, punto e basta. Perchè è previsto dal contratto”.
Cattaneo (ILVA): “Girolamo. Ehi, quello che non ho colto da Cardamone è proprio questa volontà, però se tu ci assicuri noi siamo a posto. Siccome stiamo spendendo dei soldi per gli spot televisivi. Il nostro problema se spenderli o no, se questi non li mandano. Capisci?”
Archinà (ILVA): “Il problema, c’è un contratto firmato per questo, no, c’è un contratto, punto. Per me il contratto firmato va onorato da entrambe le parti”.
Cattaneo (ILVA): “Perfetto”.
Archinà (ILVA): “Punto. E’ un problema che non mi pongo, mi segui?”.
Cattaneo (ILVA): “Si. Sono felice di quello che mi stai dicendo”.
Archinà (ILVA): “Quando la settimana scorsa il ragioniere mi fece cenno di questo, io gli dissi, l’unico momento di riflessione deve essere un momento che, se attraverso questi spot, gli altri esclusi, Telerama, TBM, At6, cioè quelle televisioni escluse non…”
Cattaneo (ILVA): “Eh, ma qualcosa faremo anche con loro eh”.
Archinà (ILVA): “Ecco quindi ….”
Cattaneo (ILVA): “non mi preoccuperei di questo”.
Archinà (ILVA): “Infatti, solo di questo avevo detto. Punto e basta. Perchè gli altri, se vogliono i soldi, devono darci gli spazi, che invece di fare i redazionali, come mandiamo noi, cioè, quindi che cacchio vogliono?”
Cattaneo (ILVA): “Si ma il fatto è che siccome questi spot costano, poi dobbiamo mandarli in onda eh!”.
Archinà (ILVA): “Si, dottore lo so…”
Cattaneo (ILVA): “Costano 120.000 euro andiamo a spendere, perchè sono fatti bene, sono fatti con una logica …”
Archinà (ILVA): “No, no, dottore, il discorso che dico io, contrattualmente ci spettano degli spazi. Contrattualmente. Parlo di Studio100. Per cui su questo, se vogliamo, se vuole, io la prossima settimana oppure anche, perchè oggi e domani non ci sta lui che stà a Milano, a ritirare un premio, non so, gliene parlo, gli vado a parlare. Cosa…?”
Rumori di sottofondo (è la voce di Emilio Riva che parla)
Archinà (ILVA): “Si, esatto. Glielo vado a dire in maniera spiccicata”.
Cattaneo (ILVA): “Diciamoglielo, guardi caro signore, che noi stiamo andando, non stiamo facendo per finta . ILVA sta spendendo dei soldi per fare gli spot, non è uno scherzo!”
Archinà (ILVA): “Lunedì, vado e glielo dico in maniera spiccicata. Ripeto l’unico motivo di riflessione dottore che aveva fatto con suo padre era questo: attenzione siccome in quel budget erano escluse altre televisioni Telerama, TBM, e così non svegliamo gli appetiti di questi esclusi. Punto”..
Cattaneo (ILVA): “Va bene”.
Nell’ordinanza viene alla luce anche quanto non pochi sospettavano e denunciavano da tempo, rimanendo chissà perchè inascoltati…. «Il complesso delle attività tecniche svolte fa emergere uno spaccato nel quale si vede come l’ ILVA utilizzando lo strumento delle “sponsorizzazioni pubblicitarie”, veicoli in maniera più o meno “lecita” delle somme agli organi d’informazione, sia stampa che radio-televisivi, al fine di non essere continuamente avversata in conseguenza dei numerosi e costanti comunicati stampa e delle frequenti manifestazioni che le associazioni ambientaliste del territorio (Altamarea, Peacelink, etc) promuovono contro l’ ILVA considerata la principale fonte inquinante del territorio».
Ecco cari amici come andavano (e chissà se non continuano ancora) i rapporti giornalistici a Taranto della stampa corrotta e collusa con i poteri economici. Se persino il quotidiano LA REPUBBLICA ha messo online i file audio delle intercettazioni, cosa aspetta l’Ordine dei Giornalisti di Puglia a svegliarsi dal consueto silente torpore? Se poi qualcuno si rivolgesse alla Direzione Affari Civili del Ministero di giustizia ed alle Procure della repubblica di Bari e Taranto, allora qualche giornalista potrebbe iniziare a preoccuparsi anche penalmente. E’ proprio il caso di dire, Taranto inquinata, grazie anche a (certa) stampa infetta!
“Ambiente svenduto” & giornalismo corrotto, scrive Antonello De Gennaro il 2 dicembre 2014 su "Il Corriere del Giorno". "Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. Sbaglia soltanto a nascere (1982)" Indro Montanelli intervistato da Enzo Biagi nel suo programma televisivo “Il Fatto”, poco prima della sua scomparsa, dipinse in maniera emblematica (alla sua maniera!) il rapporto tra un giornalista, il suo editore ed il pubblico, e disse: “Oggi non esiste più un solo giornalista che sappia dialogare con il suo editore, tutti hanno paura. Ma sono gli editori che dovrebbero temere i propri giornalisti: dovrebbero temerli perchè essi sono i primi difensori della trasparenza dei giornali e garanti della lealtà verso il pubblico”. In questa città sono nato oltre 50 anni fa ed ho avuto la fortuna di avere un padre come Franco de Gennaro, che insieme ai suoi soci e co-fondatori fondò il Corriere del Giorno, cioè il quotidiano, che oggi state leggendo nella sua edizione online. Ho avuto la fortuna di avere oltre a mio padre, dei grandi e veri “maestri” di giornalismo come Mario Gismondi, Oronzo Valentini, Giorgio Tosatti, Antonio Ghirelli ecc. Ho avuto la fortuna di riuscire a diventare giornalista professionista a soli 23 anni (e mio padre era già morto da 3 anni), record che ancora oggi mi risulta imbattuto. Perchè ve lo racconto? Non certo per ricevere facile consenso, l’ammirazione o applausi dai lettori che stanno leggendo quello che scrivo, nè tantomeno per atteggiarmi a “guru” del giornalismo. Ve lo racconto con grande umiltà, per sfatare delle leggende metropolitane messe in giro recentemente da giornalisti tarantini (e della provincia “complessata”) disoccupati, frustrati, incapaci, come le loro carriere confermano, per mettervi a conoscenza della verità e cioè che in 30 anni (fra un mese) di giornalismo professionistico, non ho mai ricevuto un qualsiasi tipo di richiamo deontologico dagli Ordini dei Giornalisti a cui sono stato iscritto (Bari, Milano, Roma). Qualcuno vi dirà: ma quello, de Gennaro è stato condannato per diffamazione (non giornalistica!) . Come ho già detto in passato, sono fiero di aver preso una condanna (“processo Svanity Fair“) peraltro coperta da indulto, e che in appello è stata dimezzata, anche perchè quelle diffamazioni (di oltre 10 anni fa) successivamente alla luce nelle inchieste “Vallettopoli” e “Berlusconi Ruby-gate” e “Berlusconi Ruby-gateBis”, sono diventate a posteriori delle “verità” raccontate dal sottoscritto in anticipo su tutti, da “solitario” e senza avere a disposizione i potenti mezzi informatici e di intercettazioni delle forze dell’ordine. Utilizzati dai pubblici ministeri Woodcock e Boccasini nello loro indagini. In queste settimane abbiamo pubblicate le intercettazioni che comprovavano le connivenze fra la delinquenza mafiosa tarantina ed alcuni esponenti della politica locale e del suo squallido sottobosco. Qualcuno ci ha accusato: “perchè non parlate anche dei giornalisti corrotti?” Premesso che già lo avevamo fatto, abbiamo deciso di pubblicare le intercettazioni “INTEGRALI” agli atti dell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Taranto, su richiesta della Procura della repubblica, meglio nota come “inchiesta Ambiente Svenduto”. I giornalisti coinvolti Pierangelo Putzolu e Walter Baldacconi li conosco molto bene da anni, ad eccezione di Michele Mascellaro, anche se ora questi “signori della disinformazione” quando mi incontrano fanno finta di non vedermi. E fanno bene, perchè sono loro che devono abbassare il capo e guardare per terra dalla vergogna. Io sto facendo solo e soltanto il mio lavoro: informare il lettore. Senza “se” e senza “ma”, e soprattutto senza fare sconti a nessuno. Giornalisti compresi. Partiamo dalle intercettazioni che riguardano il quotidiano Taranto Sera, successivamente chiuso per mancanza di lettori… oberato dai debiti e rifondato sotto mentite spoglie, ribattezzato in (Taranto) Buona Sera con direttore lo stesso giornalista: Michele Mascellaro. “Ad ogni buon conto, la stampa, in quel caso il quotidiano “Taranto Sera”, diffondeva la notizia che si era di fronte ad “una finta emergenza berillio”, insinuando il dubbio che dietro tale emergenza, di fatto, si celassero ben altri interessi [v. articolo apparso sul quotidiano “Taranto Sera” del 31.08/01.09.2010, dal titolo: “Un affare di milioni dietro la fìnta emergenza berillio. NOSTRA ESCLUSIVA. Il documento top secret dell‘Arpa smentisce tutto”, allegato 57 all’informativa 21.09.2012, tratto dalla rassegna stampa interna dell’ILVA, decreto 356/10 R.I.T., prog. 2802]. All’indomani della pubblicazione di detto articolo di stampa, l’ARCHINÀ si intratteneva al telefono con il dott. MASCELLARO, direttore di “Taranto Sera”, e commentava con soddisfazione l’articolo che questi, su sua sollecitazione, aveva pubblicato; lo esortava, altresì, a continuare nella stessa direzione, con un nuovo articolo “pepato” in relazione alla conferenza stampa che il sindaco STEFÀNO aveva convocato a seguito della diffusione di dette notizie (conv. dell’01.09.2010, progr. 8013, ore 10.50, allegato 58 all’informativa 21.09.2012).
E gli articoli su “commissione di Archinà ai giornalisti al suo “servizio” non sono finiti……
Scrive ancora “Il Corriere del Giorno” il 5 dicembre 2014. Eccovi quindi il seguito delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto” che coinvolgono Pierangelo Putzolu ex responsabile della redazione tarantina del Quotidiano, ed attuale direttore editoriale del quotidiano (Taranto) “Buona Sera” edito da una cooperativa con sede a Grottaglie (TA), nato sulle ceneri di “Taranto Sera” la cui società editrice ha cessato la propria attività. Nelle intercettazioni, Putzolu dimostra di essere asservito agli interessi di Girolamo Archinà, all’epoca dei fatti responsabile delle relazioni esterne dell’ILVA (Gruppo RIVA) a Taranto. Come sempre tutto riportato testualmente ed integralmente. “Proseguono I pubblici ministeri nella richiesta di misura cautelare (pag 38 e segg.) Sulla scorta di quanto innanzi evidenziato non possono esservi dubbi sulla metodica utilizzata per raggiungere gli obiettivi perseguiti dall’ ILVA. E’ evidente che con il ruolo che rivestiva e con le mansioni che gli erano state demandate, ARCHINA‘ travalicava sovente, gli argini della liceità, come nel caso che si va a descrivere sempre finalizzato a screditare sia il direttore dell’ARPA Puglia ASSENNATO sia il sindaco di Taranto STEFANO visti come i principali nemici dell’ILVA. In tale opera ARCHINA‘ veniva poi valentemente supportato da due direttori di quotidiani locali, il dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore della sede tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” (Gruppo CALTAGIRONE Editore – n.d.r.) , ed il dott. Michele Mascellaro, direttore di “Taranto Sera“. ….omissis…… In tale disegno, ARCHINA‘ veniva supportato dai direttori dei quotidiani locali. Infatti con l’aiuto del dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore dell’edizione tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” pubblicava in una nota nell’ambito della rubrica “Punto di Vista” del suddetto quotidiano a firma di un fantomatico BATTISTA Angelo, esperto ambientale, nella quale portata alla luce la questione, venivano sostanzialmente smentite ARPA Taranto ed ARPA Puglia. L’articolo di stampa in questione veniva intercettato nella rassegna stampa dell’ILVA, grazie al monitoraggio della posta elettronica di ARCHINA‘. Si riporta di seguito, la nota pubblicata il 24.08.2010 sulle pagine del “Nuovo Quotidiano di Puglia”, edizione di Taranto (allegato 50 all’informativa 21.09.2012).
Taranto, la città degli ambientalisti (finti) a caccia di protagonismo, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno" del 27 dicembre 2015. Come i nostri lettori ben sanno seguendoci anche sui socialnetwork questo giornale non ha una grande simpatia e soprattutto nessuna stima per alcuni ambienti finto-ecologisti tarantini dove molti che si spacciano per “esperti” andrebbero denunciati alla Procura della Repubblica per procurato allarme. Non li citeremo solo per non dare loro alcuna gratuita pubblicità ingannevole di cui vivono da alcuni anni, anche perchè come ben noto a tutti il loro reale scopo è il “protagonismo”, unito ad ambizioni politico-eletorali, e per qualcuno anche di sopravvivenza. Questa mattina, il quotidiano La Repubblica, ha pubblicato un articolo sull’inquinamento nazionale. Scrivendo: “Continua l’allarme smog in tutta Italia, ma la situazione più critica resta quella di Milano: nel capoluogo lombardo le polveri sottili sono risultate sopra i limiti anche nel giorno di Natale. La media giornaliera registrata dall’Arpa Lombardia nella centralina del ‘Verziere’ nel centro cittadino, il Pm 10 ha segnato valori di 57 microgrammi per metro cubo contro il limite di 50. Ancora superiore la concentrazione a Città Studi, zona semi centrale con 67 e 63 a Limito di Pioltello, nell’hinterland. Per quanto riguarda i comuni della cintura milanese, a far registrare l’inquinamento maggiore è stata la stazione di Meda (85). La media nell’agglomerato di Milano si è attestata a 62 microgrammi per metro cubo, di poco superiore a quella di Bergamo (55) e Brescia (53). Valori oltre i limiti anche a Pavia (59). Resta quindi confermato nel capoluogo lombardo il blocco del traffico dal 28 al 30 dicembre dalle ore 10 alle 16. A Roma, dopo “approfondita valutazione tecnico-scientifica dei dati sull’inquinamento”, il Campidoglio ha deciso di ripristinare le targhe alterne nei giorni 28 e 29 dicembre. Intanto sui social è divampata la protesta dei cittadini per la chiusura della metropolitana nel giorno di Natale a partire delle 13. Per oggi l’azienda dei trasporti cittadini promette mezzi pubblici con orari festi regolari, con solo “qualche lieve riduzione dei mezzi in circolazione”. Situazione critica anche a Torino, dove per scongiurare l’ipotesi di un blocco del traffico il comune ha varato il biglietto unico giornaliero (1.5o euro) per viaggiare sulle linee di trasporto pubblico urbano e suburbano. L’iniziativa andrà avanti fino al 29 dicembre”. A Taranto, nonostante l’ILVA, non accade nulla di tutto questo. E badate bene, non è una nostra opinione. Lo rilevano gli accertamenti scientifici-sanitari dell’ARPA Puglia, e non quelli dei soliti “noti” prossimi candidati alle elezioni amministrative del 2017 per il rinnovo del Consiglio Comunale di Taranto, che ormai vivono mietendo allarme e preoccupazioni fra gli abitanti del capoluogo jonico, in particolare quelli più ignoranti ed incompetenti in materia di ambiente e legge. Gente inutile che non ha mai lavorato un giorno nella sua vita. Chiaramente tutto questo i soliti “pennivendoli” che scrivono altrove, e non certamente su queste pagine, non ve lo raccontano. E sapete perchè? Semplice, certi “pennivendoli” prediligono andare a moderare dibattiti di basso livello organizzati dai “finti” ambientalisti, farsi dare targhe (dal valore reale “nullo”) e sentirsi importanti. In realtà, non si accorgono poverini che sono solo inutili. Ecco cari lettori, i dati “ufficiali” dell’ARPA Puglia. I dati medico-scientifici che gli altri organi di informazione fanno finta di ignorare, salvo poi lamentarsi che le redazioni di giornali e televisioni chiudono una dopo l’altra per mancanza di lettori… !
Giornalismo? No, è solo disinformazione a ruota libera, continua a scrivere Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno" del 28 dicembre 2015. Ancora una volta siamo costretti ad occuparci del giornalismo schierato, fazioso, disinformato molto diffuso a Taranto, spesso al servizio di sindacalisti, politicanti ed associazioni pseudo-ambientali. Sarà questa la colpa della chiusura di ben due quotidiani ed una televisione negli ultimi due anni? Probabilmente si. Cerchiamo di capirci qualcosa. Cercando di fare del giornalismo chiaro, trasparente, indipendente, e sopratutto documentato, basato sui fatti, e non sulle opinioni personali qualsiasi esse siano. E’ quello che si aspettano i lettori quando leggono un giornale, ed è quello che quotidianamente stiamo cercando di fare. Il giornalista Francesco Casula è un collaboratore esterno della redazione tarantina del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, (retribuito con 5 euro netti ad articolo), che come suo diritto si dichiara pubblicamente “comunista”, collabora saltuariamente da Taranto con Il Fatto Quotidiano. Ed è stato proprio sul quotidiano romano diretto da Marco Travaglio, che nei giorni scorsi il giornalista tarantino ha manifestato la propria incompetenza in materia di economia e politica industriale. Casula parlando dell’ILVA di Taranto, ha scritto ieri che “L’AZIENDA INDIANA ACQUISTA SOLO CON L’IMPUNITÀ TOTALE”, sostenendo in realtà delle teorie esclusivamente personali e peraltro sulla base di notizie prive di qualsiasi fondamento ed alcun riscontro (come confermatoci da fonti ministeriali e dei vertici ILVA), facendosi ridere dietro da una platea molto ampia di top managers e rappresentanti istituzionali a livello ministeriale e governativo. Ecco cosa ha scritto il giornalista Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano: “Due condizioni per valutare l’acquisto dell’Ilva di Taranto. Dettagli non trascurabili che dipingono in modo emblematico la visione futura dello stabilimento siderurgico ionico. Almeno nelle intenzioni di alcuni acquirenti. Non acquirenti qualunque, ma quelli teoricamente in pole position come ArcelorMittal, leader mondiale nella produzione d’acciaio, che insieme a imprenditori italiani capeggiati dal Gruppo Marcegaglia sarebbero interessati a sedersi al tavolo per discutere le condizioni di acquisto della fabbrica dei Riva. In una lettera al governo, infatti, la società indiana ha provato a mettere le cose in chiaro. Secondo indiscrezioni trapelate dopo il “no” ricevuto dal Governo nell’ottobre 2014, Mittal è tornata alla carica esattamente 12 mesi più tardi. Un ritorno reso ancor più legittimo dopo bocciatura dell’Unione europea che ha bollato come “aiuti di Stato” i prestiti garantiti elargiti dall’Italia per la sopravvivenza dell’ILVA. Come in una partita di poker, però, i giocatori indiani hanno provato a rilanciare: per valutare (solo valutare, non acquistare) il futuro dell’acciaieria ionica, infatti, gli indiani hanno chiesto che lo stato italiano realizzi due condizioni. La prima inquietante richiesta è una immunità totale per i nuovi acquirenti e per il management. Non il “semplice” salvacondotto che il governo italiano ha già garantito agli attuali amministratori, ma una licenza di impunità. Chi gestisce oggi l’ILVA, infatti, gode dell’immunità solo in relazione alla realizzazione delle prescrizioni imposte dal piano ambientale. Mittal, invece, pretende una sorta di “assicurazione casco” su tutti gli aspetti: una sorta di lasciapassare che garantirebbe la non punibilità dei nuovi proprietari e dello staff dirigenziale, ad esempio, anche per responsabilità sulla violazione delle norme di sicurezza”. Casula straparla quando sostiene di una presunta “bocciatura dell’Unione europea” che avrebbe a suo dire, e sopratutto dei suoi amichetti pseudo-ambientalisti “bollato come “aiuti di Stato” i prestiti garantiti elargiti dall’Italia per la sopravvivenza dell’ILVA”. Peccato per il lettori del Fatto Quotidiano che tutto ciò non sia vero, in quanto l’Unione Europa alla data odierna non ha sanzionato il Governo Italiano, ma ha bensì soltanto effettuato soltanto una normale apertura della (eventuale) procedura di infrazione che a Bruxelles aprono a centinaia (!!!) a seguito della valanga di esposti ricevuti dai soliti “quattro” pseudo-ambientalisti tarantini, ognuno ben noto per la ricerca spasmodica quotidiana di protagonismo mediatico con velleità elettorali politiche. Uno stipendio pubblico, si sa, è molto ambito a Taranto….In realtà come scrive correttamente il collega Claudio Tito del quotidiano La Repubblica (che almeno sa di cosa scrive) la procedura di infrazione, nella fattispecie, non è stata ancora completata. Il collega Tito spiega molto bene che “Sul caso Ilva, infatti, il governo insiste nel richiamare l’attenzione sulla circostanza che non si tratta di un semplice “salvataggio” ma anche di un’operazione finalizzata al risanamento ambientale. E secondo l’esecutivo italiano, proprio la disciplina europea prevede l’intervento pubblico in questi casi e in modo particolare in riferimento all’intervento siderurgico”. Aprire una procedura di infrazione, è cosa ben differente. Il collega Casula dovrebbe avere il buon gusto e la necessaria professionalità di documentarsi un pò di più e cercare di capire meglio la differenza, magari facendosela spiegare da un avvocato esperto di diritto internazionale, specializzazione che in quel di Taranto a dir poco “latita”, e dopodichè forse avrà la possibilità (e la fondatezza) di poter spiegare la realtà dei fatti, a quelle decine di lettori che acquistano il Fatto Quotidiano in edicola a Taranto. Sarebbe interessante conoscere come e da chi Casula abbia appreso e raccontato virgolettando, cioè attribuendo a terzi delle frasi mai dichiarate ufficialmente da nessuno (!!!) che la multinazionale franco indiana Arcelor Mittal, “pretende una sorta di “assicurazione casco” su tutti gli aspetti”. Un vecchio vizietto giornalistico, che spesso nei Tribunale si conclude con sentenze per diffamazione per chi si inventa fonti inesistenti. Non contento, il giornalista-comunista invece di fare informazione per i lettori, scende nella polemica “politica”, scrivendo: Il governo deve decidere se proseguire con la trattativa, ma la Puglia dice no. “Il motivo è legato alla seconda richiesta presentata al governo: il dissequestro dell’area a caldo, cioè di quei sei reparti bloccati il 26 luglio 2012 dal gip Patrizia Todisco perchè fonte di emissioni che causavano “malattia e morte nella popolazione”. In sostanza, come anticipato da Repubblica, gli indiani vorrebbero aumentare il livello di produzione a 9 milioni di tonnellate all’anno (oggi fermo al limite di poco più di 8 milioni imposto dall’autorizzazione integrata ambientale), ma senza passare a nuove forme energetiche, anzi. Mentre l’ipotesi del gas, auspicata anche dal governatore della Puglia Michele Emiliano prende piede, gli indiani vorrebbero continuare a produrre acciaio più o meno con la stessa modalità che ha avvelenato operai e cittadini del quartiere Tamburi, infatti proprio Emiliano sul Fatto di ieri invocava Eni o Enel come acquirenti ideali per l’Ilva. Invece, con gli indiani ancora una volta salute e lavoro nel capoluogo ionico non troverebbero un equilibrio: perché produrre acciaio partendo da carbone e minerale di ferro stoccate nei parchi minerali (ancora) a cielo aperto significherebbe lasciare che tonnellate di polveri vengano trasportate dal vento e finiscano nelle case e nelle vite degli abitanti del vicino quartiere Tamburi. Ora, naturalmente, la prossima mossa spetta al premier Matteo Renzi”. Anche in questo caso Casula continua in un giornalismo “schierato”. Peraltro disinformato, utilizzando delle dichiarazioni “politiche” e non tecniche espresse dal governatore Emiliano (che è bene ricordare ai lettori, è solo un magistrato in aspettativa e non ha mai fatto l’industriale o il manager!). Come giustamente fa osservare un nostro lettore che di industria ci capisce qualcosa, “Il Governatore della Puglia scambia un altoforno per un barbecue e ne chiede l’alimentazione a gas piuttosto che a carbone. Peccato che siano già alimentati a gas e che il carbonio del carbon coke sia necessario, in fusione, per produrre l’acciaio che, altrimenti, resterebbe ferro”. Resta da capire da chi e con quali competenze tecniche specializzate Casula abbia stabilito e scritto che “produrre acciaio partendo da carbone e minerale di ferro stoccate nei parchi minerali (ancora) a cielo aperto significherebbe lasciare che tonnellate di polveri vengano trasportate dal vento e finiscano nelle case e nelle vite degli abitanti del vicino quartiere Tamburi”. Casula inoltre non dice come è finito il sequestro giudiziario di cui parla, operato dal Gip Todisco. Con una prima istanza, in data 4 gennaio 2013, i p.m. tarantini chiedevano disporsi – sulla base dello ius superveniens rappresentato dall’art. 3 d.l. 207/2012, nel frattempo convertito in legge – la modifica del provvedimento di sequestro preventivo delle aree e degli impianti dello stabilimento ILVA (disposto appunto dal giudice Todisco sin dal 25 luglio 2012 ), restituendo alla proprietà la facoltà di uso degli impianti e revocando i custodi-amministratori già nominati dal G.i.p.; in alternativa, chiedevano che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale del decreto legge. Casula non racconta le motivazioni per cui la Corte costituzionale, lo scorso 9 aprile 2014, ha rigettato il ricorso del gip di Taranto Patrizia Todisco, e del Tribunale del Riesame, contro la legge definita “Salva Ilva”. Secondo la magistratura tarantina il decreto e la legge sarebbero stati incostituzionali perché, agendo anche in maniera retroattiva, annullavano di fatto i provvedimenti emessi contro l’acciaieria, come il sequestro dell’area a caldo o quello dell’acciaio già prodotto e sulle banchine del porto, in attesa di essere venduto. L’ILVA si era sempre opposta a questi due decreti di sequestro, presentando ricorsi con la motivazione che la vendita della merce (un milione e ottocento mila tonnellate rimaste sulle banchine dal 26 novembre 2012, per un valore commerciale di 1 miliardo di euro) avrebbero permesso i lavori di bonifica ambientale. Proprio il 3 maggio 2013, malgrado la Consulta fosse già intervenuta, il Gip Todisco aveva respinto l’ennesima istanza di restituzione di gran parte della merce, presentata dall’ILVA, dichiarandola inammissibile perché non erano state ancora depositate le motivazioni della Corte costituzionale. Qualche giorno prima, infatti, era il 26 aprile 2013 la Procura aveva disposto il dissequestro la restituzione di una minima parte: l’acquirente delle merci è la compagnia di Stato irachena Oil Projects Company, e l’ILVA (ancora a gestione “privata” ) aveva annunciato che la data ultima per la spedizione era il successivo 5 maggio 2013; altrimenti l’acciaieria privata avrebbe chiesto un risarcimento danni allo Stato di 27 milioni di euro. Bene. Adesso leggete cosa stabilì la Corte Costituzionale sul sequestro dell’impianto disposto dal Gip Patrizia Todisco. La Consulta ritenne che bisognava interrompere il clima di “sfiducia preventiva” verso l’ILVA, perché “l’aggravamento dei reati già commessi o la commissione di nuovi reati è preventivabile solo a parità delle condizioni di fatto e di diritto antecedenti all’adozione del provvedimento cautelare. Mutato il quadro normativo (a seguito dell’introduzione degli interventi di bonifica ambientale come condizione per la produzione, ndr.) le condizioni di liceità della produzione sono cambiate e gli eventuali nuovi illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni attuali e non di quelle precedenti”. La Consulta, spiegando le ragioni per le quali respinse la tesi presentata dal GipTodisco e dal Tribunale del Riesame, aggiunse che “si può rilevare con certezza che nessuna delle norme censurate (nella legge Salva Ilva, ndr.) può incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento della responsabilità e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge”. Non ci sarebbe quindi alcun “Salva-Ilva”, secondo la Consulta in quanto “le disposizioni non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice, né attenuano le pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi di cui si sono dovuti occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo”. Il novello editorialista dei due ponti…cioè Casula, così conclude il suo articolo: “Il capo dell’esecutivo non potrà fare altro che scoprire le carte: rimandare al mittente le proposte e cercare nel frattempo di mantenere le tante promesse fatte finora a parole oppure svelare il bluff dei proclami degli ultimi anni e accettare la proposta di Mittal. Perchè al di là di dichiarazioni e decreti, a Taranto, a distanza di oltre tre anni del sequestro degli impianti non è cambiato molto. Lo Stato vanta la realizzazione dell’80 percento delle prescrizioni, ma resta da fare ancora molto: dalla copertura dei parchi minerali all’individuazione di un nuovo asset aziendale nella speranza che il futuro degli operai ionici non passi nelle mani di un nuovo padrone interessato esclusivamente al profitto”. Leggere frasi dell’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, come ad esempio “il futuro degli operai ionici non passi nelle mani di un nuovo padrone interessato esclusivamente al profitto” chiarisce senza alcun dubbio il “credo” politico di Casula. Qualcuno dovrebbe spiegare al giornalista Casulaed agli ambientalisti “last minute” a lui molto cari, che un’azienda che produce acciaio non è una congrega di boyscout, o una sezione del partito comunista, e sopratutto che il fine di qualsiasi attività imprenditoriale o commerciale che sia, è l’utile, cioè il guadagno. Senza questa parola magica non si pagano stipendi e fornitori, non si mandano avanti le aziende. Verrebbe voglia di chiedere a Casula chi dovrebbe individuare “un nuovo asset aziendale”. Forse qualche suo amico-ambientalista che non capisce una “mazza” di impresa? O qualche suo collega esperto di questioni sindacali giornalistiche tarantine puntualmente irrisolte? Di quale “bluff dei proclami degli ultimi anni” parla il collaboratore tarantino del Fatto (o stra-fatto?) Quotidiano? La campagna mediatica giornalistica-ambientalista tarantina accanitasi negli ultimi tre anni contro il risanamento ambientale e la ristrutturazione industriale dell’ ILVA di Taranto, sulla quale bene farebbero nel nuovo anno a svolgere qualche accertamento ed indagare la Guardia di Finanza e la Procura della Repubblica (quando si risveglierà dal precedente torpore…) su chi finanzia, come vanno avanti queste pseudo associazioni-ambientali, come vivono e si mantengono questi pseudo ambientalisti “last minute”. Verrebbero fuori anche viaggi e biglietti aerei offerti da qualche imprenditore del settore a giornalisti ed ambientalisti. E state pur certi che se ne vedrebbero e leggerebbero delle belle. Di “balle” infatti ne abbiamo viste e lette sin troppo sinora.
LE BUFALE DI PEACELINK. Le “bufale” di Peacelink sulla trasparenza, su cui molti giornalisti tarantini scivolano…scrive "Il Corriere del Giorno" l'8 dicembre 2014. Questa è veramente bella! L’Associazione PeaceLink ha reso noto oggi di essersi iscritta nel “pubblico” Registro Europeo per la Trasparenza istituito e gestito dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea per consentire “una interazione tra le istituzioni europee e le associazioni dei cittadini, le ONG, le imprese, le associazioni commerciali e di categoria, i sindacati, i centri di studi” . Per i soliti rappresentanti dell’associazione invece «È una forma di cittadinanza attiva europea che vogliamo espandere. Vogliamo, con la nostra iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza, promuovere la democrazia partecipativa transnazionale in modo da permettere alle istituzioni stesse di realizzare politiche adeguate che rispondano alle esigenze dei cittadini europei”. Peccato però che sull’ Associazione PeaceLink vi sia poca trasparenza. Anzi, nessuna! Infatti, visitando il loro sito nulla è dato sapere su sia ubicata realmente la propria sede sociale che nell’atto costitutivo risulta essere collocata presso l’abitazione di uno dei due soci fondatori (Giovanni Pugliese) e cioè in via Galuppi 15 a Statte (Taranto). Sul sito dell’associazione peraltro non compare nessun atto dell’assemblea dei soci che abbia modificato l’atto costitutivo dove uno dei soci fondatori (Alessandro Marescotti) che la qualifica ed il titolo di “insegnante di scuola media superiore”, risulta solo portavoce, mentre oggi lo stesso si auto-qualifica come “Presidente” come potete verificare di seguito con i vostri occhi. Anche consultando lo statuto dell’Associazione, si può verificare con i propri occhi come l’ambiente fosse un interesse molto limitato delle loro attività di “volontariato”. Ma il comunicato dell’Associazione in questione riserva delle altre sorprese. Recita (in tutti i sensi…) ” È un grande onore per Peacelink diventare un’associazione accreditata presso la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. – proseguono - Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020. Mentre in Italia vengono fatte leggi per rendere legale ciò che non è legale (incorrendo in infrazioni europee), e mentre si diffonde un preoccupante intreccio fra mafia e politica, confermato dalle indagini di Roma, riteniamo che l’Europa sia un riferimento di legalità imprescindibile per fermare questa riscrittura malata della legislazione nazionale. Taranto e la nostra nazione – conclude Peacelink - non possono e non devono sprofondare definitivamente nel malaffare e nella malapolitica. Vogliamo portare permanentemente il caso Taranto in Europa». Non sono pochi i giornalisti tarantini che sono caduti nella rete di Peacelink, Spaziano dalla redazione tarantina del quotidiano regionale (sempre più in crisi di vendite) La Gazzetta del Mezzogiorno, al quotidiano “Taranto Oggi” venduto più ai semafori che nelle edicole, passando per qualche collaboratore dell’edizione barese del quotidiano La Repubblica, che ha così scritto testualmente “Intanto l’associazione ambientalista Peacelink Taranto ha ricevuto una lettera dal presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, nella quale il presidente si dice “costantemente informato sulla evoluzione della situazione a Taranto”, rispondendo ad una missiva di Peacelink del 5 settembre scorso. Lo rendono noto Alessandro Marescotti, Antonia Battaglia e Luciano Manna per conto della stessa associazione”. Qualcuno può spiegare a questi giornalisti che ricevere una lettera formale di risposta ad una propria lettera/istanza/esposto. Non equivale a ricevere una lettera di Stato o impegnativa da parte dell’Europa? Resta da capire di quale “onore” trattasi, essendo l’iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza aperta praticamente a chiunque voglia. E quindi non si capisce bene di quale “onore” si stia parlando ?!? Che l’attività “ambientalista” sia di fatto qualcosa di anomalo per l’associazione lo si deduce da uno stesso articolo del 29 ottobre 2011 presente sul loro sito (appena tre anni fa) a firma di Marescotti. Ebbene in quell’articolo che riepilogava i loro 20 anni di attività, è singolare, ed impossibile non farci caso, non si parla mai di ambiente! Come se l’Associazione di volontariato Peacelink, (e quindi non di tutela dei cittadini e/o consumatori) non sapesse nulla dell’inquinamento dell’ ILVA che non è stato creato o causato certamente negli ultimi mesi. Un “interesse “ambientalista… dell’ultima ora, che quindi genera di conseguenza non pochi dubbi sul reale scopo della richiesta costituzione di parte civile presentata dall’associazione al Gip del Tribunale di Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” attualmente in corso. Ironia della sorte, quell’articolo a firma Marescotti venne pubblicato nel 2011 proprio dal defunto quotidiano cartaceo “Corriere del Giorno di Puglia e Lucania” che come è ben noto a tutti i tarantini ed i nostri lettori, è miseramente fallito in liquidazione coatta con la cessazione definita delle sue pubblicazioni lo scorso 30 marzo 12014. Parliamo quindi del clone, cioè della brutta e mal riuscita copia dell’ “originale” Corriere del Giorno fondato nel 1947 , quello creato dai giornalisti Franco de Gennaro, Egidio Stagno, Franco Ferraiolo e Giovanni Acquaviva (accanto ai quali successivamente si affiancarono gli imprenditori Angelo Galantino eNicola Resta ), e di cui questo quotidiano online che state leggendo è il naturale “erede” e le legittima prosecuzione della missione di dotare la città di Taranto di una sua “voce” indipendente. Così come resta da capire come viva (o sopravviva) quest’ Associazione PeaceLink , chi siano i suoi finanziatori, in quanto di tutto ciò non vi è traccia, così come non vi è traccia di alcun bilancio pubblicato sul loro sito. Esiste solo una pagina, con cui l’Associazione chiede ai propri ignoti sostenitori di contribuire con un finanziamento. Ma anche in questo caso la “trasparenza” latita in quanto non vi è neanche un elenco pubblico dei sostenitori. Un comportamento questo, un pò in antitesi con il vero significato della parola “trasparenza”! I “volontari” di PeaceLink sono invece molto bravi ad usare i paroloni ad effetto tipo “Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020″, pubblicizzando la solita letterina di cortesia politica ricevuta da un esponente del Parlamento Europeo dopo appena 3 mesiin risposta alla loro solita “lettera”. Di quale “lavoro” parlino poi è ignoto saperlo. Probabilmente si riferiscono alla valanga di esposti, documentazioni, richieste che sono state inviate dappertutto da PeaceLink (soprattutto ai giornalisti “fiancheggiatori”) e che non hanno mai sortito alcun concreto effetto ambientalista. E’ anche inutile ricordare i vari tentativi dei rappresentanti di quest’ Associazione di entrare nelle istituzioni partecipando a varie campagne elettorali, che si sono sempre rivelate vane: infatti non hanno mai eletto nessun loro rappresentante. Alle ultime elezioni amministrative del 2012 per il Comune di Taranto, hanno presentato una lista denominata “ARIA PULITA PER TARANTO” che ha raccolto appena l’1,99% dei voti e Marescotti ricevuto appena 507 preferenze. Considerati i circa 200mila cittadini residenti e votanti a Taranto, un risultato alquanto eloquente e deludente. Ci sarà un perchè a tutto questo? Secondo noi, una volta tanto i tarantini non si sono fatti prendere in giro…! “Non potremo mai dire la verità senza non dover dare un dispiacere a qualcuno”. Questa cari lettori, amici e nemici, è la regola del “nostro” giornalismo. Che può anche non piacere a “qualcuno”, ma appunto costituisce solo e soltanto l’opinione di “qualcuno”, e chiunque esso sia questo “qualcuno”, la sostanza dei fatti non cambia di una sola virgola! P.S. Abbiamo trovato anche tracce giudiziarie di un noto esponente di Peacelink (sempre in prima fila accanto a Marescotti), che vanta alle spalle un’imbarazzante vicenda giudiziaria di sfratti reiterati, di case occupate abusivamente a Taranto e Roma. Ed ora costui parla di “legalità”….
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero, ma non per tutti…Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, scrive Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”.. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e “salvarli”. Intercettazioni che ti segnalo, solo il quotidiano che dirigo ha pubblicato “integralmente”. Hai detto qualche inesattezza. Forse qualcuna di troppo. Innanzitutto il giornalista dell’emittente Blustar TV, che hai citato e fatto passare come un “eroe-vittima”, in realtà non ha mai fatto un’inchiesta giornalistica sullo stabilimento siderurgico, bensì ha solo rivolto una domanda scomoda ad Emilio Riva al termine di un convegno, a confronto della quale, credimi, le domande fatte ai malcapitati dagli inviati di Striscia la Notizia e Le Iene nei loro servizi, potrebbero tranquillamente concorrere ed aspirare a vincere il “Premio Pulitzer“ E poi, caro Travaglio, quella televisione cioèBlustar TV, che sta per chiudere, la pubblicità dall’ ILVA la incassava anche lei! Le domande “scomode” di quel giornalista a Riva sono arrivate solo, guarda caso…quando i rubinetti si erano chiusi da tempo! Hai paragonato ingiustamente ed erroneamente l’attuale Sindaco di Taranto Ippazio Stefàno ai suoi predecessori Giancarlo Cito e Rossana Di Bello, senza sapere che a differenza dei degli altri due, l’attuale primo cittadino di Taranto, al suo secondo mandato consecutivo, è stato eletto con i voti di una sua lista civica, senza della quale il centrosinistra non avrebbe mai governato la città di Taranto, sindaco che gestisce ed amministra la città in “dissesto economico” finanziario da circa 8 anni, dopo quanto ha ricevuto in “eredità”…dal precedente sindaco di Forza Italia Di Bello. Hai ha detto erroneamente che il dissesto di Taranto ammontava a 900mila euro, dimenticando qualche “zero”…Magari fossero stati solo così pochi! In realtà il “buco” era di 900 milioni di euro! Se ti avessero informato e documentato meglio, caro Travaglio, invece di ironizzare sulla pistola alla cinta del Sindaco, avresti appreso delle pesanti minacce ricevute dal primo cittadino di Taranto, persino nel suo studio a Palazzo di Città, ad opera di appartenenti alla criminalità organizzata, la quale grazie a dei consiglieri comunali collusi silenziosamente si era infiltrata anche all’interno dell’amministrazione comunale (mi riferisco all’ “operazione Alias” della DDA di Lecce). Paragonandolo al tuo amico ed ex pm Ingroia che se ne andava girando in lungo e largo per l’Italia con la “scorta” di Stato, almeno il sindaco di Taranto non è costato nulla al contribuente, e la sua pistola è rimasta sempre al suo posto. Caro Travaglio ti anticipo subito un possibile dubbio. Non sono un elettore, simpatizzante o apostolo, nè tantomeno amico o parente dell’attuale Sindaco di Taranto, ma sull’ onestà di Ippazio Stefàno non sono il solo a sostenerla. Ti informo che oltre al sottoscritto c’è “qualcuno” come il Procuratore capo della repubblica di Torino, Armando Spataro (tarantino) che dovresti ben conoscere, il quale essendo persona seria, coerente ed attendibile, sono sicuro sarà pronto a ripetere quello che disse al sottoscritto: “Sull’onestà di Ippazio Stefàno sono pronto a mettere la mano sul fuoco”. Non ti ho sentito dire neanche una sola parola sui tuoi “amici” “grillini”, che difendi spesso e volentieri in televisione e nei tuoi articoli. Se ti fossi informato bene, avresti scoperto che i due “cittadini” eletti in Parlamento a Taranto del M5S, sono stati i primi dopo qualche mese dalla loro elezione ad abbandonare il movimento di Grillo e Casaleggio. Rinunciare allo stipendio “pieno” da parlamentare è cosa dura ed ardua. Sopratutto per uno come Alessandro Furnari (ex disoccupato) ed una come l’ex-cittadina-pentastellata-deputata Vincenza Labriola la quale, due anni prima si era candidata alle elezioni comunali per il M5S, ricevendo dal “popolo grillino” e dai cittadini di Taranto un grande…consenso: la bellezza di 1 voto. Forse il suo! Per avere traccia della loro attività parlamentare, e conoscere il loro impegno per Taranto, credo che sia consigliabile alla nostra brava collega Federica Sciarelli conduttrice di “Chi l’ha visto”. Chissà se ci riesce …Hai raccontato di intercettazioni, avvenute realmente, fra gli uomini dell’ILVA e la stessa famiglia Riva, che si intrattenevano telefonicamente con non pochi politici pugliesi, da destra a sinistra, compreso il neo (ma già ex) deputato Ludovico Vico. Hai accusato il Pd di averlo fatto rientrare in Parlamento. Peccato che (purtroppo) gli spettasse di diritto in quanto primo dei non eletti nel collegio jonico-salentino alle ultime elezioni politiche. O forse bisognava fare una “legge ad personam” per impedirglielo? Tutta roba vecchia, riciclata, caro Travaglio, non hai rivelato nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato (con audio) dai colleghi del quotidiano La Repubblica, e che noi umili cronisti di provincia del Corriere del Giorno, abbiamo approfondito con l’ulteriore pubblicazione integrale online delle intercettazioni più salienti. Eppure tutto questo, il vostro giovane collaboratore locale Francesco Casula poteva raccontartelo….ma forse era troppo impegnato nelle sue conversazioni nell’ufficio dove lavora a Taranto, e cioè un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione Puglia (dove viene retribuito quindi con soldi pubblici) in cui il giovane collega lavora insieme alla figlia dell’ex-presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido (PD – area CISL) un politico arrestato a suo tempo anch’egli per l’inchiesta” Ambiente Svenduto“… Chissà !!! ??? Hai citato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio ed i suoi magistrati, come se fossero stato loro gli artefici con una propria azione “autonoma” a far decollare l’inchiesta giudiziaria sull’ILVA. Ed anche in questo caso… in realtà non è andata proprio così perchè l’inchiesta “Ambiente Svenduto” è nata grazie a degli esposti e denunce di associazioni ambientaliste tarantine, e proprio del sindaco Ippazio Stefàno, esposti e denunce che non potevano essere dimenticate nei cassetti, come invece accade tuttora per molti altri casi. Hai dimenticato caro Travaglio di ricordare che a Taranto un pubblico ministero è stato arrestato e condannato a 15 anni….e ti è sfuggito che un giudice del Tribunale civile di Taranto è stato arrestato anch’egli mentre intascava una “mazzetta”. Se vuoi gli atti, te li mando tutti. Completi. Hai dimenticato anche qualcos’altro.e cioè qualcosa che non poteva e non doveva sfuggire alla tua nota competenza in materia giudiziaria. Anche perchè il quotidiano che ora dirigi ne aveva parlato. La Procura di Taranto aveva realizzato (solo sulla carta) uno dei sequestri più grossi della storia giudiziaria italiana, nei confronti della famiglia Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta ILVA. Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta appunto della procura tarantina, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro senza peraltro mai trovarli ed identificarli! Quindi un sequestro “fittizio”, rimasto solo sulla carta. E guarda caso, proprio in merito a questo “strombazzato” grande sequestro…la Corte di Cassazione ha stabilito che i beni posti sotto sequestro della holding Riva Fire, società proprietaria di ILVA spa, su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore capo Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani, non andavano confiscati motivo per cui ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro, che era stato confermato nel giugno 2014 anche dal Tribunale del riesame di Taranto. Il che vuol dire come puoi ben capire da solo, che sui Riva a Palazzo di Giustizia di Taranto, avevano “toppato” tutti! In ordine: la Procura della repubblica, l’ufficio del GIP, ed il Tribunale del Riesame. Altro che complimenti…! Per fortuna ci ha pensato la Procura di Milano (procedendo per reati di natura fiscale), grazie alla preziosa cooperazione che intercorre sui reati finanziari fra la Banca d’ Italia, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza che hanno scovato un rientro fittizio (cioè mai effettuato) dall’estero in Italia di capitali della famiglia Riva, operazione camuffata come “scudata” del valore di 1miliardo e 200 milioni di euro a cui stanno per aggiungersene altri 3-400 come ha annunciato in audizione al Senato il procuratore aggiunto milanese Francesco Greco, che sono in pratica i soldi che la gestione commissariale dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ha richiesto ed ottenuto (ma non ancora sui conti bancari) in utilizzo dal Gip del tribunale di Milano, previa tutta una serie di garanzie legali a posteriori, in quanto il contenzioso giudiziario fra Adriano Riva (il fratello e “patron” del Gruppo, Emilio è deceduto diversi mesi fa) e lo Stato non si ancora concluso, neanche in primo grado. In compenso, sei stato molto bravo a spiegare con chiarezza gli effetti reali e vergognosi (mi trovi d’accordo con te al 100%) dei vari “decreti Salva Ilva”. Permettimi di provocarti: a quando una bella inchiesta del Fatto Quotidiano su quello che accade dietro le quinte di Taranto, possibilmente coordinata dall’ottimo Marco Lillo per evitare cattive figure? Ci farebbe piacere non dover restare i soli dover scoperchiare i “tombini” di questa città, che per tua conoscenza è ILVA-dipendente a 360°. Concludendo caro Travaglio, pur riconoscendoti delle innate capacità giornalistiche e narrative, e stimandoti personalmente, questa volta te lo confesso mi hai deluso. Hai dimenticato di farti qualche domanda molto importante come questa: “Come mai al “referendum sull’ inquinamento ambientale” a Taranto hanno aderito e votato solo 20 mila tarantini” oppure come questa: “Ma gli altri 180mila tarantini che non sono andati a votare al referendum, dov’erano ?”. Eppure sarebbe stato facile chiederglielo. Ieri sera li avevi più o meno tutti di fronte al tuo palco …. Domande serie, caro collega Travaglio, non le fotocopie di “seconda mano” che ti hanno passato.
La Procura di Taranto, i “portavoce”, i Carabinieri e l’ILVA, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno”. In passato ci siamo già occupati di una coppia di giornalisti e cioè Francesco Casula e Mimmo Mazza che a Taranto tutti chiamano “Cicì” e “Cocò” per la loro vicinanza. In realtà il giornalista è uno solo, cioè Mazza, in quanto abbiamo scoperto che il Casula non risulta iscritto all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, e quindi esercitando di fatto illegalmente (???) la professione giornalistica, che costituisce il suo secondo lavoro, viene retribuito secondo le nostre fonti presso la Gazzetta del Mezzogiorno a Bari, per la modica cifra di circa 5 euro ad articolo! I due in realtà, più che per i lettori, scrivono e vivono per apparire, convinti di essere il Travaglio e Peter Gomez di Taranto, come ci ha raccontato divertito un nostro caro amico e noto collega, da sempre molto vicino a Michele Santoro ed a Marco Travaglio. Mazza si spaccia per “ambientalista” di sinistra, ma invece come racconta pubblicamente in giro un suo parente, in realtà avrebbe simpatie per la destra. L’altro, cioè Casula è spudoratamente (e legittimamente) di sinistra come si evince dalla semplice visualizzazione del suo diario sulla sua pagina Internet. Teoricamente i due farebbero i cronisti di nera e giudiziaria, ma in realtà tutti a Palazzo di Giustizia ben sanno che i due vivono di fotocopie ricevute sottobanco da qualche magistrato desideroso di vedere il proprio nome apparire sui giornali, o da quegli avvocati i quali pensano che facendo uscire il proprio nome sulla stampa arrivano i clienti…A memoria d’uomo nessuno ricorda un’inchiesta giornalistica firmata da uno dei due, ma solo tanti articoletti-“dettati”, con tanti nomi dei giudici o avvocati e le loro fotografie in primo piano. Come abbiamo già scritto e rivelato in passato, i due di giurisprudenza e del codice di procedura penale sanno poco e nulla, come dimostrano i loro articoli in cui in uno hanno confuso il reato di calunnia con quello di diffamazione. O forse quell’errore venne fatto volontariamente per accontentare il socio di una famiglia di gestori di supermercati della provincia imparentati con Mazza? Incredibilmente, Cocò-Mazza (il più anziano dei due) più che fare il giornalista passa il suo tempo ad occuparsi di sindacato, lavorando alla Gazzetta del Mezzogiorno che da oltre un anno gli passa lo stipendio grazie ai contratti di solidarietà applicati dalla società editrice da cui dipende, salvo poi auspicare in suo “articoletto” la chiusura dell’ ILVA, senza chiedersi che fine farebbero i 18mila dipendenti dell’ ILVA compresi gli appalti, se qualche suo “amichetto/a” della Procura della Repubblica di Taranto dovesse (ipotesi del 3° tipo, cioè dell’ “irrealtà“) riuscire a chiudere lo stabilimento siderurgico a colpi di sequestri, puntualmente annullati, per volere della Cassazione o del Governo. Il novello “giornalista-ambientalista-sindacalista” Cocò-Mazza, ipotizza (ma in realtà lo sostiene!) che lo stabilimento siderurgico sia pericoloso per chi vi lavora, e che tutti gli altri impianti dell’area a caldo siano nocivi per operai e cittadini. Non contento, dall’alto della sua superbia, che in realtà è inconsistente, scrive e pone delle domande “alle quali non si risponde né per decreto, né per ordinanza, ma mettendo a disposizione, ora e subito, tutti i soldi necessari a salvare quella che anche nei fatti deve essere ritenuta una azienda strategica. Altrimenti è meglio spegnere tutto, senza bisogno di ricorrere ai codici”. Quello che Mazza non capisce è che in questo momento il Governo Renzi sta facendo tutto il possibile per salvare l’azienda, risanarla ambientalmente e venderla nel giro di 2-3 anni al migliore offerente sul mercato internazionale. Operazione questa, seguita dal consulente economico di Palazzo Chigi, Andrea Guerra, che di management ed industria ci capisce leggermente molto di più del Mazza, il quale in vita sua ha gestito solo e soltanto, e forse…, lo stipendio che porta a casa! Qualcuno dovrebbe spiegare a Cocò (o a Cicì?) che ad agosto l’ILVA in amministrazione straordinaria, riaccenderà l’altoforno AFO 1 ristrutturato e risanato con i soldi del Governo, in attesa che arrivino i soldi sequestrati e confiscati ai Riva dalla Procura della Repubblica di Milano, e non dalla Procura di Taranto, che come confermano i fatti, in realtà non è stata mai capace di sottrarre un solo euro al Gruppo Riva. Nel gennaio 2014, infatti gli “ermellini” , cioè i giudici della Suprema Corte di Cassazione, nelle nove pagine delle motivazioni sulla decisione presa di annullare senza rinvio l’estensione del maxi sequestro da 8,1 miliardi di euro firmato due anni fa (17 luglio 2013) dal gip tarantino Patrizia Todisco, hanno sostenuto e “cassato” che non è possibile, “sulla base di una relazione di controllo o di collegamento societario solo genericamente prospettato, e nell’assenza di un preciso coinvolgimento delle società partecipate nella consumazione dei reati-presupposto, o, quanto meno, nelle condotte che hanno determinato l’acquisizione di un illecito profitto, ricavare l’esistenza di alcun nesso logico-giuridico tra quest’ultimo ed il conseguimento di eventuali illeciti benefici da parte delle controllate”. Il provvedimento con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato, nell’ambito dell’inchiesta sull’inquinamento dell’ Ilva, a partire da maggio 2013 e messo sotto sequestro 8,1 miliardi di euro, in beni e conti (ma solo sulla carta!) del gruppo Riva partendo da Riva Fire ed estendendosi alle società collegate tra cui Riva Energia, Riva Acciaio e Muzzana Trasporti secondo la Cassazione presenta “aspetti di abnormità strutturale che lo pongono fuori dall’ordinamento con l’esigenza della sua conseguente rimozione”. La Suprema Corte mise in luce a suo tempo, come il provvedimento del gip Patrizia Todisco sia stato emesso senza la necessaria richiesta del pm, ma esclusivamente sulla base della relazione formulata dal custode giudiziario Mario Tagarelli. “Spetta, dunque, al pubblico ministero – scriveva non caso la Cassazione nell’ordinanza – il potere esclusivo di promuovere, attraverso la richiesta, il procedimento applicativo delle misure” aggiungendo che nel fatto in questione “è pacifico che il provvedimento impugnato è stato emesso dal gip non in relazione ad una richiesta cautelare proveniente dal pm, ma ad una richiesta di precisazione della portata applicativa di un precedente provvedimento” presentata dal custode giudiziario. Quindi, il provvedimento della Todisco, firmato dietro richiesta del custode giudiziario, ha “autorizzato, in difetto, di una correlativa richiesta da parte del pubblico ministero, una estensione del sequestra preventivo in relazione ad oggetti (azioni, quote sociali, cespiti aziendali, ecc.) e a destinatari (le società ricorrenti, neanche sottoposte ad indagine riguardo ai fatti di reato oggetto di contestazione) del tutto diversi rispetto a quelli indicati nell’originario decreto”. Secondo la Cassazione, il provvedimento a carico delle società Riva Acciaio e Riva Energia “non espone le ragioni giustificative delle precisazioni fornite alle richieste in tal senso avanzate dal custode richieste il cui contenuto” venne completamente condiviso dal gip Todisco, senza che la stessa legittimasse i motivi dell’estensione del sequestro. Per i giudici della Suprema Corte “Non vengono illustrate, infatti, le ragioni per cui i beni costituenti oggetto del sequestro debbano considerarsi profitto del reato, e dunque aggredibili con una misura cautelare reale”. Ma tutto questo, Cicì e Cocò lo hanno dimenticato. I magistrati di Taranto, no. Ed ecco spiegata la guerra allo “Stato”-gestore dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ! Quello che non si spiega, che è incredibile è come sia possibile che il Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto alle 22 di sera, si metta a distribuire via mail un comunicato stampa scritto su carta bianca, privo di firma, in nome e per conto della Procura della Repubblica di Taranto. Credetemi, cari lettori, in 30 anni di giornalismo professionistico svolto in tutt’ Italia, non avevo mai visto nulla di simile! Ma per l’“amico” Sebastio (procuratore capo di Taranto n.d.a.) il colonnello Sirimarco (comandante provinciale CC Taranto) fa questo ed altro… Peccato o per fortuna, a secondo dei punti di vista, soltanto sino al 1 settembre!
La Procura di Taranto non si rassegna. Dopo il Governo…ora è il “turno” degli operai ILVA, scrive “Il Corriere del Giorno”. La Prefettura in serata del 17 luglio 2015 di fatto “censura” l’operato della Procura e degli incolpevoli Carabinieri che hanno solo eseguito un ordine della Magistratura tarantina, che secondo noi farebbe bene a rasserenarsi. Sedici dipendenti dell’ILVA e tre della ditta d’appalto Semat in servizio al primo turno sono stati identificati e denunciati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto per violazione di sigilli a conclusione dei controlli effettuati oggi dai militari nell’ara dell’Afo2 l’altoforno sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura, ma il cui utilizzo è di fatto legittimato ad operare grazie a un decreto del Governo. A disporre il “blitz” odierno dei Carabinieri di Taranto, disposto dal pm Antonella De Luca e dal procuratore aggiunto Pietro Argentino, ma stranamente non sono stati contatti i competenti Carabinieri del NOE (distaccato a Lecce) che sinora hanno sempre operato all’interno ed esterno dello stabilimento siderurgico, per loro competenze in materia ambientale. Soltanto alle 22:00 di venerdì 17 sera i Carabinieri di Taranto hanno diffuso via mail alla stampa un comunicato redatto su carta bianca, anonima, privo di firma, contenenti queste testuali parole: “Con riferimento ad alcune attività ispettive svolte in data odierna, su delega di questa Procura della Repubblica, dagli organi di Polizia Giudiziaria all’interno dello Stabilimento ILVA, si precisa che sono stati effettuati solo accertamenti di carattere assolutamente preliminare in vista di eventuali successive attività di indagine. Tanto è stato precisato nel corso di un incontro tenuto nel pomeriggio in Prefettura, cui sono intervenuti anche i Sindacati, dal comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Taranto”. Che però… stranamente non usa la carta intestata, nè firma il comunicato. Incredibile, ma vero, di fatto a Taranto ormai l’ILVA, i sindacati, i lavoratori, e le aziende forti anche del pieno sostegno del Governo, sono compatti ed uniti nell’intento di comune di non fermare la produzione e rischiare di spegnere lo Stabilimento. Ma “qualcuno” evidentemente alla Procura della Repubblica di Taranto, sembra non darsi pace. Sarà voglia di protagonismo? O qualcuno forse si sente già in campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative per diventare Sindaco…? O invece qualcun’altro ambisce alla poltrona di procuratore capo a seguito dell’imminente pensionamento dell’attuale capo della procura Franco Sebastio? Scegliete voi la risposta. Credeteci, difficilmente sbaglierete…
Renzi riapre l'Ilva, i Pm mandano i carabinieri, scrive “Magazine Donna”. Neppure il decreto del governo scritto in fretta e furia lo scorso 4 luglio 2015 per evitare il blocco degli altoforni dell’Ilva (il n° 2) e dei cantieri Fincantieri di Monfalcone sembra smuovere i magistrati pugliesi dalla convinzione che qualcosa di losco si stia facendo nell’acciaieria più grande d’Europa. Tanto che in mattinata del 16 luglio i carabinieri del Comando provinciale di Taranto hanno notificato a 19 operai del primo turno dell’Afo 2 Ilva (16 dell’Ilva e 3 della ditta d’appalto Semat) una denuncia a piede libero «per violazione dei sigilli giudiziari». Lo scorso 29 giugno i magistrati tarantini avevano posto sotto sequestro l’impianto numero 2 (sono in tutto 5 i forni ma ben 3 sono fermi), dopo che l’8 giugno un getto di ghisa fusa aveva colpito e ustionato un addetto (Alessandro Morricella). L’operaio dell’Ilva era morto quattro giorni dopo a seguito delle ustioni riportate sul 90% del corpo. E i magistrati avevano quindi chiesto il sequestro dell’impianto perché «non è sicuro e mette a rischio la vita degli operai». Poi il governo aveva emanato il decreto salva Ilva (e salva Fincantieri, incappata anch’essa in un sequestro nei giorni successivi), evitando il blocco dell’attività a Taranto come a Monfalcone. Ma il decreto del 4 luglio stando ai magistrati tarantini – sarebbe zeppo di errori. Violerebbe ben 6 articoli della Costituzione e da qui il ricorso alla Corte Costituzionale. La Procura – su mandato del pubblico ministero Antonella De Luca – è tornata all’attacco, visto che nei giorni scorsi il gip Martino Rosati aveva sospeso il giudizio sulla richiesta di dissequestro avanzata dall’azienda e inviato gli atti alla Corte Costituzionale. Il gip infatti afferma che il decreto 92 (il salva Ilva del 4 luglio) è in contrasto con diversi articoli della Costituzione e consente all’Ilva, solo perché azienda di «interesse strategico nazionale», di proseguire la sua attività industriale, e quindi «anche di proseguire il reato che le viene contestato». L’Ilva aveva chiesto alla Procura la «facoltà d’uso» e il rinvio di dieci giorni dello stop dell’impianto (previsto per il 6 luglio), garantendo di aver «già attuato le prescrizioni di sicurezza ordinate dallo Spesal dell’Asl» ed essersi impegnata a presentare un ulteriore piano migliorativo. Il decreto del governo – nella sostanza – è un’opera (evidentemente mal scritta) di acrobazia normativa. Infatti non annulla il sequestro ma stabilisce «che l’Ilva può comunque continuare la sua attività». Un’attività consentita nei 12 mesi successivi al sequestro ed entro 30 giorni dal sequestro l’Ilva deve presentare un piano con ulteriori misure di sicurezza da presentare all’autorità giudiziaria e sottoporre alla vigilanza di Vigili del Fuoco, Inal ed Asl. Il decreto, ora all’esame del Parlamento, ha consentito all’Ilva di non spegnere, a Fincantieri di non chiudere i cancelli. Ora però il provvedimento dei magistrati tarantini rischia di creare un baratro tra magistrati e governo.
Nel braccio di ferro tra governo e magistrati sul caso Ilva, a rimetterci questa volta sono gli operai, scrive "Il Corriere della Sera”. Sedici dipendenti diretti dell’Ilva e tre della ditta d’appalto Semat, in servizio nel primo turno, questa mattina sono stati identificati e denunciati dai carabinieri della Polizia giudiziaria per violazione di sigilli, essendo stati trovati al lavoro nell’area dell’Altoforno 2, sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura. Ma l’impianto, dove l’8 giugno scorso rimase gravemente ferito il 35enne operaio Alessandro Morricella, morto quattro giorni dopo per le ustioni riportate sul 90 per cento del corpo, è ancora in marcia grazie a un decreto del governo, l’ottavo che riguarda il Siderurgico per sospendere gli effetti degli interventi dei magistrati nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale. Proprio lunedì prossimo 20 luglio è prevista la conclusione dell’udienza preliminare con la decisione del gup Vilma Gilli sui rinvii a giudizio e i riti abbreviati. Sono 52 gli imputati (49 persone fisiche e tre società) tra gli ex vertici dell’azienda, dirigenti, funzionari ministeriali e di enti, politici e imprenditori. Il blitz dei carabinieri, su delega della magistratura, agita dunque la vigilia del processo denominato «Ambiente svenduto». Non sono ancora chiare le motivazioni che hanno spinto i militari a procedere alla contestazione della violazione di sigilli. Nei giorni scorsi il gip Martino Rosati ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al decreto governativo che ha congelato il sequestro dell’Afo 2, rinviando gli atti alla Consulta. Contestualmente è stata respinta la facoltà d’uso dell’impianto, ma il giudizio dovrebbe essere comunque sospeso fino alla pronuncia della Corte costituzionale. Dopo i controlli e le denunce dei carabinieri, i sindacati hanno subito incontrato l’azienda per chiedere informazioni su quanto accaduto, sostenendo come nella vicenda «i lavoratori siano privi di qualsiasi responsabilità diretta e per quanto tali, non debbano essere coinvolti da provvedimento alcuno anche e soprattutto in termini di sicurezza e salvaguardia impiantistica». Il primo a dare notizia del blitz dei carabinieri è stato, con un messaggio su Twitter, il segretario nazionale della Fim, Marco Bentivogli, sottolineando che «la sicurezza dei lavoratori è sempre più a rischio in Ilva di Taranto. Nei diversi contenziosi — ha ammonito — vogliamo garanzie, altrimenti la fermiamo noi la fabbrica». La posizione dei sindacati è contenuta anche in un verbale di incontro inviato al prefetto di Taranto, Umberto Guidato. «Non è possibile stare in questa situazione — spiega lo stesso Bentivogli — e non è possibile stare in una situazione di massima confusione e incertezza. Su mandato della Procura, oggi i carabinieri sono andati all’Ilva, hanno identificato tutti i lavoratori presenti sull’impianto e contestato loro il mancato rispetto dell’ordine della Procura, ovvero il sequestro dell’altoforno 2 senza facoltà d’uso. Ma non spetta ai lavoratori garantire l’attuazione delle prescrizioni o degli ordini dell’autorità giudiziaria. Non è possibile, anzi è allucinante che i lavoratori siano identificati come responsabili. È l’Ilva che deve farlo e allora o l’Ilva ci dice che gli impianti sono sicuri, oppure — conclude Bentivogli — siamo noi a fermare il siderurgico. In questo caos gestionale non si può più stare». Dopo l’irruzione dei carabinieri non si è fatta attendere la reazione dell’azienda. In una nota l’Ilva ha ribadito «di aver operato nel pieno rispetto della legalità in ottemperanza alle previsioni del decreto legge 92/15. I dipendenti identificati hanno eseguito le previsioni di un decreto Legge normato su presupposti di urgenza. Al momento resta garantita la continuità produttiva». Allo stesso tempo, l’Ilva annuncia che «garantirà la tutela legale dei propri dipendenti fornendo loro la più ampia assistenza». «Dopo il nostro incontro di oggi a seguito dell’arrivo dei Carabinieri all’altoforno 2 dell’Ilva — ha spiegato al proposito il segretario della Uilm di Taranto, Antonio Talò, in una pausa dell’incontro con l’Ilva — l’azienda sta per andare dal prefetto di Taranto per farsi autorizzare al funzionamento degli impianti e garantire la sicurezza dei lavoratori». «Vogliamo che i lavoratori siano garantiti sia per la sicurezza ed anche sotto il profilo giuridico. I lavoratori non possono essere destinatari di avvisi di garanzia perché, secondo la Procura, hanno disatteso un ordine dell’autorità giudiziaria. L’azienda deve assolutamente chiarire come stanno le cose. Se queste garanzie non ci saranno date, allora saremo noi a dire ai lavoratori di non andare più sugli impianti e la fabbrica, a quel punto, si fermerà». Alla luce di quanto accaduto nello stabilimento i sindacati sono stati convocati al tavolo che si è tenuto alla prefettura di Taranto da cui sarebbero arrivate rassicurazioni come evidenziato da un comunicato di Fim, Fiom e Uilm: «Il prefetto ha formulato rassicurazioni circa l’estraneità dei lavoratori ai fatti contestati e che simili azioni non avranno a ripetersi. Ampie rassicurazioni sono state fornite in merito all’accesso su Afo 2 di tutti i lavoratori interessati alle pertinenti lavorazioni».
Ilva, torna la paura. La Procura di Taranto: "Fra quattro giorni spegnete l'altoforno 2". Slitta a giovedì la decisione del gup sul processo 'Ambiente svenduto'. Assennato (Arpa): "Non ho mai tradito i pugliesi". E gli avvocati di Vendola chiedono di derubricare l'ipotesi di reato per l'ex governatore, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica” del 21 luglio 2015. In quell’enorme gioco dell’oca che sembra Taranto – tiri un dado e ritorni sempre al punto di partenza – la Procura ha notificato un nuovo provvedimento di spegnimento dell’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico, l’unico al momento ancora in funzione. In sostanza significa far chiudere l’impianto. Questa volta, come si legge nelle due pagine consegnate all’Ilva dal custode giudiziario dell’impianto, l’ingegner Barbara Valenzano, c’è però una data: “Entro il 24 luglio dovremo essere informati del cronoprogramma per lo spegnimento dell’impianto”. Siamo allo scontro totale, l’ennesimo tra procura e Governo. Che può essere così sintetizzato: dopo la morte dell’operaio Alessandro Morricella, la procura di Taranto sequestra l’Altoforno 2 perché considerato troppo pericoloso per i lavoratori. Qualche giorno dopo il gip Martino Rosati ne conferma il sequestro. Il Governo, davanti alla prospettiva di una chiusura della fabbrica, firma un decreto legge straordinario (l’ottavo nel giro di due anni “ad Ilvam”) che dispone il dissequestro dell’impianto e consente la ripresa dell’attività. L’Ilva riapre lo stabilimento e chiede il dissequestro al gip Martino Rosati sulla base della nuova legge. Ma Rosati solleva la questione di costituzionalità sulla nuova norma. Nel frattempo l’Ilva continua il lavoro, tra le polemiche dell’Anm (che considera illegittimo il provvedimento legge) e la spinta del ministro Guidi che considera irresponsabile la posizione dei magistrati. Vengono mandati i carabinieri in azienda per identificare gli operai che lavoravano, il Prefetto assicura che non accadrà mai più, il presidente della Regione, Michele Emiliano, dice per la prima volta che “l’apertura dell’Ilva non è un dogma”. Poi, il nuovo colpo di scena. “Il custode – si legge nel provvedimento – chiede alla società di voler procedere, nell’immediato, all’attuazione del programma di interventi per lo spegnimento in sicurezza dell’Altoforno 2, così come previsto dal decreto di sequestro preventivo. Contestualmente il custode chiede di essere informato, entro la data del 24 luglio, in merito alla realizzazione delle opere da realizzarsi per procedere alle attività di spegnimento”. E l’Ilva? Per il momento domani i lavoratori lavoreranno come al solito. “Si prende atto dell’accesso effettuato in data odierna dal custode – mette a verbale il legale dell’Ilva, Angelo Loreto – Attesa la procedura seguita dall’Autorità giudiziaria, e in vigenza del decreto legge che legittima l’esercizio di attività di impresa negli stabilimenti strategici di interesse nazionale come il sito Ilva, ci si riserva ogni valutazione e iniziativa volta a chiarire il perimetro e i contenuti dell’eventuale provvedimento giudiziario di esecuzione che giustificherebbe l’iniziativa odierna”. Tradotto: per il momento rimane com’è, ma presto chiederemo l’intervento di un nuovo giudice. Tutto si muove, dunque, ma tutto rimane fermo, quindi. Un po’ com’è accaduto nei 40 gradi e più della palestra dei Vigili del fuoco dove si svolge l’udienza preliminare del maxi processo "Ambiente svenduto". Il gup Wilma Gilli avrebbe dovuto esprimersi ma le lunghissime controrepliche dei difensori degli imputati l’hanno spinta a rimandare tutto a giovedì quando però, per alcune situazioni, potrebbe anche chiedere un supplemento di indagini. Tra gli altri, hanno voluto parlare personalmente il direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato, e l’ex assessore all’Ambiente, Lorenzo Nicastro, che visibilmente emozionato, ha chiesto che gli venga restituita la “dignità da magistrato”. "Mi si accusa di aver venduto la salute dei cittadini di Taranto", passando "da eroe a traditore. Io nego che ci sia stato qualsiasi tipo di arrendevolezza nei confronti dell'Ilva", ha sostenuto Assennato.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire da Siderweb, sulla base di alcuni documenti allegati agli atti, prenderebbe sempre più corpo l’ipotesi che l’incidente dello scorso 8 giugno in cui perse la vita l’operaio 35enne Alessandro Morricella, sia dovuto più all’applicazione di una pratica scorretta piuttosto che ad un problema strutturale dell’impianto. Ipotesi, questa, che però non convincerebbe il Gip ed il suo staff. Secondo quanto ricostruito, infatti, a fungere come innesco della deflagrazione che ha investito il lavoratore sarebbe stato il distacco dal foro di colata di parte del materiale protettivo a base di resina che ne circonda il bordo, che, al contatto con la ghisa incandescente, si sarebbe incendiato, dando origine della fiammata fatale. All’origine del distacco di refrattario, però, ci potrebbe essere il tentativo sconsigliato dalle pratiche aziendali di allargare manualmente il foro di colata per implementarne la portata, intaccando probabilmente il materiale protettivo. Un’ ipotesi contestata in parte sia dall’ingegner Barbara Valenzano, custode giudiziario dell’impianto, sia dal Gip Martino Rosati i quali ritengono insufficienti i provvedimenti in materia di sicurezza proposti da Ilva fatti da barriere in acciaio rivestite da refrattario, videosorveglianza sul rispetto delle procedure, rilevazione automatizzata delle temperature e, soprattutto, tramite la formazione e il rispetto delle corrette procedure. Ilva ha presentato uno studio del possibile danno che potrebbe derivare dal completo spegnimento degli impianti o dal funzionamento solo con Afo 4. Un’ipotesi che incrementerebbe in maniera massiccia le emissioni inquinanti per la mancata ottimizzazione nella combustione delle materie prime e, se vi fosse uno spegnimento completo, la necessità di investire tra i 200 e i 260 milioni di euro per il rifacimento delle cockerie che, in caso di fermata, vedrebbero irrimediabilmente compromessi i propri refrattari il cui rifacimento comporterebbe lo stop completo dell’azienda per almeno 24 mesi.
"Se venisse spento anche uno solo dei due altoforni in attività a Taranto, non solo sarebbe antieconomico tenere aperto l’impianto ma anche organizzativamente non si riuscirebbe più ad alimentare il flusso della produzione". Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, in un’intervista al Corriere della Sera, torna così sul caso Ilva, invitando la magistratura a valutare il peso delle scelte sull'azienda siderurgica: "alla magistratura chiediamo di fare il proprio lavoro avendo chiaro l’impatto delle decisioni che prende. E nel caso Fincantieri avrei preferito che si fossero tenuti presenti i danni che si potevano procurare con la sola chiusura del cantiere, solo a causa dell’interpretazione di una normativa europea non perfettamente recepita nel nostro ordinamento". "Finora – continua il ministro – non è stato notificato alcun provvedimento che metta in discussione l’operatività degli altoforni. Sono dunque ottimista e ricordo che è in corso un’operazione di risanamento ambientale che ha richiesto ingenti finanziamenti e la chiusura temporanea di due altoforni". "Spegnere altri altoforni vorrebbe dire rinunciare a uno dei siti siderurgici più efficienti d’Europa e togliere lavoro a 14-15 mila persone nel Sud d’Italia. Non c' è nessun motivo, visto che il risanamento è in corso, così come c' è il massimo impegno per impedire incidenti sul lavoro, perchè anche un solo ferito è troppo".
Caro procuratore Sebastio le scrivo….di Antonello de Gennaro direttore de "Il Corriere del Giorno". Egregio Procuratore della Repubblica di Taranto, per mia fortuna non ho frequentazioni con i suoi uffici, ed anche se la conosco da circa 30 anni, non ho mai avuto occasione di frequentarla come invece fanno assiduamente alcuni giornalisti di Taranto, i quali vengono definiti dagli avvocati del Foro “i ventriloqui della Procura tarantina”. E sono lieto quindi di essere ampiamente equidistante nel rispetto dei reciproci ruoli e funzioni che ricopriamo. Le scrivo quindi questa lettera “aperta” con riferimento alle sue parole da lei pubblicamente espresse venerdì scorso nel cortile della caserma “De Carolis” sede del Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto, in occasione della ricorrenza annuale della Festa dell’Arma dei Carabinieri. Istituzione da me notoriamente amata e rispettata e con la quale a livello centrale presso il Comando Generale da oltre 30 anni intrattengo rapporti idilliaci di collaborazione ed amicizia, senza aver bisogno di indossare il “Cappellone” dell’ Arma, o di ricevere la tessera “onoraria” dell’ Associazione Carabinieri in congedo da lei ricevuti su iniziativa personale del suo “caro amico” Col. Daniele Sirimarco, attuale comandante provinciale a Taranto per i prossimi due mesi e mezzo, in quanto a settembre come ben noto a tutti ormai lascerà l’incarico per avvenuta compiuta decorrenza del periodo di comando previsto normalmente di prassi. Ero presente anche io venerdì scorso in caserma ad ascoltarla, ed a scanso di equivoci, ho registrato tutta la manifestazione, compreso quindi il suo intervento, dove lei ha parlato della stampa, di “alcuni” che poi in realtà è uno solo: il sottoscritto. Quindi avrebbe avuto maggior stile invece di applicare il plurale “maiestatis”, di coniugare meglio la lingua italiana e parlare al singolare. Ho avuto qualche dubbio, ed ho quindi fatto passare qualche giorno proprio per fare le opportune verifiche, ed essere certo, come lo sono, che sono stato solo io a scrivere e parlare di lei. Lei ha detto (testualmente) che ha conosciuto “nei 40 anni di servizio,tanti comandanti, tanti ufficiali, tanti Carabinieri ed ho sempre nei loro confronti un rapporto di simpatia ed affetto“. Ed in questo mi ha battuto di qualche anno…, avendo avuto dal 1983 ad oggi anche il sottoscritto uno splendido rapporto con semplici e eccezionali carabinieri, sottufficiali, ufficiali, comandanti, colonnelli, generali, comandi provinciali, di brigata, legione, e comandanti generali dell’ Arma, nelle mie frequentazioni istituzionali allorquando lavoravo (notoriamente) nello staff del Presidente del Consiglio, poi due ministri Guardasigilli, un Ministro delle Partecipazioni Statali, un ministro al Commercio con l’ Estero, ed un sottosegretario al Ministero dell’ Interno con delega alla Polizia di Stato, ecc. in qualità di “portavoce”, cioè di giornalista-ufficio stampa. Ho avuto anche io come lei, tante frequentazioni di “militari”, anche superiori al ruolo e funzioni di un Comandante provinciale dell’Arma. Molti dei Carabinieri che ho conosciuto e frequentato, creando anche rapporti di amicizia, hanno fatto una brillante carriera istituzionale nell’Arma e nei “Servizi”. Ma io non ho mai “creato una coppia”, e non ho mai visto una rapporto così stretto fra un Procuratore Capo ed un ufficiale dei Carabinieri, come lei ha detto riferendosi al suo rapporto molto “stretto” che intrattiene con il colonnello Sirimarco. Scelte e stili di vita differenti. In mio articolo dal titolo “Svanito il porto delle nebbie della Procura di Roma, a Taranto la “Procura della diossina”. Su cui bisogna fare chiarezza” dello scorso 2 aprile ricordavo quante cose “strane” ed illegali accadono a Taranto e provincia sotto gli occhi “distratti” della Procura di Taranto da lei guidata, che molto spesso non ha fatto rispettare ed applicato le Leggi ed i decreti legislativi vigenti, dimenticando anche le norme emanate dal CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura, e la cui lettura sarebbe necessaria… a qualche suo collega della procura tarantina. Ebbene sappia che pubblicamente ed alla presenza di terzi non pochi rappresentanti delle istituzioni locali, della politica, numerosi avvocati tarantini, persino più di qualche “servitore dello Stato” fra cui appartenenti alle Forze dell’Ordine mi hanno fatto i complimenti per aver avuto il coraggio (io direi, in realtà, il dovere) di scrivere quello che ho scritto nel mio precedente editoriale a lei sicuramente noto. Nel frattempo ho scoperto anche che alcuni investigatori tarantini nel corso delle loro indagini spesso e volentieri identificano l’associazione mafiosa preferendo trasmettere gli atti alla Procura della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Sarebbe interessante chiedere a loro il perchè…Non è un offesa annunciare l’imminente pensionamento di un magistrato. Succede a tutti. E’ successo all’(ex) presidente del Tribunale di Taranto dr. Antonio Morelli, e succederà anche a lei. Nessuno le ha augurato la pensione, anche se in realtà è un augurio vero. “Andare in pensione” significa porre fine alla propria attività lavorativa e finalmente ad una certa età, riposarsi. Lei nel suo discorso di saluto e ringraziamento per il “cappellone” ha detto che “Ho sempre avuto con i Carabinieri un rapporto di simpatia e di affetto. Qualcuno ha notato questa vicinanza, ne ha anche scritto. In effetti è così. Un Magistrato che sente amico i rappresentanti delle forze dell’ordine per quanto riguarda il rapporto di servizio, io penso che costituisca un fatto positivo, io dico un privilegio. Qualcuno dice “quando se ne và?” Si è scritto “se ne va a fine giugno”, qualcun’altro “se ne va a fine anno”. Ma al di là di quelle che possono essere le partenze, gli arrivi, i ricambi, rimane sempre questo rapporto”. Ebbene caro Procuratore Sebastio, mi spiace confutarla e contestare alcune sue affermazioni come quella “qualcuno ha fatto già i nomi dei miei eventuali sostituti” sarebbe stato più corretto fare nomi e cognomi, in maniera tale che ognuno nel suo ruolo e compito si assuma le sue responsabilità. Noi giornalisti siamo costretti per Legge a farlo, i magistrati hanno sempre detto e fatto quello che volevano, anche se adesso finalmente grazie alla riforma pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 4 marzo 2015, n. 52, vi è la nuova Legge 27 febbraio 2015, n. 18 sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati. La “festa” è finita. Nessun cittadino italiano è un “unto dal Signore”, e come è giusto che sia, chi sbaglia, ed a qualsiasi titolo e ruolo, deve risponderne! Ebbene non esiste nè “qualcuno”, nè “qualcun altro”, ma solo un solo giornalista e cioè il sottoscritto che ha avuto il coraggio di scrivere quello che non solo pensa, ma quello che ha scoperto “documentalmente”, e che metterà a disposizione dell’Autorità competente preposta, che non è sicuramente la Procura della Repubblica di Taranto. Concludendo, le ricordo anche una “stranezza” o meglio una “leggerezza”. Quella di andare a trovare in redazione “per solidarietà” l’anno scorso un gruppo di giornalisti soci di una Cooperativa editrice fallita (come lei sa, la liquidazione coatta è una procedura del diritto fallimentare) mettendo in dubbio la dovuta equidistanza della Procura della Repubblica nei confronti di qualcuno che potrebbe rischiare la denuncia penale e bancarotta fraudolenta, se il curatore attenendosi ai suoi doveri d’ufficio, e soprattutto se la Guardia di Finanza che come ha sempre fatto nella stragrande maggioranza dei casi , dovessero fare qualche ulteriore controllo e ravvedere delle responsabilità penali…Infine le confesso che mi piacerebbe video-intervistarla e farle tante domande. Anche scomode. Ma ho forti dubbi che lei accetterà. In ogni caso l’invito è pubblico, aspetto una sua risposta. Cordialmente.
Xylella fastidiosa, una gigantesca truffa. I Portavoce del Movimento 5 Stelle Puglia hanno presentato una mozione, riuscendo a fatica a farla votare all'unanimità dal Consiglio Regionale per impegnare la Giunta a richiedere all'Avvocatura una valutazione sulla legittimità formale e sostanziale dell'iter che ha portato al Piano Silletti delle eradicazioni degli ulivi. In una regione governata da un magistrato in aspettativa, mentre quest'ultimo deliberava con la sua Giunta per autorizzare le eradicazioni e ha lasciato che la Regione si costituisse contro gli agricoltori che si opponevano alle eradicazioni dei loro ulivi, i dubbi espressi dalla Magistratura li abbiamo anticipati noi, prima e unica forza di opposizione. Inoltre, giace in VII Commissione in attesa di essere discussa e votata la nostraproposta di legge per la costituzione di una Commissione Speciale Antimafia che si occuperà di mafia, ecomafia ed agromafia (essendo il caso Xylella contemplato nel I rapporto Antimafia di Legambiente coordinato da Caselli), scrive Petra Reski sul blog di Beppe Grillo il 14 febbraio 2016. Boschi di ulivi interminabili, terra rossa africana, fogliame scintillante – questo ha reso famoso il Salento, il tacco dell’Italia. In Puglia, ci sono 60 milioni di ulivi, alcuni di loro secolari, nel Salento 11 milioni. Per legge sono inseriti in un catasto, un registro che annota luogo ed età di ogni singolo albero: per ogni ulivo abbattuto ne deve essere piantato un altro. Fatto sta però che nella regione attorno a Gallipoli alcuni ulivi hanno perso le foglie, rami seccati si protendono verso il cielo, è come se qualcuno avesse sparso il defoliante Agent Orange. E con questo ci si avvicina probabilmente molto alla realtà, perché la presunta invasione dei batteri ricorda la trama di un romanzo poliziesco – come lo hanno scoperto alcuni ambientalisti del Salento. In ottobre 2013 stampa locale e tecnici della facoltà Agraria di Bari rendono pubblico la notizia della scoperta della xylella fastidiosa nel Salento: un’oscuro batterio avrebbe colpito gli ulivi del Salento, un batterio che sarebbe responsabile per il disseccamento rapido dell’ulivo: il sindrome CODIRO (complesso del disseccamento rapido dell’ulivo) – così informa il CNR di Bari. Gli agricoltori pugliesi si meravigliano: fino ad ora il batterio ha colpito vigne e agrumeti (in California, Costa Rica e in Brasile), ma mai oliveti. Anzi, della Xylella fastidiosa non c’è mai stata neanche una traccia in Europa. Tutte le altre cause che avrebbero potuto essere all’origine del seccamento vengono escluse. La Xylella sarebbe arrivata con piante infettate (oleandro) importato dal Costa Rica. Visto che erano importate in tutta Europa, ambientalisti e agricoltori si chiedono però: Perché il batterio avrebbe colpito solo nel Salento? Però non c’è spazio per dubbi: Con grande fretta, quattro zone colpite del batterio vengono individuate nel arco ionico del Leccese (che corrispondono, fatalità, con la zona del boom turistico: Gallipoli etc.) e sono etichettate da “zona rossa”, “zona arancio” e “zona rosa”. Visto che la xylella fastidiosa è un patogeno da quarantena, definita così dalla EPPO (European and Mediterranean Plant Protection Organisation), vengono decise misure drastiche nella “zona focolaio”: Regione, governo e Ue decidono deciso di varare un piano che prevede di sradicare gli ulivi infetti, oltre a quelli sani e ogni pianta nel raggio di cento metri, e lo spargimento di pesticidi, incaricando un commissario straordinario di eseguirlo: il generale della Forestale Giuseppe Silletti. In breve dovrebbero essere abbattuti 600 000 alberi senza la possibilità di piantarli nuovamente visto che si tratta di una infezione di un batterio pericoloso elencato sulla lista dei patogeni da quarantena. Sette tipi di pesticidi devono essere applicati – di cui alcuni sono stati già ritirati dal mercato come velenosi – ma chi si rifiuta deve pagare una multa di 1000 Euro. Per ogni albero abbattuto vengono pagati prima 146, poi 261 Euro di risarcimento. Giornalisti di tutto il mondo fanno il pellegrinaggio nel Salento, e dalla Neue Züricher Zeitung fino alla New York Times riferiscono unisono quello che dicono gli “scienziati”. Uno degli ambientalisti che non crede all’emergenza Xylella, è l’agricoltore biologico Ivano Gioffreda, che fa parte di una cooperativa di agricoltura organica “Spazi popolari” – una iniziativa per la difesa del Salento. Lui è riuscito a salvare ulivi seccati con mezzi tradizionali: rame, calce e potatura. Ma nessuno degli responsabili e scienziati per il piano “emergenza Xylella” gli dà retta, anzi. Neanche quando la commissione agricola parlamentare fa notare che vede le ragioni per il disseccamento piuttosto nell’eccessivo uso di pesticidi e fungici e nella potatura abnorme in estate - pratiche molto diffuse nel Salento: tanti agricoltori distruggono le “erbacce” sotto gli ulivi, perché non raccolgono gli ulivi dall’albero, ma quando sono caduti per terra, rastrellandoli. Anche queste osservazioni non hanno nessun effetto. C’è solo un fatto sicuro: la regione di emergenza Xylella è identica con il centro turistico del Salento. Da quando il Salento è stato scoperto dal turismo, una gran parte della costa sta sotto tutela ambientale, e gli speculatori vogliono infiltrarsi nell’entroterra. Però i complessi alberghieri, campi da golf, superstrade, centri commerciali, luoghi di vacanza possono essere costruiti solo se gli ulivi protetti sono eliminati – cosa estremamente difficile – se non si tratta di un batterio da abbattere drasticamente. Alcuni ambientalisti scoprono che già nel 2010 c’era un workshop tenutosi allo IAM (Istituto agronomico mediterraneo) di Bari nel 2010 sulla xylella fastidiosa e l’indicazione di un eventuale quarantena. Tra i relatori sono i massimi esperti di Xylella, Alexander Purcell e Rodrigo Almeida dell’università di Berkeley – scienziati che hanno anche lavorato come consulenti per la multinazionale Monsanto. In aprile 2014 parte il loro esposto alla procura di Lecce. La procura comincia ad indagare: Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. Indagando per una possibile diffusione colposa del batterio, i magistrati scoprono un thriller: gravi irregolarità per quanto riguarda l’introduzione degli organismi patogeni – uno degli scienziati ha portato il materiale persino nel suo bagaglio a mano – e nessun protocollo sulla distruzione del materiale infetto. Visto che sono stati anche denunciati episodi di persone in “tuta bianca” che giravano negli oliveti: Dal 2010 sono stati fatti “esperimenti non autorizzati” con pesticidi, a partire da 2013 anche ufficialmente con il best-seller di Monsanto: “Round up”, un glifosato dichiarato nel 2015 dalla WHO come “probabilmente cancerogeno”. Dopo l’applicazione di Round up, una pianta muore nel giro di 10 giorni. Dov’erano i “campi di sperimentazione” – la Procura non ha avuto nessuna risposta. Poi: L’università di Bari faceva parte anche del progetto di ricerca “Olviva” sullo sviluppo delle colture superintensive – e sarà un caso che alla fine, chiuso il progetto “Olviva” nel 2011 c’erano le prime segnalazioni di disseccamento degli ulivi. E gli stessi tre ricercatori dell’università di Bari del progetto “Olviva”, sostenitori delle colture superintensive avevano una mera “intuizione” di indagare fine agosto 2013 sulla presenza della Xylella. Poi: Alcuni protagonisti dell’emergenza Xylella hanno formalizzato un accordo con Agromillora Research SL (centro privato di ricerca e sviluppo del multinazionale agronomico spagnolo) sullo sviluppo di nuove specie di ulivi, aggiudicandosi 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. In dicembre 2015, la procura di Lecce ha sequestrato le ulivi destinati da abbattere. Nel frattempo è stato noto che la Xylella era presente nel Salento probabilmente già da decenni. Almeno così a lungo per sviluppare variazioni genetiche. Però non c’è neanch’una prova che sia responsabile per il disseccamento degli ulivi. Anzi, come dice il procuratore di Lecce, Cataldo Motta: “Se c’è qui un ulivo disseccato che non è stato colpito dalla Xylella e, a due metri c’è un altro ulivo sano in cui la Xylella è presente – vuol dire che c’è qualcosa che non va nella presunta emergenza Xyella.” Per quanto riguarda l’olio di oliva extravergine della raccolta 2015: è il migliore in tutta la storia del Salento. Perché tanti agricoltori hanno raccolto per la prima volta le olive con la mano dall’albero.
Xylella: responsabilità di Stato.
Ramaglie e stoppie si possono bruciare. E' attività agricola. La Corte Costituzionale ha bocciato il ricorso governativo contro due leggi regionali, di Marche e Friuli Venezia Giulia, che permettono la bruciatura di sarmenti, considerandola normale pratica agricola. Il Codice dell'Ambiente (Dlgs. n. 152/2006) all’art. 184 classifica come “urbani” i “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali” (comma 2/lettera e) e come “speciali” “i rifiuti da attività agricole e agro-industriali ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 cod. civ.” (comma 3/lettera a). Ramaglie e stoppie sono quindi da considerarsi rifiuti speciali e come tali andrebbero smaltiti. Lo stesso legislatore, con il Dlgs. n. 205/2010, ha riconosciuto l'evidente eccesso e ha voluto intervenire, introducendo l'articolo 184 nel Codice dell'Ambiente e modificando il testo dell'articolo 185 per escludere dalle procedure di smaltimento rifiuti “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggino l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”. Il problema è: la bruciatura danneggia l'ambiente e mette in pericolo la salute umana? Diversi legislatori regionali sono intervenuti sulla questione, sottraendo la materia alla disciplina dei rifiuti e inquadrandola, invece, in quella agricola. Tra queste l’art. 9 della legge della Regione Marche 18 marzo 2014, n. 3 e l’art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 28 marzo 2014, su cui si è pronunciata la Corte Costituzionale, su ricorso del Governo, con la sentenza n. 16 depositata il 26 febbraio 2015. La Corte costituzionale, nella sentenza, ha ricordato che recentemente anche il legislatore statale è intervenuto sulla materia, con l’art. 14, comma 8, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 (Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 116. Tale disposizione esplicita, con una novella al codice dell’ambiente, che "attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti" (art. 182, comma 6-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006). Al tempo stesso, il legislatore statale ha vietato la combustione di residui vegetali agricoli "in periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni" e ha attribuito ai comuni e alle altre amministrazioni competenti in materia ambientale "la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)". Così facendo, secondo la Corte Costituzionale, lo Stato ha riconosciuto di annoverare tra le attività escluse dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti l’abbruciamento in loco dei residui vegetali, considerato ordinaria pratica applicata in agricoltura e nella selvicoltura. In questa chiave, dunque, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il legislatore regionale sia legittimamente intervenuto sul punto, nell’esercizio della propria competenza nella materia agricoltura. Di R. T. pubblicato il 02 aprile 2015 in Strettamente Tecnico.
DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE…
Dichiarazione dello stato di grave pericolosità per gli incendi boschivi nell’anno 2015, ai sensi della L. 353/2000 e della L.r. 7/2014.
….Art. 14)
Norme transitorie
In deroga alle prescrizioni e divieti previsti dal presente Decreto potranno essere attuati interventi disposti dalla normativa vigente, per la gestione della lotta ai parassiti in quarantena, quali ad esempio la Xylella degli olivi.
L’inettitudine e l’imperizia dei governanti, la demagogia, l’ignoranza e la falsità di un certo mondo ambientalista e gli appetiti di coloro che ne vogliano fare un business sono più dannosi della malattia. Si vuol desertificare il Salento sterminando tutte le piante in loco. Come dire: c’è una persona malata, si annientano tutti i conviventi e tutti i suoi compaesani. E' l'Isis europea che si abbatte sul patrimonio ambientale salentino.
Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi salentini che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali.
All’inizio il progressivo ammalarsi delle piante venne riferito ad una molteplicità di fattori tra i quali figurava anche un batterio parassita, la Xylella fastidiosa. Con il corollario della prospettazione di un pericolosissimo rischio di contagio. Quasi che il Salento fosse diventato una bomba pronta ad esplodere contaminando il resto del Paese e persino l’Europa.
Ed ecco allora che si cerca di capire chi è il responsabile.
Parlare di responsabilità dello Stato italiano: di questo sì che si può parlare.
Il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, autore del libro Agrofrodopolitania”, imputa al Governo la responsabilità della diffusione della malattia degli ulivi salentini e ne spiega analiticamente i motivi.
La Procura di Lecce apre un’inchiesta - al momento a carico di ignoti - per diffusione colposa della malattia degli ulivi nel Salento? I responsabili ci sono e non sono ignoti: è il Governo centrale e tutti quelli ambientalisti da strapazzo che si sciacquano la bocca con il termine “tutela dell’ambiente e della natura”, ma che in realtà sono più dannosi dei germi patogeni della Xylella. Non è una tesi campata in aria o di stampo complottistico. Ma la consapevolezza che i responsabili tanto ignoti non sono. Di sicuro vi è che il patrimonio olivicolo del Salento ha registrato un attacco grave ad opera di un processo chiamato CoDiRo (Complesso del disseccamento rapido degli ulivi).
Precisiamo che gli ulivi del Salento hanno centinaia di anni. Molti di loro erano centenari già all’epoca di Dante. Queste creature tante ne hanno viste e tanto ne avrebbero da raccontare sugli umani. «I miei ulivi stanno bene - precisa a Leccenews24 l'anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione - ma ci sono campagne vicino alla mia dove è arrivata "quella cosa"». «Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest'albero, è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Eppure sono settant'anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero "bello" poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente. A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n'era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L'olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio». L'anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell'impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile. «Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l'eradicazione? Ma quando mai? - prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti». «Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere». «L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti. Glielo dobbiamo». «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra – ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». «Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice. Usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso “scattunare”, questo bisogna fare. Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina.
Attenzione!!! Lo Stato Italiano, genuflesso al potere degli altri Stati europei, Francia in primis, gli ulivi li vuole eradicare, cioè sdradicare. Basterebbe tagliare il tronco in modo che germoglino nuove piante su quelle radici e in pochi anni tutto ritornerebbe allo status quo. Ma ciò non si può fare. Sarebbe troppo semplice e nessuno speculerebbe sulla disgrazia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso internazionale con l'inerzia del Governo italiano che non difende il suo territorio. Nel Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura Ue del 16 marzo 2015, la sentenza per la Puglia: “Abbattere tutti gli alberi infettati dal batterio Xylella fastidiosa”. La richiesta è stata comunicata dal Commissario alla Salute Vytenis Andriukaitis, al Ministro italiano dell'Agricoltura, Maurizio Martina. L'eradicazione degli ulivi resta al centro della strategia Ue per contrastare la Xylella fastidiosa, il batterio killer che sta distruggendo gli ulivi del Salento. I paesi europei che si sentono più vulnerabili all'espansione del batterio Xylella, in particolare Francia, Grecia e Spagna, chiedono di abbattere almeno un decimo dei circa 9 milioni di alberi dell'area del Salento, mentre l'Italia ritiene sufficiente il piano del commissario Giuseppe Silletti, che prevede interventi più contenuti. In Italia, invece, lo scontro si è già spostato sul piano legale, dopo che la sezione di Lecce del Tar di Puglia ha accolto il ricorso di due avvocati proprietari di un uliveto a Oria, la località da cui dovrebbero partire le misure di emergenza. L’Europa ce lo chiede: “Prima di tutto dobbiamo essere molto chiari, tutti gli alberi colpiti dal batterio Xylella fastidiosa devono essere rimossi e questa è la prima cosa”. Colpi di accetta e motoseghe, dunque, su migliaia di ulivi e non solo. Anche su lecci, mandorli, ciliegi, albicocchi e tutte le altre piante, appartenenti ad almeno 150 specie, che risulteranno attaccate dal patogeno da quarantena arrivato dalle Americhe. Una raccomandazione che avrà come contraltare, in caso di mancato adempimento, l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria. Non ha usato mezze misure il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, al termine del Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura. Per Bruxelles, il contagio va contenuto dentro i confini della Puglia meridionale, a costo di applicare la soluzione più “dolorosa”. Come dire: gli abbattimenti dovranno essere ovunque, pure nei diecimila ettari intorno a Gallipoli, epicentro del contagio originario, e non solo mirati nei dodici focolai individuati e nella “fascia di eradicazione”. È questa striscia la prima sorvegliata speciale, lunga 50 chilometri e profonda 15, una sorta di fossato immaginario a cavallo tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Le ruspe entreranno in azione innanzitutto lì, a tutela di una “fascia cuscinetto” al momento indenne. Tutta la penisola salentina, invece, è dichiarata “zona infetta”, sebbene sia interessata dal fenomeno solo in parte, in quaranta comuni. Spetterà agli stessi proprietari l’obbligo di tagliare le piante colpite, concetto al limite della discrezionalità, visto che sono ritenute tali quelle identificate “sia con analisi di laboratorio che con riscontro dei sintomi ascrivibili all’infezione di Xylella fastidiosa”, ma anche quelle “individuate come probabilmente contagiate”. Per chi si opporrà? Sanzioni amministrative e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Così anche per chi non effettuerà le arature entro aprile e per chi si rifiuterà da maggio di usare insetticidi chimici.
Eppure la strage degli ulivi in Salento ha delle chiare responsabilità dello Stato italiano che ha legiferato sotto la spinta di un pseudo ambientalismo da strapazzo senza sentire i contadini. Ma andiamo per ordine. Oggi, il tanto decantato prodotto biologico profuso dagli ambientalisti ha portato i proprietari dei terreni a non trattare con prodotti naturali o chimici terreni e piante. Questa neo cultura impedisce di lavorare i terreni o le piante, con arature e concimazioni. Dietro lo spirito ambientalista, spesso, però, si nasconde la grave crisi dell’agricoltura. Non si curano i terreni e le piante per mancanza di liquidità e, perciò, si abbandonano. L’abbandono provoca l’essiccamento delle piante. Per quanto riguarda la potatura delle piante e la produzione delle stoppie i nostri antenati bruciavano in loco quanto si era potato. Ciò produceva concime e, di fatto, impediva che si propagasse l’infezione da parte di qualche pianta malata. Ma i nostri governanti, spinti dai soliti ambientalisti, ha ribaltato secolari sistemi di coltivazioni. Ricordiamo che l’art. 13 del D.Lgs. 205/2010, modificando l’art. 185 del D.Lgs. 152/2006, stabiliva che “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi...", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati. Accendere falò in campagna per bruciare questi residui è quindi contro la legge poiché integrerebbe il reato, non solo amministrativo ma anche penale, di illecito smaltimento dei rifiuti. Sono già accaduti casi di verbali molto importanti a carico di agricoltori, sanzionati ai sensi dell'art. 256 del D.Lgs 152/2006 che prevede: “la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi” come sono considerate stoppie e ramaglie.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso legislativo. Con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 91, in vigore dal 25 giugno, si risolve il problema della bruciatura delle stoppie e dei residui vegetali che ha creato tanti problemi negli ultimi anni in quanto considerati rifiuti speciali. Il comma 8 dell’art. 14 del decreto legge modifica l’articolo 256 – bis del decreto legislativo 152/2006 ( “Codice Ambientale”) relativo alla combustione illecita di rifiuti, prevedendo che tali disposizioni “non si applicano al materiale agricolo e forestale derivante da sfalci, potatura o ripuliture in loco nel caso di combustione in loco delle stesse. Di tale materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.”. Ergo: Il Parlamento riconosce di aver emanato una legge sbagliata. Dalla nuova norma si capisce che il legislatore aveva fatto una gran boiata nell’alterare il naturale smaltimento dei residui di potatura. Si riconosce, inoltre, che lo spostamento di quei residui in altre aree di smaltimento ha prodotto il propagarsi del contagio.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso giudiziario. La procura di Lecce indaga sull’origine del batterio Xylella fastidiosa che sta decimando gli alberi di ulivo salentini. L’inchiesta, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani, starebbe seguendo due possibili strade. La prima è che il batterio sia arrivato in Puglia in occasione di un convegno scientifico che fu organizzato nel settembre 2010 dall’Istituto agronomico mediterraneo. Con una particolarità. Uno dei possibili indiziati, l’Istituto agronomico mediterraneo di Valenzano (Bari), “gode per legge di immunità assoluta”, spiega il pm di Lecce, titolare dell’inchiesta Elsa Valeria Mignone in un’intervista a Famiglia Cristiana. “L’autorità giudiziaria italiana non può violare il domicilio dell’istituto, non può effettuare sequestri, perquisizioni o confische”, spiega il magistrato. La seconda pista ipotizza che il batterio killer sia stato introdotto con le piante ornamentali importate dall’Olanda e provenienti dal Costa Rica. Ergo: Mancato controllo dello Stato o di Organi pubblici sull’introduzione di organismi dannosi nel territorio nazionale.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso finanziario. Tredici milioni di euro a disposizione del commissario straordinario per l’emergenza-ulivi. Lo ha annunciato il direttore dell’area Politiche per lo sviluppo rurale della Regione, Gabriele Papa Pagliardini. Le attività riguarderanno prevalentemente la lotta ai vettori del batterio, attraverso arature, sfalciature, potature e utilizzo di principi attivi che dovranno impedire ai cicadellidi di diffondere Xylella. Ovviamente si dovrà investire anche sulla ricerca, per sconfiggere il batterio là dove ha già attecchito (si parla di circa 40mila ettari infetti su un totale di 95mila coltivati a uliveto). Ma sulla ricerca di somme di denaro non si è parlato. Ergo: lo Stato finanzia l’estirpazione delle piante, ma non finanzia la ricerca per debellare la causa. Eppure basta poco. Basta dar credibilità a chi di piante se ne intende ed aiutarli finanziariamente a praticarne la cura.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso mediatico. L’idea è nata sul web, per iniziativa dello scrittore Pino Aprile, scrive Flavia Serr. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. E dopo una valanga di «post», «tweet» e «ri-tweet», ecco che la grande mobilitazione promette di portare in piazza migliaia di persone (11mila le adesioni raccolte sulla rete). Tutti uniti sotto lo slogan «Difendiamo gli ulivi». Lo stesso grido di battaglia che è diventato un hashtag e ha inondato i social network (Facebook, Twitter e Instagram), fino a coinvolgere decine di artisti e volti noti dello spettacolo, salentini e pugliesi di nascita o «de core», mobilitati da Nandu Popu dei Sud Sound System, agguerritissima «sentinella» degli ulivi. Fra gli altri, sono scesi in campo (e ci hanno messo la faccia) Federico Zampaglione dei Tiromancino, Claudia Gerini, Emma Marrone, Samuele Bersani, Marco Mater azzi, Elio degli Elio e le Storie Tese, Fabio Volo, Raffaele Casarano, Après la classe, solo per citarne alcuni. E nelle scorse ore, anche Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, direttamente da New York dove sta ultimando il nuovo disco del gruppo, ha pubblicato su Fb una sua foto con il cartello in mano «#Difendiamo gli ulivi». Allo scatto, ha aggiunto anche un messaggio: «Queste straordinarie creature che stanno per essere eradicate, questi alberi secolari, chiamati “ulivi”, rappresentano centinaia, per non dire migliaia, di anni della storia e della vita di un popolo, come il nostro. So poco di agricoltura o di botanica. Ma so per certo una cosa: loro (le straordinarie creature) meriterebbero una riflessione ampia e consapevole e tutti noi abbiamo diritto di conoscere, di sapere se e perchè “nostri simili” stanno per lasciare la vita terrena. Abbiamo diritto alla verità». Sangiorgi in piazza ci sarebbe venuto oggi, e col pensiero c’è. Ed è vicino a quel movimento che chiede maggiore chiarezza sulle cause del disseccamento rapido degli ulivi e su tutte le possibili cure per affrontarlo. Insieme a Sangiorgi, il resto della «famiglia» Negramaro sposa la battaglia, con il batterista Danilo Tasco e il chitarrista «Lele» Spedicat o. Già nei giorni scorsi, un fiume di altre «star» pugliesi si sono dette pronte a mobilitarsi in difesa degli ulivi: dal regista Edoardo Winspeare allo stilista Ennio Capasa, passando per i comici Nuzzo e Di Biase, i fotografi Flavio&Fr ank, fino ad arrivare al rapper Caparezza che su Twitter ha scritto: «Arruolatemi tra le sentinelle degli ulivi. Urge chiarezza sulla xylella». Così, Le Iene il 2 aprile 2015 hanno mandato in onda un servizio con Nadia Toffa sull'argomento. Fabio Ingrosso e Nadia Toffa si sono recati nel Salento dove moltissime coltivazioni di ulivi sono state infettate da un batterio molto pericoloso originario della California, di cui in Europa in precedenza non si era riscontrata alcuna traccia. Il parassita si chiama "xylella" e rischia di decimare migliaia di ulivi secolari. La UE ha chiesto misure drastiche di intervento che prevedono l'eradicazione degli alberi malati seguendo una precisa mappatura. Ma l'eradicazione, per la quale sono stati stanziati diversi milioni di euro, è davvero l'unica soluzione? La Iena lo chiede ad un gruppo di ricercatori e, in seguito, ad alcuni contadini del posto che hanno adottato delle cure naturali per provare a salvare gli ulivi. Testimonial del servizio Caparezza a Albano Carrisi, due musicisti che, come molti altri artisti si stanno schierando contro l'eradicazione degli ulivi. Toffa ha spiegato con parole molto semplici qual è la situazione, dal punto di vista geografico (cioè per quali zone si sta prevedendo l'eradicazione), ma anche dal punto di vista storico: «Fino a oggi la Xylella non aveva mai colpito gli ulivi, e non è detto che sia la Xylella a far ammalare gli ulivi» sono state le sue parole, che contribuiscono a sollevare molti dubbi su quello che sta accadendo. Sono meno di 300, ha detto Toffa, gli ulivi malati: e allora perché l'eradicazione si preannuncia tanto massiva? Il servizio de Le Iene suggerisce un metodo per risanare gli ulivi dalle parole di un agricoltore, che ha curato le sue piante malate, oggi in salute, in alcuni mesi, irrorandole con una mistura di calce e solfato di rame, un rimedio della nonna che a quanto pare, nel caso dell'agricoltore intervistato, ha sortito il suo effetto. La parola degli ulivicoltori è al momento molto importante nel Salento: un'eradicazione massiva li getterebbe sul lastrico.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia per la mancanza di volontà di trovare un rimedio curativo naturale per le piante. Quelli del movimento 5 Stelle di Tuglie hanno intervistato un agricoltore.
Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?
Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali. Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.
D. Quali i sintomi della malattia?
R. La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.
D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?
R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.
D. E in termini di prevenzione?
R. Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.
D. Come si trasmette il batterio?
R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!
D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?
R. Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.
D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?
R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.
Domenica 5 Ottobre 2014 a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2° meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.
D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?
R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!
D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?
R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.
D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?
R. Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura. Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.
D. Che interessi si giocano sul nostro olio?
R. La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% dei DSC_1301 nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord. Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.
D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?
R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia sugli aspetti speculativi dell’ambiente. Scrive Antonio Bruno. La speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche e che falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici. Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico. E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazione pubblica e di rapina! A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo! Una foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode. Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo. Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità? E poi c'è il business del Pellet. Perché questo combustibile - definito eco - è ormai un business da diversi zero, vista l'enorme richiesta di questo combustibile. Mentre le analisi sui Pellet provenienti dalla Lituania della NaturKraft continuano ad essere eseguite nei laboratori dei reperti speciali dei Vigili del Fuoco di Roma, alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia di altre anomalie riscontrate in Pellet prodotti da una decina di aziende italiane. Ricordiamo che i pellet devono essere prodotti con lo scarto della lavorazione di legno vergine. Ossia, è vietato il riutilizzo di legno già impiegato per altri scopi o altri prodotti. Quindi, per dirla in altre parole, deve trattarsi di materiale di scarto proveniente dalle industrie che producono e trasformano il legno vergine. Nel caso riportato da organi di stampa nazionale, sembrerebbe che questo non stia succedendo. Anzi, nei pellet si troverebbero tracce di legno utilizzate da mobilio vario, tra cui anche bare funerarie. Non solo. Il Nucleo operativo ecologico (Noe) di Treviso ha denunciato 14 persone di 10 aziende delle province di Treviso e Vicenza per la produzione di pellet da residui di lavorazione del legno di provenienza illegale. Gli investigatori hanno precisato che l’indagine non ha attinenze con i controlli sull’esistenza di presunto materiale radioattivo nei pellet in atto da alcuni giorni. La Procura di Treviso ha posto sotto sequestro un’azienda di San Michele di Piave (ritenuta la maggiore produttrice di pellet in Italia) assieme a oltre 20 mila tonnellate di legno trattato che sarebbe stato trasformato in combustibile per stufe e bruciatori. Insomma, in questi pellet si troverebbero residui di lavorazione di mobili, cornici, bare e altri prodotti trattati con vernici e colle. Perché questo? Perché gli scarti di legno trattato costano all’incirca la metà del legno vergine. Contaminato.
Ecco dimostrato. Responsabile di tutto è lo Stato e un certo ambientalismo speculativo.
Terremoto xylella. La Procura blocca le eradicazioni: dieci indagati (anche Silletti), ulivi sequestrati, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 18 dicembre 2015. Terremoto sul piano di contenimento della diffusione della xylella fastidiosa. La Procura di Lecce esce allo scoperto con un decreto di sequestro preventivo che blocca le eradicazioni degli ulivi. E mette sott’inchiesta i protagonisti della lotta contro l’essiccamento rapido. Primo fra tutti il colonnello della Forestale, Giuseppe Silletti, 62 anni, commissario per l'emergenza xylella e responsabile dei due piani di intervento che portano il suo nome. I nomi. Le 58 pagine di decreto di sequestro preventivo a firma del procuratore capo Cataldo Motta, dell’aggiunto Elsa Valeria Mignone e del sostituto Roberta Licci sono in corso di notificazione in queste ore e riguardano anche Antonio Guario, 64 anni, nel ruolo di ex dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari; Giuseppe D’Onghia, 59 anni, dirigente del Servizio Agricoltura area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia”; Silvio Schito, 59 anni, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari, Giuseppe Blasi, 54 anni, capo dipartimento delle Politiche europee ed internazionali e dello Sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Nicola Vito Savino, 66 anni, docente universitario e direttore del centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura Basile Caramia” di Locorotondo; Franco Nigro, 53 anni, micologo di Patologia vegetale dell’università di Bari; Donato Boscia, 58 anni, responsabile della sede operativa del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; Maria Saponari, 43 anni, ricercatrice del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; e Franco Valentini, 44 anni, ricercatore dello Iam di Valenzano. I reati contestati. L’inchiesta dell’aggiunto Mignone e del sostituto Licci contesta violazioni colpose e dolose delle disposizioni ambientali, diffusione di una malattia delle piante, falso ideologico, turbativa violenta del possesso di cose immobili in merito all’obbligo delle eradicazioni, nonché deturpamento o distruzione di bellezze naturali. Gli sviluppi. La Procura di Lecce che indaga dopo gli esposti presentati nella primavera dell’anno scorso dalle associazioni ambientaliste, ribalta le certezze sull’efficacia del piano Silletti annunciate dall’Unione europea e dal Ministero delle Politiche agricole: non vi sarebbe prova - secondo la Procura - che la Xylella fastidiosa sia stata importata dal Costarica. Come non vi sarebbe prova dell’efficacia delle eradicazioni, anzi l’essiccamento non ha fatto altro che aumentare. Ci sarebbe invece un concreto pericolo per l’incolumità della salute pubblica con l’uso massiccio di pesticidi, alcuni dei quali vietati ed autorizzati in via straordinaria: già nel 2008, quando ancora non si parlava ufficialmente di Xylella, nel Salento ne furono impiegati 573mila 465 chili su 2 milioni 237mila 792 chili in tutta Italia. L’attenzione è tutta sui campi di sperimentazione della lebbra dell’ulivo: gli stessi dove si è poi diffusa la Xylella. Fra questi la zona fra Gallipoli, Alezio e Taviano, Lecce nel parco Rauccio, il Nord Salento fra Sud e Trepuzzi ed il Sud di Brindisi. Le istituzioni sono state accusate di aver avuto un approccio scientifico univoco che non ha fermato il disseccamento ed ha invece messo in pericolo la salute della popolazione. Gli avvisi di garanzia sono legati al provvedimento di sequestro preventivo, provvedimento che rende necessario informare le persone coinvolte nelle indagini. L'inchiesta prosegue.
Xylella, sequestrati tutti gli ulivi da abbattere: 10 indagati. C’è anche commissario straordinario Silletti. Il provvedimento della Procura di Lecce riguarda gli esemplari destinati all’abbattimento secondo il piano di contenimento del batterio. Iscritti nel registro degli indagati anche i ricercatori di Cnr e Iam. I reati contestati vanno dalla diffusione colposa di una malattia delle piante alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali, scrive Tiziana Colluto il 18 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Svolta nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. I nomi sono riportati nel decreto con cui le pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci dispongono il sequestro preventivo d’urgenza di tutte le piante di ulivo interessate dalle operazioni di rimozione immediata come previsto dal Piano Silletti e individuate nell’ordinanza del commissario del 10 dicembre scorso. Sotto chiave sono finiti anche tutti gli ulivi interessati dalla richiesta di rimozione volontaria “sulla base del verbale dell’Ispettore fitosanitario, in cui si rileva la presenza di sintomi ascrivibili a Xylella fastidiosa”, in esecuzione alle previsioni della nota di Silletti del 3 novembre scorso. Inoltre, sono sequestrate tutte le piante di olivo già destinatarie dei provvedimenti di ingiunzione e prescrizione di estirpazione di piante infette emessi dall’Osservatorio fitosanitario regionale. Su quei terreni, ad ogni modo, si consente qualunque intervento colturale che non sia il taglio degli alberi al colletto del tronco o la loro eradicazione. Il decreto è stato notificato a Silletti nel pomeriggio del 18 dicembre dagli agenti del Nucleo ispettivo del Corpo Forestale dello Stato. Gli altri indagati sono l’ex e l’attuale dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario e Silvio Schito; Giuseppe D’Onghia, dirigente del Servizio Agricoltura Area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia; Giuseppe Blasi, capo dipartimento delle Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Vito Nicola Savino, docente dell’Università di Bari e direttore del Centro di ricerca Basile Caramia di Locorotondo; Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso Università di Bari; Donato Boscia, responsabile della sede operativa dell’Istituto per la protezione sostenibile delle Piante del Cnr; Maria Saponari, ricercatrice presso lo stesso istituto del Cnr; Franco Valentini, ricercatore presso lo Iam di Valenzano. Nelle 58 pagine di decreto, viene ripercorsa l’intera vicenda, a partire dalla prima segnalazione dei sintomi di disseccamento degli ulivi, già dal 2004-2006 e poi nel 2008. All’inizio, però, si attribuirono le cause solo alla lebbra dell’olivo, per la quale, tra il 2010 e il 2012, sono stati anche avviati campi sperimentali “per testare prodotti non autorizzati” per combattere la malattia e per il diserbo degli oliveti con fitofarmaci Monsanto. Nelle varie tappe anche i primi convegni italiani su Xylella, come quello nell’ottobre 2010 presso lo Iam di Bari. Infine, le analisi, fatte svolgere dalla Procura su ulivi di San Marzano (Ta) e Giovinazzo (Ba), con gli stessi sintomi delle piante salentine. Hanno dato esito negativo. E per gli inquirenti questa è la prova per cui “la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è, ancora allo stato, dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento”.
Xylella, procura di Lecce: “Ue tratta in errore. Batterio presente in Salento da 20 anni. Indagheremo su fondi emergenza”. “Non voglio dire che l’Unione Europea sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti - ha detto il procuratore capo Cataldo Motta in conferenza stampa - l'inchiesta non è conclusa", continua Tiziana Colluto il 19 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti. “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce –. Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo. “Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati –hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”. I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”. Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”. “L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Pugliadopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo. Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.
Ulivi malati, ricercatori sotto accusa. Motta: «Ingannata l’Unione europea». Il procuratore di Lecce parla dopo il sequestro delle piante malate. Dieci indagati, scrive Antonio Della Rocca il 19 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti», ha spiegato il capo della Procura di Lecce, Cataldo Motta, illustrando i punti salienti dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa, il patogeno considerato concausa del disseccamento rapido degli ulivi salentini. La Procura ha disposto il sequestro degli ulivi malati e tra gli indagati, oltre a studiosi, ricercatori e funzionari della Regione, vi è anche Giuseppe Silletti, il commissario governativo per l’emergenza Xylella. «Ci siamo trovati di fronte a direttive europee, in parte molto rigorose, come l’eradicazione degli ulivi, che sono state emesse dall’Unione europea sulla falsa rappresentazione della situazione», ha specificato Motta. La Procura, che nel corso delle indagini, peraltro ancora in corso, si è avvalsa della collaborazione di un pool di periti, ha anche emanato un decreto di sequestro di tutti gli ulivi che, in base alla più recente ordinanza commissariale, dovrebbero essere abbattuti nell’ambito delle misure di contrasto alla batteriosi scoperta nel 2013 nelle campagne di Gallipoli. Secondo la Procura, inoltre, non ci sarebbe stato finora il necessario «confronto allargato» tra organismi scientifici per poter stilare adeguate strategie di contenimento della diffusione del batterio. Piuttosto, lo studio si sarebbe concentrato in un regime quasi monopolistico nelle mani di pochi ricercatori. Inoltre, ha sottolineato Motta, «non è stato accertato il nesso di causalità tra il batterio Xylella fastidiosa e la malattia», e malgrado si possa ipotizzare che il fenomeno del disseccamento sia presente nel Salento da almeno 15 anni, si è deciso, in modo inappropriato, di procedere con l’abbattimento delle piante. Un metodo che, a giudizio della Procura, non rappresenta la soluzione più idonea per combattere un fenomeno ormai diffuso e radicato da molti anni.
Xylella, il procuratore di Lecce accusa: "Europa ingannata, lucrano sull'emergenza". Per il capo dei pm Cataldo Motta alla base del caos ci sarebbe una conoscenza incompleta del problema: "Il commissario ha privilegiato solo ipotesi che portavano all'eradicazione", scrive chiara Spagnolo il 19 dicembre 2015 su “La Repubblica”)"L'Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell'emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull'inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi". Per questo l'inchiesta della Procura di Lecce "indagherà anche sui finanziamenti stanziati e usati per l'emergenza, considerato che di emergenza non si tratta". Il giorno dopo il sequestro di tutti gli ulivi salentini per cui è stata disposta l'eradicazione e l'invio di avvisi di garanzia al commissario di governo e a nove fra dirigenti e ricercatori che si sono occupati del caso, è il capo della Procura leccese, Cataldo Motta, a spiegare il motivo di un provvedimento che ha posto fine ai tagli di alberi e forse anche all'esperienza del commissario Giuseppe Silletti. Alcuni ambientalisti, entrati nella stanza del procuratore poco prima della conferenza stampa, hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai pm che hanno condotto l'inchiesta. Sul cartello la scritta: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie". A quest'ultimo viene contestato di avere disposto Piani inappropriati e addirittura dannosi per l'ambiente salentino, a causa del massiccio uso di fitofarmaci. E di eradicazioni a tappeto, che non sembrano affatto risolutive. Il nodo sta tutto nel fatto che la xylella è presente in Puglia "da almeno venti anni" e che allo stato esistono ben nove ceppi diversi, che ne mostrano la mutazione genetica. "Ciò escluderebbe la necessità di interventi emergenziali - ha chiarito Motta - e la stessa legittimazione della quarantena, che è stata la base da cui l'Europa è partita per imporre misure drastiche". Secondo quanto hanno accertato gli uomini del Corpo forestale (di cui fra l'altro il commissario Silletti è comandante regionale), alla base del caos xylella ci sarebbe innanzitutto una conoscenza incompleta del problema, "determinata dalla scarsità di confronto scientifico e dall'aver privilegiato solo alcune ipotesi, che portavano inevitabilmente alle eradicazioni". Per questo il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone - che ha coordinato l'indagine assieme alla collega Roberta Licci - si è augurata che "inizi proprio da ora un confronto scientifico vero sulla materia", al fine di individuare la strada giusta per combattere il disseccamento rapido degli ulivi. Sul fatto che i tagli non siano la scelta migliore, i magistrati non hanno dubbi: "l'eradicazione del batterio non si fa con l'estirpazione delle piante - ha chiarito il procuratore capo - E anche l'Unione europea non ha mai imposto di abbattere immediatamente tutti gli alberi malati ma di contenere la malattia, provando prima altre soluzioni". Tentativi che, a quanto pare, non sono stati fatti. E sui quali, a questo punto, bisogna ragionare perché l'Ue chiede comunque risposte che fino a pochi giorni fa si pensava dovessero pagare dalle eradicazioni. Intanto gli indagati penseranno a difendersi. I reati contestati sono diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali.
Procuratore di Lecce: «Falsi i dati sulla xylella inviati all'Europa», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 dicembre 2015. «L'Europa ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti sulla Xylella, così come realmente accaduto nel Salento. E’ stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta stamattina per illustrare i presupposti dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tutti gli ulivi delle province di Brindisi e Lecce interessati da provvedimenti di abbattimento decisi nel corso dell’ultimo piano redatto dal commissario straordinario Giuseppe Silletti. «L'indagine non è compiuta» ha specificato poi il procuratore Motta in riferimento all’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa che ha portato ieri all’emissione di un decreto di sequestro d’urgenza a firma dei magistrati Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci che indagano su dieci persone tra cui anche il commissario straordinario per l'emergenza Xylella, Giuseppe Silletti. Accertamenti sarebbero in corso - a quanto si è appreso - anche sulla modalità di concessione e utilizzo dei finanziamenti pubblici. L’inchiesta parte dal presupposto, ha spiegato Motta: «che non è stato accertato il nesso di causalità tra il complesso del disseccamento rapido degli ulivi e la Xylella Fastidiosa». «Abbiamo trovato alberi non colpiti da disseccamento che sono però risultati positivi alla Xylella - ha detto Motta - e alberi secchi che non sono invece risultati contagiati». Hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai due pm che hanno condotto l'inchiesta, Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, alcuni ambientalisti che hanno fatto ingresso nella stanza del procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, poco prima della conferenza stampa. Sul cartello mostrato c'è scritto: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie".
Terremoto xylella, il governatore Emiliano: "Il provvedimento è una liberazione", scrive “Lecce Sette” sabato 19 dicembre 2015. Il commento del governatore di Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire Xylella. “La notizia del provvedimento di sequestro da parte della Procura della Repubblica di Lecce è arrivata come una liberazione. Finalmente avremo a disposizione dati tecnici ed investigativi per discutere con l’Unione Europea della strategia finora attuata per contrastare la Xylella, fondata essenzialmente sull’eradicazione di massa di alberi malati e sani”. Così in una nota il governatore Michele Emiliano, a poche ore dalla notiza della clamorosa svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire xylella. “Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell’esercizio delle funzioni – commenta - Credo anche che possiamo considerare chiusa la fase della cosiddetta emergenza. La malattia è ormai insediata, e non può più essere totalmente debellata. Dobbiamo dunque riscrivere da zero le direttive da impartire agli agricoltori e a tutti gli altri soggetti interessati, che potranno consistere in tutti quegli atti e quelle azioni che non comportino l’eradicazione delle piante”. “In questi mesi la Regione Puglia ha sempre ribadito alla Procura della repubblica di Lecce la sua disponibilità a fornire collaborazione alle indagini in corso. E anche oggi ribadisco questa disponibilità assieme alla piena fiducia negli uffici giudiziari leccesi. Mi sento di dire che questo intervento è l’equivalente di quello della magistratura tarantina nel caso Ilva”, si legge nella nota e conclude: “La Regione Puglia è persona offesa degli eventuali reati commessi si riserva di indicare elementi di prova che possano contribuire all’accertamento della verità. In caso di rinvio a giudizio si costituirà parte civile nei confronti di tutti gli imputati”.
Xylella, M5S: Emiliano chieda scusa agli agricoltori, scrive “Inchostro Verde” il 19 dicembre 2015. Accolgono con estrema soddisfazione la decisione della Procura di bloccare le eradicazioni i Consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle. Le indagini dei magistrati si incardinano infatti sulle stesse tesi che i pentastellati ribadivano da tempo sia in Consiglio regionale che nelle piazze pugliesi e che sono state oggetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio solo qualche giorno fa. In merito alle dichiarazioni di Emiliano replicano così: “Oggi, Emiliano, con la sua Giunta, dovrebbe solo tacere” dichiarano Rosa Barone, Gianluca Bozzetti, Cristian Casili, Mario Conca, Grazia Di Bari, Marco Galante, Antonella Laricchia e Antonio Trevisi “proprio lui che aveva promesso di scatenare l’inferno in campagna elettorale contro la Xylella e che non ha fatto nulla se non limitarsi ad istituire un tavolo multidisciplinare sul tema identico a quello proposto dal M5S. Addirittura usando le stesse parole per definirlo e convocando gli stessi esperti che il M5S aveva dichiarato di voler coinvolgere. Proprio lui Presidente di una Regione che ha osato arrivare a costituirsi contro quei poveri agricoltori che hanno dovuto subire passivamente la distruzione dei loro terreni e che si “erano azzardati” a fare ricorso. Dopo aver deliberato per le eradicazioni, aver richiesto al Ministero l’accelerazione di queste procedure, questo dovrebbe essere il giorno della vergogna. Quelle parole che oggi usano per guadagnare qualche titolo sulla stampa piuttosto le usino per porgere le loro scuse agli agricoltori e ai cittadini nei comitati, con le loro decisioni li hanno soltanto umiliati. Oggi Emiliano parla di “soddisfazione perchè finalmente qualcuno ha portato delle prove” ma mente sapendo di mentire perchè quelle stesse prove le aveva portate il Movimento 5 Stelle in Regione Puglia da mesi, aveva convocato addirittura esperti che ripetevano le nostre stesse tesi ed aveva presentato una mozione votata all’unanimità dall’intero Consiglio Regionale (su cui Emiliano e la sua Giunta si erano invece vergognosamente astenuti) ed incardinata sulle stesse identiche tesi che oggi anche i magistrati portano avanti. Quali altre prove aspettava Emiliano che il Movimento 5 Stelle non gli avesse portato sotto gli occhi da tempo?”. I 5 Stelle non risparmiano una stoccata neanche le altre forze politiche: “Non possiamo non ricordare inoltre che, affinchè fosse votata in Consiglio Regionale, la nostra mozione ha dovuto subire delle modifiche perchè per i vecchi partiti ‘i nostri termini erano troppo forti’. Oggi invece tutti si spellano le mani nell’applaudire i magistrati. Saremmo felici di constatare che non è mai troppo tardi per cambiare idea se non fosse che la loro incoerenza ha lasciato morire migliaia di alberi e le speranze degli agricoltori. Se fossimo stati noi ad amministrare questa regione, tutto ciò non sarebbe mai successo”.
Xylella, la denuncia di "Nature": in Italia ricercatori sotto accusa come per il sisma a L'Aquila. La prestigiosa rivista scientifica dedica sul proprio sito un articolo sull'inchiesta della Procura di Lecce che ha chiamato in causa, insieme col commissario straordinario Silletti, anche nove ricercatori, scrive “La Repubblica” il 22 dicembre 2015. Indice puntato contro i ricercatori ancora una volta in Italia: lo rileva la rivista scientifica internazionale Nature, che sul suo sito dedica un articolo alla diffusione della xylella in Puglia e ai nove ricercatori sospettati di avere avuto un ruolo nella diffusione del batterio che ha gravemente danneggiato gli uliveti. Nell'inchiesta è coinvolto anche il commissario straordinario Giuseppe Silletti. Non è la prima volta che in Italia i ricercatori salgono sul bando degli accusati: è già accaduto nella vicenda giudiziaria seguita al terremoto dell'Aquila, con sette ricercatori sul banco degli accusati (sei dei quali assolti dalla Cassazione nel novembre scorso). Nella conferenza stampa del 18 dicembre scorso, citata anche da Nature, i magistrati avevano additato l'attività scientifica effettuata da ricercatori di Università di Bari, Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di bari e Centro di ricerca e sperimentazione in agricoltura Basile Caramia di Locorotondo (Bari). Per i magistrati, come ha ampiamente riferito Repubblica nei giorni scorsi, sono i "protagonisti assoluti e incontrastati nella storia xylella". Nessuna dichiarazione in merito da parte dei ricercatori. Uno degli accusati, il responsabile dell'unità di Bari dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Donato Boscia, ha detto di essere "certo che emergerà quanto prima la nostra completa estraneità". Il sospetto, per lui come per gli altri ricercatori, è di aver diffuso il batterio e presentato false documentazioni alle autorità giudiziarie, oltre che di inquinamento ambientale e deturpazione del paesaggio naturale. "Sono accuse folli", ha detto a Nature Boscia, che non ha intenzione di commentare una vicenda sulla quale è in corso un'indagine. Computer e documentazione dei ricercatori erano stati confiscati nel maggio scorso e da allora, osserva la rivista, "non è stata resa nota alcuna evidenza contro i ricercatori". Eppure, prosegue Nature, permane il sospetto che la xylella sia stata importata dalla California in occasione di uno workshop organizzato nel 2010 dall'Istituto agronomico mediterraneo. Più volte in passato, tuttavia, i ricercatori hanno affermato che in quell'occasione non era stata utilizzata la xylella. Nature rileva che il ceppo di xylella diffuso in Puglia, originario di Costa Rica, Brasile e California, è stato identificato per la prima volta in Europa, nell'Italia meridionale, nel 2013. Per la maggior parte dei ricercatori, conclude la rivista, è molto probabile che il batterio sia arrivato in Italia con piante ornamentali importate dal Costa Rica.
Xylella, l'ombra del complotto con le multinazionali. I pm: "Il batterio importato durante un convegno". I magistrati leccesi sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso dell'evento nel 2010, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" del 20 dicembre 2015. Mettiamola così: se ha ragione la Procura di Lecce, si tratta del più grande complotto mai realizzato da attori istituzionali ai danni di un territorio e della loro principale ricchezza: la natura. Università, politica, centri di ricerca, multinazionali, tutti insieme per un piano diabolico e infame. Se invece i magistrati di Lecce stanno sbagliando, si tratta di un attacco violentissimo alla scienza. Per capire come stanno le cose sarà quindi necessario aspettare le prossime settimane, quando altre istituzioni, a partire dall'Unione europea passando dal governo italiano, dovranno evidentemente dire qualcosa. Prendere una posizione. Perché mai come in questo momento è opportuno sapere. La prima domanda da farsi è: il batterio della xylella causa l'essiccamento degli ulivi? Su questo la comunità scientifica aveva pochi dubbi: sì. E invece la Procura, sulla base di altre perizie, nel decreto di sequestro spiega esattamente il contrario. "E' stata fornita una falsa rappresentazione della realtà con riguardo all'asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla xylella fastidiosa nella sindrome del disseccamento degli alberi di ulivo - si legge negli atti - e con riguardo all'asserita, ma assolutamente incerta, presenza nel Salento di una popolazione omogenea del batterio e della sua recente introduzione dal Costa Rica. I magistrati sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso di un famoso convegno del 2010. Che dai documenti che attestavano l'ingresso in Italia della xylella "emergessero gravi irregolarità". E che la documentazione originale non è mai stata ritrovata anche perché i ricercatori dello Iam avrebbero finto di cercarle nel corso della perquisizione. Ma non basta: la Procura, senza per il momento fare contestazioni formali, nota due cose: la prima è che ci sono interessi nella diffusione del batterio. Chi, per esempio, ha puntato su nuovi tipo di coltivazioni dell'olivo come la Sinagri srl, spin off dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella. E che ha tra i suoi 'amici' i professori Vito Savino, all'epoca preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, "fautore dell'eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali ", e Giovanni Paolo Martelli, "lo stesso che poi suggerirà, in base a una mera "intuizione" di fine agosto 2013, di indagare la presenza della xylella quale causa dei fenomeni di disseccamento dell'ulivo". "Savino, Godini e Martelli - scrive ancora la Procura - condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell'Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell'Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione xylella". Negli atti è poi raccontato uno strano episodio: nel 2010-2011 in Salento si tengono "campi sperimentali di nuovi prodotti contro la 'lebbra dell'olivo', epoca prima della quale - nota la Procura - non era esploso il fenomeno del disseccamento rapido". Per questo motivo li ministero autorizza l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. La Forestale ha contattato alcuni dei proprietari dei terreni e altri testimoni: raccontavano di aver visto in quel periodo persone che "in abiti civili, con tute bianche modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco. Effettuavano anche alcune manovre, alla base degli alberi". Gli alberi avevano dei cartelli. Bene: durante il sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che "la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati: alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio". Strano, perché aveva colpito alcuni alberi e alcuni no. "Sembrerebbe che abbiano colpito - dice la procura soltanto quelli legati alla sperimentazioni della "Lebbra dell'olivo" ovvero la prove in campo del Roundpop Platinum della Monsanto. L'incendio dovrebbe essere dunque di natura dolosa con finalità di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi ". Che cos'è la Monsanto? E' un leader nella realizzazione dei pesticidi. Ed è la stessa ditta che finanza un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale "presenta un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia". La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto". Bene, si tratta proprio del Roundpop, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - Parola specchio di xylella...".
Xylella, Bruxelles a pm di Lecce: “Dati non sbagliati, avanti con taglio degli ulivi”. Ma i test furono condotti in serre bucate. Enrico Brivio, portavoce dell'Esecutivo comunitario per l'Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, risponde a Cataldo Motta, capo della procura salentina, che sabato scorso aveva parlato di una "falsa interpretazione dei fatti". La rimozione degli alberi, quindi, deve continuare. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge uno dei dettagli più pesanti: le prove di patogenicità sono state condotte all’interno di vivai non a norma, scrive Tiziana Colluto il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". L’Ue tira dritto sull’emergenza Xylella, nonostante l’alt della Procura di Lecce: la Commissione europea “non ha al momento alcuna indicazione del fatto che l’Italia le avrebbe comunicato dati sbagliati”, ha detto il portavoce dell’Esecutivo comunitario per l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, Enrico Brivio. Dunque, avanti con le procedure di eradicazione del batterio, comprese quelle di abbattimento degli ulivi. “Se gli alberi sono sotto sequestro, non si possono toccare”, si mette di traverso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto ai pm di essere ascoltato come persona offesa e di acquisire il decreto di sequestro e le consulenze allegate per inviarle a Bruxelles. In quelle carte, tra le varie prove raccolte, c’è qualcosa di clamoroso: i test di patogenicità, vale a dire la prova del nove del rapporto di causa-effetto tra Xylella e disseccamento delle piante, sono stati condotti in serre bucate, non a norma, e sono stati avviati cinque mesi prima dell’autorizzazione rilasciata dall’Osservatorio fitosanitario nazionale. L’Ue: “Le misure vanno attuate” – Quella di Brivio è la risposta implicita alle parole del procuratore capo: “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti. E’ stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti”, aveva detto Cataldo Motta, nella conferenza stampa di sabato mattina. “La Commissione europea non commenta le inchieste giudiziarie in corso”, ha replicato il portavoce dell’Esecutivo comunitario, ricordando che due settimane fa l’Ue ha messo in mora l’Italia per non aver pienamente realizzato il piano contro la Xylella. “E’ molto importante che queste misure siano attuate”, ha ribadito, poiché, laddove si è diffusa, “la Xylella è uno dei patogeni delle piante più pericolosi, con un enorme impatto economico sull’agricoltura”. Come ammesso dallo stesso Brivio, “resta da capire pienamente il ruolo specifico svolto dalla Xylella e le sue implicazioni” nella diffusione della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi in Salento; tuttavia, il batterio “è stato trovato in piante giovani che mostravano i segni della sindrome e che non avevano altri patogeni”. Dunque, nessun passo indietro su quanto dettato da Bruxelles nella decisione di esecuzione di maggio e recepito dal Ministero delle Politiche agricole e dal commissario straordinario Giuseppe Silletti, anche lui tra i dieci indagati. I provvedimenti prevedono la rimozione degli alberi infetti e delle piante potenziali ospiti in un raggio di cento metri, nei focolai fuori dalla provincia di Lecce, soprattutto nel Brindisino. Tagli congelati, per il momento, prima dal Tar Lazio e ora dalla Procura. Sulla stessa sponda dell’Ue ci sono la Società Italiana di Patologia Vegetale e la Società Entomologica Italiana, che si dicono “sconcertate” dal decreto di sequestro degli ulivi. Per il tramite dei loro rispettivi presidenti, Giovanni Vannacci e Francesco Pennacchio, entrambe affermano di non essere a “conoscenza di nuove evidenze sperimentali, validate dalla comunità scientifica, tali da modificare le linee guida già espresse nel documento rilasciato al termine del convegno nazionale”, organizzato sull’argomento il 3 luglio scorso a Roma. “Le motivazioni degli interventi di contenimento – aggiungono – originano dal solo riscontro della presenza di un organismo da quarantena qual è Xylella fastidiosa, e non dal nesso di causalità tra questo e la sindrome di disseccamento rapido dell’olivo. Le solide basi di conoscenza fornite dalla ricerca internazionale, recepite dall’Ue e dalle organizzazioni fitoiatriche nazionali e internazionali, consentono di concludere che la diffusione di X. fastidiosa sul territorio nazionale ed europeo aprirebbe prospettive drammatiche per l’agricoltura. La misura del suo potenziale impatto economico può essere stimata dal confronto con episodi precedenti, quale la diffusione in Brasile di questo patogeno, ritenuto responsabile di danni per circa 100 milioni di euro l’anno”. Eppure, per gli inquirenti a traballare è l’impianto stesso su cui si fondano i piani di contenimento del batterio. La consulenza allegata al decreto “ha posto in serio dubbio – hanno scritto i pm – l’attendibilità delle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa e che hanno costituito il presupposto delle determinazioni assunte sia a livello europeo che a livello nazionale”. Il riferimento è soprattutto alla presenza di più ceppi, e non di uno solo, di Xylella sul territorio: almeno nove, segno di una presenza del patogeno sul territorio “da 15-20 anni”, così tanti da non poter giustificare, secondo la Procura, lo stato di emergenza. I protocolli da quarantena, a suo avviso, sono stati tradotti in un “piano di interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino, benché costituisca ormai dato inconfutabile che l’estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell’organismo nocivo né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi né tantomeno a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante interessate”. Cuore delle indagini resta l’assenza di un dimostrato nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi. Ad appurarlo dovranno essere i test di patogenicità svolti dal Cnr di Bari. Ma quali? È su questo che, dalle carte dell’inchiesta, emerge uno dei dettagli più pesanti: quelle prove sono state condotte all’interno di serre non a norma. Il5 novembre scorso, infatti, la polizia giudiziaria e uno dei consulenti tecnici della Procura hanno fatto un sopralluogo nel vivaio dell’Arif (Agenzia regionale per le risorse irrigue e forestali), in contrada Li Foggi, a Gallipoli, culla dell’infezione. È quello uno dei luoghi in cui sono state messe a dimora numerose piantine di varie specie, nelle quali Xylella è stata veicolata mediante infezione naturale da parte del vettore e inoculo artificiale del batterio. I risultati sono destinati, molto probabilmente, ad essere invalidati: “La rete della serra presentava una grossa fessura che ne permette il contatto diretto con l’esterno e che pertanto non è garantito l’isolamento totale delle piante in essa allocate per la sperimentazione”. Non una sottigliezza, dunque. Tra l’altro, quelle prove sono iniziate a partire dal 4 luglio 2014, mentre il Cnr è entrato in possesso della necessaria autorizzazione alla detenzione e manipolazione del patogeno da parte del Servizio fitosanitario nazionale solo il 16 dicembre 2014.
«Xylella, attacco al paesaggio», scrive Pino Ciociola il 23 dicembre 2015 su “Avvenire”. Territorio sotto attacco. Affaire Xylella: dai «protagonisti istituzionali e non», c’è stata «perseveranza colposa, tale da sfiorare la previsione dell’evento se non il dolo eventuale, nell’adozione di un piano d’interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino». Si legge a pagina 51 dell’'Ordinanza di sequestro preventivo d’urgenza' degli ulivi, firmata dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci e dal capo della Procura leccese, Cataldo Motta. Altro «dato inconfutabile» (fra molti): «Proprio le misure imposte dai Piani Silletti, ivi compreso l’uso massiccio dei pesticidi, rappresentano un serio rischio per l’incolumità pubblica». E ancora, «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla Xylella nella sindrome del disseccamento degli ulivi». Insomma, la realtà è «molto più articolata e complessa» di quella riportata «alla Comunità Europea». E col «serio dubbio» sull’«attendibilità » di quelle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa», ma che sono state «il presupposto delle determinazioni assunte a livello europeo e nazionale». Il capo della Procura leccese l’aveva spiegato sabato scorso: «Le indagini non sono compiute» e ne appaiono chiari i motivi scorrendo l’ordinanza, emessa insieme a 10 avvisi di garanzia. Ricostruzione con prove e testimonianze (queste ultime a volte false o contraddittorie) di quanto 'accade' dal 2009, cioè quando «appare già indubbio sia databile il fenomeno del disseccamento degli ulivi in Salento». Lunga storia dalla quale, per gli inquirenti, «emerge chiaramente la colposa inerzia degli organi preposti al controllo fitosanitario nazionale e della Regione Puglia nell’attenzionare l’ingravescente fenomeno del disseccamento degli ulivi» e «l’assoluta imperizia dei suddetti organi e dei soggetti con essi interfacciatisi quali unici interlocutori, vale a dire Iam, Università di Bari e Cnr». Il lavoro della Procura appare certosino, le sue conclusioni anche. È «ormai dato inconfutabile – scrivono i magistrati – che la estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione del disseccamento, né a contribuire al potenziamento delle difese immunitarie delle piante», anzi dov’è stata realizzata, per esempio a Trepuzzi, «ha comportato una esplosione del fenomeno del disseccamento!». Fra gli altri dati «acquisiti», poi, c’è che «almeno dal 2013» si sapeva come «al disseccamento rapido dell’ulivo contribuissero diverse concause» e che «la manifestazione della sintomatologia del disseccamento non sia necessariamente correlata alla presenza della Xylella». Passo indietro. I primi anomali disseccamenti sugli ulivi vengono notati nel 2008 nelle campagne fra Gallipoli, Racale, Alezio, Taviano e Parabita. Ed è sempre «dato conclamato» che negli anni 2010/2011 e 2013 «sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi». Torniamo ai giorni nostri. Da marzo scorso alcuni agricoltori si accorgono che uomini in tu- ta bianca («Modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica», spiega la Procura) si aggirano fra gli ulivi con barattoli di vernice blu e bianca, affiggono cartelli con la scritta «Campo sperimentale». Accade che poi questi ulivi brucino e qualche volta stranamente o miratamente. Morale? «Si ritiene – scrive la Procura – che l’incendio di ulivi sui quali sarebbero avvenute le sperimentazioni legate alla 'lebbra dell’ulivo', ovvero le prove in campo del Roundop Platinum della Monsanto, sia di natura dolosa con finalità d’eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi». Nuovo passo indietro: la multinazionale aveva promosso a Bari nel 2013 il 'Progetto Gipp', con l’utilizzo del 'Roundup Platinum' del Roundup 360 power con glifosato e l’'Area manager Centro Sud' della Monsanto, Lino Falcone, raccontava che «il 'Progetto Gipp' non nasce dal caso, abbiamo lavorato due anni per studiare la situazione malerbologica nell’uliveto pugliese e individuare gli aspetti critici». Infatti il Roundup è un diserbante totale – annota la Procura leccese – e il glisofato «si trasmette nel terreno, predispone le piante a malattie e tossine» e provoca diverse altre conseguenze. L’11 settembre 2014 c’è un’altra serata di presentazione del Progetto Gipp e del Roundup platinum, stavolta nel leccese, in un resort a Lequile. Detto che «non è pervenuta risposta» alla richiesta d’informazioni «sulle aree interessate da campi di sperimentazione all’Osservatorio Fitosanitario regionale», i magistrati vanno avanti: «Le due società interessate alle sperimentazioni in Salento, Monsanto e Basf, sono collegate da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito dal 2008 la società Allelyx (leggete la parola al contrario... ndr) dalla società brasiliana Canavialis e avendo la Basf nel marzo 2012 investito 13,5 milioni di dollari nella 'Allelyx'». Contattata, l’azienda rimanda al suo blog: «Non c’è nessuna ragione plausibile per cui Monsanto, i cui prodotti servono ad aiutare gli agricoltori, farebbe qualcosa che può causare problemi agli olivicoltori italiani», si legge ad esempio sull’Affaire Xylella. La Procura non ha dubbi: dai primi disseccamenti e «senza che ne fossero state individuate le cause – si legge nell’Ordinanza –, sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi, tanto da essere vietati per legge, in un contesto di grave compromissione ambientale» e senza «alcun previo studio sull’impatto che avrebbero avuto sull’ambiente». Ma l’Affaire Xylella è appunto complesso. Ci sono – sottolinea la Procura leccese – laboratori che «hanno effettuato analisi e ricerche su campioni di ulivo senza il necessario accreditamento» e 10 mesi prima di ottenerlo, come il Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura 'Basile Caramia' (a Locorotondo). L’Università di Bari che «ha effettuato prove in campo e serra senza la necessaria autorizzazione» e 4 mesi prima di ottenerla. A proposito. Pagina 35 fra le 59 dell’Ordinanza: «Ciò che è emerso è che in Salento potrebbero esserci più ceppi differenti» di Xylella, «per lo meno nove!» e «nonostante i ricercatori del Cnr di Bari Donato Boscia e Maria Saponari in più occasioni ufficiali sostengano essercene uno solo».
Fantathriller Xylella in Salento. La Xylella attacca l’oro della Puglia, scrive Erasmo De Angelis il 21 dicembre 2015 su “L’Unità”. Ora si cerchi una strategia condivisa con interventi selettivi e mirati, sperando di fermare se non le polemiche, almeno il contagio. È l’ultimo avvincente thriller rimasto senza colpevole. Anzi il fantathriller della Xylella fastidiosa, il batterio che sapevamo fino a due giorni fa untore della peste degli ulivi pugliesi, l’assassino di piante monumentali, millenarie o secolari che sono incredibili opere d’arte scolpite dal tempo e dal vento e raccontano identità, storia e paesaggio ma vengono seccate dal parassita che sfregia l’alto Salento e minaccia altre regioni e la risalita verso l’Europa. La Xylella attacca l’oro della Puglia, area con la quota maggiore di produzione nazionale di olio extra-vergine d’oliva (37%). Ma se l’ulivo è un sentimento, simbolo di identità e appartenenza, la difesa dal killer è finita nel caos e in alto mare e nella conflittualità tra apparati e organi dello Stato. A decidere cosa fare o non fare in un campo dove la prima e l’ultima parola spetta alla scienza, è stato un magistrato che ha dovuto sentenziare da giudice-scienziato-fitopatologo. Non la faccio lunga. La Procura di Lecce, con 58 pagine di decreto di sequestro, al termine di una indagine e dopo una precedente sentenza del Tar, ha buttato all’aria due giorni fa tutte le teorie scientifiche sull’epidemia e bloccato l’inizio del lavoro di contenimento ed eradicamento della Xylella. I Pm hanno sequestrato più o meno un milione di ulivi contaminati rivelando che «l’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella». Per il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta e stando alla ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento «da almeno 15 o 20 anni», non è giustificato lo stato di emergenza e sono «inidonee» le drastiche misure di contenimento, compreso l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi senza «la preventiva valutazione di impatto ambientale». I rimedi, insomma, vanno ancora studiati e nel caso attuati con gradualità. In un colpo solo, dieci indagati ed esautorati Giuseppe Silletti, il comandante regionale della Forestale che il governo ha nominato commissario straordinario per l’emergenza, il Comitato Fitosanitario di Bruxelles che ha definito il piano d’intervento d’intesa con il nostro governo e con la Commissione europea, il Piano di eradicazione in corso, le disposizioni del Ministero dell’Agricoltura, gli studi della comunità scientifica, la Regione, i docenti dell’Università di Bari, gli esperti dell’Osservatorio Fitosanitario della Puglia. Tutti concordavano sulle cause dell’epidemia e su misure di contenimento rigorose e molto dolorose anche con tagli al tappeto al limite dell’inaccettabile. Ma tant’è. Il giudice ha deciso che è tutto sbagliato ed è tutto da rifare. A oltre due anni dall’inizio dell’emergenza, torniamo quindi al punto di partenza, in uno scenario aggravato, e con la domanda rimasta appesa: ma chi è il colpevole dell’epidemia, e come si combatte? Sapevamo, infatti, che Xylella aveva come insetto-vettore la “cicala sputacchina”, che forse è stato introdotto per l’imperizia di alcuni scienziati durante un convegno scientifico anni fa a Valenzano, o forse era sbarcato in Salento appiccicato a piante ornamentali provenienti dal Sud America come è accaduto per il “Punteruolo Rosso” che colpisce la palma e il “Matsucoccus Feytaudi” il “vampiro dei pini marittimi”. La soluzione scientifica, in questi casi, è quella di estirpare. Ma il contrordine dei giudici non ammette repliche: “La estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell`organismo nocivo, né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi, né a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante”. C’è chi esulta, pensa di vedere confermate teorie complottarde che sono una sfilza e navigano nel web per le quali: la vera colpa è di “bioterroristi al soldo di multinazionali Ogm”, la Xylella è “un arma dei geoguerrieri di paesi concorrenti nella produzione olivicola come Spagna, Grecia, Portogallo, Tunisia, Algeria, Iran, Irak e Marocco contro il primato della Puglia nella produzione di olio”, è “prodotto dalle discariche salentine illegali di rifiuti industriali”, è frutto dei “tentacoli della Monsanto e della grande finanza internazionale controllori delle più grandi banche americane e delle più grandi multinazionali del petrolio e membri permanenti del club Bilderberg e fondatori dell’istituto Aspen e controllori della politica italiana ed europea”, è “l’arma batteriologica catalogata nel documento Plant-Pathogenic Bacteria as Biological WeaponsReala Threats per devastare ambienti naturali”, è stato introdotto da “immobiliaristi e magnati della finanza internazionale che vogliono trasformare costa e entroterra salentino come megalopoli modello Dubai che hanno il massimo del lusso e non hanno che deserto e mare”… Scherzi a parte, vorremmo sapere chi ha ragione tra il procuratore e i suoi pm e il resto del mondo scientifico, lo Stato e l’Europa che invece vede un “nesso causale” tra fenomeni di disseccamento rapido e contagio da Xylella? E soprattutto come si ferma il contagio? La cura dell’eradicazione a tappeto delle piante sospette, è impressionante ma esiste l’alternativa al dilagare dell’epidemia? Morale della favola. Su temi molto sensibili per i nervi scoperti dei cittadini – dai vaccini ai farmaci antitumorali alle scelte amministrative e al paesaggio agricolo – possiamo sempre delegare tutto a Tar e Procure che devono sostituire, loro malgrado, interi governi, premi Nobel, uffici brevetti, presidenti di regione e loro assessori, sindaci e giunte comunali, direttori di testate, dirigenti di azienda e capi del personale, Commissione Grandi Rischi, sindacati, associazioni di categoria? Diceva Romano Prodi, che “Il ricorso al Tar è diventato un comodo e poco costoso strumento di blocco contro ogni decisione che non fa comodo, penetrando ormai in ogni aspetto della vita del paese”. Il tema chiama in causa la qualità delle governance delle società moderne in rapidissima trasformazione e il rischio di un processo generale di de-responsabilizzazione dell’agire politico e di perdita di autorevolezza del mondo scientifico, anche agli occhi del cittadino. Fare a pezzi il primato dell’analisi scientifica e della definizione razionale di obiettivi e di programmi è un suicidio, ma lo è anche per la credibilità e l’affidabilità dell’amministrazione pubblica e dello Stato nel suo complesso. Nel frattempo, in attesa di capire quali sono le “ben altre misure da attendersi anche a livello europeo” sostenute dalla Procura, continui a tappeto in tutte le sedi la ricerca per curare le piante malate e per evitare che questa infezione si diffonda come una cicatrice indelebile. Si cerchi una strategia condivisa con interventi selettivi e mirati, le migliori e buone pratiche agricole, dall’aratura alla potatura. Sperando di fermare se non le polemiche, almeno il contagio.
Xylella punto e a capo. Salento. Stop allo sradicamento degli ulivi millenari. Grazie al Tar del Lazio, che ridà la palla alla Corte di giustizia europea accogliendo i ricorsi delle aziende bio. E alla Procura di Lecce, che ha sequestrato le piante «incriminate». Uliveti salentini attaccati dalla xylella, scrive Marilù Mastrogiovanni (il cui nome ricompare più volte successivamente), il 31.01.2016 su “Il Manifesto”. Xylella, punto e a capo. Finita l’emergenza scattata nel Salento per il ritrovamento sugli ulivi e su molte altre piante del batterio da quarantena xylella fastidiosa, quanto fatto finora potrebbe essere messo in discussione dalla Corte di Giustizia europea. Il Tar del Lazio infatti, con tre ordinanze diverse, ferma il gioco e ridà la palla all’arbitro del Lussemburgo. La disposizione della giustizia amministrativa arriva qualche settimana dopo l’intervento di quella penale: la Procura di Lecce infatti ha indagato tutti i protagonisti dell’emergenza xylella (ma nessun politico), incluso il commissario Silletti e gli scienziati del Cnr di Bari, e ha disposto il sequestro degli ulivi che dovevano essere sradicati, in base alle decisioni della Ue e del ministro Martina. Salvando un patrimonio di alberi secolari e millenari unico al mondo. Tutto è partito dal ricorso di 29 aziende agricole bio, che 10 mesi fa (era il 31 marzo 2015) contestarono dinanzi al Tar l’intero impianto normativo con cui la Regione Puglia, il Ministero delle Politiche agricole, la protezione civile e il Commissario per l’emergenza xylella, avevano, maldestramente e forzando le norme, cercato di ottemperare agli obblighi delle direttiva comunitaria 29/2000 che impone agli Stati membri di «eradicare» i patogeni da quarantena come la xylella. «Eradicare» il batterio, dice la norma. Non certo «sradicare» ulivi millenari. Le strategie della Commissione europea, secondo i ricorrenti e secondo il Tar del Lazio che ha accolto le richieste, e a cascata del Ministero delle Politiche agricole, della Regione Puglia e della Protezione civile, si sarebbero spinte oltre i paletti fissati dalla direttiva 29/2000. Insomma, la Commissione europea avrebbe travalicato i suoi poteri e le sue competenze, sconfinando nel terreno, cioè nel potere, proprio degli Stati membri, intaccandolo. Se il profilo di illiceità che il Tar del Lazio ha ravvisato nelle norme europee e, a cascata, nelle decisioni del Ministero delle politiche agricole del Piano del commissario governativo per l’emergenza xylella Giuseppe Silletti, dovesse essere confermato dalla Corte di giustizia Ue, si aprirebbe la strada a richieste di risarcimento danni milionarie. A quel primo ricorso, che bloccò, grazie alla sospensiva confermata in appello, l’attuazione del Piano per l’emergenza xylella di Martina e del suo commissario straordinario, ne sono seguiti altri, di altri proprietari di uliveti. E intanto, nell’attesa che il Tar si esprimesse, quelle imprese presentano numerosi motivi aggiunti, inseguendo la camaleontica e schizofrenica strategia anti xylella che, partita dalla Puglia, ha ormai preso la strada del parlamento europeo. Qui, trova facile sponda in Paolo De Castro, capogruppo Sde, già presidente della Commissione europea all’Agricoltura, già ministro dell’Agricoltura, brindisino doc. È De Castro a imporre ai suoi una linea dura contro la xylella, che poi si rivela essere una linea dura contro gli ulivi pugliesi: propone al Parlamento e fa approvare una risoluzione che impone di sradicare gli ulivi e di utilizzare a tappeto pesticidi. La risoluzione è approvata pochi giorni prima della decisione di esecuzione della Commissione Ue contestata dagli agricoltori bio, ed interamente assorbita in essa. È proprio in tale decisione di esecuzione, la 789/2015, e in tutti gli atti successivi e susseguenti, che il Tar del Lazio trova profili di illiceità, disponendo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea. In quella decisione la Commissione decide d’imperio, tra le tante decisioni devastanti per l’ambiente e le persone, che a nord del brindisino per ogni ulivo positivo a xylella si debbano sradicare tutt’intorno per tre ettari e mezzo, anche gli alberi sani. Poiché tutto questo non è scritto nella direttiva del 29/2000 che la decisione di esecuzione 789/2015 applicherebbe, dunque potrebbero essere decisioni illegittime. A questo primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue se ne aggiungono altri due. L’ultimo presentato in ordine di tempo, quello di 21 proprietari di uliveti di Torchiarolo, in provincia di Brindisi, ha utilizzato uno studio frutto di mesi di lavoro sulle norme europee e sulla xylella, che il gruppo Lair (Law and agroecology Ius et Rus), giuristi dell’Università del Salento, in collaborazione con il prof. Luigi De Bellis, ha messo a disposizione sulla rete, rinunciando ad ogni copyright. Il Tar del Lazio, rinviando anche questo ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue, condivide integralmente le tesi del Lair, utilizzate dai ricorrenti. «Il Tar – dicono gli avvocati Paccione e Stamerra che difendono le aziende bio – riconosce il nuovo scenario in cui sul banco degli imputati compare anche la Commissione Europea, perché la Ue impone di fatto lo svellimento di milioni di alberi che costituiscono un patrimonio paesaggistico rilevante, precostituendo le condizioni per una drammatica desertificazione che andrebbe a spezzare il rapporto millenario tra la popolazione salentina e la cornice paesaggistica entro la quale la prima ha sviluppato nel tempo storico la propria identità culturale e socio-economica. Le misure adottate – proseguono i legali – non valutano i rischi che svellimenti senza reimpianti e somministrazione di tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli possono comportare su parti di territorio pugliese specialmente protette dal diritto dell’Unione in quanto censite come zone protezione speciale, parchi naturali e siti di interesse comunitario». Secondo Paccione e Stamerra «il rischio che si corre è che con la desertificazione del suolo il popolo pugliese smarrisca anche la sua preziosa identità culturale, prima ancora di subire terribili conseguenze economiche e sull’eco-sistema. I cittadini hanno il diritto di autodeterminarsi nel quadro della legalità comunitaria e repubblicana, di difendere il loro paesaggio, di esercitare liberamente la propria attività d’impresa senza abnormi forme di espropriazione indiretta non codificata, di difendere il suolo agricolo contro l’aggressione di sostanze chimiche nocive che l’Unione pretende di imporre senza valutare previamente i rischi per la salute umana, animale e vegetale». Infine ai tre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia europea disposti dal Tar del Lazio, si aggiunge un vero e proprio ricorso al Tribunale europeo, l’unico, presentato dagli stessi agricoltori bio riuniti nel «Comitato SOS salviamo ora il Salento», per l’annullamento della stessa decisione di esecuzione 789/2015 e un altro ricorso presentato da alcune associazioni, tra cui il Wwf, con la prof. De Giorgi, ordinaria di diritto Amministrativo all’Università del Salento in collaborazione con il Lair. Insomma, la Ue è accerchiata. In gioco c’è la più grande foresta d’ulivi secolari e millenari del mondo e l’identità del popolo pugliese.
Il caso xylella e la mafia “agricola” su Presa diretta, scrive "Xylella Report" il 17 gennaio 2016. I tentacoli della mafia sui soldi che l’Europa destina agli agricoltori. IL CASO XYLELLA, la storia del batterio killer che uccide gli olivi pugliesi, arriva a Presa diretta, che smaschera il grande business dei finanziamenti europei finiti nelle tasche della mafia. Tra gli autori e le autrici della trasmissione di Riccardo Iacona, anche Marilù Mastrogiovanni, autrice di “Xylella report”. “Da quando nel Salento è stata dichiarata l’epidemia Xylella, è cominciato il piano degli abbattimenti. Ma era vera emergenza”? E’ questo che si chiede PRESA DIRETTA, che racconta dell’inchiesta della Procura di Lecce, nella quale sono indagati tutti i responsabili, amministrativi e scientifici, della gestione dell’emergenza Xylella. Un vero terremoto in seguito al quale il Commissario di Governo Silletti si è dimesso. Con le indagini della magistratura, è stato vietato l’abbattimento di altri olivi, ma intanto centinaia di piante secolari non ci sono più. Le telecamere di PRESADIRETTA hanno raccolto le voci di tutti i protagonisti, raccontato la disperazione dei coltivatori mentre venivano abbattute le loro piante. Hanno filmato per la prima volta come si inocula il batterio della Xylella nella pianta sana in laboratorio, per il test di patogenicità. Hanno raccolto le esperienze positive di ricercatori e coltivatori che in tutta Italia provano a sconfiggere la Xylella senza abbattere le piante di olivo. E poi PRESADIRETTA si è occupata di raccontare il gigantesco giro di interessi legato ai fondi europei per l’Agricoltura. Come vengono assegnati i contributi che l’Europa stanzia per aiutare chi lavora la terra? Chi controlla che i milioni di euro distribuiti ogni anno vadano davvero a chi ne ha diritto? Nell’inchiesta di PRESADIRETTA dimostreremo come una parte di questi soldi è finita direttamente nelle mani della mafia. E chi doveva controllare che cosa ha fatto? “IL CASO XYLELLA” è un racconto di Riccardo Iacona con Giuseppe Laganà, Raffaella Pusceddu, Elena Stramentinoli, Antonella Bottini, Elisabetta Camilleri, Irene Sicurella, Cristiano Forti, Andrea Vignali, con la collaborazione di Marilù Mastrogiovanni.
La Puntata di Presa Diretta di domenica 17 gennaio. Il caso Xylella: processo alla scienza o ai furbetti dell’agricoltura? Scrive Aldo Funicelli domenica 17 gennaio 2016 su “Agora Vox”. Ancora prima di essere trasmessa, la puntata di Presa diretta di questa sera sta già suscitando delle polemiche: tratterà del caso Xylella, in Puglia, degli abbattimenti delle piante di ulivo, decisi dalla Asl e dai ricercatori della regione e dell'inchiesta del procuratore capo di Lecce. Sul caso Xylella sembra che non si possa avere una visione basata sui fatti: da una parte si legge della caccia agli untori portata avanti dalla magistratura leccese, che ha messo alla sbarra la scienza. Come nel processo ai tecnici della commissione Grandi Rischi. Condannati e poi assolti in appello per le rassicurazioni fatte alla popolazione aquilana poco prima della scossa mortale del 2009. Qui parliamo di piante di ulivo e di un insetto che le attacca, della decisione di abbattere le piante per contenere l'infezione. Decisione presa su parere degli esperti, i ricercatori scientifici e coordinata dal commissario Siletti (come spesso accade in Italia, dopo ogni emergenza) che ora si è dimesso. La decisione di abbattere le piante è stata ritenuto sbagliata dalla procura, che si è avvalsa del supporto di altri esperti e dalle indagini della forestale: “In un anno e mezzo le indagini, coordinate dai sostituti procuratori Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, condotte dal Corpo forestale dello Stato e basate sulle consulenze di esperti nominati dalla magistratura, hanno evidenziato come i dati presentati in ambito europeo (da cui è poi scaturita la direttiva di abbattimento nel raggio di 100 metri) abbiano tratto in errore la Comunità europea. Il procuratore ha parlato di “dubbi sulle conclusioni scientifiche presentate”. Da qui il decreto di sequestro preventivo d'urgenza di tutti gli ulivi salentini su cui pende il piano d’abbattimento. Un provvedimento già notificato nelle scorse ore a tutti gli interessati.” Chi ha ragione e chi ha torto? C'era l'emergenza o no, gli abbattimenti erano giustificati dal punto di vista scientifico o no? Siamo di fronte, come scrivono in tanti (e anche riviste scientifiche come Nature) di un processo intentato alla scienza? Così scriveva Paolo Mieli (citando poi un articolo de Il Foglio) la settimana scorsa sul corriere: L’Italia sta diventando sempre più un Paese ostile al metodo scientifico e amante delle teorie del complotto. L’ennesima dimostrazione viene dal caso della «Xylella fastidiosa», batterio che produce grave nocumento all’ulivo, penetrato in Europa diciotto anni fa e più recentemente in Italia, nel Salento. Nelle Americhe la si combatte da un secolo, purtroppo senza successo. Il Consiglio nazionale delle ricerche di Bari ha lavorato sodo per scoprire origini e modo di debellare quello che prende il nome di CoDiRO (Complesso del disseccamento rapido dell’olivo). Prendendo in seria considerazione anche l’ipotesi di sradicare gli ulivi già colpiti per provare a sterminare gli insetti diffusori dell’infezione e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette. L'inchiesta di stasera dovrebbe servire a fare un po' di chiarezza: tra i giornalisti che hanno contribuito al servizio anche Marilù Castrogiovanni, autrice del libro“Xylella Report”. Ecco, il solito servizio a tesi: questi si leggeva sulla rete (luogo notoriamente popolato da persone use a giudicare prima di capire). Come se il giudizio dei giornalisti che parlavano di untori e di persecuzioni fosse più autorevole degli altri. Come se i tecnici a cui si è rivolta la procura di Lecce fossero meno “scienziati” degli altri. In un suo articolo, la giornalista punta il dito proprio su questo: sul pressapochismo della regione, sugli interessi in campo (per i fondi per l'agricoltura), sugli editoriali scritti senza conoscere troppo i fatti per criticare l'operato della procura leccese: si è creato un polverone che impedisce di capire come stanno le cose, “un’arma di distrazione di massa.” “Sono scesi in campo tutti contro tutti, ma soprattutto contro la Procura, “colpevole” di aver osato mettere in discussione la Scienza. Dimenticando che la “Scienza” è cosa diversa dallo scientismo perché essa stessa, se è tale, dovrebbe essere la prima a dubitare di ciò che fa, perché è fatta da uomini ed è il risultato di confronto, dibattito e di condivisione dei risultati. Un circolo virtuoso di accrescimento della conoscenza che in questo caso è mancato del tutto. La ricerca su xylella in Puglia è infatti in mano a pochi centri di ricerca, tutti pugliesi, e a pochi uomini. Ed è così che per dare la possibilità a tutti gli enti, pubblici e privati, di fare ricerca su xylella, la Regione Puglia ha fatto un bando da due milioni di euro, ma inserendo criteri di accesso che di fatto agevolano chi la ricerca la fa già. E si rimane sempre tutti nel solito brodo, a cantarsela e a suonarsela, senza possibilità di confronto. Ma la questione non è neanche questa. La questione è che spostando il fuoco su “sradicamento si, sradicamento no”, “procura contro scienza”, “scienziati contro complottasti”, “complotto si, complotto no”, si fa talk show e si ottiene il vuoto spinto. Dimenticando, ancora una volta, il cuore del problema: a chi conviene dire che la xylella fa seccare gli alberi anche se non è provato? Perché non è provato, lo sapete, vero? A chi conviene dire che si tratta di emergenza e di calamità naturale da fitopatologia? A chi conviene dire che servono i soldi per la ricerca e per la cura del disseccamento causato dalla xylella?”[..]Insomma: la Regione Puglia ha prodotto documentazioni e relazioni per dimostrare l’emergenza e la calamità sulla base di evidenze scientifiche inesistenti. Da una parte la Regione decideva a priori, già a partire dall’ottobre del 2013, che si trattava di emergenza da xylella e dichiarava alla Ue che l’intera provincia di Lecce era infetta, senza neanche aver fatto un monitoraggio, senza aver fatto uno studio epidemiologico (che ancora manca), senza aver dimostrato la prova causa effetto tra presenza di xylella e disseccamento degli ulivi (prova che ancora manca), senza neanche aver isolato il batterio in laboratorio, cosa che avverrà un anno dopo. Dall’altra la Scienza, anche perché a corto di soldi, arrancava negli esperimenti, si chiudeva a riccio, pubblicava qualche sparuta ricerca che si validavano da soli (ebbene si, anche questo è nel libro).Però, mentre la Regione non dava soldi alla Scienza ma pretendeva risposte, si affrettava d’altro canto a dare subito due milioni di euro al Consorzio Ugento Li Foggi, che il consorzio spendeva per fare “opere idrauliche” giustificandole con l’emergenza xylella, e 4,5 milioni all’Arif, per sradicare tutti gli alberi della Provincia di Lecce (sic!), perché aveva “i giusti uomini e giusti mezzi”. Per poi consentire ad Arif (direttore Giuseppe Taurino, già deputato pd), di predisporre un “Avviso pubblico” per reclutare uomini e mezzi, perché ne era sprovvisto (ma come? Non aveva “i giusti uomini e i giusti mezzi?). Leggi: incarichi e affidamenti ad alto tasso di clientelismo. Parte così, l’armata brancaleone della Regione Puglia all’arrembaggio degli infiniti soldi della Ue. E parte già nell’ottobre 2013.Parte con questi primi affidamenti pari a 6,5 milioni per tappare i buchi del Consorzio Li Foggi e per dare potere all’Arif, invece di dare spalle forti alla Scienza. Ci sono forti interessi dietro questa storia, i fondi per l'emergenza e poi per il ripopolamento delle aree dove si è abbattuto. Prima di esprimere un mio giudizio voglio capire e vedere: questo è quello che ha fatto il gruppo di giornalisti di Presa diretta nel servizio che vedremo questa sera.
La scheda del servizio: Il caso xylella. A PRESADIRETTA una puntata ricchissima, con tre diverse inchieste. IL CASO XYLELLA, la storia del batterio killer che uccide gli olivi pugliesi. Da quando nel Salento è stata dichiarata l’epidemia Xylella, è cominciato il piano degli abbattimenti. Ma era vera emergenza? La Procura di Lecce ha aperto un’inchiesta nella quale sono indagati tutti i responsabili, amministrativi e scientifici, della gestione dell’emergenza Xylella. Un vero terremoto in seguito al quale il Commissario di Governo Silletti si è dimesso. Con le indagini della magistratura, è stato vietato l’abbattimento di altri olivi, ma intanto centinaia di piante secolari non ci sono più. Le telecamere di PRESADIRETTA hanno raccolto le voci di tutti i protagonisti, raccontato la disperazione dei coltivatori mentre venivano abbattute le loro piante. Hanno filmato per la prima volta come si inocula il batterio della Xylella nella pianta sana in laboratorio, per il test di patogenicità. Hanno raccolto le esperienze positive di ricercatori e coltivatori che in tutta Italia provano a sconfiggere la Xylella senza abbattere le piante di olivo. E poi PRESADIRETTA si è occupata di raccontare il gigantesco giro di interessi legato ai fondi europei per l’Agricoltura. Come vengono assegnati i contributi che l’Europa stanzia per aiutare chi lavora la terra? Chi controlla che i milioni di euro distribuiti ogni anno vadano davvero a chi ne ha diritto? Nell’inchiesta di PRESADIRETTA dimostreremo come una parte di questi soldi è finita direttamente nelle mani della mafia. E chi doveva controllare che cosa ha fatto? E infine un’inchiesta sulla controversa applicazione della legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza. Come mai nel nostro paese i medici obiettori sono in media il 70% del totale e in certe Regioni superano addirittura il 90%? Questi numeri garantiscono l’applicazione del diritto a interrompere la gravidanza?Le telecamere di PRESADIRETTA sono entrate negli ospedali, nei consultori e negli studi medici privati per capire se “la 194”, a distanza di 40 anni dalla sua entrata in vigore, sia una legge che funziona. “IL CASO XYLELLA” è un racconto di Riccardo Iacona con Giuseppe Laganà, Raffaella Pusceddu, Elena Stramentinoli, Antonella Bottini, Elisabetta Camilleri, Irene Sicurella, Cristiano Forti, Andrea Vignali, con la collaborazione di Marilù Mastrogiovanni.
XYLELLA: NO A MACCHINA DEL FANGO, SI AGISCA SUBITO CON MISURE ALTERNATIVE E SOSTENIBILI, scrive Rosa D'Amato il 16 gennaio 2016.
Lettera aperta. “La scienza alla sbarra”. “Quelli che odiano la scienza”. “Complottismo antiscientifico”. Sono questi alcuni dei titoli che giornalisti e opinionisti, più o meno autorevoli, hanno dato in queste settimane alle loro dotte dissertazioni sull’indagine che la Procura di Lecce ha avviato sulla gestione del disseccamento rapido dell’ulivo in Puglia (o più comunemente, sul caso Xylella). Siamo solo alla fase delle indagini, ma tanto è bastato per far sollevare dita inquisitorie non solo contro i magistrati ma contro tutto quel fronte eterogeneo che non condivide le misure anti-Xylella del cosiddetto Piano Silletti, ossia gli abbattimenti massicci di ulivi e l’uso di pesticidi su larga scala. L’accusa per i giudici e per questo fronte è di essere dei complottisti paranoici che si oppongono alla Scienza con la “s” maiuscola. Da un lato ci sarebbe la scienza (il piano Silletti), dall’altro dei folli oscurantisti. Peccato che di questo fronte finito sotto accusa facciano parte, oltre a semplici cittadini, anche esperti, agricoltori, organizzazioni di categoria e, si pensi un po’, scienziati. E non scienziati sedicenti, ma ricercatori internazionali che della Xylella si occupano da decenni. E che sono invitati come esperti a convegni promossi dall’Ue, ossia da chi ha avvallato e indirizzato il piano Silletti. Ora, non spetta a me difendere la Procura di Lecce: non so come andranno a finire le indagini e mi auguro che i giudici sapranno andare oltre le pressioni esercitate da alcuni mezzi d’informazione per fare luce sulla vicenda. Ma c’è una verità giuridica e c’è una verità politica. A me, da eurodeputata, interessa ristabilire la seconda, anche per soffiarmi via di dosso le fastidiose “dicerie dell’untore” che hanno colpito anche me. Lo faccio partendo da un assunto incontestabile: le misure anti-Xylella finite sotto la lente della Procura di Lecce non hanno alcuna base scientifica. Non lo dico io, la “complottista” Rosa D’Amato: lo dicono gli stessi attori, Ue e governo italiano, autori del famigerato Piano Silletti. Tale piano si basa sul fatto che non esiste nessuna cura contro la Xylella che sia scientificamente provata. Da qui, la decisione di adottare un protocollo di emergenza per fermare l’avanzata del batterio: abbattimenti e pesticidi. Ora, dinanzi a questo protocollo si può essere favorevoli o contrari. Ma dire che chi è contro "odia la scienza", oltre a essere una menzogna, è una grande mascalzonata. Significa affidarsi ciecamente e in modo fondamentalista al parere di una stretta cerchia di specialisti (quella del Cnr di Bari nel caso in questione), dimenticando tutti quei filoni di ricerche, condotte in mezzo mondo, che dicono che gli abbattimenti sono risultati nella maggior parte dei casi inutili e che l’uso di pesticidi, anziché fermare la Xyella, ha indebolito terreni e piante favorendone così la diffusione. Faccio l’esempio degli studi di Alexander Purcell, che dal 1978 conduce ricerche sulla Xylella in California e in altre zone del globo. In un suo articolo pubblicato sul Foglio lo scorso giugno si legge: “Ancorché non sia possibile prevedere dove e come la Xylella si diffonderà, è però un fatto che quando il batterio penetra in un territorio e vi si insedia, la sua eradicazione non è più possibile. La prevenzione è quindi l’unico efficace mezzo per affrontare questo patogeno”. Prevenire non significa abbattere, non vuol dire lavorare sull’eliminazione di un batterio che nessuno, in quasi 40 anni, è riuscito a eliminare: significa semmai agire sul complesso di cause che portano alle malattie di cui la Xylella (nelle sue diverse forme) è stata responsabile o corresponsabile. Significa rendere i terreni e le piante di una determinata area più resistenti attraverso pratiche agronomiche sostenibili. Ripeto: non lo dico io, Rosa D’Amato, da europarlamentare, ma ricercatori di mezzo mondo, dal Brasile alla California fino alla stessa Puglia. Già oggi in Salento ci sono casi accertati in cui, lavorando sulla malattia con pratiche sostenibili, non si è sconfitto il batterio ma si è eliminata la malattia, ossia il disseccamento degli ulivi. Eppure nessuno di questi casi è stato preso in considerazione da Bruxelles e Roma. Quello che ho chiesto più volte, sulla scorta di documenti congiunti elaborati con esperti, ricercatori e organizzazioni del settore agricolo e del biologico, è che nello stanziare fondi per la ricerca si tenessero in considerazione i diversi filoni possibili invece di concentrarsi solo sul Cnr di Bari e solo sul rigido protocollo abbattimenti/pesticidi. Non “meno scienza” chiediamo, ma “più scienza”. Perché, come dice sempre Purcell (citato più volte come ‘buon esempio di scienza’ proprio da chi attacca la Procura di Lecce), “le strategie di lotta che funzionano in una determinata regione o su di una specifica coltura possono non essere altrettanto efficaci su altre colture, o sulla medesima coltura ma in condizioni climatiche differenti”. Ad esempio, “in tre differenti aree californiane vengono adottati tre diversi metodi di lotta contro la malattia di Pierce”, ossia la malattia provocata dal ceppo di Xylella che ha attaccato le viti statunitensi. Ora, dato che il piano Silletti è bloccato per via dell’indagine della magistratura, perché non promuovere quelle pratiche alternative che hanno dato già buoni risultati e che eviterebbero l’abbattimento degli ulivi? Cosa c’è da perdere? Perché chiedere di allargare il campo della ricerca anche a questi filoni dovrebbe essere, come scritto da qualcuno, “odio per la scienza”? Rosa D’Amato, eurodeputata M5S.
Quando di Xylella parla chi sa, scrive, rimbrottando, il 21 gennaio 2016 by, Donatello Sandroni. Intervista ad Alexander Purcell della Berkeley University e uno dei massimi esperti mondiali di Xylella. E no: non ha mai detto che è inutile abbattere gli olivi. Oivicoltura specializzata: non è un mostro, è agricoltura. Quelli nella fotografia sono olivi sanissimi, catturati a Foggia. Ma basta scendere di un centinaio di chilometri e gli scenari cambiano, mostrando olivi affetti da Co.Di.RO, ovvero la sindrome cosiddetta del “complesso del disseccamento rapido degli olivi”. Abbatterli o non abbatterli, questo il dilemma. Per lo meno, lo si è fatto diventare un dilemma, perché i massimi esperti mondiali di Xylella non hanno dubbi: se vedi Xylella, abbatti tutto ciò che potrebbe contenerla, sia esso sintomatico o meno. E fallo pure in fretta e in modo “generoso”, altrimenti il patogeno ti scavalca nel territorio e ti obbliga poi a inseguirlo moltiplicando gli abbattimenti futuri. Non a caso, anche la Ue ha stabilito nel lontano 2000, con apposita Direttiva, che vanno abbattute sia le piante sintomatiche, sia quelle asintomatiche, prevedendo un raggio di contenimento pari a ben dieci chilometri. Questo perché la Xylella non deve muovere un solo passo da dove è stata trovata, sia che stia facendo ammalare le piante, sia che non lo stia facendo. L’azione contro il patogeno, invece, si è arenata proprio su questo punto: non essendoci la sicurezza matematica che il Co.Di.RO sia causato proprio da Xylella, tutto, come ormai si sa, è stato bloccato dalla Procura di Lecce, la quale non solo ha impedito gli abbattimenti, ma ha anche iscritto nel registro degli indagati anche dieci membri della task force dedicata alla gestione dell’epidemia. Nella querelle è stato poi tirato in ballo anche Alexander Purcell, della Berkeley University in California. Uno dei massimi esperti mondiali di Xylella e quindi anche uno dei relatori al workshop organizzato dall’Efsa nel novembre 2015. Dopo il convegno si diffuse in Italia la voce che Purcell avesse affermato che abbattere gli alberi fosse inutile. Una voce funzionale alle posizioni di coloro che fin dal primo momento si erano opposti agli abbattimenti degli ulivi. Una voce riportata su Videoandria.com, giornale online pugliese su cui compare la testimonianza di Rosa D’Amato, eurodeputata del Movimento 5 Stelle, la quale ha preso parte proprio al workshop dell’Efsa e si sarebbe quindi eletta a divulgatrice delle posizioni di Purcell stesso. Una voce riecheggiata perfino nelle riprese della conferenza stampa della Procura di Lecce, per come viene riportata da un altro organo di stampa locale, ovveroTrNews.it. Un filmato in cui si può ascoltare una delle due procuratrici aggiunte affermare che gli abbattimenti non servirebbero a niente e che a supporto di tale tesi si sarebbe perfino espresso, ça va sans dire, proprio un grande esperto di Xylella, ovvero Alexander Purcell. Una voce che ora si scopre che non è mai partita. Anzi, viene oggi seccamente smentita proprio dal medesimo Alexander Purcell, intervistato da Italia Unita per la Scienza, un’associazione di giovani (e meno giovani) appassionati di ricerca e, appunto, di Scienza. Pur mantenendosi “politically correct” circa gli avvenimenti giudiziari italiani, il professore emerito di Berkeley riafferma nell’intervista l’assoluta necessità di abbattere le piante e di combattere il vettore, come pure che l’azione deve essere intrapresa a fronte della semplice presenza del patogeno. A questo punto urge chiarirsi su alcuni punti: primo, perché l’europarlamentare pentastellata si è mai presa la briga di riportare affermazioni che oggi vengono smentite proprio dalla persona cui ella le avrebbe attribuite. Secondo, perché la Procura ha coltivato la convinzione che Purcell fosse d’accordo con la tesi dell’inutilità degli abbattimenti. Perché lo ha letto su VideoAndria? Oppure dove? E perché non ha verificato direttamente alla fonte, cioè presso il Professor Purcell, visto che l’azione stessa della Procura pare si sia sentita ancor più corroborata proprio da queste dichiarazioni oggi risultate mai rilasciate? Sono domande cui è bene venga data presto risposta, visto che la primavera è ormai alle porte e i diseccamenti cominciano a manifestarsi anche in Provincia di Taranto, ad Avetrana. E magari, sarebbe interessante conoscere le motivazioni per le quali un’europarlamentare diffonda affermazioni capaci di influenzare decisioni così importanti senza essere sicura di ciò che ha sentito. O forse lo era. Ma qui si dovrebbe fare un’analisi più attenta dell’atteggiamento che molti politici grillini hanno tenuto sul tema Xylella. Sia come sia, in considerazione della smentita di Purcell, sarebbe ora necessario che la suddetta europarlamentare, oltre a chiarire, fornisse anche delle scuse: al Professor Purcell e a tutti coloro che in nome di quelle affermazioni – mai rilasciate – hanno continuato a coltivare l’idea di essere nel giusto, quando molto probabilmente è vero esattamente il contrario. Come detto, la primavera batte ormai alle porte: la Xylella è lì, negli oliveti, sempre più pasciuta. Phylaenus anche, pronto a contagiare alberi su alberi, anche a distanza di chilometri grazie al trasporto passivo tramite mezzi, agricoli o meno. Se qualcuno ha da fare qualche marcia indietro, quindi, che la faccia subito. O potrebbe pentirsene per sempre.
Addendum post-pubblicazione: Poteva scusarsi per il malinteso. Oppure scegliere un opportunistico silenzio, per fare calare un pietoso velo sulla topica Purcell. Invece no. Lei, rilancia (Leggi l’articolo di NextQuotidiano). Parla di “giornalisti, opinionisti o sedicenti tali”, di “macchina del fango“. Di sedicente qui, semmai, c’è più che altro una portavoce che mistifica le parole di scienziati di fama mondiale, filtrandone i messaggi per renderli funzionali alle tesi farlocche che stanno sempre più contraddistinguendo un Movimento nato da uno spacciatore teatrale di bufale. Non solo vi state qualificando per quello che siete sull’affare Xylella, cara D’Amato, ma vi state confermando dei balenghi su tanti altri argomenti, come gli ogm, gli odiati pesticidi, oppure i vaccini. Perfino sulle scie chimiche e sulle sirene vi siete fatti prendere per i fondelli. Un esercito d’improvvisati presuntuosi che ha trovato alloggio nel ribollire di un’onda anomala più pericolosa del marciume stesso che si prefigge di abbattere. Altro che macchina del fango: in Puglia sono proprio nella merda. E in parte ci sono anche grazie alle pressioni mediatiche anti-abbattimento di cui soprattutto voi vi siete resi protagonisti all’urlo “Il popolo si sta svegliando!”. Di sedicenti giornalisti vi sono infatti quelli e quelle che hanno dato spazio a ogni bufala, a ogni falsità che permettesse loro di alimentare il loro personalissimo odio verso i soliti totem tanto cari ai dementi: ogm, pesticidi e complotti edilizi o energetici. Il tutto, seppellendo la verità dei fatti sotto una spessa coltre di disinformazione demagogica. Spero quindi che alla prossima tornata elettorale il M5S sappia filtrare meglio i candidati, anziché raccattare bizzarri soggetti in cerca di sistemazione, proponendo finalmente una classe politica con meno apriscatole in mano e più sale in zucca.
Rosa D’Amato torna a giocare con le parole di Alexander Purcell, scrive “Next Quotidiano” del 21 gennaio 2016. L’europarlamentare del Movimento 5 Stelle Rosa D’Amato, risponde su Facebook alle accuse di non saper leggere. E indovinate un po’? Lo fa dimostrando manipolando ancora una volta le parole altrui. L’eurodeputata M5S ha letto l’intervista di Alexander Purcell a Italia Unita per la Scienza dove viene rivelato al mondo che manipola scientemente le affermazioni degli esperti di Xylella al fine di sostenere le sue tesi senza fondamento scientifico (tesi per altro finite nell’ordinanza dei PM di Lecce). Per rispondere usa alcune frasi estrapolate da una lettera che Alexander Purcell scrisse al Foglio. A parte il lungo preambolo nel quale tenta di far passare delle misure di prevenzione come le uniche misure per poter porre fine ad un’epidemia (c’è bisogno sia di queste che di quelle, e la prevenzione dopo che l’epidemia si è diffusa da sola non basta), la D’Amato cita il pezzo del Foglio con la lettera di Purcell ma sa bene che nessuno dei suoi lettori andrà a leggere il testo integrale (così come nessuno dei giudici di Lecce è andato a vedersi l’intervento integrale di Purcell all’EFSA). E così la D’Amato può permettersi di citare Purcell in un modo tale che sembra darle ragione, ovvero così: la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California. Incredibile, Purcell smentisce sé stesso! E invece no, perché la frase intera è questa (e così l’abbiamo riportata anche noi su Next qui e qui). Le strategie di lotta che funzionano in una determinata regione o su di una specifica coltura possono non essere altrettanto efficaci su altre colture, o sulla medesima coltura ma in condizioni pedoclimatiche differenti. Ad esempio, la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California, mentre la stessa operazione condotta Brasile sugli agrumi è risultata essenziale per contenere gli attacchi di “clorosi variegata”, una malattia anch’essa indotta da X. fastidiosa. Inoltre, in tre differenti aree californiane vengono adottati tre diversi metodi di lotta contro la malattia di Pierce. Ciò a causa della presenza e attività di differenti insetti vettori e delle condizioni climatiche locali. E del resto sono gli stessi concetti che Purcell ha ribadito nell’intervista rilasciata a Italia Unita per la Scienza. Come si gestisce una nuova malattia? Due cose sono state nominate ripetutamente, la rimozione delle piante malate e il controllo di quello che sembra essere il principale insetto vettore, una sputacchina, Philaenus spumarius. Se il batterio si muove principalmente da olivo ad olivo, la rimozione degli alberi può rallentare la diffusione della malattia. La distribuzione spaziale e il tasso di diffusione della malattia (CoDiRO), sono coerenti con una diffusione esponenziale (logaritmica). La rimozione delle piante malate sembra essere efficace in Brasile per una malattia degli aranci provocata da Xylella (CVC). La diffusione del CoDiRO in Salento sembra simile a quella del CVC in Brasile, ma non simile a quella della malattia di Pierce della vite nella California settentrionale. Ci sono ragioni complesse – principalmente climatiche – per cui questo [la rimozione delle piante infette, NDT] non funziona con il morbo di Pierce nella California settentrionale.
Rosa D'Amato-portavoce M5S ha condiviso il post di Luigi Russo il 29 gennaio 2016 alle ore 9:36. XYLELLA - Ieri a Roma, l'Eurispes, il più grande istituto di ricerca privato europeo, ha presentato il suo 28^ rapporto sulla situazione dell'Italia, alla presenza dei massimi vertici dei ministeri, delle regioni, delle università, della giustizia, militari e dell'ordine pubblico. Accreditati decine di giornalisti di testate italiane e straniere. Ha suscitato grande sorpresa il fatto che il presidente Gian Maria Fara abbia aperto i lavori con una notizia riguardante il Salento: "Lo scorso anno il nostro istituto, in collaborazione con l'Osservatorio nazionale dell'Agromafia coordinato da Giancarlo Caselli, ha intrapreso una campagna di ricerca e informazione sul tema della Xylella fastidiosa. La Pubblicazione di un lavoro prodotto da Eurispes Puglia ha dato impulso a una nuova consapevolezza a livello nazionale e internazionale del fatto che l'Affaire Xylella potesse essere una tragedia inutile per il grande patrimonio olivicolo pugliese. Nell'ultimo mese la Procura di Lecce ha dato una svolta straordinaria a questa vicenda sequestrando tutti gli ulivi salentini a scopo cautelativo, e inviando 10 avvisi di garanzia ai massimi vertici militari e tecnici e politici e del mondo scientifico che avevano gestito tutto. Quindi gli ulivi non saranno toccati. E di questo il nostro Istituto è orgoglioso. E continueremo a ricercare e informare, contro ogni tentativo di fermare la ricerca della verità". Dopo queste parole un lungo applauso dei 500 presenti. Oggi la stampa salentina e pugliese, nonostante fosse a conoscenza di quanto accaduto a Roma, ha ignorato del tutto questa notizia, e peraltro ha ignorato del tutto anche il Rapporto Italia e i suoi 60 percorsi di ricerca di quest'anno... Censura o distrazione? Luigi Russo.
XYLELLA, PER IL CNR DI BARI IN SALENTO GLI ULIVI SONO SPACCIATI: “LASCIAMONE 50 COME MUSEO”, scrive Rosa d'Amato il 28 gennaio 2016. Nei giorni scorsi è passato sotto traccia un servizio di Presa Diretta sul caso della Xylella in Puglia. Soprattutto, agli acuti osservatori e commentatori che in queste settimane stanno puntando il dito contro i presunti “nemici della scienza”, tra cui la sottoscritta, è sfuggito il parere di Donato Boscia, direttore dell’IPSP-CNR di Bari, sul futuro degli ulivi salentini. Boscia è uno dei principali esperi che ha collaborato alla stesura del famigerato Piano Silletti, quello degli abbattimenti selvaggi per intenderci. E che cosa dice Boscia fuori onda a proposito degli ulivi salentini? Semplice: l’olivicoltura del Salento è spacciata.
Boscia dichiara candidamente al giornalista di Presa Diretta, pensando di non essere ripreso: “E’ andata (sottinteso l’olivicoltura, ndr) perché per un trend che abbiamo osservato lì, sette – otto anni e resteranno soltanto queste isole verdi di questo germoplasma che sembra resistente, tipo il leccino. A questo punto che facciamo? Aspettiamo altri 8 anni ad aspettare un miracolo che non arriverà? O vogliamo prendere il toro per le corna, sederci al tavolino e pensare a come ripensare e rilanciare l’agricoltura salentina”?
Giornalista: “Cioè togliendo gli ulivi e mettendo un’altra cosa”?
Boscia: “Mettendo che ne so…c’è la viticoltura che è immune a Xylella, ci sono tutta una serie di coltivazioni orticole che possono essere promosse…”
Giornalista: “E gli alberi monumentali”?
Boscia: “Si può anche lasciare come museo 50 alberi e si dice “questi sono i tronchi di quelli che erano gli alberi…” però …quando muore una pianta che cosa ci possiamo fare”?
Io non ho parole. Voi?
Scrive ancora Rosa D'Amato-portavoce M5S il 21 gennaio 2016 alle ore 13:24. "In questi giorni, diversi giornalisti, opinionisti o sedicenti tali continuano ad accusarmi di aver riportato in un mio comunicato 'frasi false" di Alexander Purcell, ricercatore dell'Università di Berkley che dal 1978 conduce ricerche sulla Xylella. Ho già scritto una lettera aperta per spiegare come stanno le cose. Ma forse non è bastato. Ora, vorrei fare chiarezza una volta per tutte, ribadendo che non ho alcun interesse a stravolgere il pensiero di Purcell. Con lui ho parlato lungamente nel corso di un convegno a Bruxelles al quale siamo stati invitati (un convegno dell'Efsa, ossia dell'autorità Ue per la sicurezza alimentare, non un covo di complottisti). In quell'occasione Purcell disse alcune cose. Cose non nuove, dato che in un articolo scritto dallo stesso ricercatore sul Foglio lo scorso giugno si legge: “Ancorché non sia possibile prevedere dove e come la Xylella si diffonderà, è però un fatto che quando il batterio penetra in un territorio e vi si insedia, la sua eradicazione non è più possibile. La prevenzione è quindi l’unico efficace mezzo per affrontare questo patogeno”. L'articolo si può leggere. Sempre in questo articolo, Purcell scrive: "la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California". Perché vi cito questa frase? Il motivo è che, come sapete, l'Ue ha imposto il blocco all'esportazione delle viti pugliesi facendo un parallelo tra quanto sta accadendo in Puglia e quanto accaduto in California, ossia che la Xylella, insieme agli ulivi, potrebbe colpire anche le viti. Ora, perché questo parallelo ha funzionato per mettere in ginocchio i produttori pugliesi di viti e non dovrebbe funzionare per porre un freno agli abbattimenti che, come scrive Purcell, non hanno "sortito effetti degni di nota"? E perché, data l'assenza di prove scientifiche certe, si è voluto insistere "solo ed esclusivamente" su un protocollo (abbattimenti+pesticidi) senza tentare alcuna strada alternativa, anche solo in via sperimentale? Sono queste le domande che pongo a chi continua a prendersela con me, che sono il dito, anziché guardare a ciò che indico. Che se non è la luna, almeno è un fatto.
AVETRANA/ La xylella fastidiosa non c'è nel territorio, scrive “Il Giornale di Taranto” del 22 gennaio 2016. PARTECIPATISSIMA CONFERENZA STAMPA NEL COMUNE DEL TARANTINO. Espressa preoccupazione per la leggerezza con cui vengono diffuse notizie così importanti. All'incontro con i giornalisti organizzato dalle associazioni di categoria territoriali, CIA, Confagricoltura, Coldiretti ed Assiprol insieme all’Amministrazione Comunale di Avetrana, per fare il punto sulla situazione all’indomani della notizia veicolata tramite stampa, della presenza del batterio della xylella fastidiosa nel territorio di Avetrana, erano presenti il Sindaco Mario De Marco, l’assessore alle attività produttive dello stesso Comune, Enzo Tarantino, Nicola Spagnuolo (direzione provinciale CIA di Taranto), Piero De Padova (presidente CIA di Avetrana e Vicepresidente Cia Taranto), Renzo Grande (responsabile Confagricoltura di Avetrana), Francesco Reo (Assiprol di Avetrana) e Antonio Marasco (Coldiretti di Manduria). Il sindaco De Marco e l’assessore Tarantino, introducendo la conferenza stampa, hanno esternato la preoccupazione per la leggerezza con cui, notizie così gravi e non supportate da alcun fondamento scientifico, circa la presenza del batterio della xilella fastidiosa nel territorio Avetranese, siano state veicolate “dall’oggi a domani” dagli organi di stampa (e su imbeccata anche di un’associazione a livello regionale), generando preoccupazione, malcontento e rabbia negli agricoltori avetranesi, manifestatasi anche in sala durante la conferenza. Tarantino rimarcava che il suo Comune è stato l’unico in tutto il Salento, con la più alta percentuale delle buone pratiche agrarie operate, per far fronte alla diffusione della Xilella, arature, diserbi, potature etc. Spagnuolo, interpretando lo stato d’animo delle associazioni agricole, manifestava la rabbia e lo sconforto di tutti gli olivicoltori in un’annata in cui si sta producendo olio ottimo per quantità e qualità, come non se ne ricordano negli ultimi venti anni. Chiediamo che la stampa, ha detto Piero De Padova, con la stessa facilità con la quale ha diramato la notizia, dia con altrettanta solerzia la smentita, ribadendo il concetto semplice e basilare che senza prove supportate da evidenza scientifica, nessuno può sostenere la tesi teorica ed infondata della presenza del batterio della Xylella nel territorio di Avetrana. Ovviamente, concludeva Piero De Padova, se il fenomeno non dovesse attutirsi e dovesse continuare ad essere sventolato a casaccio, così come fatto in questa circostanza, allora ciascuno si assumerà le proprie responsabilità, a qualsiasi livello. Dopo la discussione molto partecipata dei rappresentanti associativi e delle aziende presenti, la conferenza stampa si è conclusa con l’auspicio che si ponderino, a qualsiasi livello, notizie devastanti come questa che potrebbero minare le sorti dal punto di vista economico e sociale di un intera comunità.
Le analisi della Procura confermano: la Xylella é arrivata nel Tarantino. Le analisi fatte svolgere dalla Procura di Lecce confermano la presenza di Xylella ad Avetrana: si sfonda, dunque, la linea del Tarantino. Chiesto all'Osservatorio fitosanitario di effettuare i controlli, scrive “TRNews” l'1 febbraio 2016. Dopo la notizia lanciata dieci giorni fa da Coldiretti e poi smentita sulla presenza di Xylella ad Avetrana, è la Procura di Lecce adesso a confermarla. Sabato, infatti, ha dato comunicazione ufficiale all’Osservatorio fitosanitario regionale, chiedendo di effettuare ulteriori verifiche, in quanto dall’indagine svolta dagli inquirenti è emerso che sono state ritrovate due piante con “possibile presenza di Xylella”. I campioni sono stati prelevati su ulivi con sintomi blandi di disseccamento, lungo la strada che collega Salice Salentino ad Avetrana.Le analisi sono state poi eseguite nei laboratori dell’Ispa Cnr di Lecce, che le svolge per conto della Procura. Per la prima volta, dunque, il batterio sfonda anche la linea del Tarantino, dopo quella del Brindisino. Intanto, sul monitoraggio si affina la strumentazione: per mappare le aree con sintomi di disseccamento, saranno impiegati anche i droni. Il 17 febbraio a Roma, nell’ambito della conferenza “Droni per l’agricoltura”, nuovo appuntamento del ciclo “Roma Drone Conference 2015-16”, saranno presentati i primi risultati di alcune campagne di volo con droni multirotori sugli ulivi colpiti dal patogeno nel Salento, così come sulle palme aggredite dal punteruolo rosso nell’area di Albenga (Savona).
«La Xylella ad Avetrana c’è», lo dice il Cnr-Ispa e non i giornalisti, si affretta a puntualizzare “La Voce di Manduria”. Le analisi di laboratorio del Cnr-Ispa di Lecce hanno confermato la presenza del batterio della xylella fastidiosa negli uliveti di Avetrana. Il dato è emerso dall’accertamento disposto dal procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignon e dal pubblico ministero Roberta Licci, titolari del fascicolo che ha dato luogo al sequestro preventivo di 4000 alberi d’ulivo interessati alle eradicazioni dei piani Silletti e che vede iscritte dieci persone sul registro degli indagati fra ricercatori e funzionai del Cnr e dell’Osservatorio fitosanitario regionale. I magistrati hanno dato incarico alla Forestale di effettuare alcuni prelievi nella zona indicata il 16 gennaio scorso dalla Coldiretti, sulla Avetrana-Salice Salentino. Insomma: gli esami di laboratorio hanno confermato che non erano solo “illazioni o ipotesi gratuite” da parte degli organi di informazione come hanno recentemente sostenuto in una discussa conferenza stampa gli amministratori comunali di Avetrana con i responsabili delle associazioni di categoria (nella foto). Il dato ufficiale è stato trasmesso all’Osservatorio fitosanitario regionale.
Xylella, giornalisti pugliesi insultati sui social, è il titolo di un articolo pubblicato su “Articolo21” del 22 gennaio 2016 di coloro che si sentono offesi dalla reazione di chi subisce la gogna mediatica di pennivendoli che nulla sanno del tema. Da mesi i giornalisti in Puglia sono oggetto di attacchi personali su Facebook da parte di numerosi ambientalisti che si definiscono componenti del “Popolo degli ulivi”, cioè del movimento di cittadini che si oppone allo sradicamento degli alberi imposto dalla Commissione europea per contenere il diffondersi del batterio della xylella fastidiosa. Dalle minacce velate a quelle esplicite, da offese volgari a insulti sessisti, se le giornaliste sono donne: il “Popolo degli ulivi” contesta così, quotidianamente, gli articoli che trattano di xylella quando questi riportano opinioni di esperti, scienziati, politici, non condivise dagli ambientalisti. Per il 24 gennaio “Il popolo degli ulivi” ha organizzato un boicottaggio di Nuovo quotidiano di Puglia e Gazzetta del Mezzogiorno, dichiarando che in quella data non compreranno i giornali, invitando, attraverso un manifesto diffuso su internet, tutti gli internauti a fare lo stesso. E aggiungendo: “E poi vedremo”. Ha denunciato pubblicamente la gravità di quest’azione Marilù Mastrogiovanni che sulla pagina Facebook del libro-inchiesta “Xylella report” ha invitato tutti i colleghi a prendere le distanze, manifestando solidarietà alle redazioni delle due testate e lanciando la proposta di fare un dibattito aperto a tutti, anche al mondo della cittadinanza attiva, sull’importanza dell’informazione e della libertà d’informazione sui temi ambientali. Prontamente la giornalista è stata raggiunta da improperi e allusioni di ogni tipo, come da tempo le accade quando scrive di xylella. “Da qui – scrive l’assemblea dei redattori di Quotidiano – il rischio che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave. Citiamo, a supporto di questo nostro timore, il contenuto di un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare “a questi cretini” (i giornalisti di Quotidiano) “con le buone o con le cattive come stanno le cose”. Citiamo inoltre il caso di immagini dei giornalisti rubate sul web e associate a messaggi che incitano a dare non meglio precisate ritorsioni”. Solidarietà è stata espressa da Assostampa e dall’Ordine dei giornalisti di Puglia, mentre il comitato di redazione delle due testate ha dichiarato di aver dato mandato ai legali per identificare e denunciare chi si cela dietro i numerosi profili facebook attraverso i quali è partito l’attacco alla stampa.
EMERGENZA XYLELLA. TRE GIORNALISTI MINACCIATI IN SALENTO, scrive “Ossigeno” il 24 gennaio 2016. Hanno scritto articoli di cronaca sul disseccamento degli ulivi. Additati con la loro foto e frasi offensive sui social network. Solidarietà e proteste. “Il popolo degli ulivi”, il movimento che contesta il fondamento scientifico e l’efficacia della strategia adottata per contenere in Salento il diffondersi della diffusione della Xylella fastidiosa (il batterio che potrebbe essere la causa del disseccamento degli ulivi, ma il cui ruolo nel fenomeno non è ancora scientificamente dimostrato) ha invitato, con un manifesto diffuso via internet, a un boicottaggio delle testate giornalistiche Nuovo quotidiano di Puglia, foglio locale del Salento, e La Gazzetta del Mezzogiorno. Il boicottaggio, da attuarsi domenica 24 gennaio 2016, ha suscitato proteste e reazioni e attestazioni di solidarietà nei confronti dei quotidiani e dei giornalisti che lavorano per essi. La solidarietà è andata in particolare alle redattrici e ai redattori dei due giornali che, per aver pubblicato articoli di cronaca sull’emergenza Xylella, da mesi ricevono minacce via Facebook da persone che si richiamano al movimento contrario allo sradicamento degli alberi. Giovedì 21 gennaio 2016 i giornalisti minacciati hanno rotto il silenzio rendendo note le minacce. Fra i minacciati: Tonio Tondo e Marco Mangano de La Gazzetta del Mezzogiorno e Maria Claudia Minerva del Nuovo Quotidiano di Puglia. Le giornaliste hanno subito fra l’altro, insulti sessisti. In Salento il disseccamento degli ulivi ha cominciato a manifestarsi nel 2008. La lotta alla Xylella e i provvedimenti pubblici adottati per contenere il contagio sono da tempo oggetto di uno scontro che ha motivazioni politiche, economiche e scientifiche. Per condurre questa lotta è stato stabilito uno stato di emergenza. I provvedimenti adottati prevedono il sequestro e lo sradicamento degli alberi malati e di quelli vicini, anche sani, per evitare la diffusione del contagio. “Il popolo degli ulivi” si oppone allo sradicamento degli alberi imposto dalla Unione europea, contestando il fondamento scientifico delle misure adottate. La procura della Repubblica di Lecce sta conducendo una inchiesta sulla gestione dell’emergenza. Fra i dieci indagati c’è l’ex commissario straordinario Giuseppe Silletti. L‘assemblea dei redattori del Quotidiano ha condannato l’invito a boicottare il loro giornale e ha segnalato il rischio “che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave”. A questo proposito il documento dell’assemblea cita “un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare ‘a questi cretini’ (i giornalisti di Quotidiano, ndr) “con le buone o con le cattive come stanno le cose”. Il documento fa inoltre riferimento alla pubblicazione di messaggi che incitano a “non meglio precisate ritorsioni” nei confronti di giornalisti di cui si forniscono identità e fotografie. Hanno espresso solidarietà ai giornalisti l’Associazione Stampa e l’Ordine dei Giornalisti della Puglia, la FNSI, Ossigeno per l’Informazione la Coldiretti Puglia, la CIA Agricoltori Italiani della Puglia, il presidente Copagri, il vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera dei deputati, Rocco Palese, e Giovanni Seclì, del Forum Ambiente Salute. Seclì ha preso le distanze da chi minaccia i giornalisti. Le critiche ai giornali e le richieste di avere più spazio per esprimere le proprie opinioni, ha affermato, sono legittime, ma “la libertà di espressione sulla rete non legittima l’offesa, la trivalità, la banalità, l’approssimazione”. “La FNSI – affermano in una nota il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti – è al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno minacciati e diffamati sui social network per via del lavoro svolto nella vicenda della diffusione della Xylella in Salento. Esortiamo i colleghi ad intensificare i loro sforzi per far luce su una questione così importante per il loro territorio, senza lasciarsi intimidire dalla violenza di improvvisati scienziati e ‘leoni da tastiera’ che spesso si agitano nell’ombra dell’anonimato consentito dai social network. Il rispetto della verità e il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati sono i pilastri del buon giornalismo e non saranno certo le minacce e le intimidazioni a fermare la diffusione delle notizie”. ASP (ha collaborato Marilù Mastrogiovanni). No alla diffamazione: tutela in tutte le sedi di onorabilità, professionalità e onestà
Puglia, Xylella: giornalisti del Quotidiano sotto tiro, scrive il 22/01/2016 "Giornalistitalia". L’assemblea dei redattori del Nuovo Quotidiano di Puglia ha dato mandato ai legali perché vengano tutelate in sede penale e in sede civile l’onorabilità, la professionalità e l’onestà dei colleghi impegnati a seguire le vicende che hanno anche fare con l’emergenza xylella e che da tempo sono oggetto di offese, diffamazioni gravissime e in qualche caso anche minacce da parte di alcuni utenti del social network Facebook. “È ormai da un anno – denunciano i giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia – che assistiamo quotidianamente a prese di posizione che nulla hanno a che vedere con le dinamiche che dovrebbero animare un dibattito civile, un confronto tra posizioni anche distanti una dall’altra ma che mai dovrebbe prescindere dal rispetto della persona e delle opinioni. Invece, come la documentazione quotidianamente da noi raccolta potrà dimostrare, a nostro avviso è stato ormai abbondantemente superato il limite della decenza”. “Offese quotidiane, accostamenti con persone, fatti e fenomeni (vedi per esempio la mafia o non meglio specificati poteri forti interessati a distruggere il meraviglioso patrimonio naturale salentino e pugliese di cui ci sentiamo – invece – i primi difensori), incitazioni – sottolineano i giornalisti – all’insulto e al dileggio, accuse diffamatorie e circostanze del tutto inventate fanno ormai parte di un linguaggio che trova spazio nei post di pochi e che, però, sui social network finiscono per coinvolgere più persone che spesso condividono meccanicamente, senza avere gli strumenti per verificare la fondatezza delle stesse accuse”. “Da qui – denuncia l’assemblea del Nuovo Quotidiano di Puglia – anche, il rischio che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave. Citiamo, a supporto di questo nostro timore, il contenuto di un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare «a questi cretini» (i giornalisti di Quotidiano) «con le buone o con le cattive come stanno le cose». Citiamo, inoltre, il caso di immagini dei giornalisti rubate sul web e associate a messaggi che incitano a dare non meglio precisate ritorsioni”. I giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia, convinti che “ormai sia stato superato ogni limite di ragionevolezza”, hanno quindi dato mandato ai legali perché sottopongano uno per uno i messaggi alla valutazione della magistratura. “Chiarendo fin d’ora – concludono i giornalisti – che eventuali ristori dei danni che dovessero essere riconosciuti saranno devoluti a favore di iniziative finalizzate alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente”. Il Comitato di redazione del Nuovo Quotidiano di Puglia “fa sua e sostiene la volontà manifestata dall’assemblea dei redattori” e fin d’ora “si pone al fianco dei colleghi oggetto delle quotidiane diffamazioni, ai quali va l’incondizionata solidarietà. I giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia – assicura il Cdr – non si faranno intimidire e continueranno a svolgere il loro lavoro come sempre, sostenuti dalla forza e dall’autorevolezza della testata e dal sempre più crescente gradimento dei lettori”. L’Associazione della Stampa, presieduta da Bepi Martellotta, si schiera al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno che seguono le vicende legate alla diffusione della Xylella in Salento, in queste settimane resi oggetto di pesanti minacce e diffamazioni sui social network. “Il diritto di cronaca e la libertà della stampa – afferma l’Assostampa – non potranno certo essere fermati dalla pubblica gogna incitata da qualche internauta né dai tanti agitatori, spesso nascosti nell’anonimato, che stanno maldestramente tentando di esercitare pressioni sui giornalisti pugliesi”. L’Ordine dei Giornalisti della Puglia esprime “piena solidarietà e fermo sostegno ai colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno che in queste ultime settimane hanno subito minacce e diffamazioni sui social network, per aver fatto il loro dovere di cronisti nel raccontare le vicende legate alla diffusione della Xylella in Salento. Il diritto di cronaca e la libertà della stampa – sottolinea l’Odg – sono valori inalienabili e non negoziabili in una società democratica e non potranno certo essere oscurati da chi ritenendo il web una zona franca, pensa di poter intimidire i giornalisti indicandoli alla pubblica gogna”. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana è “al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno minacciati e diffamati sui social network per via del lavoro svolto nella vicenda della diffusione della Xylella in Salento”. Lo affermano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti. Lorusso e Giulietti esortano i colleghi “ad intensificare i loro sforzi per far luce su una questione così importante per il loro territorio, senza lasciarsi intimidire dalla violenza di improvvisati scienziati e leoni da tastiera che spesso si agitano nell’ombra dell’anonimato consentito dai social network. Il rispetto della verità e il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati – conclude la Fnsi – sono i pilastri del buon giornalismo e non saranno certo le minacce e le intimidazioni a fermare la diffusione delle notizie”.
Xylella: fonti procura, batterio Avetrana. Al vaglio anche data in cui sarebbe avvenuto contagio, scrive "L'Ansa" il 2 febbraio 2016. Dall'analisi di tre campioni prelevati su due ulivi diversi è stata fornita conferma della presenza del batterio Xylella anche in territorio di Avetrana (Taranto), in zona San Paolo. La conferma di quanto segnalato nelle scorse ore da Coldiretti Puglia viene data all'ANSA da fonti della procura di Lecce che ha delegato la Forestale e anche ricercatori del Cnr-Ispra i quali hanno prelevato il materiale su cui sono state eseguite poi indagini di laboratorio il 16 gennaio scorso. Non c'è alcuna notizia, però, in merito alla data in cui sarebbe avvenuto il contagio. Anche questo elemento è al vaglio del procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone e del pm Roberta Licci che indagano sulla gestione dell'emergenza Xylella e sulla diffusione del batterio in Puglia. Nell'ambito dell'inchiesta che conta dieci indagati, tra cui l'ex commissario straordinario per l'emergenza Giuseppe Silletti, dimessosi alla vigilia di Natale, il 18 dicembre scorso è stato eseguito il sequestro preventivo di tutti gli ulivi destinatari di un ordine di abbattimento. I Forestali hanno constatato intanto che fino a questo momento né l'Osservatorio fitosanitario regionale, né quello provinciale avevano avuto cognizione della presenza del batterio anche nel Tarantino.
Da ciò si desume che di diffusione è prematuro parlarne, non fosse altro che la zona avetranese collima con quella vegliese, una delle zone da cui l’infezione è partita. Ergo: è possibile che la pianta infettata sia stata colpita all’inizio dell’epidemia e non in seguito alla sua diffusione. Quindi l’infezione è vecchia e non recente. Ma ai giornalisti, specie quelli allarmistici, tale ipotesi non interessa.
Motta all’attacco sulla Xylella. «Il caso Avetrana ci dà ragione». Il procuratore di Lecce: «La scoperta nel Tarantino avvalora la tesi della nostra indagine. Il batterio è in Salento da diversi anni». Presentati due ricorsi: «Ma sono inammissibili», scrive Francesca Mandese il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ulivi con sintomi di disseccamento anche nel Tarantino. Il nuovo allarme sulla Xylella arriva direttamente da Coldiretti Puglia che chiede «immediatamente controlli e monitoraggi stringenti» nella zona di Avetrana, dove ci sarebbero ulivi che manifestano la presenza della malattia. E così, un’altra ondata di proteste, dopo quella sollevata in difesa degli scienziati, si abbatte sulla Procura di Lecce, che sta indagando dieci persone e ha emesso un decreto di sequestro per tutti gli ulivi condannati all’estirpazione dal piano Silletti bis. Il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, però, non si scompone. E rilancia. «È la conferma della nostra teoria, cioè che il disseccamento degli ulivi ha origini ben più remote e non necessariamente deriva dalla sola presenza della Xylella». Nei prossimi mesi, comunque, la Xylella non potrà fare altri danni perché l’insetto vettore, la sputacchina, non riprenderà a volare prima dell’estate e non potrà, quindi, trasportare il batterio killer che, secondo i ricercatori, rischia di trasformare il Salento in un cimitero di ulivi.
Procuratore, il sequestro degli ulivi, e quindi il divieto di toccarli, non potrebbe pregiudicare la situazione e far avanzare l’infezione?
«Al contrario. Il decreto vieta espressamente solo l’estirpazione delle piante, ma nulla impedisce ai proprietari di somministrare i trattamenti necessari».
Adesso si apre il fronte Avetrana, e ciò significa che l’infezione potrebbe aver varcato anche i confini della provincia di Brindisi oltre che quella di Lecce. Questo cambia qualcosa rispetto all’inchiesta portata avanti dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci?
«No, semmai rafforza quello che abbiamo potuto accertare nel corso dell’inchiesta. Il disseccamento degli ulivi è un fenomeno presente da molti anni nel Salento e non c’è ancora nessuna evidenza scientifica del fatto che a causarlo sia esclusivamente la Xylella».
Quali elementi supportano questa tesi?
«Anche il fatto che siano stati trovati nove diversi ceppi mutati, e questo, in natura non avviene nel giro di pochi anni. Non sappiamo in realtà da quanti anni il batterio sia presente nel Salento».
Se non è la Xylella – o solo la Xylella -, cos’altro potrebbe causare la morte degli ulivi?
«Una serie di concause, dalla presenza di funghi alle modalità di coltivazione, dall’impoverimento biologico dei terreni alla diminuzione delle difese immunitarie da parte delle piante. Sono aspetti che necessitano di approfondimenti, ma nel frattempo era necessario fermare le estirpazioni».
Ci sono stati ricorsi contro il sequestro degli alberi?
«Non da parte degli indagati».
E da parte di chi?
«Di due privati, ma sono inammissibili».
Perché?
«Perché sono arrivati fuori termine e da persone non direttamente coinvolte nell’inchiesta. Il Tribunale del riesame, comunque, si pronuncerà nei prossimi giorni».
È possibile che l’inchiesta si allarghi fino a coinvolgere qualche politico?
«Mi piacerebbe rispondere con il classico “no comment”. Nell’inchiesta non ci sono politici indagati e non è nostra intenzione fare il processo alle intenzioni. Al momento, quindi, non è previsto un nuovo filone di indagine».
Carne e cibi di origine animale, quello che gli spot non dicono. Spot-verità nelle sale cinematografiche di 50 città italiane per mostrare cosa c’è dietro la produzione negli allevamenti intensivi. La campagna finanziata in crowdfunding, scrive Alessandro Sala il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un frame dello spot che sarà proiettato nei cinema di 50 città italiane. Mucche felici che trascorrono le giornate in un verde pascolo, galline che becchettano serene in una grande aia all’aperto, maiali sorridenti che ammiccano dalle confezioni di prosciutto a fette. Il cibo di origine animale che arriva nelle case degli italiani è spesso accompagnato da immagini rassicuranti, utilizzate negli spot pubblicitari, nelle campagne promozionali e sullo stesso packaging dei prodotti chiamato a catturare l’attenzione del consumatore dallo scaffale di un supermercato. Ma la realtà è ben diversa: gran parte delle derrate destinate al consumo di massa provengono da allevamenti intensivi dove non esiste nulla di quanto mostrato dalle pubblicità e dove gli animali conducono una (non) esistenza finalizzata all’ingrasso in gabbia, in un capannone o in una stalla da cui non vengono mai fatti uscire. Una situazione di malessere, di sofferenza e di disagio che trasforma esseri senzienti in semplice materia prima. Lo denunciano da sempre le associazioni animaliste ed ambientaliste (perché gli allevamenti intensivi hanno anche un forte impatto sull’ambiente e sull’inquinamento) e per la prima volta da giovedì il tema sarà oggetto di una campagna di informazione nelle sale cinematografiche di 50 città italiane: con quelli che definisce «spot-verità» l’associazione Ciwf Italia ha deciso di portare la questione direttamente all’attenzione del grande pubblico. L’iniziativa è stata finanziata con una raccolta di fondi in crowdfunding che ha visto la partecipazione di circa 450 donatori. I messaggi durano 30 secondi e parafrasano un vecchio claim televisivo degli anni Ottanta («Apri la bocca / chiudi gli occhi»). «Vogliamo mostrare quelle immagini che i consumatori non potranno mai vedere nelle pubblicità o sulle etichette dei prodotti di origine animale – spiegano dall’associazione -. Il nostro spot mostra le vere condizioni in cui gli animali vengono cresciuti nella grande maggioranza degli allevamenti italiani e invita le persone ad acquistare consapevolmente». Non tutta la carne, il latte e i loro derivati provengono dalla produzione intensiva. Ma è difficile per il consumatore comprendere la differenza tra un prodotto e l’altro. In alcuni casi, le uova per esempio, una possibilità di scelta è data dal codice stampigliato sul guscio: se il numero inizia con «0» si tratta di uova provenienti da animali allevati con metodo biologico, se inizia con «1» si tratta comunque di galline allevate all’aperto; se invece il codice inizia con il 2 o il 3 allora la provenienza è da un allevamento di tipo industriale al chiuso. Ma quello che è possibile con le uova non lo è con tutti gli altri prodotti e spesso la pubblicità trae volutamente in inganno. Di qui la scelta di Ciwf Italia di parlare ai consumatori con immagini vere, tratte dalle investigazioni in incognito condotte dai propri volontari, che raccontano in pochi secondi quel che spesso si cela dietro le produzioni animali. «Il benessere animale, in gran parte degli allevamenti, è il grande assente – commenta Annamaria Pisapia, direttrice di Ciwf Italia -. Un’assenza che l’industria che produce carne, latte e uova cerca di nascondere in tutti i modi con programmi di comunicazione pieni di informazioni ingannevoli che confondono i consumatori. Eppure il benessere animale dovrebbe essere considerato una componente basilare del cibo di qualità, quale quello italiano aspira ad essere». Il concetto è insomma che animali allevati in condizioni migliori siano animali anche più sani – non solo più felici, aspetto a cui magari parte della popolazione non è sensibile -, non subendo per esempio le conseguenze della immunodepressione causata dal confinamento di centinaia o migliaia di capi in spazi ristretti. Una situazione, quest’ultima, che rende necessario un maggiore ricorso ad antibiotici, con la conseguenza di uno sviluppo nel tempo di forme di antibioticoresistenza, di fatto la perdita di efficacia degli antibiotici stessi. Ma gli allevamenti intensivi portano con sé anche una serie di problematiche di tipo ambientale: per il consumo di grandi quantità di acqua, per la vasta occupazione di suolo (anche per coltivazioni intensive di cereali non destinati al consumo umano ma all’industria dei mangimi per animali), per l’enorme massa di liquami da smaltire, per le conseguente sull’inquinamento atmosferico causate sia dalle emissioni gassose degli stessi animali sia dagli scarichi dei mezzi di trasporto necessari a movimentare animali vivi o tagli di carni. Non tutto il cibo di origine animale proviene da allevamenti intensivi o di tipo industriale. Ma mentre per le uova esiste una normativa sull’etichettatura, quella dei codici stampigliati sui gusci appunto, che offre al consumatore un’indicazione chiara delle modalità di allevamento delle galline, per il resto dei prodotti è tutto lasciato alla volontarietà delle aziende. Va da sé che solo quelle che producono con metodi biologici o che ricorrono all’allevamento all’aperto hanno interesse a pubblicizzarlo. Le altre, in assenza di obblighi di legge, continueranno a mostrare mucche felici, prati verdi e maialini sorridenti.
"Disossatore a 5 euro l'ora": il lato nero della Food Valley di Parma. Dopo la denuncia di Flai Cgil sulle condizioni degli operai alimentaristi emerge che anche i salumifici del parmense non sono esenti da irregolarità, scrive Maria chiara Perri) il 19 gennaio 2016 su “la Repubblica”. "Offriamo lavoratore a 5 euro all'ora, giorno e notte". Questo è il tenore dei fax che alcuni titolari di salumifici del parmense hanno ricevuto da sedicenti cooperative pronte a fornire manodopera come al mercato. Un segno concreto, nero su bianco, che anche le produzioni di alta qualità della Food Valley non sono immuni dalle piaghe del lavoro irregolare e dello sfruttamento. Il caso è stato denunciato con forza da un rapporto di Flai Cgil a Modena, dove la situazione nei macelli rasenta lo schiavismo. Nel parmense il sindacato degli alimentaristi conduce da anni battaglie per la corretta applicazione del contratto. "Ci sono infinite sfumature di problemi - spiega Luca Ferrari di Flai Cgil Parma - probabilmente nel parmense questi fenomeni sono più isolati, di solito riusciamo a intercettarli nelle singole aziende e a intervenire. Abbiamo un contratto provinciale, concordato con l'Upi, che funziona un po' da regolatore e ci permette un migliore controllo". E' soprattutto nella filiera della carne che si verificano irregolarità. Dal momento che la lavorazione dei salumi prevede diverse fasi, alcune mansioni non vengono svolte da personale dipendente del salumificio ma affidate a lavoratori esterni. E qui si insinuano le cosiddette "false cooperative" e i fenomeni di caporalato. Ci sono "coop" gestite da veri e propri padroni che raggruppano operai di singole nazionalità, dalla Nigeria allo Sri Lanka, offrendoli prezzi stracciati per il lavoro di sugnatura e disossatura dei prosciutti. Gli operai vengono intercettati con il passaparola, ma non mancano casi di disperati che aspettano alle 7 di mattina in piazza Corridoni a Langhirano che venga un artigiano a sceglierli per il lavoro. "A volte i titolari degli stabilimenti ricevono anche offerte via fax, ci cascano e si servono di questi lavoratori perché costano poco. Ma ovviamente quelle realtà non pagano contributi, non forniscono l'attrezzatura e l'abbigliamento adatto, non rispettano alcuna norma di sicurezza - spiega Ferrari - questo va a discapito dei lavoratori e della qualità del prodotto. C'è anche il fenomeno dei falsi facchini, che abbiamo denunciato: con il contratto di facchinaggio dovrebbero fare solo movimentazione, invece sono impiegati nella produzione". Gli stabilimenti in attività nella Food Valley sono 200, con circa 4mila addetti tra personale dipendente e indotto. Flai Cgil si batte perché a tutti venga applicato il contratto degli alimentaristi. Contratto già scaduto, con un'agitazione a livello nazionale per il rinnovo. Il 29 gennaio è previsto lo sciopero di settore per l'intera giornata. Questa settimana, invece, le singole rappresentanze sindacali potranno gestire un pacchetto di quattro ore di sciopero nei vari stabilimenti.
I FORZATI DEL MATTATOIO. Oltre 5mila operai addetti alla preparazione dei prosciutti sono costretti a durissime condizioni di lavoro in cambio di paghe da fame. I turni possono durare anche 15 ore durante le quali viene ripetuto un unico movimento, lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi, con gravi danni a schiena, braccia e spalle. "Io faccio lo schiavo", ci ha raccontato uno di loro. La denuncia arriva dalla Flai Cgil che segnala anche il proliferare di società che cambiano nome e truccano i conti, i bilanci e le buste paga. False cooperative, confermano le inchieste della Finanza, che non applicano il contratto nazionale, non versano i contributi previdenziali ed evadono il fisco, scrive Valerio Teodonio il 18 gennaio 2016 su “La Repubblica”.
Pochi spiccioli per turni massacranti. Cesare ha 55 anni e le mani grandi. Gli occhi chiari e la voce profonda come le sue rughe. Lavora nei mattatoi da quando era ragazzino, macella i maiali che diventeranno prosciutti, che verranno firmati da aziende dai nomi importanti e con fatturati da milioni di euro. Cesare, dopo 38 anni di lavoro, fa turni massacranti. E viene pagato 4,50 euro l'ora. Prima della crisi era un operaio specializzato, oggi si deve accontentare per disperazione. Francesco, invece, ha 42 anni e ormai non riesce neanche più a tenere in mano un coltello. Ha i muscoli e i tendini usurati. Fa sempre lo stesso movimento, a ripetizione, senza sosta: lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi. Disossa polli per 12, spesso 15 ore al giorno. E gliene pagano meno della metà. Ma ha una moglie e un figlio. E nessuna alternativa. Succede nella provincia di Modena dove - dicono i dati che verranno pubblicati nel prossimo rapporto della Flai Cgil e che Repubblica è in grado di anticipare - 5mila operai sono gravemente sfruttati. Schiavi. Esistono irregolarità di ogni tipo, in Emilia Romagna. Abusi che, secondo l'Inea, l'Istituto Nazionale di Economia Agraria, si inquadrano soprattutto nella "sottodichiarazione delle ore e o dei giorni di lavoro o nella dichiarazione di mansioni inferiori a quelle svolte". Secondo i dati elaborati dal gruppo di studio della facoltà di Sociologia della Sapienza di Roma guidato dal professor Francesco Carchedi sulla base delle informazioni raccolte tra i lavoratori, in questa zona sono almeno 3.700 gli operai gravemente sfruttati nella zootecnia. Ma secondo le stime ci sono almeno altre mille persone che lavorano in condizioni anche peggiori, perché non hanno alcun contratto né tutela. Vengono pagate anche in nero per turni dagli orari estenuanti. Francesco e Cesare (i nomi sono di fantasia) si sono rovinati i polsi, i gomiti, le spalle. Prima del 2000 si occupavano dell'intero processo di lavorazione della carne: squartare, eviscerare, macellare, rifilare. Le loro mani e le loro braccia erano sottoposte a diversi tipi di sollecitazioni. Adesso il lavoro si è ridotto ad una sola mansione. Perché alle aziende conviene pagare poco un operaio non specializzato e fargli fare un'unica operazione, piuttosto che pagarne uno specializzato con compiti diversi. La meccanizzazione, poi, ha fatto il resto. E dunque Cesare rifila il maiale, Francesco disossa il pollo. "Ma un conto è stressare i muscoli e i tendini per otto ore al giorno - spiega Giacomo (ancora un nome inventato), operaio anziano e molto esperto - un altro è farlo per 15. Spesso capita che lavori dalle 4 di mattina alle 7 di sera. E poi, con un sms, vieni convocato dal capo della cooperativa per le 23 del giorno stesso. Come si chiama tutto questo? Io lo chiamo schiavismo. Non solo. Se la carne da lavorare tarda ad arrivare, gli operai vengono costretti a rimanere in azienda ad aspettare per ore e ore. Senza essere pagati. E senza sapere quando torneranno a casa. A completa disposizione della ditta. Ormai non c'è differenza con il fenomeno dei braccianti agricoli assoggettati dai caporali nel sud Italia". La dimensione esatta dello sfruttamento è impossibile da determinare perché a ingaggiare questi lavoratori non sono direttamente le grandi aziende, ma società appaltatrici, quasi sempre false cooperative, che cambiano spesso nome, che truccano i conti, i bilanci e le buste paga. Che non applicano il contratto nazionale, che non versano i contributi previdenziali, che evadono il fisco. E che occupano soprattutto stranieri, quasi sempre romeni, marocchini, cinesi. Persone che spesso non conoscono la lingua e che non hanno mai votato un bilancio sociale, come invece spetterebbe ai soci lavoratori. Ma su 100 operai sfruttati, 10 sono italiani. "Sono sempre di più - denuncia il segretario regionale della Flai Cgil, Umberto Franciosi - si tratta di uomini strozzati dalla crisi che per disperazione accettano di sottostare a queste condizioni". Poi ci sono i giovani, ragazzi senza alcuna esperienza, che vengono sfruttati più degli altri e che rischiano non solo malattie professionali, ma anche gravi infortuni sul lavoro. "Non sanno usare il coltello - ragiona Giacomo - un tempo era previsto un periodo di apprendistato, oggi non si fa più. Costa troppo. Così questi ragazzi usano troppa forza, perché non hanno tecnica. E succede che scappi la lama. Non è raro che se si diano una coltellata in pancia. Ma in ospedale raccontano che si è trattato di un incidente domestico. Perché chi parla rischia il lavoro. Quando va bene ti tengono a casa per qualche settimana, ma capita che non vieni più chiamato. Così nessuno denuncia". Accuse pesanti confermate nella sostanza dall'intervista al direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena Renato Di Rico che potete leggere più sotto. Una serie di interventi della Guardia di Finanza, tra il 2012 e il 2014, ha scoperto che nella zona, su mille operai controllati, 900 non erano in regola. "In generale - argomenta il comandante provinciale Pasquale Russo - possiamo dire che nelle cooperative risultate spurie, 7 soci lavoratori su 10 sono falsi soci lavoratori. Tra il 2014 e il 2015 abbiamo riscontrato evasioni pari a 20,5 milioni in materia di Irap, 10,5 milioni per le imposte indirette, 10 milioni in termini di Iva, ritenute fiscali non versate per 1,5 milioni". Uno degli escamotage più usati per risparmiare sulle buste paga è il sistema della "Trasferta Italia". In pratica una percentuale dello stipendio viene pagato sotto la dicitura, appunto, di trasferta (mai avvenuta), che non prevede il versamento dei contributi previdenziali. "Tra le aziende che nella zona di Modena appaltano parte della produzione a società esterne - racconta Franciosi - possiamo citare Suincom, Alcar Uno, Fimar, San Francesco. Siamo nella zona di Castelnuovo Rangone. E da loro comprano tutti i grandi marchi italiani che troviamo negli scaffali dei supermercati, e che producono carni, salumi, mortadelle, pancetta. Le grandi aziende magari sono virtuose al loro interno, rispettano i contratti e pagano il giusto i loro dipendenti, ma quando si vanno ad approvvigionare dai loro fornitori, guardano il prezzo. E acquistano dove conviene di più. Non si domandano come mai la carne costa ogni giorno un centesimo in meno. Le aziende a cui si rivolgono, hanno, al loro interno, lavoratori pagati da false cooperative. Che, appunto, sfruttano il personale. In pratica, per mantenere invariata la qualità dei prodotti d'eccellenza, si risparmia sulla manodopera. E a volte sono le stesse aziende che creano le false cooperative, e ci mettono come capo una testa di legno". Repubblica ha provato a intervistare i responsabili delle società che possono appaltare parte del lavoro a ditte esterne (raggiungere direttamente le false cooperative non è stato possibile). Ci ha ricevuto solo la Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola - è la replica del presidente Roberto Agnani - chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Mentre i grandi marchi che nella zona di Modena possono acquistare carni, come Grandi Salumifici, Consorzio del Prosciutto di Parma e Rovagnati rispondono all'unisono: "Non siamo a conoscenza di casi di sfruttamento". Secco no comment invece da Citterio. L'Emilia Romagna - secondo gli ultimi dati Istat - è tra le regioni che hanno il maggior numero di aziende zootecniche. In questo comparto impiega oltre 85mila lavoratori e ha una produzione dedicata alla macellazione tra le più importanti a livello nazionale, seconda soltanto alla provincia di Mantova. Lo stipendio medio degli operai zootecnici è difficile da quantificare. La Cgil calcola che la metà dei lavoratori stranieri riescono a raggiungere gli 800 euro mensili, ma, come si è detto, le ore lavorate sono spesso molte di più rispetto a quelle pagate. Il risparmio finale su ogni addetto arriva anche al 40 per cento, perché succede che un operaio specializzato venga pagato come un semplice apprendista, cioè la metà di quello che gli spetterebbe. Come Cesare, che da ragazzino sognava solo di fare bene il suo lavoro. "Invece faccio lo schiavo", racconta abbassando gli occhi stanchi. O come Francesco, che ha le braccia distrutte. E la sera, quando torna a casa, ha voglia solo di piangere.
La Asl conferma: "Infortuni oltre la media". Patologie invalidanti, ripetuti traumi e incidenti di vario tipo, omertà nel denunciare quanto accade. Renato Di Rico, direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena, conferma le conseguenze della gravissima situazione di sfruttamento diffusa tra i lavoratori dei macelli fotografata dalla Flai Cgil.
Quali sono le malattie professionali più diffuse?
"Le più frequenti in assoluto sono quelle muscolo-scheletriche. In particolare della schiena e degli arti superiori. Spesso si scaricano dei prosciutti dai camion in posizioni molto scomode. Si fanno migliaia di operazioni al giorno. Perché spesso le giornate durano molte più delle otto ore previste. E poi c’è il sovraccarico biomeccanico: movimenti fini, ripetitivi, molto frequenti, con durante importanti. Come l’uso del coltello per rifilare i prosciutti".
Si parla di tagli ogni 3/4 secondi. Per molte al giorno.
"Sì, sono molto veloci e molto frequenti. Il problema è proprio questo: ritmo e frequenza eccessivi. Bisognerebbe introdurre delle pause, basterebbe anche fare un altro tipo di lavoro, e riposare quel segmento dell’arto. C’è un sovraccarico di lavoro. Ma ridurre il ritmo significherebbe ridurre la produzione".
Succede che i lavoratori non si facciano curare?
"E' chiaro che non tutte la malattie vengono a galla. Molte patologie non si vedono, quello che si vede è solo una parte di un iceberg semisommerso. Perché parecchie di queste sfuggono al controllo del medico competente".
Perché sfuggono?
"Perché non vengono denunciate. E poi perché c’è una sorta di selezione naturale. Chi ce la fa rimane, chi non ce la fa, se ne va. E poi molti dei lavoratori delle cooperative sono stranieri, e questo comporta tutta una serie di difficoltà, come la lingua, l'incapacità a rappresentare le proprie rimostranze. Una debolezza implicita del ruolo".
Quante sono le malattie professionali?
"Nel 2012, su 45 mila denunce in Italia, la metà riguardava problemi osteo-articolari. In Emilia Romagna la percentuale di malattie professionali è di un terzo più alta della media nazionale".
Molti lavoratori non riescono più a tenere un coltello in mano.
"C'è un aumento delle malattie della schiena di tipo degenerativo. E poi c'è l'arto superiore: dalla spalla fino all'articolazione del polso: i tendini, le guaine tendinee. Le malattie più frequenti sono la sindrome del tunnel carpale, ma anche le tendiniti del gomito e della spalla. Le infiammazioni colpiscono i tendini, ma anche i nervi. Che danno dolore, parestesie, difficoltà a compiere movimenti".
Che tipo di infortuni si verificano a causa dell’eccessivo lavoro?
"Aumentano gli incidenti perché diminuisce l’attenzione e cresce la possibilità di compiere errori. Gli operai sono tanti, molto vicini uno all’altro e succede che si facciano male tra loro, maneggiando dei coltelli molto affilati. Sono ambienti chiusi, bui, freddi. Per questioni anche igieniche. Ambienti disagevoli che costituiscono un rischio già di per sé. E poi ci sono le lesioni da sforzo, rotture di dischi intervertebrali. E anche lesioni legate all’uso del coltello o delle macchine".
Per esempio?
"Ci si conficca il coltello nel costato, se per esempio non si fa l’operazione in modo corretto. Bisognerebbe usare attrezzature sottoposte a manutenzione e maglie d’acciaio protettive sulle mani e sull’avambraccio. Gli incidenti sul lavoro sono diminuiti ovunque, in alcuni casi gli indici infortunistici sono in netto miglioramento. Anche in edilizia, un classico settore rischio. Mentre nel comparto della carne non c’è alcun miglioramento".
La replica delle aziende tra silenzi e smentite. Molti degli stabilimenti accusati dalla Cgil di avvalersi di manodopera procurata da cooperative esterne non hanno voluto rispondere alle nostre domande. Come AlcarUno, Fimar e San Francesco. Ci ha risposto invece il presidente della Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola, chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Dal Consorzio Prosciutto di Parma l'ufficio stampa fa sapere: "Non ci risulta che ci siano casi di questo tipo legati alla produzione del Prosciutto di Parma". Rovagnati e Citterio non hanno voluto rilasciare interviste sul tema. Grandi Salumifici italiani dichiara che non risultano casi di sfruttamento e in una nota spiega che esige "dalle aziende appaltatrici, comprese le cooperative di soci lavoratori, l'applicazione ed il rispetto integrale e inderogabile delle norme contrattuali confederali del settore merceologico di appartenenza, nonché di tutte le norme previdenziali e antinfortunistiche e dei diritti sindacali".
Coldiretti, allarme in tavola: una mozzarella italiana su quattro prodotta con "finta cagliata", scrive “Libero Quotidiano” il 20 gennaio 2016. Una mozzarella su quattro è fatta senza latte, prodotta con "finta cagliata". È Coldiretti a lanciare l'allarme, a poche ore dal maxi-sequestro di 3 tonnellate e mezzo di cagliata mal conservata in un'azienda casearia della Murgia, in Puglia. L'abitudine, spiega Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti, è quella di acquistare cagliate all'estero e poi trasformare i semilavorati industriali in prodotti caseari bollati con il titolo di "Made in Italy", senza però trasparenza e standard igienico-sanitari adeguati. Le conseguenze possono essere drammatiche per la salute dei consumatori ma anche per la fama della qualità gastronomica italiana e tutto l'indotto. "Questi comportamenti - spiega Moncalvo - provocano una distorsione del mercato, deprimono i prezzi pagati agli allevatori italiani e causano la chiusura degli allevamenti. Di fronte a questa escalation di truffe e inganni per salvare il Made in Italy non c'è più tempo da perdere e occorre rendere subito obbligatoria l'indicazione di origine del latte in tutti i prodotti lattiero caseari per garantire la trasparenza dell'informazione e la salute dei consumatori". "In Puglia, a fronte dei 1.939 allevamenti che producono 3,6 milioni di quintali di latte bovino, le importazioni di latte dall'estero raggiungono i 2,7 milioni di quintali e i 35mila quintali di prodotti semi-lavorati quali cagliate, caseine, caseinati e altro, utilizzati per fare prodotti lattiero-caseari che vengono, poi, manipolati e trasformati in prodotti lattiero-caseari made in Puglia - conclude Moncalvo -. Per questo in soli dieci anni hanno chiuso circa 3.800 stalle, una agonia veloce e drammatica degli allevamenti, con un crollo pari ad oltre il 58% del patrimonio zootecnico pugliese".
La truffa dell'olio d'oliva "clandestino". Scoperto con il test del Dna, scrive “Libero Quotidiano” il 3 dicembre 2015. Ci è voluto l'uso di una tecnica di investigazione innovativa per scoprire che 7mila tonnellate di olio spacciato per italiano veniva in realtà da Siria, Turchia, Marocco e Tunisia. Gli uomini del Corpo forestale dello Stato sono riusciti a scoprire la maxitruffa analizzando il Dna delle molecole di un carico di olio intercettato tra le province di Bari e Brindisi. L'olio non era solo destinato al mercato europeo, ma anche statunitense e giapponese con il marchio "100% italiano". Sei le persone indagate per frode e contraffazione attive in aziende di Fasano, nel Brindisino, Grumo Appula e Monopoli, nel Barese, oltre che un laboratorio di certificazione.
Carlo Petrini (Slowfood) e la legge beffa: "Truffa sul riso Carnaroli, non è quello vero. Ma...", scrive “Libero Quotidiano” ill 14 giugno 2015. Una truffa sulle tavole italiane. Siete proprio sicuri di mangiare riso Carnaroli quando lo acquistate al supermercato e lo cucinate a casa vostra? Il dubbio è venuto a Carlo Petrini, fondatore di Slowfood, dopo aver letto il libro di Beatrice Mautino e Dario Bressanini Contro natura. Si fa presto a dire Carnaroli, spiega un allarmato Petrini su Repubblica. Il punto è che occorre distinguere tra il risone, cioè la materia prima (il chicco grezzo, avvolto nella lolla), e il riso vero e proprio, quello lavorato e raffinato. Il risone dipende dalla varietà seminata, e "chi coltiva Carnaroli, produce risone Carnaroli". Ma qui arriva il difficile: "Per contro, il riso Carnaroli si può ricavare, legalmente, raffinando anche risone di varietà Carnise o Carnise precoce, o Karnak o Poseidone". L'escamotage, spiega Petrini, "si chiama omonimia: il riso venduto, per legge può essere chiamato con il nome della varietà da cui deriva il risone, oppure con uno dei nomi delle varietà che appartengono alla stessa categoria agricola. E nella categoria del Carnaroli ci sono appunto gli altri nomi di varietà (e quindi di risone) che abbiamo elencato prima". Il punto è che "il consumatore non sa che sta comprando una varietà di riso (Karnak) diversa da quella indicata sulla confezione (Carnaroli)". Tutto legale, ma non molto giusto. Né per chi compra né per chi produce, perché spesso, suggerisce Mister Slowfood, certe varietà di riso sono più facili da coltivare e permettono ad alcuni coltivatori di proporre come Carnaroli una varietà di riso non così pregiata. L'inghippo per una volta non nasce dall'Unione europea, sempre molto poco attenta a tutelare il made in Italy (in cucina e non solo), ma dal nostro Ministero dell'Agricoltura "E' ora di smettere con le scorciatoie e dare il vero, giusto peso al diritto di scelta - conclude Petrini -. Per questo non mi piace l'attuale progetto di legge sul riso che, se possibile, peggiorerà ancora le cose". "Se oggi infatti, un produttore di riso serio e attento può decidere di chiamare il proprio prodotto Karnak o Poseidone, quando derivi da queste varietà di risone, la nuova legge in discussione vorrebbe addirittura imporre la sinonimia: se il risone viene dal gruppo sui appartiene anche il Carnaroli, non potrà che chiamarsi Carnaroli", attacca Petrini. Risultato: presto per acquistare il Carnaroli "vero" dovremmo cercare sulla confezione la dicitura "Carnaroli classico", un po' come accade per il Prosecco "superiore" o l'aceto balsamico "tradizionale".
FURBETTI DEL BICCHIERINO. Ombre sul Prosecco: taroccati milioni di litri, scrive Alessia Pedrielli il 4 ottobre 2015 su “Libero Quotidiano”. Prosecco di scarsa qualità spacciato per squisito, nell’etichetta e pure nel prezzo. Stavolta però il prodotto taroccato arriva da casa nostra - e non da qualche paesetto esotico - addirittura dalla culla dello spumante più amato d’Italia: le colline del Trevigiano e la zona del Valdobbiadene. Qui i carabinieri del Nas hanno posto sotto sequestro migliaia di ettolitri di bollicine prodotte, a quanto pare, mescolando alle uve di pregio acini di qualità inferiore. Il prosecco «fuffa» era in lavorazione, pronto per arrivare sulle tavole di migliaia di bongustai che avrebbero brindato, senza saperlo, ad un nuovo tipo di frode. Questa volta, infatti, la concorrenza sleale non c’entra, il fattaccio è proprio tutto Made in Italy e ad essere coinvolte sarebbero decine di importanti aziende produttrici. Le ispezioni sono partite, una ventina di giorni fa, dall’annuale controllo di routine sui documenti di conferimento delle uve alle cantine specializzate, ma poi, visti i primi risultati, l’indagine è andata avanti e tutte le cantine con una produzione superiore ai diecimila ettolitri sono state passate al setaccio. Quello che non torna ai militari, che stanno ancora proseguendo nelle indagini, sono i dati delle bolle di carico delle uve conferite, paragonati ai quantitativi di vino prodotti. L’uva registrata in entrata di lavorazione, cioè, in molti casi è troppo poca per garantire i quantitativi di vino che stavano per essere immessi sul mercato. Segno che qualche grappolo non meglio identificato (e mai registrato né dai venditori né dalle cantine) era finito nel calderone delle uve di pregio registrate regolarmente e stava per finire imbottigliato quale Prosecco «di qualità». Dopo l’intervento dell’Arma, il vino sequestrato prodotto con le uve dell’ultima vendemmia (attualmente in lavorazione nelle cisterne) non potrà più fregiarsi dei marchi Docg o Doc e verrà declassato oppure, se non conforme per caratteristiche organolettiche a quanto previsto dalle norme, verrà addirittura distrutto. Per i produttori-furbetti si preannunciano multe da decine di migliaia di euro. Cifre importanti, ma che con ogni probabilità, per molti, verranno declassate alla voce «rischio calcolato». Come quasi sempre accade quando si parla di contraffazione alimentare nel nostro Paese, infatti, le multe conferite a chi sgarra non sono certo decisive per il destino delle aziende che decidono di alterare il prodotto. Ad accusare il colpo, invece, saranno ancora il buon nome di cura la qualità nonché la fiducia dei consumatori, già fiaccata da tante cattive notizie, tra cui anche l’inchiesta, ancora in corso, sul Sauvignon «dopato» prodotto nella zona di Cividale del Friuli, a cui veniva aggiunto durante la fase di lavorazione un preparato «capace di rendere stellata anche la peggiore delle vendemmie senza arrecare danni alla salute», per usare le parole degli inquirenti. Lo sa bene il Consorzio di tutela Conegliano Valdobbiadene che, con una nota relativa ai sequestri di Prosecco contraffatto ha precisato che «i controlli effettuati hanno riguardato aziende e prodotti delle province di Treviso, Belluno e Venezia» e non soltanto «dell’area Docg di Conegliano Valdobbiadene», che «le contestazioni dei Nas riguardano illeciti amministrativi e non penali» e che, per quanto riguarda il prodotto Docg, «prima di essere imbottigliato avrebbe comunque dovuto passare altre severe verifiche per ottenere i sigilli che lo identificano».
"Naturale uguale sano? Una bufala ormai scaduta". Lo studioso nel suo nuovo libro smonta le tesi di ambientalisti e nutrizionisti: "Se tutta l'agricoltura fosse biologica, la fame nel mondo aumenterebbe", scrive Eleonora Barbieri, Lunedì 01/02/2016, su "Il Giornale". Naturale. Però non si sa bene quanto, e in che termini. Che ciò che è o si spaccia per «naturale» sia anche tale e, per questa unica ragione, sia anche «meglio», è ormai dato perlopiù per scontato. Chi non sceglierebbe una mela naturale, un cosmetico naturale, un cibo prodotto con metodo naturale... Ma Naturale uguale buono? si intitola un libro appena pubblicato da Carocci (pagg. 256, euro 19): e la domanda è lecita, in un mondo in cui la «religione della natura», come la chiama l'autore Silvano Fuso (chimico e divulgatore scientifico) ha reso un aggettivo sinonimo di (presunta) garanzia di sicurezza e qualità, un'assicurazione di superiorità, di avere compiuto, in qualche modo, la scelta giusta.
Ma che cosa significa naturale?
«Ecco, io farei questo esempio. Le dighe dei castori o i termitai hanno una complessità avanzata, però li definiamo naturali. Invece i manufatti umani, per esempio stesse le dighe, li consideriamo artificiali».
Perché?
«Appunto. Perché? Anche l'homo sapiens appartiene alla natura. E i biologi evoluzionisti mostrano che ogni specie modifica l'ambiente in cui vive. Da decenni però esiste una religione della natura, che le attribuisce un'aura di sacralità per cui ogni sua modifica è considerata negativa».
Non è giusto difendere la natura, secondo lei?
«Ma a volte gli ambientalisti diventano dei fondamentalisti nella tutela della natura. Che non è né buona né cattiva: è sbagliato trasferire su di essa valori umani. Si pensi alla sessualità».
Che cosa c'entra la sessualità?
«Beh, molte persone ritengono che certi comportamenti siano contro natura, ma che cosa significa? Fra gli animali il campionario è sconfinato, dalla necrofilia alla pedofilia fino al sesso con altre specie... Cose che a noi ripugnano, però è assurdo definirle contro natura».
Perché in natura ci sono.
«Questo per dire che il naturale è un mito: ci sono tantissime cose perfettamente naturali e pericolose, dai veleni alle tossine, perfino le malattie... Che cosa c'è di più perfettamente naturale di una malattia?»
Quindi, per rispondere alla domanda che poi è il titolo del suo libro, naturale non è uguale a buono?
«È un mito privo di fondamento. Ogni cosa va valutata per quello che è, indipendentemente dalla sua origine. Come i prodotti biologici. Gli studi scientifici mostrano che non offrono vantaggi quanto a proprietà nutrizionali e organolettiche e a sicurezza».
Però alcuni difendono l'agricoltura biologica perché ha un impatto minore sull'ambiente.
«È vero solo se ci si riferisce all'unità di superficie agricola coltivata; non se si considera l'unità di prodotto ottenuto, perché la resa per ettaro è inferiore. Se tutta l'agricoltura fosse convertita al biologico, la fame nel mondo aumenterebbe a dismisura e il disboscamento arriverebbe a livelli folli. Con problemi ambientali enormi».
Però il biologico gode di grande popolarità.
«Diciamo che è il lusso che le società ricche possono permettersi. E deve rimanere tale, di nicchia, altrimenti non sarebbe sostenibile».
E la sicurezza alimentare?
«È dimostrato che le percentuali di pesticidi residui sui prodotti, anche in quelli dell'agricoltura tradizionale, sono minime e non compromettono la salute dei consumatori. Insomma non ci sono vantaggi».
E gli additivi? I conservanti?
«Se non usassimo i conservanti, i rischi per la salute sarebbero molto maggiori. Si parla tanto di quanto siano buone la marmellata e la salsa fatte in casa ma, senza competenze adeguate, il rischio di contaminazioni batteriche è alto, più che a livello industriale».
Spesso anche dai supermercati vengono ritirati prodotti contaminati.
«Certo, l'errore o la frode sono sempre in agguato. Però le norme esistono, e gli organi di controllo vigilano. Invece i prodotti casalinghi non li controlla nessuno. Ma poi, guardi, nessun prodotto è naturale».
In che senso?
«Mele, arance, patate: tutto quello che vediamo è frutto di selezioni e modifiche fatte dall'uomo nei secoli, attraverso le tecniche agricole. Una agricoltura naturale non esiste».
Tutto dipende da come si modifica...
«Per millenni l'uomo ha selezionato e modificato, ma in modo grossolano. Oggi con tecniche di ingegneria genetica possiamo farlo più velocemente e in maniera mirata. Molti ne hanno paura, ma i risultati dicono che i presunti rischi degli ogm in realtà non esistono».
Ma lei non preferisce un prodotto a chilometro zero a uno ogm?
«Guardi, c'è una frase che riporto nel libro, in cui Carlo Petrini parla dei peperoni astigiani sostituiti dai tulipani olandesi, lamentandosi della perdita di prodotti tipici».
E non è un peccato?
«Ma anche i bambini sanno che i peperoni sono arrivati in Europa dall'America, prima non li coltivava nessuno. Parliamo di una naturalità e una tipicità totalmente artificiose: sono solo ciò a cui la gente è abituata».
Vale anche nell'ambito della salute?
«Certo, si pensi al movimento contro i vaccini. È da scriteriati combatterli: hanno aiutato a salvare milioni di vite. Se le percentuali di popolazione vaccinata scendono sotto certi limiti rischiamo il ritorno di alcune malattie ormai quasi debellate. Come la difterite o il morbillo».
Ma i rischi delle vaccinazioni?
«Parliamo di effetti collaterali noti e in percentuali irrisorie di fronte a un beneficio enorme. Per non parlare poi dei rischi inventati di sana pianta, come quelli sui legami fra il vaccino trivalente e l'autismo: una frode di un medico inglese, poi radiato, che però ha ancora effetti sull'immaginario collettivo».
Ma perché il «naturale» ha così presa?
«Penso che questi atteggiamenti siano un lusso delle società ricche e progredite. Se vivessimo in condizioni più disagevoli nessuno proporrebbe di tornare all'agricoltura biologica o di rifiutare i vaccini».
È colpa del benessere?
«Il fatto è che, quando abbiamo il benessere, paradossalmente si crea una diffidenza verso ciò che l'ha creato, cioè scienza e tecnologia. Ogni specie cerca di difendere se stessa, anche a danno delle altre. Noi però, grazie alla scienza, siamo capaci di prevedere gli effetti sull'ambiente delle nostre scelte».
Quindi in certi casi sappiamo che stiamo sbagliando?
«Sappiamo che alcune scelte possono ritorcersi contro di noi, se distruggiamo l'ambiente in modo dissennato. Perciò dobbiamo fare dei bilanci fra rischi e benefici, però in modo razionale, non fideistico o ideologico».
OLIO TUNISINO: IL PD VOTA L'INVASIONE. Scrive “Il Blog Di Beppe Grillo" Lunedì 25 Gennaio 2016. Oggi muore il Made in Italy. Con i voti favorevoli di Alessia Mosca (Pd), Goffredo Bettini (Pd) e dei gruppi Ppe, S&D e Alde la Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo ha approvato l'importazione senza dazi di una quota annua di 35.000 tonnellate di olio d'oliva dalla Tunisia. Questa ulteriore quota si aggiunge alle 56.700 tonnellate annue già previste dall'accordo di associazione UE-Tunisia e sarà in vigore per due anni. Un aumento del 40% di importazione di olio distruggerà la produzione olivicola pugliese, siciliana e non solo. È uno schema suicida per l'economia del Sud Europa, così come dimostrato dai precedenti accordi con il Marocco, che hanno contribuito a distruggere la produzione di arance nel Sud Italia e causato indirettamente tensioni sociali, come quelle vissute a Rosarno. Dietro l'invasione dell'olio tunisino ci sono precisi interessi economici in gioco: l'obiettivo è quello di affossare i piccoli e medi produttori del Sud Italia, mentre ai grandi viene data la possibilità di comprare a prezzo stracciato l'olio extraeuropeo per poi spacciarlo Made in Italy, come in passato già dimostrato dalle inchieste della magistratura. L'agricoltura italiana, ancora una volta, viene usata come merce di scambio per la politica internazionale. La Mogherini, che ha ideato il piano, conosce le conseguenze economico-sociali di questa politica iper-liberista? L'Europa sta già facendo molto per il popolo tunisino. Nel 2011 anni ha stanziato nel programma di macro assistenza finanziaria ben 800 milioni di euro. Nel 2015 sono stati erogati 100 milioni di euro, una prima tranche di un prestito complessivo di 300 milioni. Perché adesso questa ulteriore apertura? Alcuni sospetti nascono dagli interessi economici dell'attuale primo ministro tunisino. Habib Essid è, infatti, uno dei maggiori produttori di olio del Paese e dal 2004 al 2010 è stato persino direttore esecutivo del Consiglio oleicolo internazionale. Con questa importazione senza dazi si vuole aiutare il popolo tunisino o gli affari dei suoi governanti? Il MoVimento 5 Stelle si opporrà e difenderà con tutti i mezzi la produzione e l'eccellenza italiana, già a partire dalla prossima plenaria quando il testo verrà votato per l'approvazione definitiva. Il Pd può dire lo stesso?
"Offende sempre le capre": Sgarbi denunciato dagli animalisti. Ferrara, esposto in procura da parte dell'Aidaa: "Incitamento al maltrattamento di animali". La replica del critico d'arte: "Io lo intendo come un complimento", scrive il 02 gennaio 2016 "La Repubblica". Un esposto alla Procura della Repubblica di Ferrara contro Vittorio Sgarbi perché "offende le capre": afferma di averlo presentato Lorenzo Croce, presidente dell'Associazione italiana difesa animali e ambiente (Aidaa), che chiede ai magistrati "di verificare se l'uso spregiativo del termine "capra", che lo stesso critico d'arte usa a sproposito, non sia un incitamento al maltrattamento di animali, ai sensi dell'articolo 544-ter del codice penale, oltre che un uso scorretto della lingua italiana. Nella descrizione della specie animale "capra" infatti si legge che la stessa è tra gli animali più intelligenti che esistano". "La nostra è una provocazione - spiega Croce - fatta contro chi delle provocazioni ha fatto un modo di vivere, e quindi a lui chiediamo, oltre che di smetterla di usare impropriamente il nome capra come epiteto, anche di andare a vivere tre giorni con i pastori ed imparare, pascolando le capre, quanto sono intelligenti quegli animali". A stretto giro arriva, con una nota del suo ufficio stampa, la replica ironica di Sgarbi: "Ringrazio l'Aidaa, condividendo pienamente le loro posizioni. Infatti, avendo evitato di legare al sostantivo "capra" qualunque aggettivo, ho sempre inteso capra come un complimento, considerando di molto inferiori alcuni uomini. Suggerisco comunque all' Aidaa di fare un esposto anche contro Gesù Cristo che, identificandosi nel buon pastore, ha riconosciuto negli uomini le sue pecore".
L'esposto animalista contro Sgarbi, scrive "Il Corriere della Sera" il 2 gennaio 2016. Un esposto alla Procura della Repubblica di Ferrara contro Vittorio Sgarbi perché «offende le capre»: afferma di averlo presentato Lorenzo Croce, presidente dell’Associazione italiana difesa animali e ambiente (Aidaa), che chiede ai magistrati «di verificare se l’uso spregiativo del termine “capra”, che lo stesso critico d’arte usa a sproposito, non sia un incitamento al maltrattamento di animali, ai sensi dell’articolo 544-ter del codice penale, oltre che un uso scorretto della lingua italiana. Nella descrizione della specie animale “capra” infatti si legge che la stessa è tra gli animali più intelligenti che esistano». «La nostra è una provocazione - spiega Croce - fatta contro chi delle provocazioni ha fatto un modo di vivere, e quindi a lui chiediamo, oltre che di smetterla di usare impropriamente il nome “capra” come epiteto, anche di andare a vivere tre giorni con i pastori ed imparare, pascolando le capre, quanto sono intelligenti quegli animali». A stretto giro arriva, con una nota del suo ufficio stampa, la replica ironica di Sgarbi: «Ringrazio l’Aidaa, condividendo pienamente le loro posizioni. Infatti, avendo evitato di legare al sostantivo capra qualunque aggettivo, ho sempre inteso “capra” come un complimento, considerando di molto inferiori alcuni uomini. Suggerisco comunque all’Aidaa di fare un esposto anche contro Gesù Cristo che, identificandosi nel “buon pastore”, ha riconosciuto negli uomini le sue pecore». È recente (17 dicembre) un post su Facebook in cui Vittorio Sgarbi interveniva proprio con un «Capre, sono ancora qui» per tranquillizzare tutti poche ore dopo il malore che lo aveva colpito in autostrada e che lo aveva costretto al ricovero d’urgenza al policlinico di Modena per un’ischemia cardiaca, risolta dai medici con un intervento di angioplastica. «Al di là del fatto che l’esposto del signor Croce è stato presentato ad una autorità incompetente per territorio e non solo contro Sgarbi ma anche verso l’attuale presidente del Consiglio Renzi, per il significato che questi attribuisce ai gufi, qualificati iettatori, nessun reato sussiste nel caso in esame, posto che il nostro ordinamento considera gli animali come beni mobili». Lo precisa in una nota l’avvocato Giampaolo Cicconi per conto di Vittorio Sgarbi. «Quindi - prosegue la nota - nessuna violazione penalmente rilevante è stata commessa né dal professor Sgarbi e né dal primo ministro Renzi, atteso che non vi è stato da parte di costoro alcun maltrattamento né alle capre e né ai gufi».
Vittorio Sgarbi risponde agli animalisti: "Dirò capra quanto voglio", scrive "L'Huffington Post" il 04/01/2016. "Cane, ti dirò cane, o dovrò chiamarti Dio? Perchè se ti chiamo cane ti potrei offendere, se ti chiamo Dio, offendo Dio". Inizia così il video con cui Vittorio Sgarbi, rivolgendosi a un cane, risponde alle critiche rivoltegli dall'Aidaa, "Associazione italiana difesa animali e ambiente", che che si sono concretizzate in un esposto. "L'Aidaa ha presentato un esposto alla Procura di Ferrara contro il critico d'arte che usa come epiteto il nome dell'erbivoro contro i suoi detrattori", spiega il critico d'arte nel video, pubblicato sul suo profilo Facebook. Pochi giorni fa, infatti, Lorenzo Croce, presidente Aidaa, aveva dichiarato di aver chiesto ai magistrati "di verificare se l'uso spregiativo del termine 'capra', che lo stesso critico d'arte usa a sproposito, non sia un incitamento al maltrattamento di animali, ai sensi dell'articolo 544-ter del codice penale, oltre che un uso scorretto della lingua italiana". Il motivo? Le capre sono tra gli animali più intelligenti. L'associazione invitava quindi il critico non solo a smettere di usare impropriamente il termine, ma anche a vivere tre giorni con i pastori, pascolando le capre, per imparare quanto questi animali siano intelligenti. Sgarbi aveva già risposto con un comunicato "Ringrazio l'Aidaa, condividendo pienamente le loro posizioni. Infatti, avendo evitato di legare al sostantivo capra qualunque aggettivo, ho sempre inteso 'capra' come un complimento, considerando di molto inferiori alcuni uomini. Suggerisco comunque all'Aidaa di fare un esposto anche contro Gesù Cristo che, identificandosi nel 'buon pastore', ha riconosciuto negli uomini le sue pecore". Ma il critico ha sottolineato la sua posizione anche con il video, diffuso appunto tramite la sua pagina social. Dopo un lungo ragionamento, Sgarbi nel filmato afferma: "[...] Intendo dire che dirò capra quanto voglio, con ciò ritenendo di non offendere né la capra né l'uomo".
Dal Palio di Siena alle meduse: la guerra santa degli animalisti. Attaccano la sperimentazione medica sulle cavie, combattono gli allevatori, difendono i diritti dei grilli e delle farfalle. Gli animalisti 2.0 si sono radicalizzati, e lottano contro ogni forma di discriminazione animale. In nome della libertà di tutti gli esseri viventi. La guerra contro gli "specisti", che considerano gli animali inferiori all'uomo, è sempre più violenta. Tra insulti sul web, liti in famiglia e scontri di piazza, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Recommone qualche giorno fa, sotto gli occhi di chi scrive c’è stata un’accesa discussione tra una donna e una famiglia vicina d’ombrellone. Il tema del litigio era originale: il diverso parere sul destino di una medusa (specie Pelagia noctiluca) che aveva ustionato un bambino sulla coscia. Il padre dopo l’attacco era riuscito a prendere l’essere planctonico con il secchiello e l’aveva gettato sulla terraferma. Notata la scena, una signora in bikini si precipitava verso la riva, cominciando a inveire contro l’uccisore. «Le meduse hanno diritto a vivere come tutti gli animali! Siete degli assassini! Vergognatevi!». Qualcuno l’ha applaudita, altri tifavano per il capofamiglia che difendeva a spada tratta il delitto appena compiuto («cretina, le meduse non hanno nemmeno il cervello!»), il pargolo continuava a urlare dal dolore contorcendosi sul lettino. Ecco. La zuffa estiva è metafora perfetta di un animalismo radicale che sta prendendo piede ovunque, e della diffusione capillare della guerra bestiale combattuta da animalisti duri e puri e coloro che non vogliono piegarsi alle tesi del filosofo Peter Singer, l’australiano autore della bibbia dei vegani (titolo: “Liberazione animale”) in cui si attacca senza se e senza ma lo “specismo”, considerato inaccettabile razzismo che gli esseri umani hanno nei confronti delle altre specie viventi. Il conflitto è arrivato in spiaggia, passando dai social network, e ormai tracima in battaglie dentro casa tra mariti e mogli e - come accaduto per il palio di Siena - tra le opposte fazioni in piazza. «Sono singoli fanatici e piccoli gruppi radicali», tranquillizzano gli animalisti meno accesi, ma in cuor loro sanno anche loro che la minoranza è sempre più compatta e forte. Se molti di questi gruppi sono legati alla destra estrema (il capo dell’associazione Animalisti 100 per cento è vicino ai fascisti di Forza Nuova) e fioriscono le sigle anarchico-animaliste, le proteste contro le violenze sugli animali hanno scavallato i temi tradizionali della caccia, delle pellicce, delle inutili mattanze di foche, e ai maltrattamenti sulle cavie da laboratorio e alle crudeltà perpetrate nei canili-lager, s’è aggiunto uno sdegno contro qualsiasi pratica (commerciale o ludica) che limiti la libertà degli animali. Indignazione che a volte mette sullo stesso piano tutti gli specisti, coloro che si rifiutano di mettere bestie e persone sullo stesso piano. Per non parlare degli umanisti più convinti, che si scandalizzano al contrario dell’enorme clamore mediatico di casi come quello della morte dell’orsa Daniza in Trentino (deceduta per complicanze dopo essere stata narcotizzata) e dell’uccisione da parte di un dentista americano del vecchio leone Cecil. Simbolo di un paese, lo Zimbabwe, che grazie al felino è finito per settimane sulle prime pagine dei giornali di tutto il globo. Disinteressati, ça va sans dire, che in Zimbabwe l’aspettativa di vita sia tra le più basse del mondo (59 anni, dati dello World Health Statistics 2015), e che ogni giorno - come ha denunciato l’Unicef - veda morire circa 100 bambini sotto i cinque anni a causa di fame e Aids. «Il mondo è sgomento per la sorte di Jericho, fratello di Cecil», ricordava il ventesimo lancio dell’Ansa dedicato alla big story dell’estate. Tornando in Italia, siamo in pieno “Clash of Civilizations”, e gli scontri tra specisti e animalisti fanatici sono all’ordine del giorno. Due anni fa una ragazza affetta da gravi malattie genetiche, Caterina Simonsen, fu subissata di ingiurie («magari fosse morta a nove anni, un essere vivente di merda in meno e più animali su questo pianeta!», il tenore degli improperi su Facebook) per aver difeso la sperimentazione medica sulle cavie (gli insultatori hanno vinto il demenziale “Premio Hitler” messo in palio ogni anno da Federfauna, nel 2013 l’aveva vinto l’ex ministro azzurro Michela Brambilla), mentre quattro ricercatori dell’Università di Milano sono finiti nel mirino del gruppo “Nemesi animale” per le loro sperimentazioni sugli animali, con tanto di foto con nome, cognome e numeri di telefono affissi sui muri di mezza città. Se le battaglie contro zoo, circhi e atrocità degli allevamenti intensivi sono patrimonio di ogni animalista, centinaia di associazioni più o meno organizzate hanno compiuto un salto ideologico, e i loro adepti lottano contro qualsiasi discriminazione e azione che puzzi di “specismo”. A Padova a luglio 15 camion carichi di mangimi sono stati dati alle fiamme e rivendicati con una scritta «No Ogm, no allevamenti», un blitz simile a quello dell’Animal Liberation Front con cui vennero distrutti mesi fa i furgoni di una ditta di latticini in Toscana. «Solidarietà ai militanti dell’Alf: le loro azioni non sono terrorismo, ma atti concreti di lotta per la liberazione animale. Un’azienda casearia è una fabbrica di dolore e morte», scrisse in una nota il movimento Centopercentoanimalisti. Il fondatore Paolo Mocavero, candidato nel 1999 alle comunali per Forza Nuova, è uno dei duri e puri che ha capito come fare notizia, e ha ordinato ai suoi di attaccare giostre e fiere locali. «Il palio delle oche di Lacchiarella è l’ennesima forma di maltrattamento nei confronti di animali inadatti a gareggiare, correndo spaventati dagli schiamazzi del pubblico per un chilometro e mezzo. È un simbolo di arretratezza civile e culturale», ha intimato il gruppo, che qualche tempo addietro organizzò un assalto contro un’azienda veneta colpevole, secondo loro, di favorire l’accoppiamento forzato tra cani per produrre razze pregiate. Una strategia mediaticamente vincente che ormai ha conquistato anche associazioni meno radicali. L’Enpa due settimane fa si è scatenata contro il palio delle rane di San Casciano Bagni, paesino demoniaco dove le bestiole «vengono messe su carriole spinte dai contradaioli lungo le vie della città. È una sistemazione tutt’altro che idonea a una specie animale, si tratta di un maltrattamento insieme fisico e psicologico!». Stessa grancassa contro la fiera di Porcia, vicino a Pordenone, dove un asinello alla fine della giornata viene fatto salire sopra un campanile. Anche questa pratica considerata «vergognosa». Se la Lav considera «inaccettabile» il ritorno della festa del grillo di Firenze («un orrore che non può essere attenuato nemmeno dal sub-emendamento presentato in consiglio comunale che obbliga la liberazione del grillo dopo tre giorni», spiegano i dirigenti), la Lida se l’è presa con la corsa delle galline di Grugliasco. Vicende che fanno sorridere gli specisti, ma che mostrano in realtà come le distanze con parte importante del nuovo animalismo stiano crescendo a dismisura. Non solo nelle scelte alimentari, ma nell’approccio legale intorno ai diritti di cui gli animali devono o non devono godere. Secondo l’inventore del termine “specismo”, lo psicologo Richard D. Ryder, non va combattuto solo il razzismo e il sessismo, ma qualsiasi «pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie». Una rivoluzione, in termini ideologici, che si sta diffondendo capillarmente in Occidente, dove gli animalisti s’erano concentrati sulla difesa di cani, gatti e altri pet da compagnia e contro la violenza nelle produzioni di indumenti. Con il boom del vegetarianesimo prima e della cultura vegana poi, negli ultimi due lustri il radicalismo alla Singer è diventato dominante, e sta contagiando centinaia di migliaia di persone. Le cui battaglie sono ormai mal viste da chi accorda agli umani uno status superiore e privilegiato. «Non distinguere gli uomini dagli altri esseri viventi è nefasto. Perché la morale riguarda solo gli esseri umani», ha attaccato il filosofo Fernando Savater tre anni fa, riprendendo le tesi di Immanuel Kant e decine di altri pensatori prima di lui. «I veri barbari sono coloro che non distinguono uomini e animali. Caligola che fece senatore un cavallo e uccise centinaia di persone che non apprezzava. Quello era un barbaro. Perché trattava gli uomini come gli animali e gli animali come gli uomini». Con visioni così antitetiche non deve stupire, dunque, la virulenza lessicale con cui qualche giorno fa esponenti del Partito animalista europeo hanno infamato i contradaioli del Palio di Siena, né la rabbia dei ragazzi che lo scorso febbraio hanno dato degli «assassini» a un gruppo di esterrefatti contadini della Coldiretti che avevano portato le loro mucche da latte in piazza per denunciare l’indifferenza del governo davanti al declino del settore. Per un antispecista possedere e sfruttare un animale è un peccato mortale, anche se l’uomo ci fa solo formaggi e caciotte. Le fedi sono inconciliabili, le polemiche quotidiane. Le ultime risse in ordine di tempo hanno riguardato il milione di cinghiali che infestano le nostre campagne (i comuni li vorrebbero abbattere, gli animalisti vogliono proteggerli) e le nutrie della pianura padana, bestiole che scavando gallerie lungo gli argini dei fiumi rischiano ogni inverno di aumentare i pericoli di alluvioni. «Nessuno osi abbatterle», urlano in coro tutti gli animalisti, mentre dall’altra parte l’assessore alla Protezione civile della Provincia di Treviso, il leghista Mirco Lorenzon, ha proposto di mangiarle: «È un’ottima carne a chilometro zero, ricca di proteine e povera di colesterolo». Chi sogna la libertà per tutti gli esseri viventi non può nemmeno accettare, come avvenuto l’anno passato, che a Firenze per le sfilate di Pitti Uomo venga realizzata un’opera in cui centinaia di farfalle volano in una (enorme) voliera, né - ovviamente - che l’artista Hermann Nitsch possa organizzare mostre con immagini di animali squartati. Un furore antispecista che, al netto della difesa di insetti e meduse, rischia talvolta di tramutarsi anche in ridicolo. Come quando, nel luglio di un anno fa, decine di migliaia di animalisti attaccarono sui social Steven Spielberg, reo di aver ucciso un triceratopo (la foto del dinosauro meccanico morto risaliva ai tempi di “Jurassic Park”); o come lo scorso Natale a Macerata, quando un ippopotamo del circo Orfei liberato da un gruppo animalista fu investito due minuti dopo da un’auto sulla provinciale. Chi vincerà è difficile dirlo: di certo la guerra bestiale non finirà presto.
La scena raccapricciante nel parco: "Ma che cosa fa il pastore a quella povera asinella?", scrive “Libero Quotidiano” il 5 febbraio 2016. È stata una scena terribile quella che si è presentata davanti agli occhi di una donna al parco della Caffarella di Roma. Durante una passeggiata tra i sentieri del parco, la donna ha visto un pastore che abusava di un asina. La storia è stata diffusa dall'Associazione animalisti italiani, dopo che la donna ha denunciato il fatto ai carabinieri della stazione Tuscolana. L'associazione ambientalista si è lamentata del fatto che la donna sia stata rimbalzata dai militari. Secondo il vicepresidente Pier Paolo Cirillo i carabinieri avrebbero invitato la donna a rivolgersi alle "guardie del parco". Già la presenza degli animali nel parco è un'anomalia sottolineata dall'associazione: "La persona che tiene l'asino e anche delle pecore vende al dettaglio prodotti caseari, secondo alcune segnalazioni dei residenti - ha chiarito Cirillo - Questi animali vengono tenuti abusivamente nel parco, abbiamo quindi chiesto, per il bene della collettività, anche degli accertamenti sulle condizioni igienico-sanitarie dei capi di bestiame".
Aidaa, la denuncia: "Sesso con cani, cavalli e asini, trovate 15 ville per le orge", scrive “Libero Quotidiano” il 4 ottobre 2015. L'Associazione italiana difesa animali e ambiente (Aidaa) ha scoperto un circuito di ville utilizzate dagli amanti della zoofilia erotica, la zooerastia. A darne notizia è la stessa associazione, precisando che si tratta di una quindicina di residenze situate in diverse città italiane. La cosiddetta "rete dei siti del sesso con animali" è stata portata luce in seguito a una complessa attività di indagine condotta per circa due mesi attraverso alcune chat riservate. Fingendosi interessati agli appuntamenti, gli investigatori sono riusciti a ricostruire la rete che conta su basi in tutta Italia, con particolare concentrazione a Roma e nelle province di Varese, Cremona e Milano. "Usano cani, cavalli e asini" - "Quello che è emerso - spiega Lorenzo Croce, presidente nazionale di Aidaa - è che dietro ai siti pornografici che propongono filmati a pagamento di sesso con animali si nascondono gruppi di oltre 100 persone sparse in tutta Italia". Tra gli animali convolti nel giro, "non solo cani, ma anche asini e cavalli di varia stazza". Altri luoghi, dedicati a orge con la presenza di animali, si trovano nelGrossetano e nelle campagne di Frosinone. "Stiamo pensando di presentare una serie di esposti alle diverse procure per il resto di maltrattamento - aggiunge Croce -. È urgente che la zooerastia sia considerata da subito un reato come da anni chiediamo non solo al governo italiano ma anche all'Unione europea".
La scienza sbugiarda i vegani: "La carne ci ha resi intelligenti". Una ricerca pubblicata su Nature evidenza l'importanza della carne nello sviluppo dell'uomo, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 11/03/2016, su "Il Giornale". Non c'è molto altro da dire: la carne ci ha reso quello che siamo. Più intelligenti, insomma. E i vegani dovranno quindi ricredersi, almeno così dice la rivista "Nature", sulle loro credenze. Tanto che oggi il Time titola "Ci dispiace, vegani" e riporta l'articolo di Nature secondo cui, mangiare le proteine animali è ciò che ha reso capace all'uomo di essere cioè che è. Trasformandolo, scrive l'Huffingtonpost, non solo "a livello anatomico (con volti e denti di dimensioni ridotte)" ma anche "a livello intellettivo (sviluppando la sua capacità di parlare)". Le motivazioni della ricerca sono chiare: una volta, i nostri avi, mangiavano molta frutta e verdura. Ma non era sufficiente. Così ci si attaccava alle barbabietole, alle radici e alle patate. Che, però, erano ben più difficili da mangiare. Così, quando l'uomo ha "scoperto" la carne, tutto è cambiato. Era più facile da masticare, più calorica e le proteine aiutavano lo sviluppo. L'unico, piccolo problema, era la caccia. Ma si quello l'uomo si è adattato abbastanza in fretta. Stessa cosa vale per la lavorazione, il taglio e la masticazione. Insomma, scoprire la carne ci ha fatto evolvere. La cucina dei cibi, infatti, arriva "solo" 500mila anni fa. "Cucinare è un fattore importante, ma non è l'unico da prendere in considerazione - ha spiegato Daniel Lieberman dell'Harvard University - Anche il cibo lavorato, tagliato o fatto a pezzi, ha avuto effetti profondi su di noi". Infatti, se non avessimo cominciato a mangiare la carne, se non avessimo avuto bisogno di strapparla dai cadaveri degli animali, i denti dell'uomo non si sarebbero sviluppati. E sarebbero quindi stati più piccoli. Lo stesso discorso vale per le ossa del collo e il cranio. "Questi cambiamenti - dicono i ricercatori - non sarebbero forse stati possibili senza il consumo di carne insieme all'acquisizione di tecniche per lavorarla e cucinarla". I vegani sono avvertiti.
PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.
GIUSTIZIA SPORTIVA: GIUSTIZIA SOMMARIA E SPESSO INGIUSTA.
LA SENTENZA LAMPRE «SENZA PROVE» E SENZA SCUSE. Oggi è la Gazzetta dello Sport a parlare di quelle 172 pagine, scrive Pier Augusto Stagi l'8 aprile 2016 su "Tuttobiciweb". Lo si è letto questa mattina, su «La Gazzetta dello Sport». La sentenza Lampre è un discreto libro di 172 pagine, che spiegano punto per punto la verità giudiziaria di uno dei processi più dolorosi del ciclismo degli ultimi anni. Ventotto imputati, con la figura di Guido Nigrelli il farmacista di Volta Mantovana al centro di tutto. E poi una serie di nomi di dirigenti, corridori e tecnici, ma su tutti quello del General Manager Beppe Saronni. La fine la conoscete, risale al dicembre scorso: uniche condanne per Nigrelli 8 mesi e Gilmozzi 5 per le sostanze dopanti al cicloamatore Messina. Tutti gli altri assolti. Dal primo all’ultimo. Il perché lo legge e lo riporta Luca Gialanella sulla Gazzetta, dopo aver letto attentamente le 172 pagine della sentenza depositata lo scorso 7 febbraio. «Niente prove». Scritta almeno 52 volte. Anche su Ballan: «Non è emersa alcuna prova della sussistenza della fattispecie contestata». E ancora: «Neppure dalla trascrizione delle conversazioni telefoniche e ambientali è emersa la prova dei reati contestati». Sarebbe stato bello che qualcuno avesse anche scritto in qualche modo o in qualche maniera, parole che assomigliassero vagamente e lontanamente a delle scuse. Ma anche questo è chiedere troppo. D'altronde «niente prove», niente scuse. Pier Augusto Stagi.
La Giustizia sportiva è l’alter ego della giustizia Ordinaria. La giustizia sportiva è veloce, sommaria e sistematica proprio perché tutela il Sistema e non l’individuo. Non ci sono garanzie.
Differenza fra giustizia SPORTIVA e ORDINARIA
Calciopoli:
-Sportiva: condannata la juve su presunzioni (si voleva garantire l'inizio del campionato, quindi si volevano garantire le tv. Se il campionato non fosse cominciato, si sarebbe creato un bordello. In pratica non hanno dato il giusto tempo alla causa).
-Ordinaria: prove non sufficienti, illecito tutto da dimostrare.
Caso scommesse:
-Sportiva: una persona (nei guai fino al collo per illeciti), può sparare a zero contro chiunque ed essere preso per "la santa voce della verità assoluta" (può anche essere). Al contrario, più di 20 persone che giurano il contrario sono considerate bugiarde.
-Ordinaria: il caso si sarebbe concluso subito per mancanza di prove (la mia parola contro la tua, alla pari, ci vogliono prove schiaccianti).
Generale:
-Sportiva: in un processo è l'imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Sono ridotte, e non di poco, le possibilità di difesa dell'imputato e questo perchè in questo tipo di processi viene applicato il principio del "presto e bene". In pratica per non essere penalizzato ulteriormente, si è costretti a patteggiare perchè difenderti è impossibile. Ma l'articolo più assurdo della giustizia sportiva è l'art. 4 comma 5: "Le società sono presunte responsabili degli illeciti sportivi commessi a loro vantaggio da persone a esse estranee. La responsabilità è esclusa quando risulti o vi sia un ragionevole dubbio che la società non abbia partecipato all'illecito o lo abbia ignorato". Cioè, qui si condanna su presunzioni e ragionevoli dubbi. Ed è assurdo anche il fatto che una società può essere multata o addirittura penalizzata se in una partita è stata avvantaggiata per il fatto che l'avversario giocava a perdere (la colpevolezza è appunto presunta).
-Ordinaria: è la pubblica accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell'imputato.
Calcio, scommesse e figuracce: giustizia (comica) sportiva. Serie A. Il reo confesso Andrea Masiello torna in campo con l'Atalanta, il ct azzurro Antonio Conte rischia il rinvio a giudizio per frode sportiva. E chi ha denunciato lo scandalo? Costretto a smettere di giocare e a emigrare all'estero. La credibilità del pallone italiano non rotola più: va a rotoli, scrive Lorenzo Vendemiale il 2 febbraio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Atalanta-Cagliari 2-1. Nel tabellino, a disposizione per i padroni di casa: Avramov, Frezzolini, Scaloni, Migliaccio, Benalouane, D’Alessandro, Rosseti, Spinazzola, Bianchi, Masiello. Sì, proprio lui: Andrea Masiello, reo confesso dello scandalo Calcioscommesse colpevole di aver truccato diverse partite, torna in Serie A. Per adesso solo in panchina, presto probabilmente anche in campo. Ma non è l’unico avvenimento della settimana: secondo quanto anticipato da Repubblica, nei prossimi giorni la Procura di Cremona rinvierà a giudizio Antonio Conte, oggi ct della nazionale, all’epoca dei fatti allenatore del Siena, con l’accusa di frode sportiva. E mentre Stefano Mauri continua a giocare e segnare con la Lazio, dopo una squalifica soft e una posizione penale ancora da chiarire (anche per lui dovrebbe arrivare il rinvio giudizio), l’unico calciatore che ebbe il coraggio di ribellarsi al sistema non fa più il calciatore: Simone Farina oggi ha un incarico di community coach all’Aston Villa, in Inghilterra. Le contraddizioni della giustizia sportiva e del pallone italiano sono tutte nell’opposta parabola di questi due simboli del Calcioscommesse. In Italia c’è spazio per chi ha tradito i propri tifosi, per chi è arrivato anche a manipolare un derby (Bari-Lecce) con un autogol volontario. Ma non per chi ha denunciato le combine: Simone Farina era un discreto fluidificante mancino, arrivato anche a giocare in Serie B con il suo Gubbio. Dopo l’inchiesta non ha trovato più nessuna squadra che lo volesse, neanche un contrattino in una categoria minore. Si è ritirato dal calcio giocato nel 2012, a soli 30 anni. Certo, Andrea Masiello ha pagato: non poco, 2 anni e 5 mesi di inibizione per illecito sportivo, violazione dell’articolo 1 di lealtà sportiva e divieto di scommessa. E ha collaborato, confessando le sue colpe e aiutando gli inquirenti. Anche per questo è potuto tornare ad essere un calciatore. Giusto o sbagliato, difficile dirlo (ma se lo chiedete ai tifosi del Bari loro sì che non hanno dubbi). Sul capo di Masiello, però, resta pendente il fascicolo della Procura, in cui compaiono i nomi di circa 250 calciatori. Alcuni di loro potrebbero essere rinviati a giudizio, ma continuano a giocare. Come ad esempio Stefano Mauri. Il capitano della Lazio è indagato a Cremona per associazione a delinquere finalizzata alla truffa sportiva (per cui è stato anche arrestato nel maggio del 2012), è stato interrogato in Svizzera nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio di denaro. Ma dalla Corte Federale è stato squalificato solo per omessa denuncia, e solo per nove mesi (peraltro ridotti a sei dal Tnas, vero e proprio “scontificio” che oggi non esiste più). Per questo Mauri è tornato presto in campo, e vive una seconda giovinezza con la maglia biancoceleste. Anche il caso di Antonio Conte è emblematico. Indagato con l’accusa di frode sportiva, processato dalla Figc per omessa denuncia. Squalificato (senza troppe prove e convinzione) per dieci mesi (poi ridotti a quattro in appello), quindi assunto come commissario tecnico della nazionale dalla stessa Federazione che lo aveva ritenuto colpevole. E forse di nuovo al centro di un’inchiesta penale, adesso che da ct rappresenta tutto il movimento azzurro. La giustizia ordinaria è una cosa, quella sportiva un’altra: ma le differenze fra i due ordinamenti (che hanno tempi, regole e procedure diverse) non bastano a giustificare le troppe contraddizioni del nostro calcio. D’altra parte, il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, governa la Federazione nonostante la sospensione di sei mesi ricevuta dalla Fifa per la famosa frase razzista su Optì Pobà. E il suo vice, Mario Macalli, è al centro di un contenzioso in Lega Pro, di cui non ha intenzione di mollare la presidenza pur essendo stato di fatto sfiduciato dalle sue società. In fondo è un po’ tutto il mondo del pallone italiano ad avere qualche problema con la giustizia.
IL VERO PROBLEMA: IL SISTEMA MARCIO DELLA “GIUSTIZIA” SPORTIVA. Scrive “IoJuventino” il 30/07/2012. Patteggiamento. Una parola improvvisamente sulla bocca di tutti. Un uomo solo al centro del mirino, come sempre in questi ultimi mesi. Antonio Conte, il capitano di mille battaglie e il condottiero dello scudetto dei record. Non voglio parlare dell’opportunità o meno di patteggiare, che stando alle voci sembra essere una scelta societaria imposta a Conte, dato che è già stato fatto da IoJuventino in un precedente articolo. Vorrei spostare l’attenzione su qualcosa che i media sembrano ignorare e a cui ben pochi danno peso. Basta vedere che al centro dell’ennesimo scandaloso processo mediatico è finita una persona che alla fine è stata accusata di omessa denuncia, peraltro senza prove, mentre chi vendeva e truccava le partite viene considerato un santo. Vorrei parlare dell’attuale modus operandi della “giustizia” sportiva. Usare la parola “giustizia” è una bestemmia comunque, un insulto alla dea Atena e all’intelligenza umana, per i pochi che possono vantarsi di possederne un briciolo. Non è possibile essere accusato, infangato, insultato, condannato mediaticamente e al 99% anche nel “processo” sportivo (rigorosamente tra virgolette, dato che un processo vero, della giustizia ordinaria, segue logiche ben diverse) senza una prova. Non è possibile che ci siano giocatori pentiti che in realtà sono solo ladri e truffatori, delinquenti che non meritano nulla dalla vita se non marcire in galera che vengono considerati credibili da chi indaga solo quando fa comodo, solo a sprazzi, traendo spunto da ognuna delle tante versioni diverse raccontate sullo stesso argomento. Non è possibile dover andare a un “processo” che dura un paio di giorni, davanti a tre giudici che neanche ascoltano e sono pagati per confermare le tesi dell’accusa, a difendersi su qualcosa che non hai fatto e su cui nemmeno l’accusa avrebbe le prove per condannarti. Non è possibile avere la sostanziale certezza di essere condannati in un “processo” sportivo quando con gli stessi elementi a disposizione verresti assolto senza problemi da un tribunale ordinario. Non è possibile, e qui parlo di Bonucci, essere accusato di illecito dalla “giustizia” sportiva quando per gli stessi fatti non risulti neanche indagato da quella ordinaria, che ti considera solo una persona informata sui fatti. Non è possibile che ci siano giornali, televisioni, predicatori, falsi moralisti e pseudogiornalisti che orientano l’opinione pubblica ignorante e scrivano a priori le stesse sentenze che poi vengono emesse da chi dovrebbe indagare in modo corretto. Non è possibile ritrovarsi ciclicamente ricoperti di fango e letame per far felici quei quattro poveri ignoranti che detengono il potere e tutto il popolino di pecoroni ignoranti antibianconeri. Volevamo fare la guerra a Palazzi, alla Figc, a chi ci infanga, a questo schifo di sistema marcio. A quanto pare non sarà così, ma non voglio che ci sia qualche tifoso bianconero che consideri Conte colpevole perché patteggia. Se lo fa, Antonio si umilia davanti a tutti per tornare il più velocemente possibile in panchina. Si espone per anni agli insulti dei tifosi avversari e alle paternali dei predicatori giornalai. Mette il bene comune, la Juve, davanti all’interesse individuale, la Giustizia con la “G” maiuscola. E nessuno dovrà prendersela con lui, anzi dovremo stringerci attorno al nostro mister e sostenerlo dato che verrà attaccato da tutti. Bisognerebbe chiedere spiegazioni alla società piuttosto, con tanto di più che sospetta improvvisa ricomparsa di John Elkann sulle pagine dei giornali nei giorni scorsi. Ma questa è un’altra storia. Riporto volentieri un estratto da un bell’articolo di Giuseppe Cruciani intitolato con un eloquente “Sei Conte, non devi consegnarti alla giustizia barbara”. Mi hanno colpito queste parole perché scritte da un giornalista dichiaratamente non juventino, che però dimostra come appaia marcio questo sistema a chi sappia un minimo ragionare. E soprattutto che è un sistema da ribaltare, da abolire, da rivoluzionare davvero: […] che non ti venga in mente di scendere a patti con una giustizia sportiva che è peggio dei processi staliniani dove ti spedivano in Siberia per niente. Non puoi difenderti. L’imputato deve portare le prove della sua innocenza. Basta la frase di un pentito, o presunto tale, per inchiodarti. I tempi sono talmente veloci, che ti trovi condannato prima di cominciare. Una barbarie che nessuno ha il coraggio di denunciare. Una roba che al confronto i tribunali del popolo erano all’acqua di rose. Almeno in Urss ti mandavano al confino e alla morte in nome dell’ideologia; c’era insomma un fine criminale ma c’era. Qui il processo sportivo serve solo a regolare i conti tra dirigenti, giocatori e addetti ai lavori. Se ne occupano una manciata di burocrati che prendono le carte dell’accusa e ti mandano al rogo. Assurdo che centinaia di milioni di euro, il business del pallone, possa venire compromesso in questo modo. Eppure nessuno dice niente. Nel mondo del calcio prevale l’omertà, i piccoli compromessi, le convenienze. Ecco perché, caro Conte, è il momento di ribaltare tutto. Devi andare davanti a questo signore che si chiama Palazzi e dire chiaro e tondo: io non sapevo nulla di questi trucchetti e di quello che dice Carobbio non me ne frega niente, siete voi che dovete provare il contrario. Se ci riuscite bene, altrimenti amen. E siccome di prove (quelle vere) non ce ne sono, puoi stare sicuro che ne usciresti alla grande. L’unica cosa che non mi convince è la frase finale di questo estratto. Perché dato che di prove non ce ne sono, non dovrebbe neanche esistere questo problema del patteggiamento. Conte avrebbe dovuto essere prosciolto da Palazzi, non deferito. E, in realtà, se condannato a processo, Conte ne uscirebbe alla grande solo per noi tifosi juventini o per i pochi che sanno ragionare. Per gli ignoranti sarebbe un ladro in ogni caso, sia che scelga il patteggiamento, sia che venga condannato a processo o persino assolto. Gli ignoranti ti infangano comunque, basta vedere che c’è gente che pensa ancora che Moggi abbia chiuso Paparesta nello spogliatoio o che fa finta di non sapere che il processo per doping è finito con un’assoluzione. Il fango e il letame ce lo tirano comunque, è sempre così. Dispiace patteggiare perché sembra di obbedire al volere di Palazzi, della Figc e del diktat rosa messo in prima pagina venerdì (“Sollievo Conte, può patteggiare”). Non vorremmo mai darla vinta a questi esseri ripugnanti ma è il sistema che è marcio fino al midollo. Ci sono già stati “processi” sportivi relativi al calcioscommesse in cui giocatori come Fontana, dopo essere stati deferiti senza prove, hanno preso anni di squalifica senza essere ascoltati dai giudici, senza avere la possibilità di discolparsi. O Locatelli, che racconta in modo agghiacciante come Palazzi ti prometta sconti di pena se tiri fuori altri nomi di gente, che ritieni coinvolta, ma se non ne sai nulla, ti butta sotto un treno. Siamo stanchi di un sistema che funziona così…vogliamo abbatterlo e questa poteva essere l’occasione giusta, ma sono anche consapevole che in questo momento la forza politica della Juve nei confronti del Palazzo, dei poteri forti del calcio, non è tale da riuscire a portare avanti una rivoluzione di questa portata e i continui torti subiti ne sono la prova. Se Conte andasse a processo verrebbe condannato di sicuro anche senza prove e non cambierebbe nulla in questo sistema marcio con l’attuale proprietà bianconera che ha già dato prova di cosa può fare nel 2006. Stringiamoci a Conte e agli altri ragazzi comunque vada. E continuiamo a lottare contro questo schifo e contro gli ignoranti che ci daranno contro in ogni caso. Come sempre del resto. È dura, siamo delusi e incazzati, ma noi tifosi non possiamo mollare. Siamo sopravvissuti a Farsopoli, non dobbiamo mollare adesso. Fino alla fine. La Giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. L'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate, devono essere punite a livello individuale".
Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 8 marzo 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.
La Juventus e i suoi tifosi possono ancora sperare di riavere indietro i due scudetti revocati nell'estate calciopoliana del 2006. Già, perchè "il processo sportivo si potrebbe riaprire", ha dichiarato sorprendentemente Paco D'Onofrio, legale di Luciano Moggi, intervenendo nella trasmissione radiofonica bianconera "Stile Juventus", in onda ogni lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì alle 21 presso l'emittente privata Nuova Spazio Radio di Roma. Ecco le dichiarazioni più significative rilasciate dal legale dell'ex direttore generale della Juventus, che ha dialogato con lo speaker del programma Nicola De Bonis, e con l'opinionista Antonello Angelini, conduttore della trasmissione televisiva sulla Signora, "La Juve è sempre la Juve".
Angelini: "L'altro giorno navigando un po' su internet, ho trovato l'articolo 39 del codice di giustizia sportiva. E' molto lungo, ma dice in sostanza che qualora intervenissero fatti nuovi, nuove testimonianze, alcune cose che in qualche modo non sono state evidenziate in sede processuale, si può riaprire quello stesso processo e farne uno nuovo".
Avvocato D'onofrio: "E' la revisione".
De Bonis: "Facciamo chiarezza. Dunque si potrebbe addirittura riaprire il processo sportivo di Calciopoli?"
Avvocato D'Onofrio: "Certo. Questo è il presupposto che la federazione finora ha sempre negato. Ma in realtà ci è venuto in aiuto indovinate chi? Guardiola. E vi spiego perchè. Perchè la revisione è quell'istituto processuale che dice che quando la sentenza viene emessa sulla base di alcune circostanze e di alcuni fatti, e poi nel corso del tempo ne emergono degli altri che avrebbero dovuto portare a una sentenza diversa, c'è l'obbligo di riaprire il processo, di rivalutare in ragione delle nuove prove, dei nuovi elementi. Però la giustizia sportiva, su questo punto, ha sempre detto che un'eventuale assoluzione in sede penale non costituisce per la giustizia sportiva un fatto nuovo. Perchè dicono: 'Noi giudici sportivi apparteniamo ad un ordinamento autonomo", cioè non risente delle decisioni statali. Bizzarra come ricostruzione, ma hanno sempre sostenuto questo. Perchè dico che ci viene in soccorso Guardiola? Perchè in realtà due o tre mesi fa si è verificato questo precedente: Guardiola, vi ricorderete, quando giocava col Brescia, fu trovato positivo al doping. Si difese dicendo che non era vero, ma i giudici sportivi non vollero credergli e gli comminarono la sanzione. Lui non si è mai rassegnato ed è andato davanti alla giustizia penale, che ovviamente ha i suoi tempi. Guardiola nel frattempo ha smesso di giocare ed è diventato un brillantissimo allenatore come tutti sappiano. Successivamente il giudice penale di Brescia gli ha dato ragione e in base alla sentenza di assoluzione penale è tornato davanti alla giustizia sportiva italiana, la quale ha dovuto riconoscere la validità della pronuncia penale e ha annullato la sanzione sportiva. Una sanzione che ovviamente non era più - come dire - cogente, perchè nel frattempo Guardiola si era ritirato, ma lui chiedeva comunque che il suo curriculum restasse pulito. Non voleva chiudere con l'onta di una squalifica per doping. Tutto questo che cosa ha comportato? Che costituisce un precedente. In ambito federale hanno sempre detto che un'eventuale sentenza assolutoria da Napoli, non costituirebbe motivo di riapertura del processo sportivo. Ma adesso questo non lo possono più dire".
De Bonis: "Questo stravolge un po' tutto..."
Angelini: "Volevo aggiungere una piccola polemica. Il professor Sandulli ha spiegato in varie trasmissioni che la giustizia sportiva era una cosa e la giustizia penale era un'altra cosa, facendo l'esempio della cravatta al circolo. Io però faccio un altro esempio: al circolo, inteso come mondo calcio, è vietato calpestare le aiuole. Se in un processo di qualunque tipo viene fuori che io quelle aiuole non le ho calpestate, come fa il circolo a non riconoscere che davanti a un giudice ordinario io quelle aiuole non le ho calpestate? L'esempio di Sandulli è strumentale".
Avvocato D'Onofrio: "E' proprio questo il punto su cui la giustizia sportiva ha un grandissimo imbarazzo. E tutte le volte che io ho avuto dei confronti televisivi con loro, l'ho sempre spuntata. Non perchè io sia particolarmente brillante, ma perchè sono onesto intellettualmente. Il problema non è valutare un fatto in modo diverso, perchè lì convengo con loro: il giudice penale segue il codice penale, il giudice sportivo segue il codice di giustizia sportiva. Qui il problema è a monte. Cioè, se un giudice penale sentenzia che il fatto non si è proprio verificato, tu non mi puoi dire che mi condanni perchè la norma sportiva condanna quel fatto in modo diverso. Il fatto proprio non sussiste. Non l'ha detto chiunque. L'ha detto il giudice statale, lo ha detto un giudice in nome e per conto della Repubblica italiana. Non è affatto smentibile".
Angelini: "Vi faccio un esempio, accaduto nei circoli romani. C'è stata una rissa in un campo da calcetto, uno è stato espulso, è andato davanti alla giustizia ordinaria e ha dimostrato che il primo ad alzare le mani è stato l'altro. E hanno dovuto riammetterlo al circolo".
Avvocato D'Onofrio: "Volevo suggerirvi una riflessione legata al processo di Napoli, sull'ipotesi della possibile ricusazione del presidente del collegio del Tribunale che si sta occupando del processo penale: questa donna si è permessa, nel corso di un'udienza, rispetto ad una richiesta di testimonianze infinita, di dire: 'Io vorrei arrivare quanto prima a sentenza, anche perchè abbiamo altri processi e ben più importanti da fare'. Siccome non fa parte della Procura di Aosta, ma di quella di Napoli - dove è facile immaginare che ci siano processi legati alla criminalità organizzata, dove si parla di omicidi, traffico di stupefacenti - è giusto che si sia espressa in questo modo. Eppure, una formulazione lessicale così pacifica e condivisibile, è stata presa a pretesto dai pubblici ministeri per ricusare il giudice. Cioè stanno chiedendo al Tribunale di sottrarre la competenza a questo giudice, perchè, secondo loro, dietro questa frase, si potrebbe celare già un'anticipazione dell'assoluzione di Moggi. Capite com'è cervellotica? Sapete per quale motivo la cosa è così sottile? Perchè se un giudice viene ricusato, il processo deve ricominciare da zero, si deve ricominciare dalle udienze preliminari. E data la consistenza di questo processo si rischia la prescrizione. Allora, se io sono un pubblico ministero e, come dichiaro da tre o quattro anni, ho delle prove talmente schiaccianti che sicuramente l'imputato finirà in galera, secondo voi, di cosa avrò bisogno? Di un processo rapido o di un processo lento? Certamente di un processo rapido. E allora perchè chiedo la ricusazione?"
Angelini: "Non solo. Aggiungo una cosa. Innanzitutto hanno chiesto la ricusazione solo del presidente, mentre i giudici sono tre, e sono tre donne. Quindi, non è che decide lei da sola. Poi tra l'altro già è stata fatta una richiesta di ricusazione del giudice da parte delle parti civili proprio per le stesse motivazioni. Ed è stata già respinta dalla Corte d'Appello. Dunque, questo vuol dire che se per caso la Corte d'Appello decidesse in senso diverso, ci sarebbe da preoccuparsi della giustizia italiana....
Avvocato D'Onofrio: "Io che sono una persona dotata di malafede, ragiono in questi termini: "Ad certo punto un pubblico ministero si accorge che dopo tre anni tutto il castello accusatorio ha portato a tutta una serie di illazioni, e all'improvviso, piano piano, si sgretola, mettendolo di fronte al rischio di dover giustificare all'erario perchè ha speso decine e decine di migliaia di euro dei contribuenti per intercettazioni che non servono a nulla e non provano nulla. Andando in prescrizione, invece, il pm si avvantaggia di un dato, e cioè il dubbio, perchè la prescrizione lascia ovviamente il dubbio che una persona sia innocente. O colpevole. Certo si dirà, la prescrizione è un atto disponibile e Luciano Moggi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Questo è anche vero. Ma non si può giocare al rialzo. Non puoi far gravare sull'imputato il rischio che il processo vada in prescrizione. Questo è paradossale. Cioè, per anni fai delle indagini, dici che hai delle super prove, che ormai sono imputato e non posso difendermi perchè ci sono argomenti in senso contrario e poi tu rallenti il processo, subentra la prescrizione e il dubbio deve rimanere su di me che non rinuncio alla prescrizione. E' singolare questo fatto".
Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 24 dicembre 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.
CRISCITIELLO: "Gli Scudetti tolti alla Juventus potrebbero tornare in ballo - spiega il conduttore Michele Criscitiello -. Le partite, infatti, già non risultavano alterate. L'unica cosa a tenere in piedi il castello accusatorio è questo famoso dvd sui sorteggi alterati. Non c'è dvd, non c'è la prova dei sorteggi alterati. La Juventus a breve potrà richiedere indietro gli Scudetti".
CRISCITIELLO: "Oggi perchè è stata una giornata chiave? E' mai successo che una procura come quella di Roma entrasse nel merito di un'altra procura, perchè scompare la prova chiave di un'accusa?"
AVV. D'ONOFRIO: "Provo a risponderti in ordine. Il punto degli Scudetti revocati che evidentemente la Juventus immagina di poter riottenere è il punto cruciale, perchè gli altri effetti di Calciopoli sono ormai irreversibili: la Juventus ormai la Serie B l'ha fatta, il parco giocatori fu smembrato, quindi sono effetti irreversibili. Gli Scudetti vengono revocati sul presupposto che i presunti illeciti fossero stati tali da aver condizionato l'esito di quei campionati e quindi i risultati: lo Scudetto è la sintesi di un risultato falsato. Il processo di Napoli è stato un processo molto complesso, un processo penale, nel quale accusa e difesa si sono scontrati apertamente. Oggi la notizia che Tuttosport riportata - una fonte piuttosto attendibile perchè chiaramente vicina alla società Juventus - è che la procura di Roma, probabilmente, vorrà affrontare alcuni temi rimasti oscuri nella precedente inchiesta, cioè le presunte prove che non sono state più trovate, prove che non sono emerse, prove che probabilmente avrebbero aiutato le difese e che riguardano i sorteggi arbitrali. Da questo punto di vista non ci sono soltanto Moggi e la Juventus, ci sono anche tanti arbitri che hanno visto le proprie carriere e le proprie vite interrotte ingiustamente e poi sono stati assolti. Uno di questi è per esempio l'arbitro Dondarini, egregiamente difeso dall'avvocato Bordoni. Questa iniziativa potrebbe fare chiarezza su alcuni punti. Uno di questi è che se non c'è stata l'alterazione del sorteggio, evidentemente non c'è stata nemmeno la possibilità di intervenire sulle griglie, di manipolarle, di condizionarle, di falsarle. Allora la prova degli illeciti, che portò alla revoca degli Scudetti, a questo punto dov'è? Questo è il primo interrogativo".
CRISCITIELLO: "Tra due-tre mesi, dopo che la procura di Roma avanzerà questa indagine, la Juventus potrà richiedere gli Scudetti. E con molta, molta probabilità, in assenza della prova-chiave, del famoso dvd che certificava l'irregolarità del famoso sorteggio arbitrale, la Juventus potrà riavere indietro i suoi Scudetti".
PEDULLA': "Avrei due-tre domande da profano. Come sarebbero sparite queste prove, il dvd? Quando? Perchè?".
AVV. D'ONOFRIO: "Per deontologia devo premettere che parlo del lavoro di magistrati e di colleghi nell'ambito di un processo che non ho seguito direttamente, perchè come sapete ho seguito Moggi nel momento sportivo, nei processi sportivi. Chiaro che il processo penale e quello sportivo erano collegati, però, faccio questa premesse perchè stiamo parlando di una notizia che Tuttosport ha evidenziato relativa ad un'azione di accertamento. Quindi le due domande restano sospese perchè sono proprio l'oggetto dell'accertamento, ovvero per verificare se veramente, come taluni difensori hanno avanzato, vi siano stati dei riscontri, delle prove, improvvisamente mancanti, oppure questo sia stato solo un argomento difensivo privo di qualsiasi sostegno. Che la procura di Roma abbia deciso di muoversi mi sembra già un grado significativo. Poi quelli che saranno gli esiti, le risposte alla tua domanda, si potrà valutarlo solo successivamente".
PEDULLA': "Ma le prove c'erano e non ci sono più? Non c'erano inizialmente? Questo mi sfugge...".
AVV. D'ONOFRIO: "Esistevano secondo i difensori delle prove che attestavano la regolarità del sorteggio. Alcune difese evidenziano che determinate prove, di cui hanno evidentemente notizia, probabilmente... si stupiscono di come mai non siano state portate al processo di Napoli e fossero presenti tra gli atti di prova. Quindi su questa assenza si incentra questa attività di indagine e di accertamento. Io non saprei a cosa porta, ma la notizia mi sembra significativa e ha una fondatezza sportiva rilevante, perchè la Juventus non subì soltanto la penalizzazione, cioè la comminazione di punti di squalifica, subì una serie di sanzioni, una somma di sanzioni, che derivava da una somma di illeciti. Cioè, non soltanto aveva tentato di manipolare, ma è riuscita a manipolare. Siccome la prova dell'effettività della manipolazione, quindi della non genuinità del risultato sportivo, non sembra esserci stata, a questo punto, il motivo e la domanda che immagino la società si porrà successivamente per rispondere anche ai tifosi - non voglio sostituirmi agli avvocati della Juventus -, è: ma a questo punto dov'è la legittimazione alla revoca degli Scudetti? Perchè un risultato sportivo su cui non c'è prova contraria circa la manipolazione è stato sottratto? Non bastavano soltanto i punti di penalizzazione?".
CRISCITIELLO: "Però ci sono comunque condanne che fanno parte della cronaca giudiziaria attuale e quindi bisogna anche capire....Ci sono state condanne, gente squalificata, processi....".
AVV. D'ONOFRIO: "Mi sento però di fare una precisazione: ridimensioniamo, perchè innanzitutto si tratta di una sentenza di primo grado che inoltre ha fatto chiarezza su un punto centrale e cioè non si è raggiunta la prova di un effettivo illecito, ma siamo fermi per ora all'accertamento di un tentativo, che è una cosa molto differente. Cioè, questo vuol dire che anche il processo penale, che comunque è stato un processo rigoroso, ha dimostrato che i risultati conseguiti da quella Juventus, in quelle stagioni, sono stati risultati non alterati da alcuni tipo di manipolazione. Questo è un dato molto significativo. Siccome rimaneva la questione del sorteggio, ecco, questo nuovo filone di indagine, avrà, probabilmente il merito e sicuramente l'effetto di aprire un cono di luce su quest'altra vicenda, che se - chiaramente come la Juventus auspicherà - determinerà un nuovo motivo di liberatoria a favore dei dirigenti della Juventus, potrà legittimare la richiesta degli Scudetti".
CRISCITIELLO: "L'estrema sintesi è abbastanza semplice: la Juventus quegli Scudetti li meritava perchè era la squadra in assoluto più forte, perchè giocava un calcio eccezionale, perchè meritava di vincere. Che poi determinati personaggi in quella Juventus, bravi capaci, abbiano capito che stavano esagerando in questa loro bravura e dalla bravura stava nascendo un potere eccessivo, allora di mezzo c'è stato un inserimento di terzi, fino ad arrivare a voler dimostrare, che si vinceva sì per bravura, ma anche per eccesso di potenza e consapevolezza".
AVV. D'ONOFRIO: "Sei stato chiaro, Diciamo che la potenza e la consapevolezza sono qualità e non sono demeriti. Se qualcuno dimostrerà che i risultati delle partite sono stati alterati da manipolazioni e da atteggiamenti deontologicamente e giuridicamente scorretti, allora probabilmente il disvalore giuridico, cioè la non meritevolezza di quei risultati, ha un senso. Ma oggi non mi sembra così...".
PEDULLA': "Pensavo fosse tutto finito alla luce di un lavoro affidato ad una procura. Questo mi inquieta".
AVV. D'ONOFRIO: "Sollevi un problema legittimo, ma in realtà è un meccanismo fisiologico e non patologico. In fondo il sistema giustizia perchè è articolato su tre gradi, Tribunale, Corte d'Appello e Cassazione? Perchè c'è un secondo giudice che valuta il lavoro del primo e c'è un terzo giudice, la Cassazione, valuta il lavoro del secondo.Quindi non è che un intervento successivo di un altro protagonista è qualcosa di anomalo, di sconvolgente o ingiusto, è probabilmente un sistema di garanzia. Per ora - questo lo diciamo per amore di verità - l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza. Non sappiamo nulla. Ha un valore conoscitivo importante, vuol dire che quantomeno dei profili che meritano accertamento ci sono".
CRISCITIELLO: "Probabilmente la Juventus non ha pagato le proprie colpe, ha pagato chi dirigeva in quegli anni la Juventus, quindi i propri dirigenti, che oltre ad interessarsi della Juventus si interessavano di altre 5-6-10-12 squadre in Italia".
CLAUDIO ARRIGONI (giornalista): "Per questo la giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. Quando l'avvocato diceva che l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. Questa è la stortura grandissima. Non voglio dire che sicuramente la Juventus ha il diritto di andare a richiedere la restituzione degli Scudetti, ma vado anche oltre. E dico che se da quella indagine risultasse che vi erano delle prove alterate io credo che la Juventus abbia anche il diritto di andare a richiedere un risarcimento danni, quello fra l'altro che sta facendo Paolo Cannavaro con il Napoli. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate delle reponsabilità individuali, devono essere punite a livello individuale".
CRISCITIELLO: "Cosa deve fare la Juventus per essere ancora parte attiva di questo processo e per riaprire i giochi?".
AVV. D'ONOFRIO: "Credo che la Juventus assisterà con interesse a quelli che saranno gli esiti di questa inchiesta, come credo anche al processo di appello nei confronti di Moggi. Poi credo che a questo unto assumerà una decisione formale, circa la richiesta di riassegnazione degli Scudetti. Evidenzio che la Juventus con la richiesta di risarcimento del danno per 444 milioni di euro, pendente presso il Tar di Roma contro la Figc, ha già significato una propria intenzione di non considerare chiusa la vicenda Calciopoli. Qui c'è una società che è stata fatta retrocedere, 15 milioni di tifosi che si sono sentiti quasi dei banditi per aver tifato una squadra che a questo punto ha vinto tutto regolarmente. Quindi la vita sportiva di taluno e la vita personale di qualche altro, merita questo accertamento".
ARRIGONI: "Se risultano queste anomalie, credo che la Juve possa richiedere la restituzione dei due Scudetti revocati. E credo sia anche corretto e giusto nei riguardi dei tifosi che questo accada. Poi è da valutare se la cosa possa esserci o meno, ma se risultano queste anomalie, su queste anomalie bisogna anche un po' riflettere, quindi chi è parte in causa può richiedere un risarcimento di questo tipo".
AVV. D'ONOFRIO: "La Juve potrà riavere i due Scudetti? Quello che succederà sarà una decisione della Federazione, quindi sarà difficile poterlo dire con certezza. Che la Juventus abbia la possibilità di richiederlo oggi e a maggior ragione all'esito di un eventuale accertamento favorevole alle sue ragioni, questo è indubbio. C'è peraltro uno strumento previsto dal codice di giustizia sportiva che è l'articolo 39, che dice che nonostante ci siano state sentenze definitive della Federazione, se emergono fatti nuovi, la stessa Federazione può, o d'ufficio o su istanza di un tesserato o di un soggetto affiliato come una società, riaprire il processo sportivo. Quindi effettivamente questa possibilità c'è".
AVV. D'ONOFRIO: "A proposito delle motivazioni del processo di Appello Giraudo, che è un processo tecnicamente differente - per una scelta processuale che qui non spieghiamo - rispetto alla scelta processuale fatta da Moggi. Ora il problema nasce dal fatto che la cosiddetta 'Cupola', cioè questo meccanismo che secondo l'accusa Moggi avrebbe ordito e messo in campo, si basava su un rapporto di colleganza illecita con gli arbitri. Arbitri che però tuttavia vengono assolti in questo processo. Quindi l'anomalia è: con chi si associavano visto che i sodali dell'associazione, cioè gli arbitri, vengono scagionati e discolpati? Giraudo sceglie un rito particolare, sceglie un rito abbreviato. E' una scelta processuale che ha visto i due dirigenti divergere profondamente. E' una scelta tecnica, non c'è una scelta migliore e una peggiore, sono scelte diverse. Questa motivazione richiama Moggi ma non può essere imputata a Moggi perchè è una scelta proprio differente".
CALCIOPOLI, PARLA L’AVVOCOATO PACO D’ONOFRIO: “NOVE ANNI PER DIMOSTRARE CHE NON C’ERA NESSUNA FAZIONE JUVENTINA FRA GLI ARBITRI”, scrive "SpazioJuve" il 28 marzo 2015. La Corte Suprema di Cassazione ha emanato la sentenza: Moggi prescritto per associazione a delinquere e assolto per due frodi sportive poiché il fatto non sussiste; Giraudo prescritto per frode sportiva; Bertini, Dattilo e Mattei assolti perché il fatto non sussiste; condannato De Santis, per il quale viene confermata la condanna, mentre per Racalbuto il reato era stato già prescritto in appello. Tuttavia, il verdetto lascia spazio a tanti, troppi dubbi: non ci sono arbitri minacciati o corrotti, il teorema delle sim svizzere si sta sgretolando come tutte le colonne portanti dell’intero processo, non sono state registrate ammonizioni o espulsioni mirate. La domanda, quindi, sorge quasi spontanea: la Cupola come alterava i campionati? Per fare chiarezza e analizzare la sentenza della Cassazione, noi di SpazioJuve.it abbiamo contattato in esclusiva l’avvocato Paco D’Onofrio, uno dei più brillanti e qualificati esperti di diritto sportivo, nonché legale di Luciano Moggi per quanto riguarda il settore della giustizia sportiva.
– Non ci sono arbitri minacciati o corrotti, non sono state registrate espulsioni o ammonizioni mirate, il teorema delle sim svizzere si è sgretolato passo dopo passo: ma la cosiddetta “Cupola” come avrebbe dovuto agire realmente?
La verità è che al di là del sensazionalismo giornalistico a tinte rosa e dei teoremi accusatori federali, così tanto frettolosi ed infondati, la Cassazione ha sancito che non c’è mai stata alcuna “Cupola” capace di alterare i risultati delle partite e condizionare interi campionati.
– Con la sentenza emanata dalla Corte di Cassazione, siamo giunti alla fine del procedimento penale. Per quanto riguarda il processo sportivo invece? Quali sono i margini d’azione della Juventus e come prevede debba muoversi la società di corso Galfer?
Ritengo, come sostengo peraltro da molto tempo e ben prima della conferma pervenuta dalla Cassazione, che la revoca degli scudetti, aggravata dalla grottesca assegnazione all’Inter di uno dei due, sia stata una sanzione ingiusta ed illegittima. Pertanto, la Juventus potrà ricorrere alla FIGC per la riassegnazione degli stessi, poichè i campionati in questione si sono svolti regolarmente.
– Fin quando è corretto dividere il percorso processuale di Moggi e quello della Juventus?
Per onestà occorre precisare che se oggi la Juventus ha la possibilità di reclamare legittimamente i due scudetti e di pretendere un consistente risarcimento del danno, deve tutto proprio a Luciano Moggi ed alla sua perseveranza nel ricercare ogni prova utile e nel far emergere la verità. Pensi che per qualcuno, Paparesta è stato davvero chiuso nello spogliatoio e sottoposto a sequestro!
– Solo un imputato tra i 37 inizialmente coinvolti, ossia De Santis, ha ricevuto una condanna definitiva. Un impianto accusatori che trova anche nei numeri deficit enormi…
Nove anni di indagini, tre gradi di giudizio per dimostrare ciò che era noto e palese sin da subito, cioè che non vi fosse alcuna “fazione” juventina tra gli arbitri. Sapete che con i c.d. arbitri “amici” secondo l’accusa, la Juventus conseguì una media punti addirittura inferiore rispetto alle partite dirette dagli altri? Questa sarebbe la famigerata Cupola?
– Poco più di un mese fa, Todosio de Cillis, il famoso rivenditore di Chiasso e fornitore delle schede svizzere, è stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza. Sebbene questo non sia sinonimo di condanna, è sicuramente un duro colpo ad una delle colonne portanti dell’intero processo sportivo…
Una delle tante incongruenze emerse nel corso del processo. Qualcuno ha forse notizia del famoso video che avrebbe dovuto provare in modo incontrovertibile l’irregolarità dei sorteggi? Sparito nel nulla!
– Tra le 6 partite in cui si è realizzata la “frode sportiva”, figurano Juventus – Udinese e Bologna – Juventus, eppure Rodomonti e Pieri sono stati assolti sia in appello sia in Cassazione. Come sono state alterate quindi queste partite?
Un omicidio senza cadavere, un bel dilemma in effetti!
– La condanna in primo grado e successiva prescrizione del reato per Racalbuto può rappresentare un problema per la restituzione degli scudetti alla Juventus?
Assolutamente no, perchè, come ho già precisato, nell’ordinamento sportivo vige il principio dell’intangibilità del risultato fino alla prova che lo stesso sia stato il frutto di una dolosa alterazione. Nel nostro caso i campionati in questione si sono svolti regolarmente. Chi non accetta questa verità processuale o è ignorante o è in mala fede.
All’Avvocato D’Onofrio va un sentito ringraziamento da parte di tutta la redazione di SpazioJuve.it
«L'Inter commise illecito». Tre anni fa la relazione Palazzi. Il 4 luglio 2011 veniva reso pubblico il documento che ha riscritto ufficialmente la storia di Calciopoli..., scrive il 4 luglio 2014 Guido Vaciago. Sono passati tre anni da quando, nel mezzo di un pomeriggio estivo, venne reso pubblico un il documento che ha cambiato la storia di Calciopoli, certificando gli errori dell'inchiesta del 2006. Passata alla storia come "Relazione Palazzi" dal nome del procuratore federale che l'ha stilata, è in sostanza l'ideale requisitoria che avrebbe pronunciato durante un processo, se quel processo ci fosse stato. Invece, com'è noto, le telefonate che riguardavano l'Inter e le altre società coinvolte furono occultate dalle indagini e, una volta riemerse nel 2009, prese in seria considerazione troppo tardi per evitare la prescrizione. Da tre anni, tuttavia, c'è la Relazione di Stefano Palazzi che non ha consentito l'applicazione della giustizia, ma se non altro ha il merito di aver riscritto ufficialmente la storia, che era già cambiata durante l'udienza penale. Perché si può pensare quello che si vuole di quel pasticcio giudiziario denominato Calciopoli, ma dal 4 luglio del 2011 non si può più ignorare che per la giustizia sportiva anche l'Inter era passibile di un processo con l'accusa di "illecito sportivo" (violazione dell'articolo 6, per dire, non fu imputato alla Juventus nei processi del 2006). Piaccia o non piaccia, soprattutto a chi ritenne e ritiene Moggi e la Juventus gli unici colpevoli, Palazzi - lo stesso che chiese le condanne per il club bianconero - scrive: «E' il caso di rilevare che la società Internazionale F.C. di Milano, oltre che essere interessata da condotte tenute dal proprio Presidente che, ad avviso di questa Procura federale, presentano una notevole rilevanza disciplinare per gli elementi obiettivamente emergenti dalla documentazione acquisita al presente procedimento, risulta essere, inoltre, l'unica società nei cui confronti possano, in ipotesi, derivare concrete conseguenze sul piano sportivo, anche se in via indiretta rispetto agli esiti del procedimento disciplinare... ...Dalle carte in esame e, in particolare, dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, emerge l'esistenza di una fitta rete di rapporti, stabili e protratti nel tempo, intercorsi fra il Presidente della società INTERNAZIONALE F.C. ed entrambi i designatori arbitrali, Paolo BERGAMO e Pierluigi PAIRETTO, fra i cui scopi emerge, fra l'altro, il fine di condizionare il settore arbitrale. 57 La suddetta finalità veniva perseguita sostanzialmente attraverso una frequente corrispondenza telefonica fra i soggetti menzionati, alla base della quale vi era un consolidato rapporto di amicizia, come evidenziato dal tenore particolarmente confidenziale delle conversazioni in atti (....)» E ancora: «Pertanto, alla luce delle valutazioni sopra sinteticamente riportate, questo Ufficio ritiene che le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all'art. 1, comma 1, CGS, anche dell'oggetto protetto dalla norma di cui all'art. 6, comma 1, CGS, in quanto certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società INTERNAZIONALE F.C., mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale». Tutto questo (e altro ancora) scriveva Palazzi tre anni fa. E molti si chiesero se non fosse il caso di ripensare la questione dello scudetto del 2006, quello revocato alla Juventus e riassegnato all'Inter in «virtù dell'onestà» della società nerazzurra. Tre anni dopo lo scudetto del 2006 è ancora nell'albo d'oro ufficiale dell'Inter. E la relazione Palazzi negli archivi della Figc. Guido Vaciago
DALLA RELAZIONE PALAZZI SI DEDUCE CHE SENZA PRESCRIZIONE LO SCUDETTO VA RIASSEGNATO ALLA ROMA E L'INTER RETROCEDE IN SERIE C.
La Roma nel 2005-2006 concluse il campionato al 5° posto, ma aveva già scavalcato Juventus, Milan e Fiorentina dopo la sentenza Calciopoli, rimanendo alle spalle solo dell'Inter, scrive “Goal.com” il 5 luglio 2011. Juventus 91, Milan 88, Inter 76, Fiorentina 74, Roma 69. No, non stiamo facendo i pronostici per la prossima stagione, ma riportando invece la classifica finale del campionato 2005-2006, vinto in volata dai bianconeri poco prima che scoppiasse il terremoto Calciopoli. Quello Scudetto, qualche mese dopo, fu tolto alla Juventus per essere assegnato all'Inter e, date anche le penalizzazioni di Milan e Fiorentina, coinvolte nello scandalo, la Roma si ritrovò al secondo posto. Adesso, dopo che il procuratore Palazzi ha affermato che anche l'Inter, quell'anno, si macchiò di comportamenti illeciti per interessi di classifica, il primo pensiero che viene in mente in casa Roma è che, quello Scudetto, sarebbe potuto toccare alla Magica. Fu l'anno delle undici vittorie consecutive, del mercato bloccato per via dell'affare Mexes e dell'infortunio di Totti in Roma-Empoli. In panchina c'era Luciano Spalletti, il presidente era ancora Franco Sensi. A 5 anni di distanza, Bruno Conti commenta così: "Quello Scudetto lo avremmo meritato - si legge sul 'Corriere dello Sport' - I ragazzi lo avrebbero meritato per come si sono comportati, per quello che hanno fatto vedere sul campo. Per carità, si tratta di un argomento delicatissimo, si parla di una sentenza del procuratore federale e della questione si deve occupare chi di dovere. Ma per quello che la squadra ha fatto, per il messaggio che ha dato in quella stagione così difficile, avrebbe meritato di vincere".
Calciopoli: niente risarcimenti. Il Tar dice no alla Juventus. La società bianconera aveva presentato ricorso per la revoca dello scudetto 2006. I giudici hanno bocciato la maxi-richiesta di danni per 443 milioni di euro, scrive Arianna Ravelli il 7 settembre 2016 su “Il Corrirere della Sera”. Calciopoli è (forse) davvero finita. Dopo dieci anni il Tar del Lazio ha respinto la richiesta danni di 443 milioni 725 mila e 200 euro, esclusi gli interessi, avanzata dalla Juventus contro la Federazione (richiesta che era stata definita «strabiliante» dall’avvocato Figc Luigi Medugno) per l’assegnazione dello scudetto 2005-2006 all’Inter, e soprattutto, per la sua mancata revoca nel 2011, quando emersero — fuori tempo massimo per qualsiasi procedimento, visto che era intervenuta la prescrizione — le telefonate di altri dirigenti, tra cui quelli nerazzurri. Per questo mancato intervento il club bianconero, difeso dall’avvocato Luigi Chiappero, lamentava una «disparità di trattamento» rispetto all’Inter calcolando poi il preteso danno subito. Per la verità il club bianconero aveva un po’ indugiato, senza la voglia di brandire questa richiesta danni come vessillo di una battaglia troppo urlata, ma anche senza la volontà di sotterrare del tutto l’ascia di guerra. Alla fine la richiesta della Figc al Tar di fissazione dell’udienza, svoltasi quindi il 18 luglio davanti alla I sezione (presidente Germana Panzironi, relatore Alessandro Tommasetti), cui avevano partecipato da una parte la Juve e dall’altra la Figc e l’Inter. Ieri la sentenza. Il Tar ha definito il ricorso «in parte inammissibile e, per la restante parte, infondato». La Juventus, infatti, si era già rivolta al Tar nel 2006 per poi rinunciare. «La vicenda — si legge nella sentenza — era già stata trattata in un precedente ricorso, presentato sempre dalla Juventus nel 2006, e poi abbandonato dalla società, che preferì ricorrere al lodo arbitrale da cui uscì sconfitta». E il Tar «non può pronunciarsi se lo ha già fatto il collegio arbitrale». Non solo: l’assegnazione dello scudetto all’Inter, avvenuto per mero «scorrimento della classifica» non è illegittimo e la domanda di revoca della Juve «è inammissibile per carenza di interesse»: la Juve non ne ricaverebbe «alcun vantaggio» (a parte la soddisfazione). «È una sentenza molto completa che non si ferma alle eccezioni preliminari, ma entra nel merito della questione», il commento soddisfatto dell’avvocato Luisa Torchia che, assieme ad Angelo Capellini e Adriano Raffaelli, rappresentava l’Inter. Contro la decisione è ancora possibile il ricorso al Consiglio di Stato, ma la Juve deve ancora decidere: «I suoi legali analizzeranno le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società». Calciopoli, forse, è finita.
Calciopoli deve finire: Thohir, Zhang e Tavecchio invitino Agnelli vicino a loro, scrive il 7 settembre 2016 Gianluca Minchiotti su “Calciomercato.com”. Calciopoli finirà mai? Ieri il Tar del Lazio ha respinto la richiesta di indennizzo da parte della Juventus nei confronti della Figc. Subito dopo, i legali bianconeri hanno fatto sapere che "analizzeranno con attenzione le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società". La Juve ora ha tempo 60 giorni per ricorrere eventualmente al Consiglio di stato. Per quanto riguarda la Federcalcio, invece, il presidente Carlo Tavecchio si dice "soddisfatto" e aspetta: se Andrea Agnelli rinuncerà al Consiglio di stato, non gli chiederà i danni. Altrimenti, anche lui potrebbe decidere di andare fino in fondo, chiedendo a sua volta un risarcimento danni multimilionario alla Juventus. Intanto, sul web, si assiste a una recrudescenza dell'infinita polemica fra tifosi juventini e interisti. E a farla da protagonista è anche una foto, che ritrae Tavecchio seduto fra Erick Thohir e Zhang Jindong, lo scorso 28 agosto a San Siro in occasione di Inter-Palermo. In un paese normale e in un calcio meno avvelenato del nostro sarebbe una cosa normale, per il presidente della Figc, essere ospite alla prima casalinga della nuova proprietà (Suning) di un club dell'importanza dell'Inter. In Italia no, non è così: e Tavecchio, complice anche la sua dichiarata simpatia per i colori nerazzurri, finisce per apparire agli occhi dei tifosi bianconeri più partigiano di quanto dovrebbe essere chi ricopre la sua carica. Detto questo, e ricordando che la contesa in essere riguarda Juventus e Figc, con l'Inter spettatrice e non direttamente coinvolta, sarebbe bello se, in occasione di Inter-Juve del 18 settembre, Tavecchio, Agnelli e la dirigenza nerazzurra potessero sedersi gli uni accanto agli altri in tribuna per assistere alla partita. E' un'utopia, lo sappiamo, ma per tornare a competere con Premier, Liga e Bundesliga, il nostro calcio avrebbe bisogno di essere compatto e unito, dimenticando i veleni del passato. E avrebbe bisogno di un presidente federale e di un presidente di Lega capaci di unire più che dividere.
Mai stati (mandati) in B. Storia di una prescrizione, scrive il 2 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. Internet e i social network hanno il pregio di metterti in contatto non solo con amici vicini e lontani ma anche con comunità di persone che condividono i tuoi stessi interessi. Purtroppo però talvolta si genera un certo isolamento all’interno di queste comunità o gruppi di interesse che, se da un lato rafforza le tue convinzioni, dall’altro non ti consente di conoscere quelle degli altri. Quando poi ti apri al mondo, dialogando, o litigando, con persone fuori dalle tue cerchie (dai tuoi amici, dai tuoi followers eccetera) scopri cose molto interessanti e comprendi quanto variegato sia il mondo. Questa lunga premessa per raccontarvi quanto accadutomi ieri sera quando, incautamente ma non troppo, ho risposto, in modo polemico, ad un tweet di @Ruttosporc, account parodia del quotidiano Tuttosport dietro al quale si cela un tifoso dell’Inter. In genere tendo a seguire qualcuno, non troppi, degli account illustri di tifosi delle squadre avversarie per curiosità e per scoprire cose interessanti come, ad esempio, il venire a conoscenza del fatto che la Juve domenica sera avrebbe “rubato” contro il Milan. Seguo, dicevo, questi account sapendo però di non dover rispondere: un po’ perchè ognuno ha il diritto di scrivere ciò che gli pare senza che il mondo che non la pensa come lui lo tempesti di messaggi (che spesso poi diventano insulti); un po’ perchè so che poi si scatenano le polemiche e io raramente riesco a non farmene risucchiare. Ma ieri sera forse ero meno sereno del solito e ci sono cascato. Ma è stato positivo perchè ho scoperto delle cose davvero interessanti a proposito dei tifosi interisti. Cose che fino a quando rimanevo confinato nella mia cerchia di amici tifosi della Juve (e del Toro) non potevo conoscere. In pratica ciò che riempie di orgoglio i tifosi di una delle tre potenze del calcio italiano è il fatto di non essere mai stati in Serie B. 105 anni di serie A rappresentano sicuramente un valore. Se, però, sei una società che, specie negli ultimi 40 anni, ha speso tantissimo (più di tutte), allora magari non può essere un valore soltanto il partecipare. Ogni tanto bisognerebbe anche vincere. E invece no. “Non siamo mai stati in B”; “Voi dove eravate dal 2007 al 2011“, “Non avete ancora digerito la B“… insomma, applicando a noi tifosi della Juve i loro curiosi parametri di valutazione dei risultati calcistici, gli interisti pensano che noi ancora siamo lì a soffrire per il fatto di essere stati mandati in Serie B. Cari interisti, fatevene una ragione, la Juventus è tornata a vincere e noi si vive proiettati nel presente e nel futuro, cercando la vittoria e basta. Partecipare a 105 campionati per vincerne 18 (di cui uno, è questo è record impareggiabile, vinto pur arrivando terzi! e un altro vinto con la Juve in B e tutte le altre fortemente penalizzate) spendendo più di tutti in allenatori e giocatori non mi sembra un risultato di cui vantarsi. Che poi il loro vanto “Mai stati in B” andrebbe cambiato in “Mai stati mandati in B”. Perchè la Juve in B non ci è finita per demeriti sportivi ma a causa di una vicenda squallida e priva di fondamento come “calciopoli”. La Juve è stata mandata in B a causa delle intercettazioni che dimostravano pressioni da parte dei dirigenti nei confronti di arbitri e dirigenti federali al fine di trarre vantaggi per la propria squadra, mentre l’Inter no perchè, come disse nel corso del processo il PM Narducci: “piaccia o non piaccia non ci sono telefonate di Facchetti o Moratti agli arbitri”. Poi la storia ha mostrato che quelle telefonate c’erano eccome e non solo, con Carraro che chiama Bergamo (qui l’intercettazione) e gli dice “assolutamente che non si sbagli a favore della Juventus, per carità di Dio che ci sono le elezioni in Lega e non possiamo permetterci casini”. Infatti, il Procuratore Federale Palazzi nelle conclusioni accluse al dispositivo sull’inchiesta relativa ai fatti del 2006, spiega che l’Inter è stata assolta per prescrizione nonostante “condotte finalizzate ad assicurare un vantaggio in classifica”. Di calciopoli ci sarebbe da scrivere e da parlare ancora a lungo ma non è questo il post adatto per farlo. Qui basta quanto abbiamo già detto (consiglio anche la lettura di questo post Andrea Agnelli, John Elkann e Calciopoli in cui analizzo anche il ruolo della proprietà della Juve nella vicenda calciopoli) e rimandando comunque a futuri post ulteriori analisi per una vicenda tipica dell’Italia dalla curiosa e atipica idea di giustizia. Ringrazio pubblicamente le persone che ieri sera mi hanno consentito di scoprire che se per la Juve “vincere è l’unica cosa che conta”, per l’Inter, invece è “mai stati (mandati) in B“. E ho tralasciato, volutamente e per non annoiare, il discorso sul famoso Triplete, quello di cui si parlerà per i prossimi 50 anni poichè quando il presente è grigio e il futuro è indonesiano allora è meglio guardare al passato. Ah, vero, ho anche tralasciato che per fregiarsi della patente di onesti occorre essere onesti sul serio (no chiamate agli arbitri, no passaporti falsi, no marchi ceduti fittiziamente, no pedinare e spiare giocatori propri e dirigenti avversari e molto altro ancora).
Quando l’Inter fu retrocessa ma non andò in B. La settimana del prescritto, scrive il 28 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. C’è una squadra, tra quelle che militano nel campionato di serie A, a non aver mai disputato neanche una stagione in Serie B. Quella squadra é l’Inter ed i suoi tifosi si vantano, giustamente, di non essere mai stati in B. La conosciamo, l’Inter, soprattutto attraverso le parole dei suoi tifosi, i quali sanno di fare il tifo per una squadra magari non delle più vincenti, ma sicuramente la più onesta e, come abbiamo detto, che mai ha conosciuto l’onta della retrocessione nella serie cadetta. Ma qui c’è già un errore piccolo ma non trascurabile: l’Inter in B non ha mai giocato, ma ciò non significa che non sia mai tecnicamente retrocessa. Torniamo indietro nel tempo. No, non fino al 1910, quando cioè l’Inter vinse, con l’inganno, il suo primo scudetto. No, basta tornare al 1922. Nel ’22 non si disputa un solo campionato ma due, come due erano le federazioni: la Cci e la FIGC. L’Inter gioca nel CCI e, purtroppo, arrivò ultima. Il regolamento prevedeva la retrocessione diretta per le squadre le ultime due classificate di ogni campionato. Pertanto, per il girone CCI, sarebbero dovute retrocedere il Brescia e l’Internazionale. Ma la situazione della compresenza delle due federazioni non era sostenibile, era necessario fare qualcosa affinché il campionato italiano di calcio fosse uno solo. Si dibatte a lungo sulla questione, ma è Emilio Colombo, commendatore milanese direttore, guarda un po’ i corsi ed i ricorsi della storia, della Gazzetta dello Sport a risolvere la questione, proponendosi come arbitro della vicenda. Così, tre mesi dopo la fine del campionato, si decise di riassorbire la CCI all’interno della FIGC, tornando al campionato unico. Per una logica incomprensibile allora come oggi, si decise di assegnare gli ultimi sei posti del successivo campionato attraverso degli spareggi tra squadre delle due federazioni. La CCI decise di far disputare un turno preliminare tra le sole squadre del nord Italia, retrocedendo automaticamente quelle del centro e del sud, compreso il Venezia, che pure si era salvata giungendo terzultima nel campionato. In questo modo, allo spareggio preliminare giunse l’Inter, che sconfisse a tavolino la Sport Italia Milano, squadra praticamente fallita che non riuscì a schierare una squadra da contrapporre ai milanesi. Il turno successivo venne disputato dall’Inter contro un’altra squadra in disarmo per problemi economici, la Libertas Firenze. Pertanto l’Inter, grazie al maggior quotidiano sportivo, venne salvato dalla serie B. (A onor del vero il campionato di Serie B come lo intendiamo oggi non sarebbe esistito fino al 1930, ma vi erano comunque le serie minori, a livello regionale). Nella settimana che precede Juve-Inter è doveroso raccontare questi episodi di storia, giusto per ricordare che la squadra che si ritiene unica depositaria dell’onestà, qualche piccolo scheletro nell’armadio ce l’ha. Dovremmo dunque correggere il “mai stati in B” con il più corretto “mai stati mandati in B”. Ieri abbiamo parlato del primo scudetto, vinto in modo non troppo limpido, oggi abbiamo sfatato, o almeno ridimensionato, il mito del mai stati in B, domani, sempre per il nostro dossier denominato “la settimana del prescritto”, parleremo della vicenda, molto triste, relativa a Ferruccio Mazzola e al presunto doping nell’Inter di Helenio Herrera.
Il primo scudetto dell’Inter vinto con il trucchetto. La settimana del prescritto, scrive il 27 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Dice un vecchio adagio che c’è sempre uno più puro di chi ti epura e a Milano dovrebbero saperlo. Capita in politica ma non solo: in ogni comportamento umano sarebbe bene sempre tenere a mente il fatto che fare della propria purezza, o onestà, la propria ragione di vita e vantarsene in modo da esaltare oltremodo le proprie, magari rare, vittorie così come per giustificare le proprie sconfitte, può essere un’arma a doppio taglio. Se, infatti, giustifichi quasi 30 anni di umiliazioni e sconfitte con la motivazione di essere unica onesta in un mondo di ladri, omettendo che per provarci, a vincere, hai dilapidato qualcosa come 1,2 miliardi di euro (di euro, eh, non di lire!), allora poi onesto lo devi essere sul serio, senza avere scheletri nell’armadio. E così, visto che questa è la settimana che precede la partita Juve-Inter, ho deciso di scrivere un articolo al giorno in cui racconto alcuni episodi curiosi relativi alla storia dell’Internazionale FC, una società che si vanta di non essere mai stata in B, di avere in bacheca l’unico “scudetto degli onesti” della storia, di essere, indiscutibilmente, l’unica società onesta della Serie A italiana e che non dovrebbe pertanto avere scheletri nell’armadio. In quella che definisco “la settimana del prescritto”, racconto alcuni episodi che non tutti conoscono, tifosi nerazzurri compresi. Il primo episodio poco chiaro nella storia centenaria dell’Inter è relativo, guarda un po’, proprio alla conquista del primo scudetto, nell’anno 1910. In quei remoti tempi, c’era una squadra, la Pro Vercelli, che faceva incetta di vittorie. Una cosa impensabile, oggi, ma quello era un calcio diverso, dove a trionfare era spesso la presenza di un vivaio organizzato e di una rete di osservatori capaci che era in grado di scovare potenziali campioni negli sperduti campi di periferia. In quel 1910 la Pro Vercelli arrivava da due titoli consecutivi vinti ed anche in quella stagione sembrava non avere rivali. Ma proprio nello scontro diretto contro l’Inter la marcia trionfale dei piemontesi si inceppa e i nerazzurri vincono per 2-1 a Vercelli, dando il via alla rimonta milanese che porterà le due squadre all’ultima giornata di campionato con gli stessi punti. Ilregolamento prevedeva lo spareggio e spareggio fu. Subentrò però subito un problema: delle tre date comunicate dalla Federazione come ideali per lo svolgimento dello spareggio, due erano fortemente svantaggiose per i piemontesi. Le date erano il 17 aprile, il 24 dello stesso mese o il primo di maggio. Il 17 aprile, come ricorda con dovizia di particolari il sito La Banda degli Onesti alcuni giocatori della Pro dovevano disputare un torneo universitario mentre il 24 altri tre giocatori dovevano giocare nella rappresentativa del 53° Reggimento Fanteria una partita valevole per la Coppa del Re. A quei tempi, non era possibile, per i giocatori convocati, non rispondere alle convocazioni neanche per un motivo piuttosto valido come quello della finale per l’assegnazione dello scudetto. Restava il primo maggio disponibile e quella gara fu scelta dalla Pro Vercelli. L’Internazionale non era dello stesso parere, stranamente per una società che fa dell’onestà la sua bandiera fin dalla notte dei tempi e fece pressione affinché la gara si disputasse il 24 aprile. La Federcalcio, rendendosi protagonista del primo episodio di quell’imparzialità all’italiana che poi si sarebbe manifestata in molte altre occasioni nei decenni successivi, sceglie proprio il 24 aprile. La Pro Vercelli, scandalizzata, decide così di manifestare il proprio disappunto schierando una squadra di ragazzini la cui età era compresa tra gli 11 ed i 15 anni. Non solo, il capitano dei vercellesi, quel Sandro Rampini che della squadra piemontese diventerà grande goleador, consegna, all’ingresso in campo, una lavagnetta al capitano dell’Inter, Fossati, in modo che questo potesse tener conto dei gol che realizzeranno contro i poveri ragazzini. Uno smacco. L’Inter infatti vinse per 10 a 3 e ottenne il primo scudetto della sua storia. Uno scudetto vinto in modo non proprio onorevole. Qualcuno, maliziosamente, direbbe che chi ben comincia è a metà dell’opera o, rischiando di abusare dei modi di dire, che se il buongiorno si vede dal mattino…Il prossimo articolo della rubrica “La settimana del prescritto” sarà dedicata alla mancata retrocessione dell’Inter nel 1922.
Il doping e l’Inter, una storia triste – La settimana del prescritto, scrive il 29 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Ci sono vicende talmente tristi per le quali risulta quasi difficile scrivere un articolo da pubblicare su un blog, come questo, chiaramente e dichiaratamente fazioso. Vicende nelle quali sono coinvolte persone che, purtroppo, non ci sono più o, se ci sono ancora, a lungo hanno sofferto. Stiamo parlando del doping e delle malattie che dall’utilizzo di droghe e sostanze varie atte a migliorare le proprie prestazioni sportive possono derivare. Di doping si parla spesso a proposito di sport quale il ciclismo mentre il nostro amato calcio sembra esserne immune. Ovviamente non è così. Di doping si parla a sproposito nel caso della Juve, che pure non ha subito alcuna condanna in tal senso (la vicenda sulla prescrizione meriterebbe un post a parte, consiglio questa lettura per un approfondimento) ed anzi è stata assolta dal Tasdi Losanna in modo definitivo; ma di un doping ben più grave, che ha causato e probabilmente causerà ulteriori vittime non se ne parla. C’era una volta una squadra, l’Inter di Angelo Moratti, guidata dal Mago Herrera in panchina, che vinceva in Italia e in Europa. Una squadra nella quale grandi campioni erano coadiuvati da onesti mestieranti che contribuivano alla causa. Dietro a quei successi, secondo l’accusa ben precisa di un ex giocatore di quella squadra, Ferruccio Mazzola, ci sarebbe però l’utilizzo di sostanze proibite e sconosciute, addirittura anfetamine. Mazzola, fratello del più noto Sandro (figli, entrambi, nel mitico Valentino, capitano del Grande Torino), è morto recentemente, ultima vittima di una serie di morti che hanno coinvolto giocatori di quella squadra. Questo l’agghiacciante elenco, che non tiene conto di altri ex giocatori, che sarebbero attualmente malati o che comunque hanno superato gravi malattie:
Armando Picchi, morto a 36 anni per tumore alla colonna vertebrale;
Marcello Giusti, morto per cancro al cervello nel 1999;
Carlo Tagnin, morto nel 2000 per osteosarcoma;
Mauro Bicicli, deceduto per un tumore al fegato nel 2001;
Ferdinando Miniussi, morto nel 2002 a causa di una cirrosi epatica;
Enea Masiero, morto di tumore nel 2009;
Giacinto Facchetti, morto per tumore al pancreas nel 2006;
Giuseppe Longoni, morto nel 2006 per vasculopatia cronica;
Ferruccio Mazzola, morto di cancro nel 2013.
La prima considerazione che occorre fare è che se si prende un gruppo di persone che han superato i 60 anni, è facile trovarne parecchi colpiti da mali terribili come quelli elencati. La circostanza triste e da considerare è che questi giocatori erano tutti appartenenti di un’unica squadra nello stesso periodo storico. In Italia, e forse nel mondo, non esiste altra circostanza simile. Mazzola ha raccontato tutto in un libro, “Il Terzo Incomodo”, in cui racconta di come i giocatori di quella squadra venissero invitati a prendere pillole sconosciute prima delle partite. Molti di loro, con il passare dei mesi, presero l’abitudine di sputare le pillole di nascosto ma il Mago Herrera se ne accorse ed iniziò a scioglierle in quelli che diventarono poi i famosi caffè di Herrera. Erano, stando al racconto di Ferruccio Mazzola, proprio le riserve a sperimentare nuove combinazioni o prodotti, in modo da poter poi dare ai titolari le sostanze che garantivano risultati migliori. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei giocatori dell’elenco di cui sopra erano proprio delle riserve…Il libro, quando uscì, destò scandalo. Uno scandalo tale per cui Facchetti, ancora in vita, decise di denunciare l’ex compagno autore del libro. Il processo però non fu favorevole all’Inter che dovette anche pagarne le spese processuali. Una testimonianza incredibile, che però precisa come non era solo l’Inter a ricorrere a certe usanze. Mazzola dichiarò di aver visto cose simili anche nella Fiorentina e nella Lazio. Nella Fiorentina di quegli anni morirono, in seguito, Bruno Beatrice, Ugo Ferrante, Nello Saltutti e Mattiolini e si ammalarono, fortunatamente in modo non mortale, anche Caso e De Sisti. Mazzola stupisce il lettore ricordando come in una delle tragedie più grandi che hanno colpito il calcio italiano, ossia la morte di Giuliano Taccola, 26 anni, giocatore della Roma, ci fosse una triste quanto curiosa coincidenza, ossia la presenza, come allenatore, di Helenio Herrera…Il libro è attualmente in vendita e noi ne consigliamo vivamente la lettura. Non me la sento, onestamente, di aggiungere altro nè, soprattutto, di trarre delle conclusioni che possano, in qualche modo, strumentalizzare la tragedia di così tante persone. L’unica cosa che mi sento di dire è che chi si riempie la bocca con accuse di doping mai verificate e lo fa solo per poter gettare fango sulle vittorie di una squadra (o di un altro atleta, come nel caso di Nadal nel tennis) forse dovrebbe informarsi meglio e tacere, anche solo per rispetto nei confronti di ex giocatori che hanno fanno una brutta fine. Da domani, per fortuna, si torna a parlare di cose più leggere con il quarto articolo della “settimana del prescritto”. Parleremo di quando l’Inter ha macchiato la propria gloriosa storia con tentativi di corruzione, lanci di lattine e taroccamenti di documenti in un torneo giovanile. Insomma, situazioni che non si confanno troppo ad una società che, Thohir docet, si è distinta, nel corso della sua storia per integrità e lealtà.
Corruzione, lattine e tornei giovanili col trucco – La settimana del prescritto, scrive il 30 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Esiste solo una squadra, in Italia, che si vanta in ogni occasione, e specialmente durante le non rare stagioni fallimentari, di essere l’unica depositaria di valori quali onestà, lealtà e correttezza. Questa squadra è l’Inter anche se la sua storia, come abbiamo visto nei post precedenti (vedi in basso l’elenco completo), racconta di qualche, non grave, caduta di stile o, se vogliamo, di qualche adattamento alla leggendaria arte tutta italiana di arrangiarsi. Non si può parlare della storia dell’Inter senza ricordare lo squadrone allestito negli anni ’60 da Angelo Moratti, capace di vincere tre scudetti, due Champions League e due Coppe Intercontinentali. Purtroppo, a provare a guastare la memoria e il ricordo di quel ciclo di grande successo ci pensano le malelingue degli avversari invidiosi, le tristi accuse e sospetti di doping da parte di ex giocatori purtroppo deceduti (Ferruccio Mazzola) e, come se non bastasse, anche presunte accuse di corruzione di arbitri. Nel 2003 The Times, quotidiano inglese, pubblicò un articolo a cura di Brian Glanville, che riportavano la confessione dell’arbitro Gyorgi Vadas, relativa al presunto tentativo di corruzione da parte del Presidente Moratti, in occasione della partita tra la squadra nerazzurra e il Madrid CF. Glanville, semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni 1965/66. Nell’articolo c’è scritto che il Presidente Moratti aveva messo in piedi un vero e proprio sistema dedito alla corruzione dei direttori di gara portato avanti da due uomini di fiducia: Italo Allodi e Dezso Solti. Per ben tre anni consecutivi, prosegue l’articolo del giornalista inglese, l’Inter avrebbe cercato, e in due occasioni riuscendovi anche, di corrompere gli arbitri nelle semifinale di Coppa dei Campioni. Vincere quelle due semifinali fu molto importante per l’Inter perché poi, nelle successive finali, arrivarono le conquiste della prestigiosa coppa. Nel 1966 il tentativo di corruzione non andò in porto. La semifinale era quella contro il Real Madrid e l’arbitro era il già citato ungherese Vadas. Egli venne corteggiato con la promessa di un corrispettivo in denaro equivalente all’acquisto di 10 automobili Mercedes se avesse indirizzato la gara verso il successo dei nerazzurri, il doppio in caso di rigore allo scadere e cinque volte tanto per un rigore nei tempi supplementari. Vadas arbitrò in modo regolare e l’Inter perse. Quella fu l’ultima gara arbitrata da Vadas. Un altro episodio spiacevole prova a sporcare, ovviamente non riuscendovi, la linda storia dell’Inter. Siamo nel 1971/72, Coppa dei Campioni. L’Inter gioca negli ottavi di finale contro il forte Borussia Moenchengladbach. L’andata di gioca in Germania e la partita si mette male. I tedeschi vanno avanti per 2-1 quando Boninsegna si accascia a terra poco prima di calciare un corner. Pare sia stata una lattina a colpirlo. Il centrocampista tedesco Netzer trova a terra una lattina vuota e accartocciata e la spinge verso un poliziotto, il quale la raccoglie. Subito Mazzola prova a farsela consegnare, invano. Ma il capitano nerazzurro vede un tifoso italiano intento a bere una lattina. Mazzola se la fa consegnare e la consegna, a sua volta, all’arbitro. Boninsegna non si rialza pur non manifestando particolari danni. La gara riprende e i tedeschi, infastiditi e resi rabbiosi dalla sceneggiata degli italiani, finiscono per vincere 7-1. L’Inter, per mano dell’Avvocato Prisco, sporge reclamo alla Commissione disciplinare dell’Uefa. La quale, però, non può accoglierlo poiché ai tempi non era in vigore il principio della responsabilità oggettiva delle società per il comportamento dei propri tifosi. Ma Prisco è uno che non molla e, alla fine, riesce ad ottenere la non omologazione del risultato. Nonostante non ci sia un regolamento che prevedesse questo tipo di provvedimento. La partita è annullata e il campo del Borussia squalificato. Pertanto, si gioca a Milano come se fosse la gara di andata mentre il ritorno si sarebbe dovuto giocare in campo neutro. Peraltro, nel corso di quella gara Mario Corso venne squalificato per 14 mesi perché ritenuto colpevole di aver preso a calci l’arbitro al termine della partita. Una squalifica ingiusta perché autore dell’atto violento fu Ghio e non Corso. Ad ogni modo, la squalifica non venne confermata, Ghio giocò e realizzo anche la rete del 4-2 di Milano. L’Inter poi avrebbe pareggiato 0-0 a Berlino qualificandosi ai quarti. Tutto questononostante la sconfitta per 7-1 patita all’andata. Tra i miracoli dell’Inter, oltre a quello di vincere uno scudetto pur arrivando terzi, occorre annoverare anche questo…Nel 1981 l’Inter è chiamata a rappresentare l’Italia al torneo “Mundial Infantil de Football”, che si disputa in Argentina. Un trofeo di livello mondiale, e quindi prestigioso, aperto ai ragazzi di età inferiore ai 14 anni, nati cioè entro il 1967. L’Inter vinse il trofeo, con gran giubilo di tutti. Il calcio italiano era ai vertici mondiali, come poi avrebbero dimostrato i ragazzi della Nazionale maggiore l’anno dopo al Mundial in Spagna. Goleador, con otto reti, di quel torneo è Massimo Ottolenghi. Peccato però che un giornale, qualche giorno dopo, attribuisca al ragazzo un’età diversa da quella dichiarata. Non solo, il tal Ottolenghi si chiamerebbe Pellegrini, nato a Roma nel 1966! Lo scandalo divampa e toccò a Sandro Mazzola, già capitano dell’Inter dell’episodio della lattina, giustificare dinanzi al mondo il fattaccio, in quanto consigliere delegato della società nerazzurra. Si, abbiamo sbagliato, avrebbe detto Mazzola, ma quella di barare sull’età dei ragazzi è un’abitudine diffusa e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Venne aperta un’indagine e molti dirigenti dell’Inter vennero sanzionati con pene dai 2 anni di inibizione (per il dirigente accompagnatore Migliazza) ad un anno per Mario Fiore, per l’allenatore Meneghetti oltre a sei mesi di squalifica per il giocatore Pellegrini ed il prestanome Ottolenghi. Inoltre, l’Inter venne punita con una multa di 5 milioni di lire. Anche in questo caso evitiamo di emettere giudizi. Nel caso della tentata corruzione stiamo parlando comunque solo della confessione di un arbitro a suo dire contattato per inscenare una manipolazione del risultato e della denuncia di un giornalista, magari abbastanza autorevole. Troppo poco perché se ne possano trarre conclusioni (oddio, poi i tempi cambiano e magari nel 2006 potrebbe bastare molto meno, ma questa è un’altra storia). Nel caso della lattina quasi sicuramente Boninsegna e l’Inter subirono un duro colpo, fisico e morale, che li ha impossibilitati dal poter concludere con la dovuta serenità la gara (perdendola poi per 7-1). Infine, per quanto concerne il taroccamento e lo scambio di persona al torneo giovanile, si sa, sono cose che fanno tutti e chi è senza peccato scagli la prima pietra…Domani, quinto giorno della settimana del prescritto, ossia la settimana che precede Juve-Inter, racconteremo di quando, ed è storia recente, un giocatore dell’Inter, Alvaro Recoba, venne tesserato come comunitario pur non essendolo…
Il passaporto di Recoba: si cambiarono le regole per non far retrocedere l’Inter – La settimana del prescritto, scrive il 31 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Cosa pensereste di una situazione nella quale esiste un regolamento ben preciso che viene rispettato senza alcun problema fino a quando, però, non vengono toccate persone che, diciamo così, godono di protezioni di un certo tipo e, piuttosto che vedersi colpite per la violazione di quelle norme, fanno pressione affinchè proprio quelle regole vengono cambiate? Assurdo, eh? Ebbene, è quanto accaduto al calcio italiano tra il 2000 e il 2001. Esisteva, allora, una regola, esattamente la 40 settimo comma delle NOIF della FIGC, che prevedeva che le squadre del campionato di calcio non potessero schierare più di 5 giocatori con passaporto extracomunitario. Accadde però che quella norma venne violata da alcune società, senza però che queste fossero punite come meritavano (ossia in base a quanto previsto dal regolamento), ma soltanto multate con la squalifica dei calciatori coinvolti e l’inibizione dei dirigenti coinvolti, oltre ad una irrilevante sanzione pecuniaria. Questo perché la regola che ne avrebbe decretato penalizzazioni a livello sportivo, fino alla retrocessione, venne abolita. Anzi, si fece peggio: il processo venne rimandato alla fine della stagione in modo da avere il tempo per cambiare la regola. Entriamo un po’ più nel dettaglio della vicenda in modo da capire quali siano i soggetti coinvolti. Recoba arriva all’Inter nel 1997, assieme al Fenomeno Ronaldo. Sembra essere promettente ma ancora acerbo. Viene mandato a Venezia a farsi le ossa e, in effetti, in laguna il Chino disputa un grande campionato. A fine stagione l’Inter lo richiama in squadra ma emerge un problema: l’Inter ha già in rosa 5 extracomunitari, ossia Ronaldo, Jugovic, Simic, Cordoba e Mutu. Come fare? Semplice, il 12 settembre del 1999 Recoba ottiene il passaporto comunitario. E dire che già nel 1997 venne cercato, invano, un qualche avo spagnolo per poter tesserare Recoba come comunitario…Recoba esplode e Moratti gli regala un contratto da record, addirittura di 15 miliardi di lire a stagione più bonus vari. Recoba disputa quell’anno 29 presenze realizzando 8 reti. Accadde però un fatto: durante una trasferta per una gara di coppa Uefa, il 14 Settembre del 2000, alla frontiera polacca due calciatori dell’Udinese, tali Warley e Alberto, vennero fermati perché in possesso di passaporti falsi. Scoppia lo scandalo passaportopoli, che coinvolge le società Inter, Lazio, Roma, Milan, Udinese, Vicenza, Sampdoria, i giocatori Recoba, Veron, Fabio Junior, Bartelt, Dida, Warley, Jorginho, Alberto, Da Silva, Jeda, Dedè, Job, Mekongo, Francis Zé e i dirigenti Oriali, Ghelfi, Baldini, Cragnotti, Governato, Pulici, Pozzo, Marcatti, Marino, Sagramola, Briaschi, Salvarezza, Mantovani, Arnuzzo, Ronca. Il 30 gennaio 2001 durante un’ispezione nella casa di residenza di Recoba venne accertato che anche il passaporto del Chino era falso. La prima reazione dei nerazzurri non può che essere di sdegno e una decisa presa di distanza dal fattaccio. Poi però si scopre che fu Oriali, dirigente interista, su suggerimento di un altro personaggio che ha sempre fatto della sportività e della correttezza il suo vanto, Franco Baldini, dirigente della Roma, a contattare tale Barend Krausz von Praag, oscuro faccendiere per risolvere la vicenda del passaporto di Recoba. Insomma, l’Inter del tutto estranea alla vicenda non era, al punto che Oriali andò a Buenos Aires proprio per ottenere il documento e, secondo Barend Krausz von Praag (lo ha dichiarato durante un interrogatorio), aver anche pagato 80 mila dollari per conto della società per il disbrigo della pratica. Siccome tante erano le società coinvolte nello scandalo ma ancor di più quelle del tutto estranee, ci si pose il problema di sanzionare i comportamenti illeciti. Già ma come? C’è il precedente, proprio in quei mesi, del medesimo scandalo che ha portato, in Francia e Spagna, alla sospensione dei giocatori e alla penalizzazione delle società coinvolte. Qualcuno, guarda un po’, spinge per il colpo di spugna ma la cosa è impraticabile, si perderebbe del tutto la faccia! Inizia il processo e le società, Milan e Inter in testa, hanno paura. Il rischio è quello di addirittura retrocedere (visto che andrebbe penalizzata la squadra per ogni partita in cui ha schierato il giocatore), la certezza sarebbe quella della non partecipazione alle coppe europee. Galliani si ribella e studia la scappatoia: se si riuscisse, contemporaneamente, a prolungare il processo fino al termine del campionato, per poi cambiare la regola (la famosa 40 NOIF), si potrebbero rendere meno gravi le sanzioni. Mica male, eh? Se una cosa che è reato non lo è più perché si cambia la regola ecco che tutto assume una dimensione diversa. Moratti dichiara: “Se squalificano Recoba e poi la giustizia ordinaria lo assolve, chi ci restituisce squalifiche e penalizzazioni?” per spingere affinchè sia preso il dovuto tempo prima di emettere le sentenze. Strano, qualche anno dopo fu ritenuto sacrosanto svolgere un processo sportivo in pochi giorni, comminando sanzioni assurde ad alcune squadre e ignorando le prove a danno di altre e ben prima che la giustizia ordinaria facesse il suo corso…Sta di fatto che poi anche la giustizia ordinaria condannerà Recoba e Oriali, ma l’Inter non avrebbe pagato con penalizzazioni in classifica per tutti i punti ottenuti in modo illecito. Il 3 maggio del 2001 arriva il provvedimento che tutti i coinvolti nella vicenda aspettavano: cambia la norma relativa al tesseramento e impiego dei calciatori extracomunitari. Mancano sei giornate alla fine del campionato. Il processo si svolgerà a campionato finito e le sanzioni saranno ben più leggere rispetto a quanto avrebbero dovuto essere, poiché la norma era cambiata e le violazioni del regolamento, pertanto, erano meno gravi. Il 27 giugno 2001 la Commissione disciplinare della Lega Calcio emette la sentenza di primo grado: tra le altre, Inter condannata ad una ammenda di 2 miliardi di lire mentre Recoba punito (come anche Dida e tanti altri), con un anno di squalifica. Tra i dirigenti, Oriali è stato condannato ad 1 anno di inibizione. La Commissione di Appello Federale conferma le sanzioni. Anche la giustizia ordinaria fece il suo corso e, il 25 maggio 2006 condannò, in via definitiva, Recoba e Oriali che ricorsero al patteggiamento, ottenendo una pena di 6 mesi di reclusione con la condizionale per i reati di ricettazione e concorso in falso, commutati in multa da 25.400 euro. Una vicenda che, esattamente come le altre raccontate fino qui (e come quelle che racconteremo in seguito), non può gettare ombre sull’onore dell’unica squadra onesta del campionato di calcio italiano. A volte, si sa, capitano certe cose, come, ad esempio, taroccare passaporti, evitare retrocessioni, vincere uno scudetto con l’inganno e vedere le proprie intercettazioni dimenticate nel processo più importante della storia del calcio italiano; sono cose che succedono ma che non possono assolutamente significare che anche l’Inter ha qualche scheletro nell’armadio, quasi fosse come la Juve (magari con qualche vittoria in meno). Per la settimana del prescritto, ossia quella che precede la partita Juve-Inter, domani si parlerà del famoso rigore di Ronaldo per fallo di Iuliano del 1998 che la leggenda vuole abbia fatto perdere lo scudetto ai nerazzurri.
Iuliano – Ronaldo vs West – Inzaghi, la storia raccontata a modo loro, scrive l'1 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. In questi giorni sto leggendo il, fantastico, libro di Massimo Zampini intitolato “Il Gol di Muntari”, un saggio divertente e ironico che racconta in chiave bianconera la trionfale cavalcata della Juve nella stagione 2011-2012, conclusasi con la vittoria del 30° scudetto. Questa lettura è particolarmente stimolante poichè aiuta a far comprendere le modalità in base alle quali i media e i tifosi avversari attribuiscono le sconfitte della loro squadra alla logica, e dimostrabile, corruzione degli arbitri a favore, ovviamente, della Juve. Perchè ce l’abbiano tutti con la Juve è semplice e lo è per due motivi. Il primo è che inevitabilmente la squadra che più vince è quella più odiata. Lo dimostra il fatto che, dopo la Juve, in Italia, le squadre più odiate siano l’Inter e il Milan. Pochi odiano il Toro o il Parma anzi, suscitano una certa simpatia da parte di tutti i tifosi. In Italia, peraltro, c’è questa mentalità distorta e stupida secondo la quale se uno vince in modo continuo e ripetuto, nella vita come nello sport, sicuramente lo fa in modo non pulito. Nella retorica tipica dell’italiano medio, quello pigro, invidioso, rancoroso e un po’ frustrato, non si può emergere dall’anonimato se non truffando, corrompendo o, al limite ricorrendo a dosi da cavallo di fortuna. La Juve, peraltro, quando non vince lo scudetto arriva seconda. Infatti, a fronte di 31 piazzamenti al primo posto, la Juve è arrivata 21 volte al secondo posto (e 12 al terzo). Questo significa che quasi ogni volta che il Milan, l’Inter, la Roma, la Lazio, la Fiorentina eccetera hanno vinto lo scudetto, oppure l’hanno perso sul filo di lana, la loro avversaria era la Juve. Il secondo motivo dell’odio nei confronti della Juve deriva dalla parzialità e faziosità dei media italiani. Il calcio divide come solo la politica sa fare. Ma mentre nella politica c’è un certo equilibrio tra le parti a livello mediatico (grazie alla lottizzazione in Rai ci sono giornalisti e dirigenti di tutti gli schieramenti, Mediaset appoggia, velatamente, il partito del suo proprietario; di quotidiani di parte ce ne sono per tutti i gusti), nel calcio tale equilibrio non esiste. Intanto perchè le redazioni di giornali e televisioni sono tutte situate a Milano o a Roma, e, ad esempio, in Rai sono le squadre romane a godere di una “leggera” prevalenza di tifo da parte dei giornalisti che vi lavorano mentre in Mediaset e Sky sono le milanesi a vantare un maggior numero di estimatori. Inutile dire che Mediaset ha una “velata” prevalenza di giornalisti di fede rossonera (come mai? Boh). Tra i quotidiani, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera sono, anche in questo caso, lievemente vicine alle posizioni delle squadre milanesi mentre Corriere dello Sport e Repubblica sembrano e sottolineo il sembrano, avere tra i propri giornalisti parecchi simpatizzanti delle squadre romane, del Napoli e della Fiorentina. A Torino, peraltro di proprietà della famiglia Agnelli, c’è La Stampa nella cui redazione sportiva abbondano i simpatizzanti del Toro, come ha mostrato la vicenda relativa all’esultanza nella sala stampa dello Juventus Stadium, al goal del Chelsea nell’ultima Champion’s League, con tanto di cazziata di Antonio Conte. C’è Tuttosport, è vero, unico quotidiano sportivo spudoratamente dalla parte della Juve. Tuttosport però vende, all’incirca, un terzo delle copie della Gazzetta e la metà di quelle del Corriere dello Sport. La conclusione di tutto questo è che i tifosi della Juve sono soli e devono essere bravi a difendersi. Non devono, mai, pretendere di diventare simpatici, perchè simpatici sono quelli che perdono, nè possono sperare nella benevolenza dei tifosi avversari. Quel che devono fare è, semplicemente, essere informati e ribattere colpo su colpo. Noi cerchiamo di contribuire alla causa mostrandovi due video. Nel primo vedrete il famoso rigore non dato a Ronaldo contro Juliano. Quello che avrebbe determinato le sorti dello scudetto 1997-1998 (peraltro la Juve terminò il campionato con 5 punti di vantaggio). Tutti se lo ricordano. Ricordiamolo anche noi. Poi c’è questo video. E’ relativo alla partita di andata, a Milano, tra Inter e Juve. Il risultato finale fu di 1-0 per i neroazzurri. Nel video c’è un rigore non fischiato alla Juve per fallo di West su Inzaghi (che è ben più clamoroso di quello non concesso a Ronaldo) e, per non farsi mancare nulla, un goal regolarissimo di Inzaghi, clamorosamente annullato. Le immagini sono eloquenti eppure la maggior parte dei tifosi della Juve non ricordano questi episodi. Da oggi in poi, quando vi parleranno del rigore di Juliano su Ronaldo, rispondete con quello di West su Inzaghi e con il goal annullato allo stesso Inzaghi.
ESSERE DELLA JUVE, DEL MILAN, E DELL’INTER: NASCE “LA VOCE DELL’IDEOLOGIA”. Scrive "Il Giornale il 10 agosto 2016". Il fatto che parlare di calcio sia una delle attività preferite di ciascun maschio italiano medio che si rispetti è di per sé una cosa piuttosto assurda. Non tanto perché si tratti di argomento noioso e senza particolare dinamismo, anzi: considerazioni del genere tendenzialmente arrivano da coloro che morirebbero dalla voglia di essere come tutti ma ormai si sono costruiti il personaggio dal tipico snobismo anti-pallonaro e non possono più uscirne; piuttosto perché, fondamentalmente, è inutile. Provate a pensarci: quante discussioni con gli amici su questo o quel giocatore, quante diatribe su allenatori o sistemi di gioco, e cosa ne è mai venuto fuori? Nulla. Ognuno è sempre rimasto della propria idea, grazie e arrivederci. E allora perché lo facciamo? Perché perdiamo interi pomeriggi e mettiamo a rischio solide amicizie per scornarci su argomenti rispetto ai quali non ci smuoveremo mai e poi mai nemmeno di un millimetro? Semplice: perché è maledettamente bello. Perché è magnifico essere certi di qualcosa, e le certezze che ciascuno è convinto di avere sul calcio sono le più inossidabili che esistano, ed è ancor più magnifico perdere tempo a tentare di divulgare questi presunti assiomi ovunque e ogni volta che ne abbiamo occasione. Un principio che si fonda su una verità incontestabile, per quanto dura da ammettere: il tifoso di calcio è per sua stessa essenza un ideologico. La strenua convinzione con cui porta avanti le proprie tesi sul 4-3-3 o sul reale valore di Pogba non nascono certo da alcuna competenza tattica o sugli andamenti di mercato, ma dalla pura e genuina ideologia. Ed è straordinario come ciascun agglomerato di tifo si caratterizzi per impronte ideologiche assolutamente comuni. Prendiamo i tifosi delle tre principali squadre italiane, Juventus, Milan e Inter. Sono complessivamente svariate decine di milioni ma tutto sommato potrebbero benissimo essere anche solo tre, perché una volta che hai conosciuto uno juventino è come se li avessi conosciuti tutti, e lo stesso discorso vale per milanisti e interisti. Il topos letterario di bandiera non cambia, al massimo è leggermente sfumato di caso in caso, ma il sostrato è quello, non si scappa. Provate a pensare alle reazioni che questi tifosi solitamente hanno nei confronti, per esempio, delle sconfitte: lo juventino la vive come uno sfregio irreparabile, un accadimento che potrebbe minare la coscienza popolare del fatto che la Juventus sia la squadra più forte, qualcosa di intollerabile; il milanista si arrabbia, certo, ma lo fa comunque con una certa classe perché, al fondo, sa benissimo che qualsiasi cosa succeda nulla potrà mai intaccare il fatto che il Milan sia il più forte, glorioso e magnifico club di sempre, ed è ridicolo pensare che qualche annata storta possa mettere in discussione questo dato di fatto; l’interista invece, che fondamentalmente interiorizza come pochi altri sanno fare e personalizza ogni cosa, vive la sconfitta come un dramma personale, come se il mondo gli fosse caduto addosso, come se fosse la fine di tutto, nella continua altalena che di domenica in domenica lo porta a toccare le stelle come a raschiare le più ruvide terre. Di conseguenza, per lo juventino la vittoria è una sorta di liberazione, di avvenimento straordinario facente però parte (o che dovrebbe far pare, perlomeno) della più assoluta normalità: ecco perché quando la Juventus vince il suo tifoso vorrebbe correre per strada e fermare ogni passante per dirgli “Hai visto? Hai visto che i più forti siamo noi? Avevi dei dubbi, eh? Beh, ti sbagliavi!”, per fugare qualsiasi possibile pensiero che possa mettere in discussione che i migliori siano loro; il milanista, data l’impareggiabilità di cui gode il suo club, festeggia le vittorie con apparente tranquillità, quasi con nonchalance, andando in giro con stampata sul volto la frase “Massì che volete che sia, per noi è normale…”, beandosi di questo senso di superiorità; per il tifoso dell’Inter, infine, la vittoria rappresenta l’apoteosi, qualcosa di individuale e profondo, una sorta di ascesi da vivere quasi in solitaria, come se l’Universo avesse deciso finalmente di degnarlo di uno sguardo: non esiste niente e nessun altro, è una vittoria quasi più nei confronti del Cosmo che di una squadra avversaria. Da tutto ciò, le naturali controparti delle discussioni: gli juventini litigano con chiunque, i milanisti tendenzialmente non litigano, mentre gli interisti litigano soprattutto fra di loro.
Beccata al letto con Coppi: «Lei, è in arresto», scrive Lanfranco Caminiti il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. Si conobbero quando entrambi erano già sposati e scoppiò l'amore. Li perseguitarono, ma riuscirono lo stesso a sposarsi in Messico e ad avere un figlio, Faustino. Fu lei a pagare il prezzo più alto, attaccata soprattutto dalle altre donne in un Italia perbenista. La denuncia era ormai lì. Contro Occhini Giulia in Locatelli, di anni trentuno, casalinga, e contro Coppi Fausto, del fu Domenico, di anni trentaquattro, coniugato, di professione corridore. Era d'obbligo darvi seguito. E fu subito scandalo. «Ma chi crede al dolore di quella concubina, a chi lo vuol far credere? Non parlare più di questa grande peccatrice che ha tanto disgustato sarebbe un'ottima cosa per noi madri e mogli oneste che abbiamo sacrificato tanto per la nostra missione, per la nostra reputazione» (Eleonora, Padova). Un'altra: «Mi meraviglia l'arroganza e la crudeltà della signora Occhini. Chiama suocera la madre di Coppi e ha il coraggio di abitare nello stesso paese a poca distanza dalla moglie di lui» (Giovanna). E ancora: «Ma la Occhini avrebbe abbandonato marito e figli se Coppi fosse stato il garzone di un salumiere invece che il Campionissimo? » (Carmen, Piacenza). E ancora: «Non vi sembra che si esagera non poco nella stampa di oggi presentando la Occhini quale vittima di un tragico destino? In fin dei conti si tratta sempre di una donna che ha rovinato due famiglie» (Enrico, Firenze). È questo il tono di alcune delle tante lettere che Franco Pierini pubblicò in una lunga inchiesta sull'adulterio uscita su l'Europeo nel 1960, quando tutto sarebbe dovuto essere, letteralmente, morto e sepolto. Ma l'adulterio era il marchio peggiore in quegli anni. «Religione, codice e costume sono i tre elementi che congiurano per fare dell'adulterio il peggior reato che si possa commettere in Italia. Le sue conseguenze durano tutta la vita. Di fronte alla nostra società può riabilitarsi il ladro e perfino l'omicida, non l'adultera». Aveva scritto così il professore Mario Luzzatti, noto matrimonialista, che pure era stato uno degli avvocati del marito di Giulia Occhini al processo. Perché Giulia Occhini, e la sua storia con Fausto Coppi, il Campionissimo, erano il "concentrato" di tutte le storie adultere di quegli anni - storie adultere di necessità e non per scelta, perché non esisteva possibilità alcuna di interrompere il matrimonio -, per l'enorme visibilità che ebbe, data la straordinaria popolarità del ciclista, per l'accanimento dei media, per la complicata e intrigata realtà dei protagonisti, per l'aspetto drammatico che assunse e per il carattere tragico della sua fine. Coppi, allora, superava in popolarità qualsiasi altro campione di sport o anche un cantante o un attore: è inimmaginabile oggi, ma allora la fatica della bicicletta univa come nient'altro "nazione e popolo". Gliela fecero pagare amara, quella popolarità. Insomma, c'era una pancia della nazione che giudicava con ferocia Giulia Occhini, ed erano soprattutto donne. Lei, la moglie del dottore, bella, elegante, maliarda, aveva potuto scegliere, e meglio. Ma il matrimonio rappresentava per milioni di donne un fragile argine di sicurezza: la Occhini era una minaccia, era "l'altra donna" che poteva rubarti il marito, e con lui quell'argine all'insicurezza. E poi, le donne che lavoravano non erano molte, non avevano autonomia economica, badare a marito-padrone e figli rappresentava pur sempre un modo di sopravvivenza; la "dote" della reputazione era tutto il patrimonio spendibile. E mandare all'aria un matrimonio, essere esposta al giudizio morale di tutti, e all'emarginazione, a meno di non volere appositamente mettersi "su una brutta strada", era considerata una spudorata pazzia, di certo non un comportamento che si sarebbe potuto riprodurre con facilità e come via di liberazione. I tempi erano questi. Meschini. Settembre 1954. Quando il pretore, il brigadiere, l'appuntato e il medico di Novi Ligure vanno a mezzanotte a Villa Carla, dove vivevano i due concubini, per pescarli in "flagrante reato" dopo che il marito di lei, con tanto di due testimoni, ha presentato denuncia, superano un primo cancello, poi un secondo. È notte, e i due, ormai svegli, non si fanno beccare certo a letto insieme. Coppi li accoglie in vestaglia, lei - che da un po' figura come la sua segretaria privata, per salvare la faccia e il quieto vivere - è già in ordine: la flagranza non ci sarebbe. Però, l'appuntato - il mandato li autorizza a ispezionare ogni stanza - allunga la mano sul letto: è caldo, eccola, la prova. Su quella "prova", arrestano lei in nome della legge e della pubblica morale - trascorrerà tre notti in prigione e poi andrà in domicilio coatto da una zia a Ancona, a lui ritirano il passaporto; su quella prova nel 1955 verrà intentato il processo e saranno comminate le condanne, lui a due mesi, lei a tre. Molti anni dopo, ricordando quella sera del '54 la Occhini dirà che quella visita notturna se l'aspettavano, e che per quello avevano messo tutti quegli sbarramenti, per avere del tempo a non farsi trovare abbracciati; rivelerà, anche, che dentro l'armadio c'era un doppiofondo, che conduceva a un'altra stanza, un rifugio, insomma, dove scappare in casi estremi. Racconterà ancora che a Ancona, al domicilio coatto, quando usciva per fare la spesa, le donne sputavano al suo passaggio. Questi erano i tempi per l'amore: meschini. Tutto era cominciato nel 1948, quando il dottor Locatelli, medico condotto a Varano Borghi, comune del Varesotto, sfegatato tifoso del Coppi Fausto, l'Airone che volava sulla bici, si era fatto accompagnare dalla moglie al Tre Valli Varesine, che lui, il Campionissimo, aveva vinto, e dove lei gli aveva chiesto un autografo. Poi, le famiglie si erano frequentate, il medico e la moglie andavano a Novi Ligure, dove il Campionissimo viveva con la propria, di moglie, Bruna, una bella e modesta ragazza che conosceva da ragazzino, quando l'avevano mandato prima nei campi, come tutti i fratelli, e poi dal fornaio, che con quel fisico strano - magro magro, lungo lungo e con quel petto carenato - non era cosa sua la fatica della terra, a fare le consegne. Era lì che il Coppi, andando su e giù per valli e colline, aveva scoperto come si potesse andare veloce in bici, come potesse essere imprendibile. C'erano state lettere, tante lettere, fra il Fausto e la Giulia: lei spigliata, lui silenzioso, lei di mondo, lui un contadino nel cuore, lei elegante, lui vestito come uno che s'è appena comprato il doppiopetto per la vita. Lui un campione che il mondo ci invidiava, lei, forse, una che sentiva stretta la vita di provincia. Scoppia l'amore, è irrefrenabile. Lo tengono nascosto, come possono. Lui lascia la moglie e la figlia, lei lascia il marito e i figli: vanno a vivere a Villa Carla di Novi Ligure. Tutto rimane un po' così, sembra che il medico condotto se ne sia fatta una ragione, e pure Bruna forse - si sono separati, Fausto le ha lasciato la loro prima casa e cinquanta milioni, che allora erano un'enormità. Quando nel 1953 vince il campionato del mondo a Lugano, Fausto regala a Giulia, che gli sta vicino vicino, i fiori della vittoria. È il primo gesto scopertamente "pubblico". Prima, sullo Stelvio, mentre lui scollinava, qualcuno aveva colto il grido d'entusiasmo di Giulia e lo sguardo compiaciuto di Fausto - ma era ancora una "storia di ciclismo". Poi, al Tour de France del 1954, dopo la tappa di Saint Moritz, Pierre Chany, giornalista de l'Équipe, scrive: «Vorremmo sapere di più di quella dame en blanc che abbiamo visto vicino a Coppi» - lei indossava un montgomery color neve. È lì che nasce l'appellativo con cui Giulia Occhini passa alle cronache. La dama bianca. Forse, fu lì che il dottor Locatelli non ci vide più. E si presentò alla caserma di Novi Ligure. Giulia, nel 1955, l'anno del processo, è incinta. Con Fausto si sposano in Messico - matrimonio non riconosciuto dalla legge italiana - e poi lei va a partorire in Argentina, per poter dare il cognome del Campionissimo al figlio, Faustino. Partorisce mentre avviene la punzonatura del 38° Giro d'Italia, dove lui arriverà secondo tra entusiasmi e tifoserie divise. Lei non potrà rivedere i suoi figli per anni, e così lui per la sua piccola Marina. Coppi continua a correre e vincere, e la gente, lentamente, sembra voler dimenticare quella storia. Dimenticare, non perdonare. Quello, non accadrà più. Per Giulia e Fausto saranno anni quasi tranquilli - lui è "anziano" come ciclista ma, benché Ginettaccio Bartali, tra il serio e il faceto, al Musichiere, la famosissima trasmissione di Mario Riva, gli rinfaccerà di aver usato «eccitanti», ha un cuore che è un mantice e come quello d'un ragazzo, e continua a correre. E guadagnare. E cambia: veste più ricercato, sembra elegante quasi, impara i buoni modi, ha un'aria rilassata quando sta in mezzo agli altri e pure felice nelle foto con lei e Faustino - per come potesse esprimere la felicità un uomo solitario, timido e riservato. Quando, per insipienza dei medici, una malaria contratta in Africa, dove era andato per una battuta di caccia, nel dicembre del 1959 diventa mortale e se lo porta via in un amen, quasi quasi gliela rimprovereranno a Giulia, quella morte banale. Lui, da morto, diventò leggenda. Lei, la rovinafamiglie, da viva, Occhini Giulia in Locatelli, casalinga, restò colpevole.
Olimpiadi, quegli atleti Dei per un minuto. Medaglie d’oro. E poi miseria, malattie, oblio. Dalla Germania al Kenya, dagli Stati Uniti all’Italia, storie di sportivi dalla gloria durata molto poco, scrive Gianfranco Turano l'8 agosto 2016 su “L’Espresso”. Se lo ricordano in pochi. Nel 2012 a Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio non si è qualificato ma una medaglia se la merita lo stesso. Si chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e prenderà 16 milioni di euro l’anno! Ergo nella vita meglio essere un pirla». Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era anche riferito all’errore dal dischetto agli ultimi Europei e al famoso gesto dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe come se io andassi dal mio avversario prima di un match e gli dicessi: ti faccio un culo così. E poi perdessi l’incontro». Molfetta, salentino come Pellè, è un campione di taekwondo, arte marziale coreana introdotta nel programma olimpico a Seul nel 1988 come sport dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo al jackpot dell’oro, quotato dal Coni 150 mila euro (lordi, a differenza dello stipendio di Pellè). Quattro anni di sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro i più forti del mondo. L’unico movente è la passione sportiva. In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è “amateur”, nella lingua del barone de Coubertin. La passione può abbinarsi alla gloria ma niente dura meno della gloria senza un giro d’affari adeguato. Lo sprinter giamaicano Usain Bolt o la stella della Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business quanto Matt Damon o Jennifer Lawrence. La portabandiera Federica Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e quegli azzurri che, a Rio come in ogni altra Olimpiade, contribuiranno in quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta, sono destinati all’oblio in tempi brevissimi secondo il teorema dell’arciere Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012) e un argento (2008). «Il brutto è che ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni». E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka. Non c’è da meravigliarsi se l’epopea olimpica moderna è ricca di campioni sedotti e abbandonati dalla fama ai piedi del podio. I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga sotto patrocinio statale (Russia e Cina) o sotto il segno dell’impresa privata (tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino) e del 2012 (Londra). Ma in Germania non si sono ancora spente le polemiche per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo squadrone tedesco-orientale capace, con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi al secondo posto nel medagliere a Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione boicottata di Mosca 1980. I giochi coreani sono stati l’ultimo momento di una gloria truffaldina certificata dalle analisi antidoping che da Messico 1968 a Seul 1988 non hanno mai trovato positivo un solo atleta della Germania est, caso unico fra i paesi del socialismo reale. La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda imponeva agli sportivi della Ddr l’uso di sostanze dopanti a partire da un’età di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli araldi del compagno segretario Erich Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita dalla Schering. Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da altri. Fra coloro che hanno chiesto un risarcimento all’ex Jenapharm ci sono la nuotatrice Rica Reinisch, la sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche agli esperti. L’elenco delle nuotatrici tedesche che sono state private a posteriori del titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto, Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro ori in un’Olimpiade e prima nuotatrice dell’est a ottenere le copertine del gossip occidentale grazie al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la polizia di Stato di Honecker. Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella sua carriera ha assunto un totale di 2,6 chilogrammi di Turinabol (1 chilo in più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha sposato un’altra sportiva del tempo, la nuotatrice Ute Krause. Sul fronte negazionista si trovano il pesista Ulf Timmermann, mentre il collega Udo Beyer ha confessato l’uso di steroidi. Non ha mai ammesso il doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400 piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che tuttora ha il miglior tempo di sempre sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È il record più longevo dell’atletica all’aperto. Negli 800 a Rio correrà un’altra atleta molto discussa, la sudafricana Caster Semenya. Altrettanto negazionista è stata la casa farmaceutica Schering che a lungo ha addossato agli ex atleti in maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel 2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo. È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993. Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo sui 200 metri a Città del Messico nel 1968. Di sicuro, i due statunitensi hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto che li ritrae durante la cerimonia di premiazione con la testa bassa e il pugno guantato di nero teso verso il cielo in sostegno alle lotte dei neri americani. Erano passati sei mesi dall’assassinio di Martin Luther King e quattro mesi dall’omicidio di Robert Kennedy. Come replica, il vincitore dell’oro dei pesi massimi nella boxe all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring avvolto dalla bandiera a stelle e strisce dicendo che la protesta di Smith e Carlos era roba da “universitari”, pur essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per le loro capacità atletiche. Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e accolti in patria come due pericolosi estremisti vicini al movimento delle Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in guerra in Vietnam certi atteggiamenti non erano tollerati. Nel 1967 era finita in castigo la medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il futuro Mohammed Ali aveva rifiutato il servizio militare con la frase “I ain’t got no quarrel with those Vietcong” (“non ho motivi di lite con i Vietcong”). Era stato privato del titolo mondiale e condannato in primo grado a cinque anni, rimanendo fuori dal ring per tre anni e mezzo. Ai due sprinter andò peggio. Per un lungo periodo Carlos fece il facchino al porto della sua città, New York, e Smith lavò auto a casa sua, nel Texas della segregazione. “The Jet” Smith oggi ha 72 anni e ha allenato al Santa Monica College. Lo scorso maggio ha partecipato a una manifestazione al Mémorial Acte, il museo dedicato alla tratta degli schiavi alla Guadalupa. Carlos ha lavorato senza grande costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs. Il più dimenticato dei tre è il terzo della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In segno di solidarietà si presentò sul podio con uno stemma dell’Olympic project for Human rights ricevuto da un altro atleta Usa. Norman non fu mai più convocato in squadra, pur essendo il più veloce del suo paese, e rimase a lungo disoccupato. Alla morte di Norman nel 2006, Smith e Carlos presero l’aereo fino a Melbourne per portare il feretro. Nel 2008 un atleta keniano ha stabilito il record olimpico della maratona correndo in 2 ore 6 minuti e 32 secondi, circa due minuti in più del mondiale di Hailé Gebreselassie, nonostante le condizioni ambientali rese proibitive dallo smog di Pechino. Solo i patiti di atletica leggera ricordano il suo nome. Samuel Wanjiru, keniano cresciuto in Giappone, aveva 21 anni ed era alla sua terza maratona. Un predestinato che da Pechino in poi ha continuato a vincere. Fino al 15 maggio 2011. Quella notte il fondista è stato trovato morto dopo un volo dal balcone della sua casa, una villetta a un piano nella sua città natale di Nyahururu. L’altezza dalla quale l’atleta è precipitato è di poco superiore al tettuccio del Suv di Wanjiru. Appena dopo la morte sono state riportate voci di una lite fra il campione, sua moglie e una donna che non avrebbe dovuto trovarsi nel letto coniugale della signora Wanjiru. Il corridore aveva avuto già problemi di ordine pubblico pochi mesi prima. La polizia keniana lo aveva denunciato perché aveva minacciato di morte la moglie e teneva a casa un Ak47, più noto come kalashnikov. L’atleta aveva ribattuto che era una montatura e aveva alluso a tentativi di estorsione nei suoi confronti da quando aveva iniziato a guadagnare i ricchi montepremi delle maratone di Londra e Chicago. Il processo è tuttora in corso. Finora i magistrati hanno escluso una delle tre ipotesi, il suicidio. Anche l’incidente è considerato improbabile. Ma nessuno finora è imputato di omicidio. Mentre a Rio si corre, in Kenya continuano le udienze. La tomba di Wanjiru è in stato di abbandono. Vincere un oro olimpico è un momento di celebrità che può durare un momento o in eterno. Ma vincere una gara ai Giochi e subito dopo ricevere una villa in regalo oltre a un viale e uno stadio intitolati a proprio nome sembra impossibile. A meno che il capo dello Stato si chiami Idi Amin Dada, tiranno dell’Uganda dal 1971 al 1979 passato alla storia per le sue stragi tribali e alla leggenda (forse) per i suoi gusti antropofagi. Villa, viale e stadio sono toccati in sorte a John Akii-Bua, primo vincitore olimpico per lo Stato centrafricano alle Olimpiadi Monaco del 1972 nella gara dei 400 ostacoli. La vittoria e il primo giro di pista con la bandiera nazionale al collo della storia delle Olimpiadi sono i fatti per i quali Akii-Bua è ricordato. I problemi iniziano poco dopo la vittoria ai giochi africani l’anno successivo, il 1973. Amin si rende conto che il corridore è troppo popolare nel paese e rischia di fargli ombra. Applica all’atleta una serie crescente di restrizioni e finisce per vietargli di gareggiare all’estero. Il gruppo tribale di Akii-Bua, l’etnia Lango, subisce l’ira del dittatore. Gli squadroni della morte di Amin uccidono tre fratelli dell’atleta. Solo nel 1978 il tiranno che si era proclamato re di Scozia sospenderà il divieto di uscire dal paese per Akii-Bua. Ma mentre l’atleta è all’estero, sua moglie e i suoi figli verranno tenuti in ostaggio a Kampala. Nel 1979, al momento dell’invasione delle truppe tanzaniane che farà cadere Amin, Akii-Bua scapperà con la sua famiglia nella parte occidentale del Kenya dove vivrà in un campo di rifugiati. Da lì raggiungerà la Germania e riuscirà a mantenersi con il sostegno finanziario della Puma, al tempo la maggiore concorrente dell’Adidas. Akii-Bua tenterà il miracolo sportivo ma sarà eliminato in semifinale a Mosca 1980, i giochi boicottati dagli Stati Uniti per l’invasione sovietica dell’Afganistan. Akii-Bua è morto in Uganda nel 1997 a 47 anni. Il lottatore di greco-romana faentino Vincenzo Maenza era chiamato Pollicino perché combatteva nella categoria dei 48 chili. Memorabili le sue diete per non superare il peso: saune massacranti, digiuni, allenamenti in vista di una gara che poteva essere compromessa da un sorso d’acqua di troppo. I risultati? Oro a Los Angeles (1984), oro a Seul (1988), argento a Barcellona (1992), più i titoli mondiali e le medaglie europee. Fino al 2008 Maenza, diventato allenatore, è stato una garanzia in chiave olimpica. A Pechino, il suo allievo Andrea Minguzzi è primo. Nel gennaio 2013, la catastrofe. Maenza è inquisito per molestie ad atleti al tempo minorenni. La prova sarebbe in un video girato da una telecamera nascosta in una palestra di Faenza nel 2000, oltre dodici anni prima. L’eventuale reato sarà dichiarato prescritto a settembre dello stesso anno. Nel frattempo, Maenza viene escluso dal suo incarico di allenatore federale. Oggi Maenza gira per l’Italia facendo stage nelle palestre che lo invitano. A Rio ci sarà un altro suo allievo, Daigoro Timoncini, già in gara a Pechino e a Londra. I pugili Leon Spinks e il fratello Michael hanno vinto prima l’oro olimpico e poi il titolo mondiale da professionisti, un risultato che poche famiglie dello sport possono vantare. Ma Leon, due anni dopo il trionfo a Montreal 1976, ha battuto per la corona dei massimi the Goat (the greatest of all times), l’acronimo usato da Muhammad Ali per definire se stesso con una notevole dose di esattezza. Per il maggiore dei fratelli Spinks, 63 anni, vincitore di borse per 5,5 milioni di dollari del tempo, tutti sperperati, il declino dopo la boxe è arrivato fino alla povertà estrema. Un po’ come è accaduto con i calciatori George Best o Paul Gascoigne, le cronache si occupano di lui solo in occasione di interventi chirurgici e di resoconti su una salute e una condizione economica sempre più precarie. Il campione del Missouri oggi vive in Nebraska dove si guadagna da vivere facendo il bidello in un Ymca di Columbus. Il cinema si è occupato spesso di sportivi realmente esistiti e dimenticati o malati o in lotta con una popolarità evanescente. Per restare in ambito olimpico ci sono l’inglese “Momenti di Gloria” (Giochi del 1924), “Unbroken” prodotto da Angelina Jolie (Giochi del 1936) sul mezzofondista italo-americano Louis Zamperini o ancora “Atletu”, dedicato ad Abebe Bikila, il maratoneta scalzo vincitore a Roma 1960. Premiato con il riconoscimento per la migliore regia al festival di Cannes, "Foxcather" è il film del regista Bennett Miller, appassionato di storie vere, che dopo "Capote" e "L'arte di vincere" ha scelto di raccontare la vera storia di due fratelli, medaglie d'oro olimpiche nella lotta nel 1984, divisi da un miliardario mecenate, John Du Pont che, affetto da schizofrenia paranoide, trasformò il loro rapporto in tragedia. Du Pont è interpretato da Steve Carell che per questo ruolo è stato candidato all'Oscar. Nel cast anche Sienna Miller e Vanessa Redgrave. Il più recente, e forse il più esemplare, è “Foxcatcher” che ha ottenuto cinque nomination agli Oscar del 2015. È la storia dello statunitense Max Schultz, oro della lotta a Los Angeles 1984, e del fratello Dave, anch’egli lottatore ucciso nel 1996 dal miliardario John du Pont, erede della dinastia farmaceutica du Pont de Nemours. Il film di Bennett Miller ha dato a Max Schultz, 55 anni oggi, una popolarità che lo sportivo non aveva conosciuto né ai tempi dei Giochi né dopo l’uccisione del fratello. E Max Schultz, naturalmente, ha detto che il Max Schultz del film non gli assomiglia per niente, che lui non è uno sfigato, non è mai stato timido, men che meno cripto-gay e, se incontra il regista, lo gonfia. Dimenticare, a volte, è giusto.
Olimpiadi Rio 2016, 41 preservativi a testa forniti dal Cio: “Ai giochi ho visto gente accoppiarsi sui prati”. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”, scrive Davide Turrini il 3 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". 41 preservativi a persona messi a disposizione dall’organizzazione. No, non siamo di fronte all’annuncio di uncasting per una gang bang californiana, ma alle Olimpiadi di Rio 2016. Il Comitato Olimpico Internazionale ha voluto omaggiare i quasi 11mila atleti provenienti da ogni angolo del pianeta che il 5 agosto inizieranno a gareggiare, con qualcosa come 450mila condom. Non si sa con precisione di quale spessore, materiale e fattura, dato sempre molto importante visto l’obiettivo medico-sanitario preposto. Come non si sa se qualche zelante funzionario del CIO abbia voluto accontentare le singole richieste su colore e profumo, visti i nazionalismi imperanti in ogni giardino del villaggio olimpico. Fatto sta che le notti magiche degli atleti olimpionici, tra un severo salto in lungo e un’emozionante, caldo e sexy match di beach volley durante il giorno, diventano un autentico inferno dantesco con accoppiamenti selvaggi che mostrano il vero significato del tanto decantato multicultiralismo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”. Non ricordiamo medaglie e finali all’ultimo net per Syed, ma sappiamo con precisione quanti preservativi inviò il Comitato Olimpico per le gare nella città delle ramblas: 90mila. Una cifretta da nulla, a quanto pare. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ho visto gente accoppiarsi furiosamente sui prati, nudi sull’erba, o nascosti in mezzo agli edifici”. Per questo incontrollabile desiderio alla maniera dei conigli dagli anni ottanta il CIO ha messo a disposizione una quantità sempre crescente, e alquanto sconcertante, di condom. Nel 1988 alle Olimpiadi di Seul vennero spediti al villaggio degli atleti “solo” 8.500 preservativi. Sedici anni dopo, quando i giochi si sono svolti ad Atene, il numero è salito a 130.000. Le Olimpiadi del 2012 sono arrivate ad una cifra che pareva record – 150.000 – ma con l’aggiornamento di Rio siamo probabilmente ad una vetta insuperabile. La grande novità è anche legata al fatto che sui 450mila condom,300mila saranno maschili, mentre i rimanenti 100mila saranno preservativi femminili (chi non ne ha mai visto uno si faccia una veloce googolata in rete ndr). Il CIO ha comunque pensato a tutto. Perché nel pacchetto sex&sport Rio 2016saranno distribuiti, sia dalle macchinette automatiche che da vere e proprie cabine dell’amore con tanto di hostess e stewart nel villaggio olimpico, ben 175mila confezioni di lubrificante. Non è chiaro, infine, se questo aumento spropositato di condom è legato alla virulenta e invasiva comparsa in Brasile del virus Zika. L’Associated Press ha posto la domanda direttamente agli addetti stampa del Comitato Olimpico ma non ha ricevuto risposta. Il virus Zika viene trasmesso principalmente dalle zanzare, ma può anche trasmettersi sessualmente. Prevenire, si diceva, è meglio che curare. Ma una domanda rimane senza risposta: allora fare sesso prima della finale degli anelli consente comunque di rimanere lassù appesi con i muscoli in tensione e la gambe parallele al corpo per parecchi secondi come nulla fosse? Se qualche atleta, italiano e non, volesse farci da gola profonda sul tema gliene saremmo grati.
Merzario: "Ho salvato la vita a Lauda ma non mi disse mai grazie". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente, scrive Angelo Scarano, Sabato 30/07/2016, su "Il Giornale". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente. In una intervista a Repubblica, Merzario racconta: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno però ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Davanti all'incendio si fermarono pure Gui Edwards e Harald Ertl: "Con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò. Niki cerca di uscire, ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando". "Tre settimane dopo - ha raccontato ancora Merzario - Niki venne a Monza. Ma non mi disse niente, né 'ciao', né 'grazie', né 'vaffanculo'. Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo, stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". Ma sull'orologio c'è ancora un mistero, soprattutto riguardo a chi lo prese: "Abbiamo promesso di non rivelarlo".
Lauda e i misteri del Nurburgring, Merzario ricorda: "Non so perché mi fermai ad aiutarlo". Lunedì ricorre il 40mo anniversario dell'indicente in Germania. Il pilota che salvò Niki e Montezemolo parlano di quel giorno, scrive Marco Mensurati il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”. Del rogo del Nurburgring si sa ormai quasi tutto: sui fatti di quel 1 agosto 1976 sono stati scritti libri, realizzati documentari, inchieste; Ron Howard ha persino girato un film, Rush, un fumettone un po' controverso ma tutto sommato fedele ai fatti. E tuttavia, quarant'anni dopo, un mistero, un piccolo mistero, ancora c'è. E si agita da allora nella testa di uno dei protagonisti, Arturio Merzario, il pilota che quel giorno seguiva Lauda sul tracciato tedesco e che per primo arrivò sul luogo dell'incidente. È lui stesso a parlarne: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno, però, ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Cosa? "Domanda da un milione di dollari. È stato un baleno, un lampo. Non pensai a nulla, sopraggiunsi all'uscita della curva e trovai quella roba lì, lamiere e fiamme. Dentro poteva esserci chiunque, Niki, Clay Regazzoni, Jackie Stewart. Vedo la macchina in mezzo alla pista, scendo e corro verso l'abitacolo. Dopo di me si fermano Guy Edwards, il cui figlio ha fatto la controfigura del papà in Rush ed è morto in un incidente stradale tre anni fa, e Harald Ertl: con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò, Niki cerca di uscire ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando. "Per fortuna, nel '65, per guadagnarmi 7 giorni di licenza da militare, feci un corso di primo soccorso: gli feci il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale. Rimase in vita così, finché non arrivarono i soccorsi". Il resto della storia la racconta Luca Montezemolo, allora giovane ds della Ferrari: "Il medico mi disse: "Noi non possiamo fare nulla: il problema non sono le bruciature ma le esalazioni, i gas che ha respirato che l'hanno bruciato dentro. Se vuole vivere, deve farlo lui. Deve cercare di restare sveglio e lottare". Mentre il medico diceva così, Niki, lo raccontò lui stesso in seguito, era cosciente e sentiva tutto. Fu allora che cominciò la sua lotta personale per sopravvivere e tornare in pista. "Dopo andai a trovarlo a casa. Era molto dimagrito. Lì per lì non pensammo che ce l'avrebbe fatta a tornare, così ingaggiammo Reutmann. Invece Niki tornò. E fummo costretti a far correre tre macchine. Ricordo ancora oggi le macchie di sangue che si allargavano piano piano nel sottocasco bianco, prima del via a Monza...". A dire il vero, un altro piccolo mistero, in questa vicenda di quarant'anni fa, c'è. Ed è legato a un Rolex. "Tre settimane dopo il rogo, Niki venne a Monza - racconta ancora Merzario - Ma non mi disse niente, né "ciao", né "grazie", né "vaffanculo". Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Per fortuna poi con Niki siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". E l'orologio? Alla fine chi l'ha preso? "Abbiamo promesso di non rivelarlo".
Niki Lauda: "Un miracolo, ma non ho mai ringraziato Merzario". L'ex pilota: "Se fossi pilota oggi avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi che nel passato", scrive Stefano Zaino il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”.
LAUDA, cosa ricorda dello schianto?
"Niente".
Come niente, è stato tra la vita e la morte.
"Dimenticato tutto dopo 42 giorni, quando sono tornato a correre. Cancellata ogni cosa dalla mia mente. Come se non fosse mai successo".
Si spieghi...
"Più l'incidente è terribile, più un pilota deve sforzarsi di eliminare ogni immagine, ogni sensazione. Se ricordi, entri in macchina e tremi e non puoi permettertelo. In quel caso è meglio smettere, ritirarsi".
Invece continuò, perse tre gare, sfiorò il Mondiale e lo vinse l'anno dopo.
"Avevo fiducia in me, sapevo di essere bravo a guidare, non potevo aver disimparato. Mi dicevo: se vai in macchina per strada, puoi anche tornare in pista. Se corri con la Ferrari a Fiorano, perché non potresti farlo in qualsiasi circuito?".
Così sei settimane dopo si presentò a Monza. Ritorno fulmineo e coraggioso, tutti le diedero del pazzo.
"Mi sentivo al meglio, solo che i medici non erano d'accordo. Mi convocarono, mi fecero un sacco di test, mi dissero di non fare il furbo, davano l'impressione di non fidarsi. Mi misero addosso una pressione enorme, ero confuso, e questo mi fece commettere l'errore più grave della mia vita".
Cioè?
"Non dissi mai grazie a Merzario per avermi salvato la vita, non andai mai da lui a stringergli la mano di persona, ad abbracciarlo. E' una cosa di cui mi pento ancora adesso, una ferita che brucia, più delle cicatrici che ho. Sbaglio imperdonabile, a cui, a distanza di anni, spero di porre rimedio".
Di essersi fermato al Fuji, lasciando il mondiale ad Hunt, invece si è mai pentito?
"No. Lo rifarei anche adesso. E non c'entra niente con il mio incidente al Nurburgring. Non si poteva correre, troppa pioggia. Dopo tanti rinvii il direttore di corsa, alle 5 del pomeriggio, decide: tutti in macchina, si corre. Io, furioso, vado a chiedere e mi risponde: esigenze televisive, è la prima volta che siamo in mondovisione. Gli dico che è matto e che non sarà una telecamera a decidere della mia vita. Mi sono fermato, e lo avrei fatto comunque: anche se non mi fossi schiantato al Nurburgring. Non si gioca con le persone".
Le costò un Mondiale.
"No, ho perso perché dopo il Nurburgring ho saltato tre gare".
Avesse corso oggi?
"Magari fossi un pilota oggi. Avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi. Sono salvo per miracolo".
La Fia vuole imporre l'Halo a tutti i piloti, per sicurezza.
"Imporre è sbagliato, ma ridurre i rischi è una buona causa. Salva la vita e non toglie nulla allo spettacolo".
PERCHÉ LO SPORT NON AMA LE DONNE. Trattate economicamente peggio dei maschi, poco rappresentate ai vertici delle federazioni, inseguite dai soliti stereotipi e pregiudizi. La carriera delle sportive italiane è tutta in salita e anche le "star" del nuoto, del tennis o della pallavolo sono costrette a fare i conti con un vecchia legge che impedisce loro di essere professioniste. E poi c'è lo scandalo delle clausole antimaternità: "Molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta", scrive il 20 luglio 2016 “La Repubblica”.
Non si salvano neppure le campionesse, scrive Alice Gussoni. La fotografia che immortala il paradosso forse meglio di qualsiasi altra è quella datata 12 settembre 2015. A conclusione della finale degli Usa Open Flavia Pennetta e Roberta Vinci si abbracciano attraverso la rete del campo di Flushing Meadows. Il mondo del tennis applaude la bravura delle due atlete italiane, ma forse non sa di inchinarsi al cospetto di due dilettanti. Sì, perché se è vero che il conto in banca delle due campionesse non è certo quello di un qualsiasi sportivo amatoriale, formalmente sia Pennetta che Vinci non sono delle professioniste. Colpa di una legge che di fatto vieta alle donne, anche alle più brave e apprezzate dal pubblico, una carriera nello sport. Josefa Idem, ex canoista e campionessa olimpica, ora senatrice e per brevissimo tempo anche a capo del Dipartimento allo sport della presidenza del Consiglio, la spiega così. "Non importa se ti alleni per una o dieci ore al giorno per preparare una gara, la fatica è la stessa dei nostri colleghi uomini ma a differenza di loro restiamo solo delle dilettanti". Secondo la legge 91/81infatti, che in Italia regola il professionismo sportivo, esclusivamente chi pratica calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo viene riconosciuto - e tutelato - come professionista. Ma interessa solo gli uomini, perché nessuna di queste discipline ha una categoria femminile. Non solo, ora anche federazioni di motociclismo e pugilato hanno abolito la categoria "pro". Spesso si attribuisce questa mancanza all'assenza di grandi numeri. Ma non è sempre così. Se consideriamo sport come la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto, le donne tesserate sono molte più degli uomini: 279.893 contro gli 88.050 maschi (dato Legavolley 2014). Il caso è esemplare. Il campionato femminile infatti è diventato un appuntamento fisso sui canali tematici, con un largo seguito di pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a 146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina (Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di share. Eppure ancora non si parla di professioniste. Nel nuoto il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari (su 149.411 atleti il 45% sono donne, dati Fin 2016) senza contare il successo mediatico raggiunto da alcune star come Federica Pellegrini o Tania Cagnotto. Caso a sé, invece, quello della Ginnastica dove su 117mila tesserati l'89% sono donne, anche se qui la storia insegna che non bastano gli ori per guadagnarsi un passaggio in televisione – chi ricorda la vittoria ai World Cup di Pesaro tenutasi questo aprile che ha qualificato ben 12 delle nostre atlete azzurre a Rio 2016? Per gli sport considerati più maschili i numeri sono ancora, ovviamente, favore degli uomini, ma davvero basta? Consideriamo la situazione del calcio in Italia, dove la presenza di giocatrici è esigua: solo 22.564 contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016). Ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante crescita, +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso circa il 17%. "Da quando ho iniziato a lavorare non è cambiato molto e le disparità sono rimaste le stesse", conferma Donatella Scarnati, voce storica della Rai che dal 1978 segue il calcio per la tv pubblica. Nella sua lunga carriera che l'ha portata ai vertici di Rai Sport, dove ora è vice direttore, ha dovuto affrontare spesso la questione del dilettantismo: "Il problema è più ampio direi. Sui campi da calcio, come nelle cabine di regia, le donne sono ancora viste come mosche bianche. Se c'è maschilismo? Purtroppo sì, ma questo è un problema che riguarda un po' tutto il mondo del lavoro". Secondo la senatrice Idem, firmataria di un disegno di legge presentato in Senato per modificare l'attuale 91/81, per superare almeno in parte questa disparità basterebbe aggiungere una parola: "Nel testo si dovrebbe fare riferimento ad atleti ed 'atlete', per aprire la possibilità anche alle donne di accedere alle categorie pro". Una possibilità che finora rimane esclusa. Mancanza attribuibile forse anche al fatto che il governo dello sport nazionale è saldamente in mani maschili. Nonostante negli anni sia cresciuto il numero di campionesse sui podi internazionali, ai vertici delle varie federazioni non si trova traccia di quote rosa. Su 45 sigle infatti non c'è n'è una che sia presieduta da una donna. L'Italia è messa male insomma, ma una volta tanto non è molto distante dal resto del mondo. All'estero la situazione migliora infatti solo leggermente: attualmente il 17% dei dirigenti Cio sono donne, mentre in media su 70 federazioni sportive internazionali sono meno del 10% (dati Uisp 2016). Secondo Evelina Christillin, manager che ha avuto l'onore di presiedere il Comitato Olimpico di Torino 2006, la questione si potrebbe superare proprio attraverso l'inserimento delle famigerate quote rosa: "Posto che non sono il mio ideale, resta il fatto che le federazioni quando si tratta di votare scelgono sempre il criterio della cooptazione. Mentre guarda caso quando si tratta di decidere chi porti avanti un progetto bene e in fretta, come è stato per Torino o adesso per il Comitato Olimpico di Roma, allora si sceglie una donna". Il tema quote rosa al momento non trova però grandi consensi. "Non metto in dubbio la necessità di introdurre dei cambiamenti - spiega il presidente del Coni Giovanni Malagò - ma fino ad oggi le candidature delle donne nei consigli federali sono state pochissime. In ogni caso non siamo noi che legiferiamo. Possiamo solo dare delle indicazioni e in questi anni ci sono state delle evoluzioni, soprattutto in materia di tutela della maternità. Purtroppo c'è ancora molta strada da fare".
Lo scandalo delle clausole anti-mamma, continua Alice GUssoni. In questa vicenda, quello della maternità è in realtà un nervo scoperto, visto che la pratica di pretendere dalle atlete la firma di "clausole anti-gravidanza" non è stata ancora debellata. "Non sono poche le denunce delle atlete a riguardo - dice Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive - In molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l'espulsione immediata dalla società e il rischio non poter più tornare a gareggiare". Sullo stesso chiodo batte anche la Idem: "Esiste tutto un sommerso di cui veniamo a conoscenza solo quando la gravidanza viene portata avanti. Io ho fatto le Olimpiadi incinta e da puerpera e per non saltare le gare ho messo in piedi un'organizzazione molto articolata, perché c'è un vuoto di norme. Il Coni dà delle direttive per quanto riguarda la maternità delle atlete, ma solo poche federazioni le hanno recepite, ad esempio congelando il ranking nel periodo in cui un'atleta è ferma per gravidanza o maternità". Il caso di cronaca più recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo, che per essersi assentata dai ritiri previsti dalla Federazione italiana tennis tavolo in seguito alla maternità ha subito l'esclusione dalle Olimpiadi di Rio. Con il risultato che l'Italia non avrà atleti in gara per questa disciplina. Risolvere il problema non si presenta però affatto facile. Sono in molti a credere che il sistema sportivo, per come è oggi strutturato, non avrebbe le risorse necessarie per garantire un contratto per tutti. Il professionismo porta con sé oneri a volte insostenibili per le piccole società sportive, che però al momento sono aggirati con pagamenti fuori busta, spesso spacciati per rimborsi spesa. Secondo Luisa Rizzitelli il nodo è proprio quello del non considerare lavoro quello che invece lo è di fatto: "Pagare o meno i contributi non è una questione di genere femminile o maschile. Questo vale per tutti e non può essere lasciato a discrezione di chi gestisce le società".
Compensi "in nero" e inferiori ai maschi, scrive Alice Gussoni. Una questione di genere è invece quella dei compensi. Mediamente i guadagni delle atlete sono inferiori di circa il 30% rispetto a quelli dei loro colleghi uomini. Situazione che non riguarda solo il movimento di base, ma anche l'elite: nella classifica di Forbes fra i cento atleti più pagati al mondo si trovano solo due donne (Serena Williams 28,9 milioni di dollari, 40° posto, e Maria Sharapova, 21,9, 88° posto). Discriminazione favorita spesso da regole federali obsolete. Per il calcio, ad esempio, il tetto massimo per il dilettantismo è di 22mila 500 euro annui. Il che significa che tutte le donne che giocano a calcio, anche in serie A1, non possono guadagnare di più. Resta comunque difficile quantificare gli stipendi medi delle giocatrici, soprattutto perché non trattandosi di una lega professionistica i club non sono tenuti a depositare i contratti e l'abitudine ai pagamenti in nero è nota anche nei corridoi della Figc. L'unica alternativa è quindi quella di trovare degli sponsor, ma per quelli non basta la bravura. "A parità di carriera sportiva alla fine quello che conta è la bellezza", afferma Josefa Idem. Dal calcio alla pallacanestro, il quadro non cambia. "La passione per lo sport si paga cara", dice Silvia Gottardi, ex nazionale di basket femminile: "E pensare che in Turchia la pallacanestro arriva a stipendiare le giocatrici con cifre a sei zeri". All'estero le donne sembrano godere di maggior fortuna. Nel calcio made in Usa la loro carriera sportiva in serie A porta a guadagni oltre i 150mila dollari a stagione. Stesso trattamento in Francia, dove il record lo stabilisce Marta Vieira da Silva, considerata la miglior giocatrice di sempre, con un ingaggio di 220mila euro. Katia Sera, ex campionessa di calcio ora commentatrice di Rai Sport, non usa mezzi termini: "Io sono diventata più famosa ora che lavoro come commentatrice che per le mie 25 presenze in Nazionale e ancora oggi si guarda con sospetto a una donna che parli di calcio. Addirittura è successo che mi dessero deliberatamente le formazioni delle squadre sbagliate per mettermi in difficoltà. La frustrazione deriva da questo continuo essere messe alla prova: si deve lavorare il doppio per avere la metà dei riconoscimenti e comunque non basta mai".
Se iniziare è difficile, smettere è pericoloso, scrive Arianna Di Cori. Breve ma intensa. La carriera sportiva agonistica è imprescindibilmente legata a questi due aspetti e per qualsiasi atleta arriva, molto prima che nelle altre categorie professionali, il momento del ritiro. Certamente appendere gli scarpini al chiodo non sarà stato così traumatizzante per David Beckam, secondo solo a Michael Jordan nella classifica di Forbes degli atleti "in pensione" più pagati del 2016: rispettivamente 65 milioni e 110 milioni di dollari tra sponsor e business a loro legati. Anche in Italia basta accendere la televisione per ritrovare volti noti dello sport prestarsi a spot pubblicitari di ogni tipo, con una netta predominanza di uomini. Ma tolte le eccezioni, il problema legato alle tutele previdenziali per gli atleti e, soprattutto, per le atlete, non è da poco. "Quando si è giovani si pensa solo ad allenarsi e a vincere, nessuno pensa alla pensione", spiega Manuela Di Centa, ex campionessa olimpica di sci di fondo, una delle prime donne a spiccare con la maglia azzurra in uno sport considerato "maschile" ed ex parlamentare del Pdl (dal 2008 al 2013) oltre che membro onorario del Cio. Che il problema esista e sia di una certa rilevanza lo conferma anche la recente presa di posizione del presidente dell'Inps, Tito Boeri, che ha parlato della necessità di estendere il contributo previdenziale obbligatorio a tutti gli sport. La proposta di Boeri muove soprattutto dal caso calcio e dalla piaga dei pagamenti in nero in LegaPro "Il 75% dei calciatori della Lega Pro ha retribuzioni nette di 30.000 euro l’anno e carriere brevi con una durata di circa 12 anni - ha sottolineato Boeri - questo dà diritto a una pensione di vecchiaia di 10.000 euro". Di certo non sono pensioni d'oro. Ma il calcio, ammette Boeri, è il male minore. "Ci sono tantissimi altri sportivi per cui non esistono forme di contribuzione obbligatoria, come nella pallavolo". La pallavolo, come già detto, non rientra tra i sei sport per cui esiste la categoria del professionismo e il conseguente obbligo per le società a versare contributi. Come fanno dunque tutti gli altri sportivi e, soprattutto, il vasto oceano di atlete che, a prescindere dal livello e dai successi raggiunti, restano formalmente delle dilettanti e potrebbero dover anticipare la fine della carriera da un'eventuale maternità? "La risposta è molto semplice: ad oggi non ci sono soluzioni", taglia corto la Di Centa. Le alternative dunque non sono molte: o gli sportivi sono dipendenti pubblici, ad esempio coloro che fanno parte di un corpo militare, e dunque hanno diritto ad una copertura previdenziale indipendentemente dalla carriera sportiva, oppure continuano a lavorare in qualità di tecnici (ma questo sbocco per le donne è fortemente osteggiato). L'ultima opzione, infine, è quella di riciclarsi completamente, trovando un lavoro del tutto diverso. Scelta non facile però di cui dal 2001 si occupa l'Athlete Career Programme, un’iniziativa di carattere internazionale per aiutare gli atleti ritirati nel reinserimento lavorativo. Per tutti gli altri si spalancano invece le porte della povertà. Di sportivi un tempo celebrati e oggi indigenti ne esistono tantissimi. La legge 86 del 15 aprile 2003 ha istituito il fondo "Giulio Onesti", che porta il nome del primo presidente Coni e che rappresenta la "Bacchelli" dello sport. Ogni anno a massimo viene assegnato un vitalizio che si aggira tra i 7 e i 17mila euro ad un massimo di 5 tra gli "sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico [...] qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico". Dal 2003 su 29 beneficiari solo due donne compaiono nella lista: Nidia Pausich, ex cestista, 136 gare con la Nazionale Italiana, e Bina Colomba Guiducci, campionessa del mondo di tiro al piattello nel 1969, e prima donna a vincere un titolo mondiale. Ma chi dovrebbe farsi carico di queste atlete e atleti? Lo sport è sotto il Dipartimento degli Affari Regionali, in delega dal 2014 al 2015 a Graziano Delrio. Ma oggi non è il ministro Enrico Costa ad occuparsene, bensì il capo dipartimento Antonio Naddeo, un funzionario. A detta di fonti interne al dipartimento "è una situazione nebulosa, perché non si sta facendo politica dello sport". Lo Stato, aggiungono "può fare poco o niente". Fino alla riforma Fornero i contributi degli sportivi professionisti confluivano nelle casse dell'Enpals, dunque sportivi e lavoratori dello spettacolo ricevevano lo stesso trattamento. "Ma certo un attore può lavorare fino agli 80 anni, la situazione per noi sportivi che lavoriamo con il nostro corpo è molto diversa", conclude Di Centa.
Il modello francese e le proposte italiane, continua Arianna Di Cori. Come avviene in molti altri campi, anche il ritardo italiano nelle "pari opportunità sportive" può essere misurato sulle indicazioni che arrivano dall'Europa. Risale infatti al lontano 2003 una risoluzione con cui il Parlamento di Strasburgo chiedeva agli Stati membri; di assicurare alle donne pari accesso alla pratica sportiva; sostenere lo sport femminile, sollecitando a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e femminili nelle discipline ad alto livello; di garantire, da parte delle federazioni sportive nazionali, gli stessi diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle carriere sportive. Gli Stati membri e le autorità di tutela venivano sollecitate infine a condizionare la propria autorizzazione e il sovvenzionamento delle associazioni sportive a disposizioni statutarie che garantiscano una rappresentanza equilibrata delle donne e degli uomini a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali. Parole al vento, come abbiamo visto, ma una volta tanto siamo in buona compagnia. Tra i pochi paesi che hanno preso queste raccomandazioni alla lettera c'è la Francia, dove riservare posti per le donne nel sistema dirigenziale dello sport è un sistema consolidato. Le quote sono stabilite nelle regole federali (federazioni, leghe, società sportive), mentre a livello nazionale il numero delle donne nei comitati esecutivi deve essere proporzionale al numero di donne tesserate. Altro modello positivo, stavolta extra Ue, è quello della Norvegia. Nello Stato scandinavo la regolazione sulle pari opportunità di genere dichiara che ogni sesso deve essere rappresentato con almeno il 40% quando un organismo pubblico elegge comitati, direttivi, consigli, ed entrambi i sessi devono essere presenti in comitati sopra le due persone. In Italia siamo fermi invece ad un lungo elenco di proposte di legge bloccate da anni in Parlamento. La più recente è quella presentata nel novembre 2014 dalla deputata del Pd Laura Coccia per modificare gli articoli 2 e 10 della legge 91 del 1981 in materia di applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico. Prima di lei a cambiare le cose ci aveva provato nel 2011 la collega Manuela Di Centa del Pdl, con la proposta di istituire un contributo obbligatorio per creare una cassa previdenziale dello sport, in grado, tra le altre cose, di tutelare le atlete in maternità.
Le icone artefatte della sinistra. Ali prima di Ali, come nasce un mito. Lo scrittore. Intervista del 4 giugno 2016 su “Il Manifesto” di Guido Caldiron a Alban Lefranc, autore de «Il ring invisibile» sulla vita romanzata del campione da giovane: «Non si può capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva intorno». «Nei momenti di maggiore intensità, la boxe pare contenere un’immagine della vita così completa e potente – la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo – che è davvero vita, e nient’affatto gioco», scrive Joyce Carol Oates nel suo saggio Sulla boxe. Un grumo di sentimenti e di emozioni, di forza e di fragilità che Alban Lefranc, scrittore, traduttore e poeta francese, nato a Caen nel 1975, e che vive da tempo tra Parigi e Berlino, già autore di diverse biografie narrative dedicate a personaggi della cultura come dello spettacolo, ha cercato di cogliere ne Il ring invisibile, il suo libro dedicato a Muhammad Ali uscito da qualche anno per la casa editrice romana 66thand2nd. Un volume affascinante dove è il pugile stesso a raccontare la propria biografia, ricostruita in realtà da Lefranc a metà strada tra realtà e finzione narrativa, come un lungo e inesorabile corpo a corpo con la storia.
La sua scomparsa non aggiunge nulla alla figura di un uomo che è divenuto un mito quando era in vita. Lei perché ha scelto di raccontare in forma narrativa una parte della vita di Muhammad Ali?
«Sono partito dall’icona che ha rappresentato, per me come per il resto del mondo, per poi cercare di scoprire le fragilità dell’uomo, la sua anima, se così si può dire, proprio oltre il mito che era diventato, in qualche modo oltre e nonostante la sua maschera pubblica. Frequento una palestra di boxe da alcuni anni e ciononostante continuo a chiedermi perché non sia vietata e cosa ci affascini così tanto nel vedere due persone che si prendono a pugni fino a farsi davvero male. Volevo cercare di ricostruire attraverso la scrittura gli stati d’animo estremi che caratterizzano i campioni del pugilato. Ali è stato questo, elevato all’ennesima potenza, ma è stato anche uno dei simboli più forti e duraturi della comunità afroamericana, amico di Malcom X e dei Black Muslims. Un uomo che ha combattuto, sul ring come fuori, che ha vinto e che a perso ma che si è sempre messo in gioco, a cominciare da quel corpo che lo ha reso celebre ma che da tanto tempo minacciava ogni giorno di abbandonarlo a causa della malattia.
«Il ring invisibile» non parla tanto di Muhammad Ali, del campione ribelle che ha fatto sentire la sua voce ovunque, quanto piuttosto del giovane Cassius Clay, del ragazzo che sceglie la boxe per cercare di cambiare la sua vita, perché?
«Perché il mito di Alì, la sua leggenda dorata, è già stata raccontata, è già nota a tutti noi. Mentre invece il modo in cui tutto è cominciato per il giovane Cassius Clay è praticamente ignoto ai più. Diciamo che sono partito alla scoperta di “Ali prima di Ali” proprio per cercare di decifrare l’origine di quello chi si trasformerà poi in una sorta di icona pop, cogliere le sue contraddizioni, la sua fragilità così ben mascherata da un fisico possente. Volevo comprendere e cercare di raccontare il modo in cui il suo giovane corpo si è definito, plasmato, fino a diventare a un tempo la fortezza e la prigione di quest’uomo.
Nel libro, Cassius Clay, ancora ragazzo, decide di diventare un pugile dopo che un suo coetaneo di 13 anni, Emmett Till, un giovane nero di Chicago in vacanza nel Mississippi viene linciato dai razzisti, che ne sfigurano anche il volto, perché aveva osato guardare una donna bianca, era il 1955. Questa drammatica vicenda fu davvero decisiva?
«Senza dubbio, è quello che lui stesso ha raccontato più volte in seguito. Nello scrivere la sua storia ricordo come fu suo padre, in uno dei rari momenti in cui non era ubriaco, a raccontare l’accaduto a Cassius e come lui avesse reagito con rabbia e disgusto, identificandosi del tutto con la vittima. Così, gli faccio dire: «Ascolta la mia promessa Emmett: a te che non hai più la faccia, io darò la mia. Andrai nel mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Credo non si possa capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva visto, e ha continuato a vedere fino ad oggi, intorno a sé.
Alì: libri film e gallerie, mito anche nell'arte. Ispirò premi Oscar e Pulitzer: "Il combattimento" opera storica, scrive "L'Ansa" il 04 giugno 2016. La farfalla non vola più, l'ape non punge. Ma a testimonianza di cos'è stato Cassius Clay/Muhammad Ali, il campione della gente, rimarrà la quantità innumerevole di libri, documentari e anche film che lo hanno celebrato come eroe dei tempi moderni. Una mole di 'documenti' che è stata riservata a pochi grandi personaggi del Ventesimo secolo. Ali è stato scrittore di se stesso, con l'autobiografia "Con l'anima di una farfalla" scritta assieme ad Hana Yasmeen Ali, una delle sue figlie. Il libro più celebre su di lui rimane invece, probabilmente, "Il Combattimento", che il premio Pulitzer Norman Mailer scrisse sul mitico match che oppose Ali e George Foreman a Kinshasa. Lo stesso evento venne immortalato nel memorabile film-documentario "Quando eravamo Re" che vinse un meritato Oscar. Un altro libro che ha decantato il mito dell'ex campione del mondo e' stato "Il Re del Mondo" dell'altro premio Pulitzer David Remnick, emozionante testimonianza della vita e delle idee del Più Grande. Altra perla è sicuramente "Facing Ali", "Affrontare Ali", per scrivere il quale l'autore Stephen Brunt, altro documentatissimo cantore del pugile, è andato a intervistare quindici fra coloro che avevano affrontato il Piu' Grande sul ring. Il concetto che ne emerge è che praticamente tutti, da Hunsaker a Cooper, da Chuvalo a Frazier, da Foreman a quel Wepner che ispirò a Stallone la storia di Rocky, diventarono più noti, e la loro vita cambiò drasticamente, per il semplice fatto di essere entrati in contatto "con la forza che era Muhammad Ali". E per questo ancora oggi gli sono grati. Nel lungo elenco di libri su Ali ci sono poi "His life and times" di Thomas Hauser e l'edizione celebrativa "monumentale", uscita per la prima volta nel 2003 e poi ripubblicata, "Greatest of All Time" della casa editrice Taschen. L'edizione "De Luxe", autografata dall'ex campione del mondo, e la cui prima copia è stata donata allo stesso Ali, costava 3.000 euro. Questo libro, anche nella sua versione meno costosa, ma comunque di notevoli dimensioni, è stato definito un capolavoro assoluto nel campo dei libri fotografici. In copertina c'è la celebre foto del Ko inflitto da Clay a Sonny Liston. Sul sito ufficiale di Ali veniva invece venduto "The Official Treasures of Muhammad Ali", altra chicca da non perdere che conteneva riproduzioni identiche agli originali di contratti firmati dall'ex fuoriclasse, biglietti e volantini dei suoi incontri. Fece epoca anche il fumetto della DC Comics, quelli di molti Supereroi, "Superman vs. Muhammad Ali" in cui i due si affrontavano per salvare il mondo dagli Alieni. Ebbe un successo planetario vendendo milioni di copie e per via delle richieste è stato ristampato anche pochi anni fa, in Italia dalla De Agostini. Una curiosità: nel celebre disegno della copertina, con i due superuomini sul ring, fra il pubblico viene raffigurato anche Pelè. Pure in Italia Clay/Ali ha avuto molti cantori, primo fra tutti l'amico Gianni Minà. Sul grande schermo va invece ricordato il film "Ali" in cui la parte del Più Grande" è stata interpretata da Will Smith, che poi ha più volte ricordato di quanto si sia sentito orgoglioso per essere stato scelto per un ruolo del genere.
Mohammed Alì, un mito ma non "il più grande", scrive Roberto Marchesini il 05-06-2016 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande». Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone – proibiti dal regolamento – che solo un profano può scambiare per dei ganci (per un approfondimento sulla boxe di Mohammed Alì e sul suo significato clicca qui). E qui la faccenda si fa interessante. Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto? Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì. E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive – non senza una punta di involontario razzismo – il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice. È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo. Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»). Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna. Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro. Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo). Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta. Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.
Il vero Alì. Per gentile concessione di Edoardo Perazzi, erede di Oriana Fallaci, il 5 giugno 2016 “Libero Quotidiano” pubblica ampi stralci dell’intervista con Mohammed Alì che la scrittrice fiorentina realizzò per L’Europeo. Il testo uscì il 26 maggio 1966, col titolo “Che aspettano a farmi presidente di uno Stato dell’Africa?”. L’intervista è contenuta nel volume antologico “Le redici dell’odio. La mia verità sull’Islam”, uscito per Rizzoli nel 2015 e appena ristampato in edizione economica.
"Un pagliaccio simpatico, allegro, e innocuo. Chi non ricorda con indulgenza le sue sbruffonate, le sue bugie, i suoi paradossi iniziati alle Olimpiadi di Roma quando mise in ginocchio ben quattro avversari, un belga un russo un australiano un polacco, e la medaglia d' oro non se la toglieva neanche per andare a letto, imparò per questo a dormire senza scomporsi, Dio me l'ha data e guai a chi la tocca. Nei ristoranti, nei night-club, entrava avvolto in una cappa di ermellino, in pugno uno scettro: salutate il re, io sono il re. Per le strade girava guidando un autobus coperto di scritte inneggianti alla bellezza, la sua bravura, o una Cadillac color rosa salmone, i cuscini foderati in leopardo. Sul ring combatteva gridando osservate come mi muovo, che eleganza, che grazia, e se lo fischiavano rideva narrando che il primo pugno lo aveva tirato alla mamma a soli quattro mesi, sicché la poveretta cadde knock out mentre i denti schizzavano via come perle di una collana. Un'altra menzogna, s'intende, dovuta al suo primitivo senso dell'humour; non avrebbe fatto torto a una mosca. Da quell' humour e dalla sua vanagloria fiorivano poesie divertenti: «La mia storia è quella di un uomo / nocche di ferro, di bronzo la pelle / Parla e si gloria d' avere / il pugno possente, ribelle / Son bello, son bello, son bello / il più grande di tutti, io / nel duello». La boxe aveva trovato con lui un nuovo astro, un personaggio quasi degno di Rocky Marciano, Joe Luis, Sugar Robinson. Era il simbolo di un'America fanfarona e felice, volgare e coraggiosa, priva di lustro ma piena di energia. Si chiamava, a quel tempo, Cassius Marcellus Clay. Ora si chiama Mohammed Alì ed è il simbolo di tutto ciò che bisogna rifiutare, spezzare: l'odio, l'arroganza, il fanatismo che non conosce barriere geografiche, né differenza di lingue, né colore della pelle. I Mussulmani neri, Neri, una delle sette più pericolose d' America, Ku-Klux-Klan alla rovescia, assassini di Malcom X, lo hanno catechizzato ipnotizzato piegato. E del pagliaccio innocuo non resta che un vanitoso irritante, un fanatico cupo ed ottuso che predica la segregazione razziale, maltratta i bianchi, pretende che un'area degli Stati Uniti gli sia consegnata in nome di Allah. Magari per diventarne capo: il sogno che quei mascalzoni gli hanno messo in testa approfittando del fatto che non capisce nulla, sa menar pugni e basta. Bisognava vederlo, mi dicono, quando a Chicago partecipò al raduno di cinquemila Mussulmani neri e, il pugno alzato, gli occhietti iniettati di sangue, malediceva Lincoln, Washington, Jefferson, altri bravissimi morti, strillava: «Entro il 1960 tutti i neri d' America saranno con noi, pregate per l'anima e il corpo dei nostri nemici, chi non è con noi è nostro nemico». (...) I Mussulmani neri, che hanno bisogno di un martire nella stessa misura in cui cercano pubblicità, lo istigano continuamente al litigio e sarebbero molto contenti di vederlo in prigione. Dove prima o poi finirà se si ostina a non fare il soldato con la scusa che lui appartiene ad Allah, non agli Stati Uniti. E questa sarebbe la patetica fine di un uomo che l'ignoranza e la facile fama distrussero mentre cercava di diventare un uomo. Ciò che segue è la cronaca bulla ed amara di due giorni trascorsi a Miami nell' ombra di Cassius Clay, alias Mohammed Alì, campione mondiale dei pesi massimi, eroe sbagliato dei nostri tempi sbagliati. Con l'aiuto del magnetofono e del taccuino ve la do così come avvenne. Era la vigilia del suo incontro con l'inglese Henry Cooper. La palestra dove si allena il pugile oggi più famoso del mondo è situata a Miami Beach, non lontano dal mare, sopra un negozio per pulire le scarpe. Il pubblico è ammesso per mezzo dollaro quando lui non c'è, un dollaro quando lui c' è. Lui c'è di solito all' una: seguito da una scorta di Mussulmani neri come un torero dalla sua quadrilla. Prima d' essere rinnegato per le sue idee non sufficientemente estremiste, lo seguiva ogni tanto anche Malcom X che nell' estate del 1963 gli donò il suo bastone d' avorio nero. (…)
Non le dispiacque, Mohammed, di cambiar il suo nome?
«Al contrario era duro avere il nome che avevo perché il nome che avevo era il nome di uno schiavo Cassius Marcellus Clay era un bianco che dava il suo nome ai suoi schiavi ora invece ho il nome di Dio. Mohammed Alì è un bel nome Mohammed Alì che bel nome Mohammed vuol dire Degno di Tutte le Lusinghe Alì vuol dire Il più Alto è il minimo che merito e poi gli uomini dovrebbero chiamarsi così mica signor Volpe signor Pesce signor Nonsocché gli uomini dovrebbero avere il nome di Allah. Sicché io mi arrabbio quando la gente mi ferma e mi dice signor Clay posso avere il suo autografo signor Clay io rispondo non Clay, Mohammed Alì. [...]».
Ma se è tanto cambiato, Mohammed, perché continua ad insultare i suoi avversari e ad odiarli?
«Io non li odio come esseri umani li odio come individui perché tentano di farmi del male tentano di mettermi knock out tentano di rubarmi il titolo di campione dell'intero mondo, io sono campione dell'intero mondo e non sta a loro pugili levarmi il titolo di campione dell'intero mondo a me che ho sempre tirato pugni capito? [...] E poi li odio perché hanno i nervi di salire sul ring sapendo che sono bravo come sono, grande come sono questo mi fa imbestialire così li insulto. E poi li insulto perché così perdon la testa e quando un uomo perde la testa diventa più debole e casca giù prima come accadde con Liston al quale Liston dicevo che è brutto, brutto come un orso, bè non lo è? E poi gli dico vigliacco coniglio crepi di paura fai bene ad avere paura perché da questo ring tu esci morto, hai voluto sfidarmi vigliacco vedrai cosa ti tocca. Loro non lo sopportano e vinco [...]
Ma non le prende mai il dubbio che un giorno qualcuno le possa suonare a lei?
«Io non ho dubbi perché non ho paura e non ho paura perché Allah è con me e finché Allah è con me io rimango il campione dell'intero mondo, solo Allah può mettermi knock out ma non lo farà. Io non ho dubbi perché l'uomo che batterà Mohammed Alì non è ancora nato [...]. Io durerò ancora per quindici anni e poi a quarant' anni mi ritirerò nella campagna perché ho trecento acri di terra vicino a Chicago e ho anche comprato due trattori e con quelli ci coltivo i cavoli e i pomodori e le galline [...] E con quel cibo diventerò molto ricco e comprerò un aereo da seicentomila dollari e poi voglio una limousine in ogni città d' America per ricevermi all'aeroporto e poi voglio uno yacht da duecentomila dollari ancorato a Miami e poi voglio una di quelle case che ho visto sulle colline di Los Angeles a centocinquantamila dollari perché il paradiso io non voglio in cielo da vecchio io lo voglio sulla terra da giovane. [...]
Mohammed, ha mai letto un libro?
«Che libro?»
Un libro.
«Io non leggo libri non ho mai letto libri io non leggo nemmeno i giornali ammenoché i giornali non parlino di me io ho studiato pochissimo perché studiare non mi piaceva non mi piace per niente si dura troppa fatica e non è affatto vero che io volevo diventare dottore ingegnere. Gli ingegneri i dottori devono lavorare ogni giorno ogni notte tutta la vita con la boxe invece uno lavora per modo di dire in quanto si diverte e poi con un pugno si fa un milione di dollari all' anno. [...] Come quando mi chiamarono alle armi e mi fecero l'esame della cultura mi dissero se un uomo ha sette vacche e ogni vacca dà cinque galloni di latte e tre quarti del latte va perduto quanto latte rimane? Io che ne so. [...] E così dicono che sono inabile ma d' un tratto scoprono che non sono inabile affatto per morire nel Vietnam sono abilissimo eccome ma io questo Vietnam non so nemmeno dov' è io so soltanto che ci sono questi vietcong e a me questi vietcong non hanno fatto nulla sicché io non voglio andare a combattere coi fucili che sparano io non appartengo agli Stati Uniti io appartengo ad Allah che prepara per me grandi cose».
Quali, Mohammed?
«[...] Magari divento il capo di un territorio indipendente oppure il capo di qualche Stato in Africa magari di quelli che hanno bisogno di un leader e così pensano abbiamo bisogno di un leader perché non prendiamo Mohammed che è bravo e forte e coraggioso e bello e religioso e mi chiamano perché sia il loro capo. Perché io non so che farmene dell'America degli americani di voi bianchi io sono mussulmano...».
Mohammed, chi le dice queste cose?
«Queste cose me le dice l'onorevole Elijah Mohammed messaggero di Allah ma ora basta perché voglio andare a dormire io vado presto a dormire perché la mattina mi alzo alle quattro per camminare».
N.B. Elijah Mohammed è il capo dei Mussulmani neri. Lo divenne dopo l'assassinio di Malcom X. Abita a Chicago, in una villa di diciotto stanze, viene dalla Georgia. Ha studiato fino alla quarta elementare ed è stato in carcere più volte, per crimini e infrazioni diverse. Suo figlio è il vero manager del Campione e si fa pagare dal Campione, per questo, non so quante centinaia di dollari la settimana. (...)
Le è dispiaciuto, Mohammed, divorziar dalla moglie?
«Nemmeno un poco è stato come voltare la pagina di un libro le donne non devono andare in giro mostrando le parti nude del corpo come i selvaggi come le vacche come i cani come fa lei è un vero scandalo. Un uomo deve avere una moglie che gliela guardano con ammirazione rispetto lo dice anche Elijah Mohammed apri la TV e cosa vedi, vedi le donne nude che cantano che reclamizzano le sigarette vai nei negozi e che vedi, vedi le donne nude che comprano le cose non è decente le donne hanno perso tutta la morale non è decente non è decente non è decente».
Mohammed, perché non mi guarda negli occhi? È arrabbiato?
«Non sono arrabbiato nella mia religione ci insegnano a non guardare le donne noi le donne le avviciniamo in modo civile parlando prima coi genitori per chiedergli se ci danno il permesso di guardar la ragazza come in Arabia come nel Pakistan come nei paesi dove si crede al Dio giusto che si chiama Allah non si chiama Geova o Gesù. E poi non mi piace questo mischiarsi coi bianchi lei cosa ci fa qui con me cosa vuole da me come prima cosa è una donna come seconda cosa è una bianca io se fossi in Alabama voterei per il governatore Wallace che non mischia i bianchi coi neri, io non voto per quelli che dicono oh io voglio bene ai neri io non voto pei neri come Sammy Davis che si sposan la bionda, cobra, serpenti, la gente dovrebbe sposare la gente della sua razza. Lo dice anche Elijah Mohammed i cani stanno coi cani i pesci stanno coi pesci gli insetti con gli insetti i bianchi coi bianchi è la natura è la legge di Dio è scritto perfin nella Bibbia che a voi piace tanto e questa integrazione cos' è? [...] Io non sono americano io non mi sento americano io non voglio essere americano io sono asiatico nero come la mia gente che voi bianchi avete portato qui come schiavi e si chiamavano Rakman e Assad e Sherif e Shabad e Ahbad e Mohammed e non John e George e Chip e pregavano Allah che è un dio molto più antico del vostro Geova o del vostro Gesù e parlavano arabo che è una lingua assai più vecchia del vostro inglese che ha solo quattrocento anni, ed ora queste cose le so per via di Elijah Mohammed che amo più della mia mamma».
Più della mamma, Mohammed?
«Certo sicuro più della mamma perché la mia mamma è cristiana Elijah Mohammed mussulmano e per lui potrei anche morire per la mia mamma no che a voi bianchi piaccia o non piaccia».
N.B. Eppure v' è qualcosa su cui meditare in questo ignaro al quale fanno credere che la lingua inglese abbia solo quattrocento anni, che Maometto sia nato prima di Cristo, che Elijah Mohammed vada amato più della mamma colpevole d' esser cristiana. V' è qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile in questo ragazzo che vuole sapere chi è, chi fu, da dove venne, e perché, e quali furono le sue radici tagliate. Nel suo fanatismo v' è come una purezza, nella sua passione v' è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica. (...) Scrivo questi appunti sull' aereo che mi riporta a New York dove spero di sfuggire ai Mussulmani neri che sono arrabbiati con me. E quando i Mussulmani neri sono arrabbiati con te l'unica cosa è darsela a gambe al più presto e più lontano che puoi. Perbacco che corsa. [...]
Alì, ne hanno fatto un santino...ma era un «bastardo islamico», scrive “Piero Sansonetti” su “Il Dubbio” il 6 giugno 2016. È morto Alì, il più grande pugile di tutti e tempi. Il mondo intero in questi giorni lo sta celebrando, con frasi bellissime e tanta ammirazione. «Era un genio, era un uomo buono». Gli intellettuali in prima linea. I grandi giornali. Non è vero: non era buono. Per usare una espressione che recentemente ha fatto fortuna nel dibattito politico italiano, Alì era un «Bastardo islamico», era un picchiatore selvaggio che infieriva su tutti e soprattutto sul suo paese. Era un nemico dell’America. E l’America lo trattò da nemico. Lo condannò a cinque anni di prigione, lo mandò in esilio, gli tolse il titolo mondiale dei massimi. Muhammad Alì, lo sapete tutti, si chiamava Cassius Clay, e ripudiò il suo nome il 6 marzo del 1964, a 22 anni, un paio di settimane dopo aver spedito al tappeto Sonny Liston, un toro nero di dieci anni più grande, che sembrava invincibile, eterno. Decise di chiamarsi Muhammad Alì e divenne un sostenitore di Malcolm X, rivoluzionario separatista afroamericano, che predicava la religione musulmana, non voleva l’integrazione e chiamava i neri alla lotta violenta. Alì quel giorno, sfoderando il suo ghigno - dolce, certo, ma ferocissimo - disse ai giornalisti: «Sono un guerriero della causa musulmana». Beh, pensate un po’ se oggi un campione sportivo dichiarasse qualcosa del genere, come lo tratterebbero i giornali e i capi della politica! Allora non fu molto diverso. Né lì in America né in Italia. Il ‘68 doveva ancora venire e anche il movimento pacifista americano era agli albori. Alì fu un precursore del movimento pacifista. Era un pacifista violento. I giornali non lo avevano per niente in simpatia. Non potevano ignoralo, certo, perché al mondo non era ancora apparso, né apparirà, un pugile bravo come lui. Combatteva senza mai alzare la guardia, si difendeva schivando, danzava con una grazia incredibile, era uno spettacolo vederlo sul ring, e poi, a un certo momento, vibrava un colpo micidiale e mandava giù l’avversario. Era rarissimo che Alì prendesse lui un colpo, nei primi anni della sua carriera, fin quando, a 25 anni appena, fu costretto a interromperla per via del suo rifiuto di andare a sparare ai vietcong. I giornali ne parlavano, ma continuavano a chiamarlo Cassius Clay. Un po’ perché il nome era più semplice - e più breve nei titoli - un po’ perché erano razzisti. Allora il razzismo contro i neri era davvero molto diffuso. Specie in America, naturalmente. Un po’ come è oggi il razzismo, qui da noi, contro gli immigrati. Era senso comune tra i bianchi e nell’establishment. Alì, che era un ragazzetto che veniva dal Kentucky, da Louisville, trasformò la sua incredibile abilità di boxer in strumento politico. E iniziò una battaglia furibonda, un corpo a corpo contro il razzismo. Parliamo dei primi anni ‘60, quando in Alabama un governatore democratico si rifiutava di far entrare nell’università gli studenti neri. E quando un giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, che si chiamava Colin Powell (ed era destinato dopo qualche anno a diventare il capo delle forze armate) si sentì dire, entrando in un bar: «Non serviamo i negri, ragazzo. Se vuole può accomodarsi alla porta di servizio». E’ in quel clima lì che Alì si unisce a Malcolm X, capo della “Nazione Islamica”, e fonde boxe e politica. Non parte per il Vietnam, come sapete, spiegando che a lui «i vietcong non lo hanno mai chiamato nigger». E paga, paga cara questa sua impuntatura. Milioni e milioni di dollari al vento. E poi la condanna a 5 anni di prigione. E l’esilio. E il titolo perduto. E la più fantastica carriera che mai un pugile abbia avuto, bloccata a 25 anni, quando era ancora un ragazzino. Capite che vuol dire? Voi credete che c’è molta gente disposta a rischiare tutto - patrimonio, fama, successo, agiatezza - per un’idea pacifista? Così fece Alì, che tutti chiamavano Clay. E così costruì la sua fama, creando provocazioni, sfidando i bianchi, e sfidando l’America, perché l’America era guerra, era potere bianco, era conformismo, ipocrisia. Oggi lo commemorano, con tanta retorica, molti di quelli che lui odiava. Se la prendeva anche coi neri, spesso, se erano integrati. Li chiamava zio Tom. Si riferiva al personaggio del celebre romanzo della scrittrice antischiavista Harriet Stowe, il quale era un negro che amava il suo padrone, e si sottometteva. Alì ballava sul ring, sempre con le braccia basse, lungo i fianchi, e gridava all’avversario: «coraggio, zio Tom, vieni avanti!». E quello allora avanzava e provava a colpirlo, ma Alì, con un balzo, non c’era più. Spuntava da un altro angolo del ring e di nuovo ringhiava e rideva: «Avanti, zio Tom, vieni... vieni qui che ti uccido». La Capanna dello zio Tom era un romanzo ambientato in Kentucky. Giusto nella terra di Alì. Cioè nello Stato dove nacquero le leggi del Jim Crow. Le conoscete queste leggi? Erano un pacchetto di norme che - dopo la liberazione degli schiavi e la fine della guerra civile - erano riuscite, in una grande svolta reazionaria, a ristabilire la discriminazione razziale, al Sud, e la sottomissione dei neri. Si chiamavano così per via di uno spettacolino, molto famoso, proprio a Louisville, dove un certo Jim Crow era il ridicolo personaggio, sgrammaticato e da tutti umiliato, che rappresentava la figura del nero-standard. Ne ha parlato anche Bob Dylan di quelle leggi, in una canzone molto nota del 1965, dedicata ad Emmet Till, un ragazzino di 14 anni ucciso a frustate e poi annegato dai razzisti, in Mississippi: «La giuria ha detto che sono innocenti/ che se ne posso andare/ Mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda/ del Jim Crow, giù, giù fino al mare... ». A proposito di frustate, ne aveva prese tante anche Sonny Liston, il toro, e cioè il primo grande avversario di Clay - perché si chiamava ancora così - che lo affrontò nel ‘64 e lo rese grande. Clay vinse alla settima ripresa e fece impazzire le scommesse, perché tutti erano convinti che avrebbe vinto Liston. Ne aveva prese tante di frustate, Sonny, quando era un bambino e faceva il raccoglitore di cotone in Missouri. Lo pagavano qualche cents al giorno e se lavorava male il padrone lo frustava, perché si usava ancora così, perché lo schiavismo in alcuni stati del Sud è durato almeno fino agli anni sessanta, o forse anche settanta. Il razzismo se ne è infischiato di Roosevelt e di Kennedy. Quando gli hanno fatto l’autopsia, a Sonny, hanno trovato i segni, indelebili, sulla schiena. Alì disse delle parole di vera ammirazione verso Liston, quando Liston morì. Era così forte, Liston, che da ragazzetto faceva le rapine senza armi: a cazzotti. Lo presero subito e si fece tre anni di galera. Poi uscì e salì sul ring. Vinse tutti gli incontri. Capite che vuol dire tutti? Tutti. Finché non incontrò Clay, e allora perse. Poi lo incontrò di nuovo l’anno dopo, quando già si chiamava Alì, e finì al tappeto alla prima ripresa. Dicono che il pungo di Alì lo avesse appena sfiorato. E che lui si sia buttato giù per fare i soldi con le scommesse. Non credo che sia così. Alì era proprio forte, e quel pugno, che pure non era dinamite, prese Sonny alla tempia e lo tramortì. Poi li conoscete tutti i grandi incontri affrontati dopo l’interruzione di cinque anni. Nel ‘71, in appello, vinse il processo sull’obiezione di coscienza e potè tornare negli Stati Uniti e riprendersi la licenza da boxer. Non era più allenato, e neanche più giovanissimo. Ma era sempre lui, Alì. Tornò a combattere, subito: fu un errore. Sfidò Joe Frazier che si era preso il suo titolo quando lui era all’estero. Alì diceva che era l’usurpato. Però fu sconfitto, per la prima volta nella sua vita, ai punti, dopo 15 riprese da incubo. Si riprese il titolo tre anni dopo, nel ‘74, nella famosa battaglia di Kinshasa contro Foreman che aveva battuto Frazier ed era diventato lui campione dei pesi massimi. Fu grandioso quella volta, Alì. Nessuno scommetteva un dollaro sulla sua vittoria. Lui invece era certo. Foreman lo pestò. Alì tirò un solo pugno vero. Uno solo. Ma così forte che stese Foreman e vinse la partita. Quante frasi feroci, in quei giorni. Contro i bianchi, contro i neri traditori, contro l’America. E la gente, lì in Africa, che gridava impazzita per lui: «Alì, boma ye», cioè Alì, uccidilo. Durante tutto l’incontro gridava: «Uccidilo, uccidilo». E lui riprendeva il grido, gridava pure lui, appena Foreman gli lasciava qualche secondo di respiro: «boma ye, boma ye». Che ipocrisia i santini che scrivono ora i giornali. Era proprio un «bastardo islamico», altroché. Era un gigante del pugno e un gigante della politica, e della lotta dei neri, e dei diritti dei musulmani. Era un moderato, Alì? Ma non dite sciocchezze: era un radicale, era con Malcolm X e con le pantere nere, con Stokley Carmichel, con Huey Newton e con Bobby Seale. Non era del gruppo gandhiano di Luther King. L’orazione funebre la terrà Bill Clinton. E’ giusto così? Bill Clinton nel 1968 aveva 22 anni, studiava legge. Anche a lui arrivò la cartolina e doveva partire per il Vietnam. Una volta ha raccontato di avere passato la notte, insieme a un suo amico, che si chiamava Haller, per decidere che fare. Partire o disobbedire? Alla fine Haller decise di bruciare la cartolina e scappare in Canada. Clinton invece chiamò il suo amico William Fulbright, icona della politica americana, senatore dell’Arkansas e padre putativo, politicamente, di Bill. Chiese il suo aiuto. Fulbright riuscì a farlo riformare. Il giovane Haller visse un pessimo esilio. Per tre anni. Poi si suicidò. Clinton lo seppe mentre stava facendo campagna elettorale per George McGovern, sfidante di Nixon. Per un mese, per via del rimorso, dovette interrompere il suo impegno politico. Clinton ha sempre detto che Haller era un politico molto migliore di lui. E allora, è giusto che parli Clinton ai funerali di Alì? Si forse è giusto. Toni Morrison, che è una delle più importanti scrittrici afroamericane, qualche anno fa – durante il caso Lewinsky, quando Obama ancora non era all’orizzonte – scrisse che Clinton è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti. Nero? Perché nero? Perché dice bugie - rispose la Morrison - suona la tromba, mangia gli hamburger con le patatine fritte e il ketchup, è appassionato, onesto e imbroglione. Come noi negri...
Io mi schiero con Alex. Schwazer ha avuto il coraggio di cadere e di risorgere con le proprie forze. Ecco perché non crederò mai alla sua nuova colpevolezza, scrive Susanna Tamaro il 15 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sono stata una praticante di atletica e l’atletica, fra tutti gli sport, è forse quello che seguo con maggiore passione, per questo la vicenda di Alex Schwazer mi ha colpito in modo particolare. Ricordo ancora le sue lacrime durante la conferenza stampa del 2012, mentre ammetteva pubblicamente la sua colpevolezza. Vedendole avevo pensato subito che quelle lacrime non avevano nulla di mediatico, c’era una vera disperazione in quei singhiozzi fuori controllo, la disperazione di chi si rende conto di aver tradito la parte più profonda e vera di se stesso. La parabola di Alex era quella di un ragazzo onestamente fragile. Aveva vinto l’oro olimpico a ventiquattro anni, con il conseguente peso di un’improvvisa fama mondiale. Non è facile reggere la fama, bisogna essere molto forti, molto distaccati, circondati da persone che ti amano e sono in grado di proteggerti, ed è molto difficile esserlo a ventiquattro anni. La tensione dei media, gli sponsor, la continua attesa di un risultato sempre eclatante possono provocare in una persona sensibile uno stato di enorme stress. E con lo stress cresce l’ansia. L’ansia di non farcela, di non essere all’altezza. Ed è su quest’ansia che facilmente si insinuano i cattivi consiglieri. Quattro anni fa Alex Schwazer dunque ha sbagliato per ragioni umanissime. Ammesso il suo errore, si è ritirato con dignità dalla scena pubblica. In quel silenzio, in quell’ombra deve aver sceso tutti i gradini della dannazione; toccato l’ultimo, ha preso la decisione che solo i grandi sono capaci di prendere: la sfida di risalire contando solo sulle proprie forze. Sono stata felice quando ho saputo che si allenava anonimamente per le strade di Roma, in solitaria, senza sponsor, carico solo del grande furore che alimenta le sfide con se stessi. E sono stata ancora più felice quando, ai Mondiali a squadra di marcia del 2016, ha vinto la 50 chilometri, ottenendo la qualificazione per i giochi olimpici di Rio. In questi tempi proni al cinismo, al menefreghismo, alle continue scorciatoie dell’opportunismo, in questi tempi che sbeffeggiano ormai anche il minimo barlume di coscienza e che ritengono la nobiltà d’animo nient’altro che un antico orpello, la parabola di Alex Schwazer era un meraviglioso esempio di come una persona degna di questo nome potesse essere in grado di cadere e di risorgere facendo leva soltanto sulla sua forza d’animo. Per questa ragione, quando è stata sventolata sotto gli occhi avidi dei media quella anomala provetta giramondo — che vorrebbe ributtare l’atleta nell’arena del lerciume — ho avuto una reazione di assoluto rifiuto. Non per Schwazer, ma per il mondo sordidamente sinistro che sta cercando di fagocitarlo, un mondo senza scrupoli legato evidentemente a una complessità di interessi molto lontani dall’appassionato candore dell’atleta. E i media ci si sono tuffati con la potenza degli avvoltoi, il becco uncinato già pronto a dilaniare le carni. Avete visto? Anche questo non era altro che un bluff, fumo negli occhi per coprire tutto il marcio che c’era sotto. Vi eravate illusi che ci fossero le persone per bene? Ricredetevi! Non c’è altro che finzione sotto il sole! Grazie alle provette, grazie alle intercettazioni, tutti prima o poi sono costretti a mostrare il loro vero volto, che altro non è che quello della corruzione. Vite distrutte, carriere rovinate, con il conseguente dilagare ormai inarrestabile dell’impoverimento delle competenze in ogni campo. Nel nostro Paese, l’essere appassionati alla propria vocazione è una condizione estremamente rischiosa. Più energia uno mette nella propria attività infatti, meno ne mette negli intrallazzi, e quando si accorge di questa grave carenza è spesso troppo tardi perché, intanto, coloro che appassionati e talentuosi non sono hanno lavorato alacremente con un unico scopo, quello di fare cadere l’incauto distratto. Questa consorteria comprende in sé un’estesissima varietà che va dal mediocre vicino di scrivania fino alle grandi organizzazioni opache che ormai controllano capillarmente tutto ciò che succede nel mondo. Penso, tanto per citare qualche esempio recente, al vergognoso caso della virologa Ilaria Capua, accusata di essere una trafficante di virus per biechi motivi commerciali, vituperata, insultata sui giornali, per poi venire, dopo due lunghi anni, totalmente assolta. Naturalmente la lista di vittime è lunga e nei tempi a venire — in questo mondo che non sa che cosa sia la giustizia ma è sempre più giustizialista — diventerà lunghissima. I forni manzoniani mediatici forniranno sempre nuovo e più attraente materiale da gettare in pasto agli affamati cultori del disgusto. Perché Alex avrebbe dovuto fare una cosa così idiota? Personalmente non crederò alla nuova colpevolezza di Schwazer neanche se mi si sventolasse sotto il naso un ettolitro di sangue in provetta sfavillante di testosterone. Per quale ragione una persona come lui, che avuto il coraggio di cadere e di risorgere, avrebbe dovuto fare una cosa così totalmente idiota? So che ormai è una cosa piuttosto fastidiosa da dire, ma esiste una complessità della persona e dunque, se vogliamo usare una parola grossa, dell’anima, che non è piegabile all’onnipotente forza del rendiconto, della doppiezza, della manipolazione. Da questa complessità nascono la poesia, la letteratura, l’arte. Da questa stessa complessità nascono gli eroi. E gli atleti — quando sono tali — appartengono nel nostro immaginario proprio a questa categoria. Di solito non twitto, se non con i miei canarini, ma per gli appassionati del genere sono pronta a lanciare un hashtag: #IostoconAlex.
Atletica e doping, quelle telefonate per fermare Schwazer. "Lasci vincere i cinesi". Verso Rio 2016. Prima delle gare, pressioni sul marciatore poi sospeso. Sandro Donati registrò tutto: "Era un giudice vicino ai Damilano". La procura di Roma ha aperto un fascicolo, scrive Attilio Bolzoni il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". I Misteri del "caso Schwazer" non si inseguono solo lungo i tortuosi percorsi che portano una provetta nei laboratori di Colonia. Alla vigilia delle Olimpiadi di Riosi scopre che qualcuno ha tentato di "aggiustare" due gare molto importanti, la Coppa del Mondo di Roma dell'8 maggio e il Gran Premio di La Coruna di venti giorni dopo. Quel qualcuno è un giudice internazionale di marcia. Le paure denunciate due settimane fa dal maestro dello sport Sandro Donati ("Sono minacciato, temo per me e anche per la mia famiglia") intorno alla nuova e assai sospetta "positività" di Alex Schwazer e alle manovre di "consorterie criminali " legate ad alcuni dirigenti della Federazione Internazionale di Atletica, prendono forma in alcune telefonate che sono state segnalate all'autorità giudiziaria e alla commissione parlamentare antimafia. Sono due conversazioni in particolare, ricevute da Donati e nelle quali il suo interlocutore - un personaggio molto noto nel mondo dello sport - lo "consigliava" di tenere a freno il suo atleta nelle competizioni dove sarebbe ricomparso dopo la lunga squalifica per il doping all'Epo del 2012. La prima è del 7 maggio scorso, a poche ore dalla Coppa del mondo di marcia di Roma sui 50 chilometri. Sono le 6,05 del mattino. Donati sta dormendo, lo squillo del telefono lo sveglia. Sente la voce di un giudice internazionale di marcia "molto vicino a Sandro Damilano". L'uomo si scusa per l'ora, parla della serata precedente passata "con tutte le vecchie glorie" poi gli sussurra: "La prego, glielo dica (ad Alex Schwazer, ndr) ancora una volta fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?". Jared Tallent è il marciatore australiano che appena un paio di settimane prima - il 28 aprile, giorno della fine della squalifica di Schwazer, aveva dichiarato: "Lui è la vergogna d'Italia, ora rientra lui e poi i russi: così è come ridere in faccia agli atleti puliti". Il giorno dopo la telefonata mattutina - e dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica - Alex Schwazer trionfa alle Terme di Caracalla. Seconda prestazione mondiale stagionale con 3h39'00, dietro di lui Tallent a più di tre minuti e mezzo. La seconda telefonata ricevuta da Sandro Donati è del 23 maggio, cinque giorni prima della gara di La Coruna sui 20 chilometri. È sempre lo stesso giudice internazionale di marcia che richiama l'allenatore di Schwazer. Questa volta gli suggerisce di non rispondere agli attacchi di alcuni atleti, "e di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 minuti...". A La Coruna il marciatore altoatesino arriverà secondo dietro il cinese Whang Zhen. Avvertimenti e pressioni. C'era molta agitazione intorno al rientro alle gare di Schwazer e ce n'è ancora di più oggi dopo la scoperta - comunicata solo il 21 giugno - di una nuova positività a "lievi tracce di testosterone". Un campione di urina partito il 1° gennaio 2016 da Racines - a pochi chilometri da Vipiteno, dove l'atleta abita - e arrivato 26 ore dopo in un laboratorio di Colonia. Un itinerario fantasma della provetta, una documentazione approssimativa, un ritardo estremo nella notifica del risultato. E una difesa incomprensibilmente negata ad oltranza dalla Federazione internazionale di atletica. Alex Schwazer e i suoi avvocati non hanno mai potuto discolparsi davanti ai giudici, fornire controprove, rappresentare le proprie ragioni. Lo faranno soltanto il 4 agosto prossimo a Rio, luogo e data imposti dalla stessa Federazione Internazionale di Atletica che si è sottratta all'udienza che si sarebbe dovuta svolgere a Losanna proprio oggi. Un processo senza processo. Un vero intrigo, per i tempi e le modalità di esecuzione. Che ha convinto la presidente della commissione antimafia Rosi Bindi a convocare il 14 luglio scorso Sandro Donati a Palazzo San Macuto - audizione integralmente secretata - e che ha portato lo stesso allenatore di Schwazer a presentarsi qualche ora dopo nelle stanze del procuratore capo Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Lucia Lotti. Aperto un fascicolo. Ma non sono soltanto quelle due telefonate a rendere maleodorante questa vicenda di sport che si presenta ogni giorno di più come una storia di malaffare, incrocio fra interessi economici e criminali tenuti insieme da una piccola grande Cupola di burocrati e faccendieri. È lo spaccato di un mondo che alla vigilia delle Olimpiadi di Rio vi racconterà Repubblica in un documentario dal titolo Operazione Schwazer, le trame dei signori del doping, 20 minuti che ricostruiscono tutte le stranezze del controllo di Capodanno effettuato a Racines, il fondo melmoso dove si muovono alcuni personaggi dell'atletica italiana, i clamorosi casi di corruzione che coinvolgono i loro amici che erano ai vertici della federazione internazionale. E poi medici "supervisori" per l'antidoping sotto processo per avere favorito il doping, data-base con i nomi di tutti quelli in fila alla farmacia proibita, clan familiari dove spudoratamente si ritrovano controllori e controllati. Maurizio Damilano, presidente della commissione marcia della Iaaf. Sandro Damilano, allenatore della nazionale cinese. Due fratelli.
Atletica, caso Schwazer; Donati: "Dal mondo dello sport un silenzio assordante". L'allenatore del marciatore altoatesino è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera. Il precedente: "Diciannove anni fa seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Tas: "L'atleta ha il 20% di chance di andare a Rio", scrive "La Repubblica" il 14 luglio 2016. Sandro Donati va all'attacco. Il tecnico di Alex Schwazer, coinvolto nel noto caso di doping e sospeso dalla Federazione internazionale di atletica leggera, è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera dei Deputati. Al termine le sue parole sono dure: "Il sostegno è venuto dalle procure della Repubblica e dalla Commissione parlamentare antimafia, ma sul caso Schwazer dalle istituzioni sportive ho sentito un silenzio assordante o ironie di pessimo gusto. Schwazer è stato descritto come un bipolare, un uomo dalla doppia personalità. Io lo conosco da oltre un anno e chi lo frequenta lo trova un ragazzo semplice, coerente, che non ha nulla di strano, eppure è stato creato un quadretto: 'Se lo ha fatto in passato lo avrà fatto di nuovo'. In questo modo si cerca di coprire l'enormità di questo controllo antidoping assurdo, con una tempistica che da sola rappresenta la firma dell'agguato". Donati ha poi replicato a chi gli chiedeva perché le istituzioni sportive italiane non difendano Schwazer: "Perché non vogliono mettersi contro la Iaaf -ha spiegato- una istituzione internazionale. Mi sono rivolto pubblicamente a Sebastian Coe affinché dia una spallata per il cambiamento: non può lasciare all'interno gente compromessa, gente che ha preso dei soldi per nascondere i casi di doping. Io con questa schifezza non ho niente a che vedere e invece mi ritrovo mail intimidatorie: non mi rendevo conto che allenare Schwazer, un fenomeno assoluto, farlo andare così forte senza doping sarebbe diventata una esperienza esplosiva, destabilizzante. Una iniziativa rivoluzionaria che è stata stroncata". L'iniziativa parlamentare nasce da un vasto gruppo di deputati e senatori che vogliono appurare "la veridicità delle affermazioni rese a mezzo stampa dal professor Donati circa la sequela di minacce, intimidazioni e diffamazioni ricevute telefonicamente, via mail e attraverso alcuni media, prima e dopo la gara di Schwazer del 9 maggio scorso, e successivamente all'avvio della segnalazione alla Wada". In merito anche i Ros hanno aperto un'indagine. "Credo ci sia un interesse di più procure sull'argomento - ha aggiunto Donati - Tutti hanno ormai capito il fatto inusitato su una positività a un controllo fatto a gennaio, una sorta di bomba a orologeria riscossa a giugno. Tutto ciò è assurdo. Per me è il secondo agguato perché ne ho subito un altro 19 anni fa quando seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Schwazer spera ancora di partecipare all'Olimpiade di Rio ma è una corsa contro il tempo vista la sospensione inflittagli dalla Iaaf. "Abbiamo incaricato un avvocato svizzero per il ricorso al Tas di Losanna, ci ritroveremo con un dossier nostro che arriva stamattina - ha concluso Donati - e verrà esaminato tra oggi e domani da qualcuno in fretta e furia. Quello sarà il giudizio sul quale si deciderà la sorte di un grande campione". "Il professore Donati ci ha raccontato il lavoro fatto in questi anni ed è emerso un quadro abbastanza imbarazzante. Ci ha parlato molto marginalmente della vicenda Schwazer: il punto non è la nuova squalifica ma il modo in cui questa vicenda si inserisce in un contesto assai opaco, ambiguo, vischioso. Di questo è bene farsi carico". Queste le parole del vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, al termine dell'audizione. "Ci sono molti elementi di opacità in questa vicenda - ha aggiunto Fava - Non solo in Italia. Curvature strane che sfuggono alla nostra comprensione. Oltretutto ci sembra che la vicenda Schwazer possa essere un pedaggio che sta pagando Donati per il lavoro e le denunce fatte nel tempo. Oggi abbiamo ascoltato Alessandro Donati, ora parleremo della vicenda doping in ufficio di presidenza e ragioneremo su quanto può essere fatto - aggiunge Fava - Penso ci siano funzioni e cariche che possono occuparsene: dal ministro della Giustizia a quello della Cultura e delle attività sportive, alla Sanità. E' una questione trasversale che attraversa più campi di interesse, funzioni e responsabilità: occorre uno sguardo più attento e vigile". "Non sembra ci sia criminalità organizzata dietro tutto questo - ha aggiunto Fava - Sembra ci siano invece poteri forti, interessi e menzogne nel modo con cui le inchieste di doping vengono usate per premiare o per colpire: questo è un sospetto più che legittimo e sul quale occorre muoversi sul piano istituzionale. Il problema del doping è un tema che pesa come una cappa, che ricatta, costringe, occlude e condiziona il mondo dello sport, non soltanto nel nostro Paese. Ci sono organismi internazionali che possono farsene carico, ma per quanto riguarda il Coni, la Procura antidoping e la vicenda degli atleti italiani c'è una responsabilità e un dovere di vigilanza". "Io penso che per Schwazer ci siano poche possibilità che il Tas decida di bloccare la sospensione della Iaaf e lo faccia gareggiare a Rio. Se devo dare una percentuale direi non più del 20%". Lo ha dichiarato l'avvocato Guido Valori, membro del Tas. "Il giudice - spiega Valori - dovrà decidere tra due pesi differenti. Da una parte c'è una positività che ha un peso enorme e dall'altra ci sono una serie di irregolarità procedurali. Penso sia difficile che il Tas ritenga che i vizi di procedura abbiano invalidato il controllo risultato positivo, onestamente è una ricostruzione difficile da fare anche per il poco tempo a disposizione. La difesa ha qualche punto a suo favore e tra questi c'è sicuramente il mancato rispetto dell'anonimato ma mi sembrano pochi per far gareggiare un atleta positivo e che oltretutto ha anche grandi possibilità di vittoria. C'è poi il forte rischio di dovergli togliere la medaglia. Per essere chiari per bloccare la sospensiva decisa dalla Iaaf, Schwazer dovrebbe avere buone possibilità di vincere poi il processo che ci sarà dopo l'estate" conclude il membro Tas.
Caso Schwazer, quelle strane provette e il 5 luglio è vicino. In cinque punti, tutti i misteri sul caso in attesa delle risposte della Iaaf. Fra 7 giorni le controanalisi, l'11 luglio scade il termine di iscrizione per i Giochi, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 28 Giugno 2016. Quello che si sta muovendo attorno alla Procura di Bolzano comincia a dare qualche elemento in più sulla vicenda Schwazer e i dubbi invece di scemare purtroppo aumentano. Riepiloghiamo alcuni di questi elementi.
1 - Un prelievo di urina da parte di due Doping Control Officers tedeschi il 1° gennaio finito alle 8.35 di mattina a Calice di Racines finisce con le provette portate a destinazione quando il laboratorio antidoping di Colonia è chiuso per festività e dunque rimangono nell'ufficio degli ispettori dalle ore 15 fino alle 6 di mattina del giorno seguente. Che succede in quelle 15 ore? Come mai, inoltre, contrariamente alla prassi quel giorno Schwazer è l'unico atleta controllato?
2 - Correttamente viene indicato il nome del luogo del prelievo sul formulario, ma perché tale dato arriva al laboratorio di Colonia? Come si può garantire l’anonimato in queste condizioni, dato che a Racines abita un solo atleta?
3 - La negatività del test viene pubblicizzata sul sistema Adams e dopo due ulteriori prelievi (24 gennaio e 1 febbraio) il profilo ormonale è completato, eppure per un paio di mesi nulla si muove e solo il 14 aprile arriva l’ordine al laboratorio di Colonia di effettuare il test IRMS. Il 13 maggio viene comunicato alla IAAF che il test ha dato esito positivo stabilendo la presenza di 2 metaboliti del testosterone sintetico. Perché la IAAF aspetta fino al 21 giugno a dare la notizia della positività e perché rifiuta di anticipare le controanalisi previste per il 5 luglio sapendo che l’11 si chiudono le iscrizioni per le Olimpiadi?
4 - Alla obiezione che un paio di metaboliti del testosterone sintetico non bastano a giustificare un’attività dopante l'accusa potrebbe rispondere tirando in ballo le cosiddette microdosi, ma allora perché negli altri 14 test antidoping non c'è traccia della sostanza?
5 - Si può escludere che un set di provette possa essere preventivamente contaminato di metaboliti del testosterone sintetico se la stessa Azienda che li produce (Berlinger) in un comunicato del mese scorso riconosce (a proposito della denuncia di Grigory Rodchenkov della Rusada sulla manipolazione di provette alle Olimpiadi di Sochi) che “il caso è la prova di un atto criminale condotto da professionisti, pianificato dietro le quinte, con un coinvolgimento dei Servizi Segreti Russi, che ha implicazioni non solo sulle provette, ma anche sull'intera catena di custodia e procedure collegate”?
Vedremo se la risposta della IAAF alla memoria difensiva dei legali di Schwazer darà risposte a queste domande. La beffa finale sarebbero delle scuse per un test antidoping invalido per vizio procedurale, riconosciuto tale quando i termini di iscrizione alle Olimpiadi saranno già scaduti. Alla buona fede della IAAF non crederebbe nessuno e dopo essere stata decapitata dei vertici che mercanteggiavano sull’antidoping non potrebbe sopportare un altro colpo mortale alla sua credibilità.
Caso Schwazer: la Iaaf, i sospetti e i chiarimenti attesi. Procedure insolite e un accanimento anomalo sul marciatore altoatesino, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 24 Giugno 2016. Schierati e divisi: i media italiani -a volte anche testate dello stesso gruppo editoriale- hanno posizioni molto diverse sul caso Schwazer. C'è chi ipotizza un disturbo bipolare della personalità del marciatore altoatesino, dando per scontata la trasparenza della procedura antidoping utilizzata nei suoi confronti. C’è chi invece ha seri dubbi su quest’ultima. Se infatti, come trapela dalla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica, il ricontrollo della provetta incriminata di urina è avvenuto per un automatismo del sistema informatico antidoping, perché allora -si chiedono costoro- a differenza di ogni altro campione d’urina testato in pochi minuti al momento del prelievo quello del marciatore viene invece lavorato per tre giorni? E perché viene di nuovo analizzato quattro mesi dopo senza la presenza di un prelievo fatto in competizione da incrociare? Ad aprile infatti Schwazer non era ancora tornato a gareggiare. Dunque il minimo che si può dire è che la procedura sia stata oggettivamente anomala. Tanto accanimento poi autorizza sospetti se la Iaaf è la stessa che delega il controllo antidoping della gara dell'altoatesino a Roma proprio al medico indagato dalla Procura di Bolzano per il caso Schwazer. Insomma sia in caso di innocenza che di colpevolezza la Iaaf deve comunque spiegare perché Alex sia stato trattato in modo anomalo rispetto alla procedura standard. Senza chiarimenti ogni sospetto è autorizzato, specie per una Iaaf già pesantemente screditata in questi mesi da corruzioni e scandali anche sull'antidoping.
La conferenza stampa, scrive Ezio Azzollini il 22 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. La Conferenza Stampa di Alex Schwazer e del suo avvocato e di Sandro Donati in merito al nuovo scandalo legato al doping che ha coinvolto il marciatore italiano.
PER IL LEGALE NON C’E’ COINVOLGIMENTO – Ecco le parole dell’Avvocato di Alex Schwazer: “Notizia incredibile, impossibile, devastante, che non possiamo accettare. Alex con questa vicenda non ha nulla a che vedere, nessuna responsabilità. Noi adesso cercheremo di acclarare la verità anche per un interesse di giustizia. Per noi inconcepibile tutta la vicenda, strano che una prova che a gennaio era negativa, 5 giorni dopo che Alex vince a Roma, venga riaperta e classificata positiva a sostanze anabolizzanti che nulla hanno a che vedere con uno sport di resistenza. C’era una pressione enorme, a causa di chi ostacolava il rientro di Alex alle competizioni: vicenda brutta e sporca, faremo una denuncia penale contro ignoti. Alex spera ancora e confida di poter andare alle olimpiadi, e Donati spiegherà quale è stato negli ultimi due anni il percorso olimpico trasparente. Alex ha segnalato alla Wada di essere disponibile ai controlli 24 ore su 24, e i controlli sono stati tantissimi. Vedere a 4 mesi dal 1 gennaio, dopo un controllo negativo, vedersi confutato un test positivo agli anabolizzanti ci lascia furiosi. Alex ha fatto un percorso esemplare, non può accettare di essere rimesso in discussione. Combatteremo con tutte le nostre forze. Ha sbagliato Alex, ma ha fatto un percorso di umiltà, di riabilitazione, non se lo merita, non pensavo che ci fossero tali prove di cattiveria umana.
LE DICHIARAZIONI DI SCHWAZER – “Sarò sintetico per non essere accusato di nuovo di fare teatro. Sono di nuovo qua a metterci la faccia per rispetto a chi mi è stato vicino. Ma stavolta non devo scusarmi perchè non ho fatto nessun errore. Da un anno e mezzo ho fatto il contrario dello sbagliare, allenandomi con Donati, per fare l’impossibile per dimostrare che il mio ritorno è pulito. Oggi non ci sarà nessuna scusa perchè non c’è nessun errore. Informato ieri di questa positività, è un incubo per me perchè è la peggiore cosa che poteva succedere, ma posso giurare che si andrà in fondo, perchè ho investito troppo in questo ritorno. So che molti non mi volevano alle Olimpiadi, così come non volevano che vincessi a Roma. Io so benissimo che un atleta già trovato positivo ha poca credibilità, so che per qualcuno le mie parole lasciano il tempo che trovano, ma a fianco a me c’è Donati, che ha impegnato una vita contro il doping, io spero che ci pensiate due volte prima di attaccare lui e altre persone che mi sono state di fianco.
LE PAROLE DI SANDRO DONATI – “Considerando il passato, Alex è l’identikit perfetto di chi disillude, tradisce, si dopa all’insaputa dell’allenatore. Quale pretesto migliore avrei avuto per lasciarlo adesso, per chiamarmene fuori? Ma io non lo farò mai. Con Alex abbiamo intrapreso un progetto unico al mondo. Abbiamo messo a disposizione delle istituzioni sportive più di trenta controlli presso la sanità pubblica, non abbiamo mai ricevuto risposta. La mancata risposta non è una volontà di mantenere l’ambiente pulito, ma una provocazione. Mi sono reso conto che l’atleta positivo per doping diventa la preda su cui il sistema sportivo può dimostrare la propria durezza e inflessibilità. Peccato che avvenga solo sui soggetti più deboli. Passava il tempo e mi rendevo conto che attiravo su Alex l’odio che hanno nei miei confronti per le mie battaglie. Ci vuole un bel fegato per far passare Alex come un soggetto anabolizzato, che avrebbe un braccio quanto due delle cosce di Schwazer. Se quell’urina avesse destato sospetti, avrebbero provveduto a fare immediatamente quello che invece hanno fatto mesi dopo. Forse aveva a che vedere con il risultato di Roma. Non serve che vi dica quanti dirigenti della Iaaf in passato sono stati sospesi per faccende legate alla compravendita di positività e negatività. Olimpiade? I tempi della giustizia sportiva appaiono rapidi rispetto alla giustizia ordinaria, ma sono tremendamente lenti per una preparazione che già sarà condizionata in maniera pesante. La settimana che ha preceduto i campionati del mondo è stata un calvario, hanno tentato di dimostrare che anzichè allenarsi Alex avesse sostenuto una gara, cosa contraria alla squalifica. E’ stata una settimana passata nell’angoscia che venisse fermato, anzi di vedersi reiterare la squalifica, una specie di profezia”.
I lati oscuri, scrive Andrea Corti il 24 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. Sono passate poco più di 24 ore dalla deflagrazione del caso riguardante Alex Schwazer: il marciatore altoatesino, rientrato trionfalmente alle gare a maggio dopo la squalifica per 3 anni e 9 mesi in seguito a una positività all’Epo nel 2012, non ha superato un controllo antidoping effettuato lo scorso 1 gennaio in seguito ad una nuova analisi di un campione che era stato inizialmente classificato come negativo. L’allenatore di Schwazer, da più di un anno a questa parte, è il Professor Alessandro Donati, il guru dell’antidoping italiano, che ha accettato di fare da garante nel percorso di Alex verso l’obiettivo dichiarato, quelle Olimpiadi di Rio per le quali un mese fa il marciatore aveva strappato il pass. Donati ha spiegato la sua opinione su questa spinosa vicenda a ‘Io gioco pulito’: “Il lato più oscuro è senza dubbio la tempistica, e la decisione di rianalizzare il campione. E’ un qualcosa di incredibile, perché il primo campione è stato analizzato dal più importante laboratorio antidoping, quello di Colonia. Ho studiato il report e il campione è stato sotto analisi per tre giorni: non parliamo dunque di un’analisi superficiale. Quel campione è stato giudicato negativo, al punto che la Iaaf lo ha inserito tra i vari documenti che le hanno poi permesso di dare l’ok al rientro di Schwazer alla Federatletica. A questo punto è subentrata una volontà esterna, che ha fatto riaprire questo campione e andare a cercare il pelo nell’uovo, ammesso che ci fosse visto che ciò che è emerso è un valore di testosterone bassissimo, di pochissimo superiore alla norma. Bisognerà chiarire anche altri lati oscuri, come anche la tempistica della fine delle analisi, avvenuta cinque giorni dopo la vittoria di Alex a Roma. Poi mi chiedo: perché questa analisi non è stata resa nota? Perché Fidal e federazione internazionale di atletica non sono state informate? Perché l’atleta continuava a gareggiare? Non posso poi parlare di altri lati oscuri, che saranno inseriti in una denuncia penale, per ora contro ignoti”. Poi Donati ha raccontato un retroscena relativo alle due gare a cui Schwazer ha partecipato nel mese di maggio, che gli hanno consentito di ottenere la qualificazione per le Olimpiadi: “Personaggi molto importanti con un ruolo importante mi hanno suggerito che sarebbe stato un bene che Schwazer a Roma avesse fatto vincere Tallent. Poi a La Coruna mi è stato detto che sarebbe stato bene non seguire l’attacco di due atleti cinesi. La persona che mi ha dato questi consigli la conosco: può darsi che abbia captato il clima dell’ambiente e giudicato inopportuno e pericoloso battere Tallent e il cinese. Nella peggiore delle ipotesi, invece, questa persona è stato un messaggero degli interessi di altri. Si tratta di una persona interna all’organizzazione italiana, ma tutti i particolari verranno inseriti nella denuncia. Interessi legati al mondo delle scommesse? Non credo nella maniera più assoluta. Ma un atleta come Schwazer, con un potenziale atletico enorme che ne farebbe l’uomo da battere a Rio e non solo nei 50 km, che subentra quando nessuno se lo aspettava sposta degli equilibri. E’ logico che ci siano interessi economici: dietro gli atleti ci sono contratti, allenatori e interi Paesi che investono dei soldi”. Ma Donati non vuole parlare di complotto: “Come carattere non faccio riferimento a complotti, anche quando subii un’imboscata ad Anna Maria Di Terlizzi nel 1997, quando l’urina di questa atleta fu manipolata in un controllo antidoping. Anche in questo caso non parlo di complotto, ma di una successione di avvenimenti inquietanti. Con queste tempistiche ci ritroviamo alla vigilia delle Olimpiadi con un atleta bombardato psicologicamente. Sono assolutamente convinto che Alex non sia colpevole: perché ce lo avevo sempre davanti e perché non aveva assolutamente nessun interesse ad assumere un dosaggio così ridicolo e minimo di un anabolizzante. Se si sceglie di prenderlo lo si fa in quantità decisamente superiori. Questo dosaggio minimo può derivare da varie situazioni. Non capisco perché ci sia stata questa grande attenzione, questo sforzo fatto all’esterno del laboratorio di Colonia. Dico che Colonia non ha lavorato da sola, c’è stata una ‘manina’, una volontà esterna che ha chiesto al laboratorio tedesco di rianalizzare un campione. Non so nemmeno se a Colonia sapessero che si trattativa di un campione precedentemente classificato come negativo”. Al termine dei mondiali di 50 km di marcia vinti da Schwazer a Roma l’8 maggio scorso Donati si era sfogato con i giornalisti presenti a Caracalla, assicurando di essere stato protagonista con l’atleta di una vera lotta contro l’odio: “Non parlavo a vanvera. Non si tratta di odio personale, ma di contrapposizione di interessi. Io da nostalgico vorrei delle istituzioni sportive che difendano la correttezza e le regole e che non facessero solo finta. D’altra parte si desidera che non venga disturbato il manovratore. E’ un odio che non ha nulla a che vedere con l’emotività di noi esseri umani”. Infine Donati ha voluto evidenziare un qualcosa che non si aspettava: “Con sorpresa ho notato che dei giornalisti che in passato hanno attaccato me e Schwazer anche pesantemente e in maniera cattiva hanno scritto manifestando la loro perplessità di fronte alla positività di Alex. Ciò mi ha fatto enormemente piacere e dimostra come in questa vicenda ci siano tanti, troppi, lati oscuri”.
Atletica, doping: Donati, un uomo contro tra polemiche e molti nemici. Sullo sfondo del caso Schwazer i rapporti tempestosi con la Iaaf e la Wada. Ieri il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, scrive il 23 giugno 2016 “La Gazzetta dello Sport”. Lo scontro fra Sandro Donati, la Wada e la Iaaf non nasce ora con la positività di Alex Schwazer al testosterone. Viene da lontano. Ieri, il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, citando il caso dell'ex presidente Lamine Diack e della sua famiglia, impegnati nella "truffa e compravendita di positività, insieme con l'ex capo dell'antidoping", alludendo a Gabriel Dollè, coinvolto anche lui nello scandalo russo su cui indaga anche la giustizia francese, mentre altri tre funzionari Iaaf sono stati di recente sospesi per aver avuto un ruolo nella corruzione. Sulla Wada, ha invece sottolineato i "suoi meriti per molte iniziative", ricordando però l'articolo del New York Times che ha rivelato una denuncia rivolta all'Agenzia Mondiale Antidoping da una discobola russa, Darya Poshchalnikova, medaglia d'argento a Londra, che fu lasciata cadere. Prima dello scoppio dello scandalo dovuto all'inchiesta giornalistica della tv tedesca ARD. Un'inchiesta, quella guidata dal giornalista Hajo Seppelt, che è stata la madre della vera e propria rivoluzione antidoping di questi mesi, con le istituzioni sportive costrette a dare risposte finalmente categoriche al problema, fino alla clamorosa esclusione dell'atletica russa, confermata negli ultimi giorni, dall'Olimpiade di Rio de Janeiro. Ma dove tutto è cominciato? Non va dimenticato che le denunce di Donati non si sono concentrate soltanto sull'Italia dai tempi del salto allungato di Evangelisti e del doping degli anni '80, ma hanno guardato anche all'estero, ai tempi in cui la Federatletica internazionale era diretta da Primo Nebiolo. Più recentemente, nei suoi rapporti con la Iaaf, è chiaro che l'inchiesta di Bolzano ha avuto un ruolo importante. La federazione internazionale, sin dal primo momento successivo all'epo di Schwazer, è sempre stata solidale con il suo medico Giuseppe Fischetto, finito sotto processo per favoreggiamento nell'inchiesta condotta dal pm Giancarlo Bramante. Un processo in cui Donati è stato citato come teste dell'accusa e della stessa Wada, costituitasi parte civile. Fischetto si è autosospeso, all'inizio dell'inchiesta giudiziaria, da medico della Fidal, ma ha continuato a esercitare il suo ruolo di delegato antidoping in grandi manifestazioni internazionali, Mondiali a squadre di marcia di Roma compresa, senza però far parte della struttura di intelligence che ha lavorato in queste ultime settimane su alcuni casa scottanti, e sull'analisi bis del campione di Alex Schwazer, che ha portato alla nuova positività. Diverso è il discorso che riguarda la Wada. Sandro Donati ha collaborato con l'agenzia mondiale antidoping per anni con una numerosa serie di lavori che sono tuttora rintracciabili sul sito ufficiale. Ma negli ultimi mesi si è acceso uno scontro sulla sua qualifica di "consulente", negata dal nuovo direttore generale Olivier Niggli, che ha sostituito proprio in questi giorni nella carica David Howman. Sulla vicenda si è trovata poi una composizione con un comunicato condiviso. Ma che non ha riempito la distanza fra Donati e la "nuova" Wada, che, in particolare, non ha gradito l'impegno del tecnico a fianco di Schwazer, accusato, in maniera neanche troppo nascosta, di non aver detto tutta la verità sui suoi rapporti con Michele Ferrari. La stessa Wada, insieme con la Iaaf, si è poi opposta allo sconto di pena per Schwazer in base alla sua collaborazione. Un no che ha lasciato quindi la squalifica intatta fino al 29 aprile scorso. Prima che il caso testosterone riaprisse per l'ennesima volta la storia.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera”. «Il laboratorio di Colonia ha lavorato bene. Non contestiamo il suo operato. E non ricorriamo alla fantapolitica: non c' è nessun complotto, nessuno ha messo questa o quella polverina nelle bevande o nel cibo di Alex per incastrarlo. La sua positività all' antidoping è il frutto di un accanimento mirato sui campioni biologici che ha deformato il risultato delle analisi. L' obiettivo era colpire lui per colpire me. Ci sono dei mandanti. Lo dimostreremo». A 48 ore dall' esplosione del caso Schwazer, Sandro Donati tiene fede alla promessa e resta a fianco del suo atleta in Alto Adige: «Alex è provato ma vivo. Abbiamo parlato a lungo. Adesso è a fare una sgambata di una decina di chilometri nei prati dietro casa». La difesa del marciatore prepara le prime scadenze: a fine giugno il deposito delle memorie, il 5 luglio le controanalisi. L' obiettivo è più che ambizioso: far valere l'articolo 5.1 del Codice Wada, l'unico in grado di annullare la squalifica. Il solo modo per farlo è invalidare la procedura con cui il laboratorio di Colonia ha trovato testosterone sintetico nelle urine del marciatore. Lo staff di Schwazer mostra i referti del controllo che smentirebbero le tesi procedurali fatte trapelare dalla Iaaf: la positività come primo clamoroso successo del passaporto steroideo (adottato solo nel 2015) su un atleta di vertice. Si sarebbe trattato di un ricontrollo mirato, lo scorso maggio, del campione prelevato il 1° gennaio. Questo sulla base di un allarme automatico lanciato dal sistema informatico. Caro recidivo hai cercato di fregarci: ma noi ti abbiamo beccato. I referti in mano a Schwazer indicano però una verità diversa: il suo campione di urine di Capodanno sarebbe stato invece «torturato» per tre giorni subito dopo il prelievo (dal 2 al 4 gennaio) quando il test ormonale standard dura pochi minuti. Alla fine dei tre giorni, sulla base del referto di Colonia («Nulla da segnalare: atleta rieleggibile»), la Iaaf ha dato il via libera alle competizioni. Poi l'altra anomalia: lo stesso campione di urine viene rimesso sotto torchio il 10 aprile, quando il passaporto biologico ancora non era validabile per l'assenza dal primo controllo in competizione. Perché? E perché la procedura, anormalmente lunga, resta aperta fino al 13 maggio, quando viene accertata la positività. E perché a Schwazer viene permesso di gareggiare a La Coruña a fine maggio notificandogli la squalifica solo il 21 giugno? Che tesi utilizzerà la difesa? Alcune sono ipotizzabili. Le apparecchiature per la spettrometria di massa avrebbero una potenza così elevata da rilevare anche tracce infinitesimali di steroidi. Quelli dovuti a una banale contaminazione alimentare, ad esempio. O quelli, sostengono altri, rimasti «fissati» nell' organismo a lunghissimo termine: Schwazer ammise di aver assunto testosterone nel 2010. Quante probabilità ci sono di vincere una battaglia del genere, scardinando l'antidoping mondiale?
STAVOLTA NIENTE SCUSE di Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 23 giugno 2016. Maglietta bianca. Sguardo a pezzi. Nessuna lacrima. Ore 18 e una manciata di minuti. Alex ancora lì. Dietro una scrivania a Bolzano. Quattro anni dopo. A parlare di doping. Il suo doping. O siamo di fronte a un grande coglione o siamo di fronte a un grande complotto. Stavolta non ci sono vie di mezzo. Alex Schwazer positivo a uno steroide anabolizzante dopo aver chiesto e ottenuto, unico al mondo, di poter essere controllato a sorpresa 24 ore su 24. Per dire. Trentacinque test in pochi mesi, uno su due dedicato agli anabolizzanti, controllato anche ieri mattina a Vipiteno, ore sette, dopo notte insonne seguita alla cartella ricevuta con l'esito degli esami, toc toc, sono un ispettore della Iaaf, prego pipì. Ci sarebbe da ridere, c' è solo da piangere. Ma Alex non piange. «Stavolta non devo chiedere scusa di niente, perché non ho fatto niente. Se sono qui a metterci la faccia è per rispetto di me stesso e di chi mi è vicino». Con lui la manager Giulia Mancini, con lui l'allenatore e paladino della lotta antidoping Sandro Donati, con lui i legali che annunciano battaglia e denuncia penale contro ignoti «perché qui c' è stata cattiveria, è una vicenda profondamente ingiusta e vogliamo la verità». Contro di lui, invece, c' è il mondo. Martedì 21 giugno, ore 18 e 50, gli ispettori antidoping della Iaaf notificano tutto ad atleta e allenatore. L' esame sangue e urine effettuato a Vipiteno la mattina del primo gennaio, negativo all' epoca, riesaminato in maggio, il 12, è diventato positivo. La Gazzetta dello Sport pubblica tutto. È un risveglio traumatico. Per i sognatori e quelli del partito diamogli un'altra chance, per gli scettici e quelli del via per sempre dallo sport. Visibilmente scosso appare anche il presidente del Coni Giovanni Malagò che nel giorno della consegna della bandiera a Federica Pellegrini, si ritrova nel mezzo di una bufera, col cerino acceso, «certo che c'è qualcosa di molto particolare sulla tempistica...» dirà. La sequenza è infatti sotto gli occhi di tutti: la bomba che scoppia nel giorno del Quirinale, la bomba che deflagra al secondo controllo, il 12 maggio, quattro giorni dopo la bella vittoria di Schwazer nella 50 km mondiale di marcia e pass per Rio conquistato, la bomba che scheggia i buoni sentimenti tredici giorni dopo la fine della squalifica per doping di tre anni e mezzo. Alex è positivo a scoppio ritardato. A un anabolizzante sintetico che serve a chi vuole muscoli e non contro la fatica dei marciatori. Questo spiega Donati, questo sottolineano i legali, questo racconta il ragazzo a cui non dobbiamo credere perché, come dice lo stesso Alex levandoci dall' imbarazzo, «capisco che credere a un ex dopato sia difficile, però Sandro Donati che ha dedicato la vita contro il doping è ancora qui accanto a me... E poi io quella stessa sostanza l'ho anche provata, prima dei Giochi di Londra, in quell' anno in cui ho provato di tutto e l'avevo messa da parte, non mi dava effetti. E allora ditemi voi, perché mai dovrei da una parte rendermi disponibile a controlli a sorpresa 24 ore su 24 e poi doparmi con qualcosa che non mi serve e che non mi aveva dato effetti?». Un grande coglione o un grande complotto. Non se ne esce. Perché «tra l'altro la quantità rilevata è minima» precisa Donati, e perché «sarebbe stato facile presentarmi qui davanti a tutti voi e fare la figura di quello che si leva di torno e che non sapeva niente. Invece io non lo lascio, Schwazer paga le mie lotte, l'odio nei miei confronti per quanto fatto contro il doping doveva trovare una vendetta. Eccola». Ancora: «E le incongruenze sono tante, la tempistica è anomala e ci era stato chiesto da persone importanti di non vincere a Roma e La Coruña (2° nella 20 km), forse questo ha dato fastidio. E ricordo la settimana prima della 50 km, la Procura Antidoping aveva cercato di dimostrare che una prova su strada era stata una gara e non un allenamento e Alex ha rischiato che la squalifica s'allungasse... Abbiamo toccato molti interessi...l'indagine sul doping russo è partita anche da Bolzano». Parole pesanti, che più pesanti diventano e più, incredibilmente, lasciano aperto uno spiraglio: che davvero ci sia del losco, un complotto, roba brutta e alla fine Rio non salti. «È un incubo per me, è la peggior cosa che mi potesse succedere - confida Alex -, ma andrò fino in fondo. Probabilmente qualcuno non vuole che vada alle Olimpiadi, a Roma c' erano state pressioni perché non vincessi. Però credo ancora di potercela fare, darò il 100% per chiarire e farcela» e se poi vogliono, fa capire, mi levo di torno.
LA PIPÌ AL QUIRINALE E IL WATERBOARDING DELL' ANTIDOPING di Maurizio Crippa per “il Foglio” il 23 giugno 2016. Visto come ragionano gli organi di giustizia, ci aspettiamo che prima o poi qualcuno incrimini la marciatrice Elisa Rigaudo - come quel famoso professore di Bergamo - per essere stata sorpresa a fare pipì nei giardini del Quirinale. Paradosso, ma neanche troppo. Ieri gli ispettori dell'Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, in pratica la spectre delle Olimpiadi, si sono presentati a casa Mattarella per effettuare un controllo antidoping a sorpresa sulla Rigaudo, mentre partecipava alla consegna del tricolore ai portabandiera italiani in partenza per Rio 2016. I corazzieri li hanno gentilmente mandati a cagare, e il test su sangue e urine rimandato a quando l'Elisa è rientrata con gli altri alla Casa delle armi al Foro Italico. Ma il vulnus resta. E va bene che con gli olimpionici non si sa mai, e che Alex Schwazer dopo le lacrime e la riabilitazione l'hanno beccato (l'avrebbero) positivo un'altra volta. E va bene che le squalifiche per doping sono rimaste l'unico tipo di sanzioni che l'occidente riesca ad applicare a chicchessia, ad esempio alla Russia di Putin. Ma al Quirinale? Durante una cerimonia ufficiale? Gli energumeni della Iaaf affermano di essersi mossi in base al whereabout, il protocollo che impone agli atleti di essere sempre reperibili per i controlli a sorpresa (provassero un po' con le centrali iraniane). Ma detta così, sembra il waterboarding applicato allo spirito olimpico. A meno che sia il nuovo protocollo -trasparenza della luminosa epoca Raggi.
L’ANTIDOPING AL QUIRINALE LA FA FUORI DAL VASO di Filippo Facci per il “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2016. Drogarsi prima di parlare con Mattarella, o subito dopo averlo fatto: c' è una logica, proprio volendo. Ma l'idea di fare un controllo antidoping proprio al Quirinale, come ha cercato di fare ieri la Federazione internazionale di atletica, beh, andrà giustamente archiviata come una gaffe o come una smaliziata prova di stupidità: roba che l'antidoping andrebbe fatto a loro, quelli della Federazione internazionale. Forse la notizia già la conoscete: ieri, giorno in cui iniziava ufficialmente la spedizione italiana di Rio, giorno in cui appunto era prevista la cerimonia di consegna del tricolore da parte del Presidente della Repubblica, giorno in cui peraltro scoppiava un altro caso di doping legato ad Alex Schwazer, ieri, insomma, la International Association of Athletics Federation (Iaaf) ha pensato di presentarsi al Quirinale per controllare le urine di una marciatrice presente alla cerimonia, Elisa Rigaudo. Al Quirinale, sì. E li hanno messi alla porta, ovvio, anzi, non li hanno neanche fatti entrare. Nota: l'estate scorsa, durante una spedizione sul Monte Bianco, il campione del mondo di karate Stefano Maniscalco continuava a dire allo scrivente che, anche a 4000 metri, doveva sempre rendersi disponibile alla Federazione in base al "whereabout", cioè una sorta di indicazione che gli atleti devono lasciare per essere reperibili per eventuali controlli antidoping; a me e agli altri pareva una pazzia, ma probabilmente aveva ragione. Gli ispettori non andarono sul Monte Bianco, ma sul Colle ieri ci sono andati. Fine della nota. E, ieri, era bellissima l'espressione del presidente del Coni, Giovanni Malagò, mentre un corazziere lo avvertiva: ci sono i commissari con le provette, sì, proprio qui nei giardini del Quirinale, sì, proprio mentre c'è la cerimonia che precede la partenza per le Olimpiadi. Va da sé: agli ispettori hanno risposto che la raccolta di sangue e urine, forse, potevano andarsela a fare da un'altra parte, per esempio al Foro Italico dove più tardi hanno intercettato la povera Rigaudo. La quale, intervistata da Repubblica online, più tardi ha detto: «L' ispettore non sapeva che il Quirinale era un posto molto importante». Era un tedesco: l'orgoglio di Mattarella ne avrà avuto nocumento. La Rigaudo, invece, pare abbia detto al tizio della Federazione: «Scusi, ma è come se lei volesse fare il test a degli atleti mentre sono a casa della Merkel». Incidente diplomatico? Ma no, niente, figurarsi: the sport must go on, il Doping controller officer (Dco) successivamente ha potuto officiare in una sala igienicamente idonea negli uffici del Coni. Così, nella giornata di ieri, si sono registrate tre notizie. La prima: Alex Schwazer è risultato positivo al controllo antidoping. La seconda: Elisa Rigaudo è risultata negativa al controllo antidoping. La terza: Sergio Mattarella è risultato.
DUE TECNICI SPECIALIZZATI, 48 ORE DI LAVORO, UNA PROCEDURA COSTOSA E SPECIALIZZATA: LA ... di Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2016. Due tecnici specializzati, 48 ore di lavoro, una procedura costosa e specializzata: la spettrometria di massa per rapporto isotopico. Lo scorso 13 maggio, per dichiarare positive le urine di Alex Schwazer, i biologi del laboratorio Wada di Colonia hanno utilizzato lo stesso metodo che smaschera chi adultera il whisky per vendere al prezzo dei pregiati «single malt» i banali «blended». Hanno ionizzato la pipì del marciatore bombardandola con un fascio di elettroni per poi spararla all' interno di un analizzatore di massa. Il risultato? La percentuale di carbonio-13 ha dimostrato la presenza di precursori del testosterone sintetico estranei all' organismo. Per i tedeschi è il risultato esemplare dell'efficacia della più avanzata arma contro il doping: il passaporto steroideo, complementare a quello sanguigno per accerchiare i bari. In vigore dal 1° gennaio 2015 (quando Alex era fermo per squalifica) il passaporto di Schwazer è nato con il primo controllo a sorpresa fuori competizione, lo scorso dicembre a Roma. Per validarlo servivano dai tre ai sei test, di cui uno in competizione: quello della vittoria in Coppa del Mondo a Roma dello scorso 8 maggio. In ogni esame si valutavano parametri diretti e indiretti (testosterone assoluto, rapporto con epitestosterone) per costruire una «curva di normalità» sempre più raffinata. L'aggiunta del tassello dell'8 maggio ha messo fuori range il controllo dell'1 gennaio a Vipiteno: i test a sorpresa nei giorni festivi non sono rari, perché chi si dopa li considera strategici. L' ipotesi di complotto durante la procedura di esame sarebbe smentita dal rigoroso protocollo operativo. L' analisi di gennaio è stata fatta a Colonia su campioni «ciechi». Accertata la negatività, i parametri steroidei sono stati trasferiti alla Iaaf per costruire un profilo ormonale anonimo. Il 13 maggio, ricevuto l'ultimo esame, il sistema Iaaf ha segnalato in automatico l'anomalia a Colonia, che con Roma e Montreal è la struttura più avanzata al mondo sul fronte ormonale. Allarme rosso. A quel punto è scattato il bombardamento ionico che ha isolato (in quello che restava della provetta A) il testosterone sintetico su un'urina sempre anonima: positività netta - non massiccia - e impossibile da contestare. Ok, ma cosa ha fatto Alex Schwazer per risultare positivo? Nessun tecnico o dirigente di laboratorio si sbilancia. Ma le possibilità sono sostanzialmente tre. La prima è la più drammatica per chi in Alex ha creduto. Quantità e qualità dei precursori del testosterone sono compatibili con un micro dosaggio continuativo: un piano organizzato di doping. Steroidi in un atleta di endurance, con masse muscolari ridotte? Farsi di testosterone aumenta la resistenza agli allenamenti duri e migliora il recupero. L'ipotesi è agghiacciante perché presuppone un tradimento totale dell'allenatore Donati e dello staff medico e un supporto medico e farmacologico parallelo. La seconda ipotesi, non meno agghiacciante per ragioni opposte, è la contaminazione dolosa: i tecnici ammettono che le quantità ritrovate sono compatibili con un'assunzione unica anche involontaria - avvenuta in un range temporale di alcuni giorni prima del controllo - di testosterone per via orale. Insomma, qualcuno potrebbe aver piazzato il farmaco in un alimento o una bevanda per incastrare Alex. La terza ipotesi è la contaminazione. Non alimentare (ci sarebbero altri precursori) ma piuttosto da integratori, che però Schwazer ha sempre detto di non utilizzare. Ora la palla passa alla giustizia sportiva. Analisi del campione B entro il 5 luglio o prima, se la difesa riuscirà a chiedere un anticipo. Se la positività fosse confermata, come accade sempre nella giustizia sportiva tocca all' atleta l'onere di provare con fatti concreti la sua innocenza. Una sfida al cui confronto la 50 chilometri olimpica è una passeggiata.
Doping Schwazer, perché serve essere garantisti. Se si è dopato va radiato. Ma il test che lo inchioda è sospetto. E va chiarito, scrive Gabriele Lippi su “Lettera 43” il 22 Giugno 2016. Déjà vu. A pochi metri dal traguardo più ambito, il marciatore si ferma. A colpirlo non è una crisi di fame o la disidratazione dopo quasi 50 chilometri sotto il sole, ma un test antidoping che fa piombare su di lui la più infamante delle accuse che possano esistere per un atleta. Ad Alex Schwazer era già successo prima di Londra 2012, ed è ricapitato a 45 giorni dalla cerimonia di inaugurazione di Rio 2016. Epo, allora, anabolizzanti adesso. Sembra di vedere un film già visto, eppure le differenze tra le due situazioni sono più delle analogie. Allora, scoperto, Alex si presentò in conferenza stampa, da solo, senza un solo membro della Fidal a fargli compagnia. Pianse lacrime amare, ammise ogni responsabilità, raccontò di essere andato a spese proprie fino in Turchia per acquistare 1.500 euro di eritropoietina e assumerla poi a casa sua per mesi, ingannando anche la fidanzata Carolina Kostner, che per quel peccato di ingenuità/negligenza/amore avrebbe pagato con una squalifica di 16 mesi (poi ridotti a 12). Spiegò di averlo fatto perché «tutti lo facevano, e mi sentivo impotente». Apparì come un uomo solo, schiacciato dalla pressione, un atleta che si sentiva costretto a vincere e unico baluardo di un'atletica italiana con poco talento e un livello di programmazione inferiore agli altri. Qualcuno provò compassione, altri no, ma sulla sua colpevolezza non potevano esserci dubbi. Oggi è tutto diverso. La provetta che incastra Schwazer è stata prelevata a gennaio e, la prima volta, ha dato esito negativo. A maggio, poco dopo la sua vittoria nella 50 km del Mondiale a squadre di Roma, a pass olimpico strappato, un nuovo test sullo stesso campione. Positivo, stavolta, con valori di testosterone 11 volte superiori alla media. Non uno scarto minimo, ma qualcosa di enorme, passato inosservato al primo controllo e trovato solo con le contro-analisi. In mezzo, tra quei due esami, Schwazer ha ricevuto 15 visite degli ispettori Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera), Wada (l'agenzia mondiale antidoping) e Nado (l'agenzia italiana antidoping). Tutti rigorosamente negativi. In un anno, da quando nel maggio 2015 ha deciso di tornare a gareggiare, affidandosi alle cure di Sandro Donati, ha subito 47 controlli antidoping, senza risultare mai positivo. Ora è facile cadere nella tentazione della gogna mediatica e invocare la radiazione. Chi scrive ha sempre sostenuto la tesi della 'seconda chance', l'ideologia della redenzione. Eppure, la prima tentazione nella notte del 22 giugno, è stata quella di fare mea culpa, scagliarsi contro Schwazer, chiedere scusa a Gianmarco Tamberi e a chi, come lui, aveva espresso pareri durissimi sulla sua possibile partecipazione a Rio. Perché chi gli aveva concesso un'apertura di credito si sente ancora più tradito di chi, al contrario, non l'ha mai perdonato e mai lo perdonerà. Ci si sente persino un po' sciocchi ad averci creduto. Ma in un mondo giusto, Schwazer merita la sospensione di un giudizio che stavolta potrebbe essere quello finale. La merita non per le lacrime versate nel 2012, non per l'oro di Pechino 2008, non perché a lui ci si aggrappa per una medaglia in più in un'Olimpiade destinata a dare poche gioie all'Italia. La merita in quanto essere umano. La storia dello sport è tristemente piena di truffatori dopati, ma conta anche drammi umani legati a giudizi sommari e vittime innocenti di casi tuttora irrisolti. La fine di Marco Pantani, morto da solo in una camera d'albergo dopo esser stato trattato come un paria per un ematocrito sopra il limite che ancora oggi è velato dall'ombra del complotto, dovrebbe far riflettere. Così come quella, fortunatamente con esito diverso, di Andrea Baldini, fiorettista italiano costretto a fermarsi mentre si preparava all'Olimpiade di Pechino 2008 da favorito assoluto perché nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico non dopante ma usato anche come coprente di altri farmaci. Baldini sostenne di non aver mai assunto quella sostanza, gli esami approfonditi non trovarono traccia di doping, e pochi mesi dopo fu riabilitato. Tornò e si laureò campione del mondo, ma quei Giochi di Pechino, nessuno glieli ha mai potuti restituire. Schwazer, a differenza di Pantani e Baldini, ha già sbagliato una volta, è vero, ma quel conto l'ha già pagato. Ora va giudicato per questo nuovo caso, e la lezione migliore, in queste ore, nel mucchio di chi lo chiama «stupido» e invoca la sua radiazione, arriva dal silenzio di Tamberi, dal richiamo al garantismo di Filippo Magnini, o dalle parole dello spadista Paolo Pizzo, un altro che non è mai stato soft nei giudizi sul marciatore e su chiunque si dopi. «Se fosse vero, sarebbe molto molto grave». Se fosse vero, appunto. Occorre andarci piano, ascoltare le spiegazioni del marciatore, che ha convocato una conferenza stampa per le 18 del 22 giugno, e del suo avvocato Gerhard Brandstaetter, che parla di «accuse false e mostruose». In gioco non c'è solo la carriera di un atleta, ma la vita di un ragazzo di 31 anni e la credibilità di un allenatore come Sandro Donati, che su Schwazer si è giocato tutto. Se non volete farlo per Alex, fatelo almeno per lui. Aspettate. Poi, se tutto sarà confermato, radiazione a vita sia. Altrimenti chiederemo conto alla Iaaf di come un test negativo a gennaio possa risultare con valori 11 volte più alti della norma a maggio.
Donati: “Ho combattuto la mafia del doping sono minacciato e vivo nella paura”. L’allenatore di Schwazer: “Racconterò tutto ai pm”, scrive Attilio Bolzoni l'11 luglio 2016 su "La Repubblica". Sempre più solo e sempre più accerchiato, questa mattina ha parlato con "qualcuno che gli sta intorno" e l'inquietudine che l'ha accompagnato nei suoi ultimi drammatici giorni è diventata paura. Confessa Sandro Donati: "Sì, ho paura che possa accadere qualcosa di molto brutto a me o alla mia famiglia". Paura di cosa, professore? "Anche di perdere la vita". Non è soltanto una storia di qualificazioni olimpiche e di record, di allori e di medaglie. Una vicenda che è stata rappresentata come uno scandalo dello sport in realtà fa tanto odore di mafia, di clan, di soldi. E mistero dopo mistero si sta trasformando in un affaire internazionale dove le provette di urina s'intrecciano con grandi affari e grandi interessi, appetiti di consorterie criminali, intrighi e vendette. Sandro Donati esce allo scoperto, non si arrende, attacca. E denuncia: "Non mi sono piegato ed ecco perché adesso temo il peggio. Già la mia carriera di allenatore è stata stroncata 29 anni fa quando feci le prime denunce sul doping, ma oggi le contiguità fra alcune istituzioni sportive e ambienti malavitosi sono ricorrenti e dimostrabili". Da Vipiteno, il ritiro scelto per allenare Alex Schwazer per le Olimpiadi di Rio e suo quartiere generale anche dopo l'assai sospetta positività al doping del marciatore che è finito in un gorgo fangoso, svela i suoi timori e annuncia: "Andrò al più presto alla procura della repubblica di Roma a rappresentare certe situazioni, ho molte cose da dire ma nei dettagli preferisco informare prima i magistrati. Per colpire me è stato macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma che è un campione immenso che avrebbe sicuramente vinto a Rio la medaglia d'oro sia sui 20 chilometri che sui 50".
Chi l'ha voluto fermare?
"Questa storia porta con sé un messaggio molto chiaro: chiunque parla va messo fuori gioco, chi rompe il muro dell'omertà che c'è sul doping deve comunque pagarla cara".
Ci spieghi meglio: da dove provengono queste minacce per la sua vita?
"Più persone mi hanno sottolineato come sia stato un grande azzardo da parte di Alex Schwazer accusare gli atleti russi di doping. Ed è evidente il rapporto di corruttela reciproco che ha contrassegnato la relazione fra alcuni dirigenti della Iaaf (la Federazione internazionale di atletica) e le autorità sportive russe, finalizzato ad insabbiare o a gestire in maniera addomesticata i casi di doping".
E cosa c'entra tutto questo con la sua paura?
"Io ho avuto un ruolo fondamentale, collaborando con la procura della repubblica di Bolzano e con il Ros dei carabinieri, nell'individuazione di un gigantesco date base che era nelle mani di un medico italiano che collaborava e collabora ancora con la Iaaf. Nel date base c'erano centinaia di casi di atleti internazionali con valori ematici particolarmente elevati. E, tra questi, un gran numero di russi. Ho portato all'attenzione della Wada (l'agenzia mondiale antidoping) quel data base e nel frattempo la magistratura francese ha aperto un'indagine per riciclaggio e corruzione nei confronti del vecchio presidente della Iaaf Amine Diack che è stato arrestato ".
Lei sta dicendo quindi che la sua azione contro il doping ha provocato una rappresaglia?
"Ne sono sicuro. E ho cominciato a ricevere strane telefonate e anche strane mail che ho già consegnato alla magistratura. Una mi diceva: "Ho da comunicarti informazioni che ti riguardano, un accademico tedesco possiede documenti che dimostrano il tuo coinvolgimento nella vicenda del doping dei russi". Era firmata da una certa Maria Zamora, un nome e una persona che non conosce nessuno. Ho fatto le mie ricerche e sono arrivato alle conclusioni che la parte corrotta della Iaaf e i russi sono un tutt'uno".
Ma perché questo accanimento contro di lei?
"Perché c'è un sistema che non tollera che l'antidoping venga fatto da soggetti esterni alla sua organizzazione, in questo caso la Iaaf. La vicenda è stata in questo senso un'operazione quasi "geometricamente perfetta". Che lancia un avviso a tutti: di doping non si deve parlare, ce ne dobbiamo occupare solo noi istituzioni sportive e chi ne parla fuori fa sempre una brutta fine".
È una legge molto mafiosa, quella del silenzio.
"Il silenzio è la legge in quel mondo. C'è anche una complicità politica, ma non solo in Italia, in tutti i Paesi. Le manovre di isolamento nei miei confronti sono iniziate fra marzo e aprile di quest'anno quando hanno messo in circolo alcune informazioni false, secondo le quali io avrei avuto un ruolo marginale nella Wada. Un tentativo di delegittimarmi, il mio rapporto con la Wada è sempre stato intensissimo fin dal 2003. Eppure qualcuno ha scritto che io ero "un millantatore". Poi è arrivato il resto. L'8 maggio - il giorno prima che Alex vincesse a Roma la gara dei 50 chilometri per la qualificazione a Rio - qualcuno mi ha telefonato dicendomi "che sarebbe stato meglio che Alex arrivasse secondo". Una ventina di giorni dopo lo stesso personaggio mi ha ritelefonato consigliandomi di "non rispondere all'attacco dei marciatori cinesi" nella 20 chilometri. C'è gente che vuole condizionare i risultati, gente che ha interessi altri. Io, dopo 35 anni di attività, posso dire che non ho mai visto tanta coalizione di forze e tanti segnali inquietanti come in questa vicenda di Alex".
Professor Donati, lei è da una vita che combatte contro il doping. Ma davvero l'hanno lasciato sempre solo?
"Qualche mese fa alcuni deputati della Commissione Cultura della camera mi avevano invitato per un'audizione. Mi sono preparato, poi le istituzioni sportive hanno lavorato per depennare il mio nome. Silenzio. Vogliono solo il silenzio".
Come sta Alex Schwazer?
"È un ragazzo serio. È aggrappato a una piccola speranza che vede in me. Ma è così sereno che l'altro giorno mi ha detto: " Prof, se non mi vogliono, io farò altro". Io però non mi arrendo anche se vivo nel terrore. Ho paura ma non piego".
"Cosa ho visto in quella stanza...": Lo sfregio, l'avvocato spiega come hanno umiliato Schwazer, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Una notte da incubo, per Alex Schwazer, volato a Rio de Janeiro per l'incontro con il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che dovrà decidere se concedergli la possibilità di partecipare ai giochi dopo il - controverso - caso di doping che lo ha coinvolto. Il Tas ha deciso di non decidere: il verdetto slitta a venerdì, il giorno in cui Alex dovrebbe affrontare la sua prima gara, la 20 chilometri. Un nuovo sfregio contro l'azzurro, arrivato al culmine di un tesissimo incontro, durante il quale l'allenatore, Sandro Donati, avrebbe dato in escandescenza, urlando, abbandonando la stanza sbattendo la porta, per poi tornare, sempre più scorato. "Il verdetto pare già scritto", hanno detto da ambienti vicini ad Alex. E a tratteggiare il clima che si respira, ci ha pensato l'avvocato dell'atleta, Gerhard Brandstaetter, che spiega che cosa ha visto nella stanzetta dove hanno "processato" il suo assistito: "Il clima è un po' da santa inquisizione, ma noi siamo convinti di aver ragione. Adesso speriamo di trovare un giudice che ce la dia". L'udienza è durata quasi 10 ore, un'eternità. "Alex era molto stanco e provato, ha preferito tornare in hotel. Domani si allenerà e aspetterà fiducioso". Ma la fiducia, purtroppo, è pochissima: la Iaaf, la federazione internazionale di atletica, avrebbe chiesto otto anni di squalifica per il marciatore. Un piano perfetto per farlo fuori. Tanto che la difesa di Schwazer al Tas, si è appreso, ha assunto i contorni di un attacco totale proprio alla Iaaf. Nel mirino della difesa i macroscopici vizi procedurali relativi ai controlli del campione positivo, prelevato lo scorso primo gennaio. Inoltre, per dimostrare che la sostanza trovata nelle urine di Alex fosse stata piazzata, la difesa ha presentato un modello logico-matematico che si basa sui tempi di dimezzamento del testosterone sintetico nella quantità rilevata. L'obiettivo è dimostrare che i controlli subiti da Schwazer subito dopo il primo gennaio avrebbero dovuto rilevare sostanze dopanti. Ma in un clima da "santa inquizione", giusto per ripetere le parole dell'avvocato, ogni dimostrazione potrebbe rivelarsi inutile.
Il campione che l'Italia ha abbandonato. "Libero Quotidiano" per Schwazer: "Preso per il culo", scrive di Fabrizio Biasin
il 10 agosto 2016. Noi ancora non lo sappiamo, ma Alex Schwazer ha ammazzato qualcuno. Non c’è altra spiegazione. Tra l’altro non deve avere ucciso «uno qualunque», un povero cristo, semmai il parente di qualcuno che conta: un bis-nipote del presidente Iaaf (federazione internazionale di atletica leggera), lo zio di un capoccione della Wada (l’agenzia mondiale antidoping). Viceversa non si spiega l’accanimento, il trattamento ai limiti della presa per il culo (e perdonateci il «culo», ma quando ci vuole ci vuole) che il mondo dell’atletica sta riservando al nostro marciatore e, di riflesso, anche a noi italiani. Schwazer conoscerà il suo destino - ovvero la decisione sul farlo o non farlo gareggiare a Rio - «entro venerdì», che poi è il giorno della 20 km, una delle due gare alle quali vorrebbe partecipare (per provare a vincerle, tra l’altro). L’ha deciso il Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport), chiamato a trovare una risposta al seguente domandone: è Alex un dopato recidivo e quindi figlio di buona donna? Si è effettivamente «strafatto» di anabolizzanti l’1 gennaio scorso e merita quindi pernacchie e radiazione (8 anni, richiesta della Iaaf)? Avremmo dovuto scoprirlo nella notte italiana di lunedì ma, «chi comanda», ha scelto di rimandare ulteriormente ogni decisione (il primo rinvio senza senso è del 27 luglio, firmato dai «soliti» responsabili Iaaf). Non vi sentite parte in causa? Son fattacci del marciatore e peggio per lui? Forse avete ragione, ma perdete due minuti dietro a questa vicenda allucinante e vediamo se cambiate idea. Alex Schwazer - 31 anni, altoatesino, faccia da sberle - è uno sculettatore con i fiocchi e, infatti, marcia che è una meraviglia. La «povera» atletica leggera italiana se ne accorge ben presto, si attacca alla gallina dalle uova (e dalle medaglie) d’oro e ben fa. Non stiamo ad annoiarvi con l’elenco dei trionfi, ci limitiamo a citare il 1° posto di Pechino 2008, conquistato triturando gli avversari. Quattro anni dopo, alla vigilia dei Giochi di Londra, il «patinato» fidanzato della pattinatrice Carolina Kostner, viene giustamente sputtanato sulla pubblica piazza: è dopato, si fa di Epo, deve essere fermato. Così accade: Schwazer si becca, tra una cosa e l’altra, 45 mesi di squalifica, gli amici gli girano le spalle, la fidanzata lo molla. Praticamente è solo come un cane. Solo un tale gli tende la mano, Sandro Donati, paladino della lotta al doping, tecnico capace, uomo di sport che non piace al mondo dello sport per la sua petulante denuncia contro un sistema sporco e corrotto. «Ti alleno io», gli dice. «Grazie», risponde Alex. I due si fanno un mazzo così marciando lungo le strade provinciali, ben lontano dai campi di gara a loro preclusi. Schwazer viene guardato dagli altri come «sozzo e imperdonabile», ma se ne frega, ritrova forma e tempi, quindi alla prima occasione dopo la riabilitazione (Roma, Mondiale a squadre dell’8 maggio scorso) conquista vittoria e crono utile per volare a Rio. Una favola straordinaria? Neanche per idea. Il 21 giugno salta fuori una provetta, quella relativa alle analisi a sorpresa dell’1 gennaio scorso: il test che a suo tempo diede esito negativo, improvvisamente si trasforma in positivo. Alex viene sospeso. E fa niente se gli altri 19 controlli a cui si è sottoposto negli ultimi due anni hanno certificato la sua «purezza»: Alex, per chi comanda, è come il lupo che perde il pelo e bla bla bla. In conferenza stampa il marciatore, Donati e l’avvocato Brandstaetter sono incazzati come iene e gridano la loro innocenza. Spuntano telefonate registrate in cui si «consiglia» a Schwazer di non vincere «perché è meglio così». Come se non bastasse, l’ennesimo test (quello del 22 giugno) è negativo: Alex chiede e ottiene udienza al Tas. Il resto è storia di oggi: il-rinvio-del-rinvio-della-sentenza-sulla-vera-o-presunta-positività-relativa-a-un-test-che-era-negativo-ma-poi-è-risultato-positivo. Una situazione grottesca, un trattamento indegno. Il tutto condito da un silenzio bestiale: non tanto quello dei tifosi (c’è chi grida al complotto, chi semplicemente denuncia «l’indecenza» del trattamento riservato al nostro marciatore), quanto quello dei nostri «comandanti», dei capi-spedizione, dei responsabili del Coni. Nessuno tra quelli «che contano» che alzi un dito e dica: «Squalificarlo è vostra facoltà, umiliarlo proprio no». Niente di niente: vince l’indifferenza, il mutismo rotto solo da Donati che, lunedì, dopo 7 ore di udienza, se n’è andato dall’aula di Rio sbattendo la porta. «Hanno già deciso», ha detto a mezza bocca. Sul volto la smorfia di chi inseguiva un sogno. Fabrizio Biasin
Doping, Schwazer: il Tas ha deciso otto anni di squalifica: «Sono distrutto, chiedo più rispetto per me». La sentenza ai danni del marciatore azzurro notificata alle parti, accolta la richiesta della Federazione internazionale per la positività di inizio gennaio, scrive Gaia Piccardi, inviata a Rio de Janeiro, il 10 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. La lunga marcia finisce qui, sul lungomare scintillante di Copacabana dove Alex Schwazer sparisce nel buio pesto della notte brasiliana con il morale a pezzi («Sono distrutto»), inseguito dai fantasmi di un verdetto impietoso: otto anni di squalifica per doping-bis. Ha gli occhi scavati, le labbra serrate, nessuna voglia di parlare: «Dovreste avere più rispetto per me come persona». Sale in taxi, destinazione sconosciuta. In mattinata si era allenato sotto la pioggia, 40 km inseguito da Sandro Donati in bicicletta e aggrappato alla certezza che il Tas lo avrebbe riammesso ai Giochi di Rio, che avrebbe potuto indossare una maglia della nazionale italiana ed entrare in una stanza del villaggio, parte integrante della spedizione olimpica, di nuovo atleta e non più reietto. L’udienza fiume (9 ore) di lunedì, dopo due giorni di camera di consiglio, invece ha prodotto il verdetto più scontato in presenza di positività al testosterone. La fine della carriera. La fine di tutti i sogni. Gliel’ha detto la manager storica, Giulia Mancini. Alex si è seduto e ha fissato il pavimento per un’ora, livido. Poi ha rotto il silenzio: «Potete andare?». Si è fatto una doccia, ha indossato pantaloncini e maglietta. È uscito per correre. Non è più tornato. Solo nella notte raggiunto dall’agenzia di stampa Agi ha detto: «Non mi sembrava che l’udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici». Il miracolo di ribaltare il risultato già scritto di una partita in trasferta, contro avversari enormi - la Iaaf con il direttore del suo laboratorio antidoping, Thomas Capdeville, presenza del tutto irrituale in una procedimento che di rituale non ha avuto nulla sin dall’inizio, a partire dallo spostamento dell’udienza da Losanna a Rio -, è fallito. Le spiegazioni di coach Sandro Donati, argomentate con dati/tabelle/istogrammi relativi al monitoraggio antidoping a cui Alex è stato sottoposto ogni 15 giorni dall’anno scorso («Un’iniziativa destabilizzante per un ambiente corrotto e una federazione, la Iaaf, priva di credibilità»), non sono state accolte. La veemenza con cui sono state esposte, forse scambiate per la furia iconoclasta con cui questo professore di Monte Porzio Catone da tutta la vita sta cercando di combattere un sistema che è convinto sia malato nel midollo, respinte al mittente. La tesi della Federatletica internazionale è accolta in toto: Alex Schwazer si è dopato per la seconda volta dopo la positività all’epo del 2012, nelle sue urine il primo gennaio scorso c’era il testosterone sintetico che gli costa otto anni di squalifica, la pena applicata di default a un recidivo. Le incongruenze sulla conservazione del campione, la comunicazione tardiva, l’accanimento con cui è stato esaminato più volte? Inesistenti. La tesi del complotto ipotizzata a gran voce da Donati in questo ultimo, drammatico, mese? Fantasia. La marcia s’interrompe, questa volta per sempre, nel luogo che più stride con la costernazione profonda della coppia di fatto Alex&Sandro, saldati dalle circostanze e abbattuti all’ultimo assalto alla diligenza. Dietro l’hotel Best Western dove si consuma il dramma sportivo e umano di Schwazer e Donati, le mille luci del lungomare più glamour di Rio e dell’Olimpiade, il luogo dei tanga, delle infradito e delle caipirinhe. Dentro, nella stanzetta che atleta e allenatore dividono in questa trasferta per risparmiare le spese, solo rabbia, lacrime e tristezza. Se Alex, a 30 anni, può inventarsi un’esistenza tra Calice e Vipiteno («È scioccato ma adulto, affronterà la vita fuori dall’atletica» dice il prof, stravolto), magari puntellandosi all’affetto della nuova fidanzata (Carolina Kostner tace, sullo sfondo), non c’è dubbio che Donati non si darà pace fino all’ultimo dei suoi giorni: «È una vicenda grottesca, umiliante per Alex e chi gli sta accanto. La battaglia ora passa sul piano giudiziario: ci sono già due Procure, Bolzano e Roma, che indagano». Doveva finire sul traguardo dell’Olimpiade, magari già nella 20 km di marcia di domani. E invece il sipario cala così, come una pietra tombale su questa tragedia shakespeariana. Mai finita anche adesso che è finita.
Doping, il Tas ha deciso: Schwazer condannato a 8 anni. "Sono distrutto". Il Tribunale di arbitrato sportivo ha emesso il proprio verdetto: non correrà la marcia 50km venerdì 19 agosto. La sentenza arriva dopo la positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Donati: "Gli hanno stroncato la vita". Tamberi lo attacca di nuovo, scrive il 10 agosto 2016 “La Repubblica”. Il Tas demolisce la carriera di Alex Schwazer. Il Tribunale di arbitrato sportivo ha condannato il marciatore altoatesino a una squalifica di 8 anni per la nuova positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Il verdetto arriva dopo l'udienza fiume di due giorni fa in cui Schwazer aveva esposto le proprie ragioni, chiedendo l'audizione di alcuni testimoni via skype e producendo una importante documentazione attraverso schede powerpoint e test. Il Tas ha accolto tutte le richieste che la Iaaf aveva fatto e quindi non ha concesso alcuna attenuante al marciatore altoatesino che sognava le Olimpiadi di Rio de Janeiro, obiettivo che si era prefissato da oltre un anno, quando aveva iniziato la collaborazione con Sandro Donati, il paladino della lotta al doping. "Sono distrutto", è la prima frase con cui Schwazer commenta il verdetto. Per poi aggiungere: "Non mi sembrava che l'udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Di quelle dieci ore che abbiamo parlato dove Donati ha presentato il suo power point, non è rimasto nulla, solo una grande amarezza. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici". Il tecnico Sandro Donati, in conferenza, lo difende con convinzione: "E' evidente un fine persecutorio nei confronti si Alex. Di riffa o di raffa dovevano eliminare Schwazer. Non parlerò della mia persona, ho una certa età. Ad Alex hanno stroncato la vita. Stamattina ha marciato per una quarantina di km a una velocità che tolti uno o due marciatori nessuno saprebbe tenere nemmeno in gara. E' evidente che era facile incolpare uno con un precedente. Poi avete visto con quale tecnica, anche medici interessati da procedimenti giudiziario, si siano affrettati a definirlo persino "bipolare". Alex è lineare, coerente, semplice, affidabile. Ha sbagliato una volta, con sua quota di responsabilità coinvolgendo anche la Kostner in una cosa in cui non entrava niente. Ma in quel periodo è stato abbandonato a sé stesso. Non gli è stato dato un allenatore adeguato. Qualcuno gli ha prescritto un antidepressivo per email. Sapevano che aveva incontrato il dott. Michele Ferrari e nessuno è intervenuto. Gli hanno permesso di andare in Germania per un mese. Tutti si sono sottratti, il Coni e la federazione". Ora cosa sarà di voi? "Alex è cresciuto tanto in questi anni e ha l'equilibrio per affrontare la vita anche fuori dall'atletica. Lui dopo Rio l'avrebbe abbandonata comunque dopo Rio. C'è stata un'opera di delegittimazione di Schwazer appena ha iniziato a lavorare con me, con foto mandate in giro. Ex miracolati di Conconi. Alex marcia alla grande, non gli è mai stato alzato un cartellino rosso. Si è pagato tutto di tasca sua, e lo hanno accusato di fare marketing". Chi invece è tornato ad attaccare Schwazer è Gianmarco Tamberi, a Rio per seguire le gare nonostante l'infortunio che gli ha impedito di essere tra i protagonisti del salto in alto: "Mi chiedete se 8 anni sono giusti? Non sono io a dovermi esprimere, ma Schwazer è stato trovato positivo due volte, e questo non sono io a dirlo...". L'atleta azzurro ribadisce la sua posizione: "Mi ero espresso prima di questa nuova positività, ho sempre pensato che un'atleta pizzicato per doping non debba più vestire la maglia azzurra perché non rappresenta più i valori della nazionale". Anche Elisa Di Francisca, argento nel fioretto a Rio, non è tenera con l'altoatesino: "Non ho mai barato, non ho mai pagato nessuno per farmi vincere. Ho la coscienza pulita perché non mi sono mai dopata in vita mia. Questa è la mia linea e lo sarà sempre, i risultati li voglio ottenere solo attraverso i miei sacrifici. Sta a ognuno di noi comportarsi bene". L'ultima chance, ma ormai i Giochi saranno passati, sarà quella di andare fino all'ultimo grado di giudizio che è la Corte Federale svizzera. Il 31enne marciatore di Calice di Racines farà richiesta di esame del Dna. Alex Schwazer era stato trovato positivo all'esame antidoping del primo gennaio 2016 solamente a seguito di un test di laboratorio effettuato oltre tre mesi dopo l'esame che inizialmente aveva dato esito negativo. Gravi - secondo la difesa - sono stati i ritardi nella comunicazione all'atleta da parte della Iaaf. Infatti, sono trascorsi oltre 40 giorni dal momento della positività riscontrata, il 13 maggio, alla notifica, avvenuta il 21 giugno. "Siamo delusi ma andremo avanti a trovare la verità con l'esame del Dna e quant'altro. Otto anni perché è recidivo. Non sappiamo ancora le motivazioni". Così all'Agi l'avvocato Thomas Tiefenbrunner, legale di Alex Schwazer, alla notizia della squalifica di otto anni inflitta al marciatore altoatesino.
LO HANNO FOTTUTO. "Sotto shock", paura per Schwazer: nella notte, la sua tragica reazione, scrive “Libero Quotidiano” l’11 agosto 2016. Carriera e Olimpiadi cancellate, con un metaforico tratto di penna. Fottuto. Fregato. Massacrato. Otto anni di squalifica per Alex Schwazer, che era volato a Rio de Janeiro per il ricorso al Tas e per sperare in queste Olimpiadi. La situazione in cui lo avevano cacciato era disperata, ma lui ci credeva ancora. Ancora un pochino. Ma niente da fare. La caccia alle streghe si è conclusa così, con una punizione esemplare che lo uccide sportivamente e che arriva per un caso molto, troppo sospetto. E Alex ha reagito male. Nel peggiore dei modi, rinchiudendosi in se stesso. L'unica frase pubblica che gli è uscita dalla bocca è stata: "Sono distrutto". È un ragazzo fragile, Schwazer, lo dimostra quella sua tragica e indimenticabile conferenza stampa in cui, nel 2012, ammise tutte le porcherie di doping che aveva fatto. Porcherie che oggi, probabilmente, non ha fatto. Per nulla. Sono in pochi a credere che si sia dopato ancora, sotto lo sguardo attento di mister Sandro Donati, per giunta, l'uomo che ha lottato tutta la vita contro il doping e che proprio per questo, forse, oggi ha pagato. Nella notte italiana, Schwazer ha anche disertato la conferenza stampa convocata nella terrazza dell'albergo dopo lo squalifica. Se ne è andato via da solo, cercando il mare, un luogo in cui nessuno lo guardasse. Secondo il racconto della Gazzetta dello Sport si è seduto a un tavolo alla Casa dos Marujos, senza consumare nulla, guardando fisso la tv che proiettava Svizzera-Usa di beach volley. Solo, per più di un'ora, con la maglietta azzurro indosso, come se dovesse iniziare ad allenarsi, da un momento all'altro. Poi si è alzato e si è infilato in un taxi insieme alla sua manager, Giulia Mancini. Poi c'è mister Donati, che racconta: "Ho informato io Alex della squalifica, è rimasto in silenzio per venti minuti, senza parlare". Dunque una nuova rivelazione, che aggiunge ulteriore puzza di marcio al marcio di questa storia: "Nell'udienza del Tas, abbiamo scoperto che il famoso controllo antidoping a sorpresa era stato pianificato e comunicato agli ispettori del prelievo 15 giorni prima. Una situazione incredibile, mettendo a rischio la riservatezza del controllo. Perché controllarlo il primo gennaio e non il 28 dicembre? Perché l'obiettivo era quello di effettuare tutto il primo gennaio, con il laboratorio chiuso, e con la possibilità di tenere la provetta un giorno intero prima di portarla a Colonia". Un complotto, appunto. Gli indizi sono tanti, troppi. Una carriera bruciata, finita, calpestata, umiliata. Schwazer aveva pagato tutto quello che doveva pagare. Ora dovrà pagare anche un conto che forse non gli spetta. Gli resta solo la giustizia penale, dove dovrà dimostrare che ci sia stato un sabotaggio o una sottomissione. Impresa ardua. Si inizierà col test del Dna. Ma sarà sempre troppo tardi. Per le Olimpiadi di sicuro, e forse anche per tutto il resto.
Schwazer senza scampo: 8 anni di squalifica. Accolta la richiesta della Iaaf, l'azzurro chiude con la marcia. Ma i sospetti restano, scrive Benny Casadei Lucchi, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Il Tas, nel tardo pomeriggio di Rio, ha comunicato la propria decisione e, anche se prevista, è choc. Alex Schwazer è fuori da tutto. Otto anni di squalifica. Senza se, senza ma, uno schiaffo all'uomo e ai suoi uomini, in primis Sandro Donati, paladino della lotta al doping finito anche lui in queste sabbie mobili del sospetto. Ricaduto, coinvolto, fregato, gli estremi del giallo e del due pesi e due misure resteranno per sempre perché questa seconda positività di Alex, fin dalla tardiva comunicazione a giugno, dopo mesi a rimpallarsi provette e controlli, è e resterà tinta di giallo. Il controllo del 1° gennaio, la presenza minima di anabolizzanti riscontrata, la provetta non anonima, con indicato il paese di Alex, Racines, unico atleta al mondo a vivere lì, per cui persino negato l'anonimato nei controlli. E poi l'incredibile tempistica che ha portato la Iaaf a comunicare la positività solo a fine giugno, quando ormai i tempi per appelli, difese, tentativi di far valere le proprie posizioni erano, e infatti si sono rivelati, vani. Inutile il viaggio a Rio, inutile la presenza dei suoi legali, di specialisti, di video che avevano monitorato giorno per giorno l'assenza di doping nel suo sangue. Inutile allenarsi con tristezza e la pena nel cuore lungo le vie di Copacabana. Schwazer torna a casa, ma questo è solo l'inizio di una lunga marcia verso altro. Domani avrebbe potuto correre la 20 km, la settimana dopo giocarsi tutto nella sua 50. Ora dovrà iniziare ben altro allenamento: reggere il peso di un simile epilogo. Perché la vicenda ha dell'incredibile. Squalificato alla vigilia della marcia di Londra 2012, risqualificato definitivamente alla vigilia di quella di Rio. Quattro anni più tardi, dopo averne scontati tre di fermo, dopo essere tornato alle competizioni lo scorso 8 maggio, dopo aver vinto la marcia mondiale di Roma, dopo aver fatto capire al mondo che avrebbe ipotecato la medaglia d'oro ai Giochi. Niente Giochi, invece. Vicenda surreale perché non ci si può sbilanciare da una e dall'altra parte. Perché Alex era stato trovato positivo e in più aveva mentito la prima volta. E perché la positività agli anabolizzanti riscontrata il 1° gennaio dai controllori della Iaaf è emersa solo dopo un secondo controllo il 12 maggio, quattro giorni dopo la marcia vittoriosa di Roma, ma comunicata a fine giugno. Per cui c'è tanto di cui sospettare. Da una parte e dall'altra.
Però poi, nonostante i dubbi, ci sono loro. Quelli che, comunque, stanno dalla parte della ragione. Posti esauriti, dato il gran numero.
Rio 2016, la russa Efimova in lacrime: vince l'argento ma piovono insulti, scrive Mario di Ciommo il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Yulia Efimova ha vinto la medaglia d'argento nei 100 metri rana, ma ad attenderla fuori dalla vasca non c'erano applausi e complimenti: solo fischi e insulti. La nuotatrice russa, riammessa in extremis ai Giochi dopo il ricorso al Tas, ha vissuto una serata surreale dopo la conquista della sua seconda medaglia olimpica. "Non c'è medaglia che possa cancellare l'amarezza del vedere che tutto il pubblico è contro di te, - ha dichiarato tra le lacrime la Efimova - ho commesso degli errori nella mia vita e la prima volta ho pagato con la squalifica di sedici mesi, ma la seconda volta non è stata colpa mia. Sono pulita". Anche Lily King, medaglia d'oro nella specialità, non è stata molto indulgente con la russa e durante la semifinale le ha mostrato il dito medio in vasca. "Che giorno triste per lo sport. Permettere ai dopati di gareggiare è una cosa che mi spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare", è stato invece il commento di Michael Phelps alla medaglia della Efimova, diventata un vero e proprio caso. Il clima di tensione ha richiesto l'intervento del Cio. Il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto agli atleti di rispettare gli avversari non solo con i comportamenti sui campi di gara, ma anche nelle loro dichiarazioni.
Pubblica gogna (dei perdenti) per i dopati. Altro che tregua olimpica. Rivolta di tifosi e atleti con i riabilitati dal doping. Dotto duro: "Li guardi e vorresti dargli un pugno", scrive Benny Casadei Lucchi, Mercoledì 10/08/2016, su "Il Giornale". Per la città olimpica, per il parco olimpico, nei palazzetti olimpici, ovunque si aggira uno spettro che non è solo il doping, ma anche il modo in cui atleti puliti e pubblico lo stanno vivendo. Monta l'amarezza, c'è tensione, e siamo ai fischi, agli insulti. Nel nuoto i casi Sun Yang ed Efimova e Morozov, ieri in batteria e semifinale nei 100 stile con il nostro Luca Dotto, hanno trasformato il bordo vasca in un'arena di cose brutte. S'insultano fra loro gli atleti divisi tra puri o al momento puri e sporchi o al momento ex sporchi. Caricando a pallettoni i tifosi sugli spalti. Per dire. Luca Dotto dopo le batterie dei 100 ha detto: "Le Federazioni che dovevano prendere delle decisioni stanno perdendo la faccia e hanno stancato noi e il pubblico. E poi quando ci sono un paio di ex dopati che tolgono un posto in semifinale o finale a persone pulite, che lottano tutta la vita per quel posto... ecco... quando li guardo in camera di chiamata, mi viene da prenderli a ceffoni. Però sono ormai qui, non gli si può sparare alle gambe altrimenti l'avremmo già fatto, per cui cerchiamo di batterli perché vale doppia soddisfazione". Per dire: il Cio ieri ha saputo solo uscirsene con un inutile e ovviamente inascoltato "gli avversari vanno rispettati". Luca infatti non fa nomi, ma è ovvio che si riferisca a Sun Yang argento davanti a Detti nei 400, o al russo Morozov, finito nel rapporto Wada e però riammesso dal Tas e ieri in batteria con lui nei 100 stile. Per dire: con cruda schiettezza australiana, Mack Horton, l'altro giorno ha vinto l'oro dei 400 davanti al cinese misterioso e sospetto e "non stringo la mano a un ex dopato". O come il caso Efimova, trovata positiva al meldonium e poi riammessa dal Tas e ieri notte seconda tra i fischi e gli insulti nei 100 rana. E il morso di Phelps l'ha accolta appena uscita dalla vasca: "Triste che i positivi siano stati autorizzati a gareggiare di nuovo. Mi si spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare". E il francese Lacourt sul cinese Sun Yang: "Ma se fa la pipì viola...". Questo nel nuoto. L'atletica si prepara ad ugual cosa perché lo sport più rappresentativo della rassegna a cinque stelle è anche e purtroppo il più rappresentativo del doping. Per dire: Justin Gatlin velocista duro a invecchiare e soprattutto duro a darsi per vinto dopo i malanni del doping, è l'uomo che più di tutti, sulla carta e crono alla mano, può rendere difficile la vita a re Usain Bolt. E non a caso il re, un giorno sì e l'altro pure, se ne esce con frasi contro i dopati. Ieri ha detto "stiamo estirpando l'erba cattiva". Per cui anche qui ci si chiede come atleti e spalti accoglieranno l'americano trovato positivo due volte. Ugual cosa ci si domanda per Asafa Powell, anche lui finito nelle maglie dell'antidoping per uso di stimolanti. E che dire di Sandra Perkovic, fuoriclasse del disco, dopata nel 2011 e campionessa olimpica nel 2012 e oggi qui a difendere quella medaglia? O della cinese Li Yong che a Roma, tre mesi fa, ha stravinto la 20 km di marcia e poi l'ha persa perché squalificata un mese per positività e tutto è stato fatto di fretta ed eccola qui mentre Schwazer si sta dannando l'anima per essere riammesso? Già, la triste e lunga e logorante vicenda del marciatore. Ieri notte, appena usciti dall'interminabile audizione con Alex davanti al Tribunale di arbitrato sportivo in trasferta a Rio, i suoi legali hanno detto sconsolati "Alex proseguirà con gli allenamenti, la sentenza verrà comunicata entro venerdì, termine massimo per consentirgli di prendere parte alla 20 km di marcia". Il suo allenatore, Sandro Donati, si è lasciato scappare un preoccupante "pronti a una sentenza già scritta". Gli avvocati hanno comunque fornito tutte le evidenze a sostegno della tesi difensiva: vizi di forma, la provetta etichettata con il nome del paese, Racines, dove vive un solo atleta al mondo, cioè Alex, per cui diritto all'anonimato violato. Quindi prove video che illustrano l'andamento ormonale monitorato spontaneamente per mesi, anche nel periodo in questione (il test del 1 gennaio scorso). Il problema, visto lo spettro che s'aggira per l'olimpiade, è però un altro. Comunque vada a finire, Alex ha perso. Perché se i giudici confermeranno la decisione Iaaf, addio olimpiade e carriera. Dovessero invece dargli ragione e riammetterlo in tempo utile per la 20 km e, soprattutto, per la sua 50, andrà scortato mentre marcia. Il pubblico di Rio ha scelto: la squadra degli ex dopati non ha bandiera e non ha casa.
Ricostruiti in un docufilm tutti i misteri dell'incredibile marcia di Alex Schwazer. Un instant movie firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello con la regia di Alberto Mascia che contiene inedite intercettazioni telefoniche. Su tentativi di pilotare gare internazionali di atletica e sui segreti del doping russo.
I signori del doping alla prova di una vera inchiesta, scrive il 4 agosto 2016 Elisa Marincola su "Articolo 21". Il docufilm pubblicato oggi sul sito di Repubblica aiuta a capire meglio non solo la vicenda del marciatore Alex Schwazer, ma anche il funzionamento, o non funzionamento, della macchina dell’antidoping nazionale e mondiale. Che alla fine sembra ora rivedere anche i propri stessi risultati, ridimensionati dal risultato pubblicato sempre oggi del test a sorpresa sull’atleta effettuato lo scorso 22 giugno, che dimostra ancora una volta l’assoluta assenza di sostanze nel suo fisico. Il ventesimo esame in poco più di un anno, con uno solo, curiosamente, risultato positivo. La cronaca è nota ai più, ci limitiamo a ricordare che Alex Schwazer era stato già sospeso per tre anni e nove mesi complessivi dopo essere stato trovato positivo a un test alla vigilia dei giochi di Londra. Colpa ammessa pubblicamente e scontata in silenzio e in solitudine. Ma non del tutto abbandonato, perché presto accanto a lui si è schierato una figura indiscussa dello sport pulito: l’allenatore Sandro Donati che proprio per la sua inflessibile battaglia contro le pratiche di doping diffuse molto oltre l’immaginabile ha sacrificato la sua carriera, messo praticamente al bando da incarichi prestigiosi che pure proprio per le grandi capacità tecniche avrebbe meritato. E proprio grazie al sostegno tecnico e umano di Donati, Alex ha ripreso ad allenarsi fuori dai circuiti ufficiali che gli erano vietati, ha ricostruito il suo fisico ma soprattutto la sua anima e la sua autostima, sempre sotto stretto controllo del suo mister, che lo ha costretto a marce forzate e analisi continue. Fino all’8 maggio, quando, finita la squalifica, corre sui 50 km alla Coppa del mondo di Roma e vince indiscutibilmente. E poi, all’improvviso, a un mese e mezzo da quella bella medaglia d’oro, la rivelazione di quel famoso prelievo la mattina di capodanno, con due risultati contrastanti usciti a distanza di mesi, con percorsi sospetti, ma in tempo per fermare la sua partecipazione a Rio. Fino a far arrivare avvertimenti che sanno anche di criminalità organizzata a Donati, tanto da muovere la commissione parlamentare antimafia a convocarlo per raccogliere la sua denuncia. Firmata da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello (già autori insieme del docufilm Silencio sulla mattanza di giornalisti in Messico), “Operazione Schwazer. Le trame dei signori del doping” è un’inchiesta giornalistica che rivela una serie di falle, incongruenze, intrecci d’interessi macroscopici nel sistema dell’antidoping nazionale e mondiale, ma anche nella gestione occulta di risultati di gara forse non sempre così limpidi e meritati. Non vogliamo dare giudizi su settori e vicende che non conosciamo e su cui la magistratura italiana ha da tempo aperto diversi fascicoli d’indagine. Notiamo semplicemente che non sono serviti mesi e mesi di polemiche, inchieste interne alle autorità sportive internazionali, scandali pubblici e privati, denunce e scontri persino tra governi, a mettere in fila i pezzi di una realtà malata (se anche criminale lo dimostreranno gli inquirenti) come è riuscito a fare in appena 20 minuti di video un bel prodotto giornalistico realizzato praticamente a costo zero, con il lavoro da inviato di Bolzoni, i rimborsi spese per trasferte e poco altro coperti dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e l’impegno a titolo praticamente volontario dello stesso Massimo Cappello e del regista Alberto Mascia e di quanti in questi mesi sono stati al fianco di Schwazer e di Donati e da anni denunciano con loro la marea incontrastata del doping, che sta avvelenando un mondo che per sua natura dovrebbe esaltare lo stato fisico più sano. Sembra un ossimoro, ma lo sport, vissuto sotto i riflettori in ogni momento della giornata e delle carriere di chi lo pratica soprattutto da professionista, lussuosamente finanziato da sponsor che tutto sanno e nulla dicono, raccontato fin nelle alcove da giornali, tv, siti web che pagano miliardi di diritti per pochi secondi o anche solo per un solo scatto, si rivela oggi forse la periferia più oscura e volutamente dimenticata, dai media, dalle istituzioni internazionali, e anche dalla politica che tanto severa invece appare verso chi si fuma in santa pace una cannetta senza far male a nessun altro se non a se stesso (meno comunque dei milioni di fumatori di sigarette che inquinano anche noi). Ora, dopo aver sentito le intercettazioni e visto documentazioni e testimonianze messe in fila da Bolzoni e Cappello, resta da chiedersi: i giudici sportivi che faranno? La Iaaf avrà qualcosa da dire? E tutti quei colleghi di Schwazer pronti a crocifiggerlo? Senza voler giudicare nessuno, ma qualche dubbio su intrecci di conflitti d’interesse e dossier già noti da almeno tre anni (sempre ascoltando gli intercettati) e insabbiati fino ad oggi dovrebbe averlo chiunque. L’udienza finale del Tas (il Tribunale arbitrale sportivo) sul caso Schwazer, decisiva per la sua partecipazione alle competizioni delle Olimpiadi di Rio, è ora spostata all’8 agosto nella città brasiliana, ad appena quattro giorni dalla 20 km di marcia, prima gara a cui il marciatore potrebbe partecipare se fosse riconosciuta la sua innocenza. Per chi non lo sa, il ricorso di Schwazer ha un costo: 40mila euro tra spese legali, controanalisi e viaggi. Naturalmente senza sponsor. Cercare la verità è cosa per ricchi, ma né Alex e né il suo allenatore Sandro Donati lo sono.
Caso Schwazer: le intercettazioni delle telefonate del giudice Maggio a Donati, scrive il 4/08/2016 Luca Landoni. Oggi è uscito l’atteso docufilm di Repubblica a cura di Attilio Bolzoni. Una ricostruzione minuziosa del caso legato ad Alex Schwazer a partire dalle irregolarità del modulo del controllo antidoping del 1° gennaio 2016 (quello da cui risultò l’ultima positività) e che riportava la scritta Racines (luogo di residenza di Schwazer, NdR) rendendolo di fatto non anonimo, fino alle famose intercettazioni che per la prima volta possiamo anche ascoltare. Potete vedere il docufilm in versione integrale subito sotto. Intanto però vi trascriviamo il contenuto delle intercettazioni di quello che Donati aveva definito “un giudice internazionale di marcia vicino al Damilano” e che da oggi ha il nome che molti immaginavano ma non potevamo ancora mettere nero su bianco per ovvi motivi: Nicola Maggio, già al centro di un caso clamoroso di sospette decisioni secondo le accuse del collega Robert Bowman. Ecco il testo. Telefonata Uno: ore 6 di mattina giorno della gara di Roma (7 maggio), rintracciabile al minuto 7:30 del docufilm: «Buongiorno sono Maggio. Disturbo, immagino, a quest’ora.Ieri sera stavamo qui alla cena con tutte le vecchie glorie. Allora lei per cortesia stia calmo. L’unica cosa, la prego, glielo dica ancora una volta (immaginiamo ci fosse stato un precedente contatto a voce, NdR) fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?» Telefonata Due, 23 maggio, 20 giorni prima della gara di La Coruna, minuto 8:38 del docufilm: “Gli dica di fare una gara bella tecnicamente, di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 perché non ha senso”. Dunque alla fine Donati i nomi li ha fatti. Passiamo ora alle intercettazioni del dottor Giuseppe Fischetto, medico della Federazione Italiana, che parla “con un amico”. Fischetto, grande accusato da Schwazer nel processo di Bolzano, cionondimeno è stato responsabile antidoping alla Coppa del Mondo di Marcia di Roma, e secondo le parole di Donati gestiva e aggiornava il database gigantesco con tanti nomi dei russi, e sempre in Russia veniva inviato a svolgere una grande quantità di missioni.
Ecco il testo. Telefonata Uno, 18 giugno 2013, ore 21:40, al minuto 10:55 del docufilm. Interlocutore un amico.
– Sono Giuseppe Fischetto, come stai?
– O Giuseppe ciao come stai?
– Un po’ incazzato con la giustizia, avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto di più. Son venuti da me, da Rita (Bottiglieri, NdR), prima a casa da Fiorella (l’altro medico al centro del caso, NdR) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer
– Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?
-Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh… che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengon fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf.
L’ex procuratore capo di Bolzano Guido Rispoli spiega che il database cui si accenna conteneva dati ematici sospetti di molti atleti russi ed è stato poi usato come materiale probatorio centrale nelle indagini seguenti che hanno portato ai noti fatti culminati nell’esclusione paventata della Russia dai prossimi Giochi Olimpici.
Telefonata Due, 18 giugno 2013, minuto 13:32 del docufilm, interlocutore Rita Bottiglieri:
GF: Ciao, ‘ndo stai?
RB: Sono a (?). Ora evidentemente la Procura di Bolzano vuole cercare riscontri riguardo alle (ambizioni?) del marciatore.
GF: Io son preoccupato del materiale informatico di tutta un’attività internazionale riservata, capito?
RB: E va be’, Giuseppe…
GF: Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner.
Da segnalare che nel video segue la telefonata del giornalista Bolzoni a Fischetto che però non risponde dicendo di essere all’estero. Gli si chiedeva se gli sembrava normale che lui fosse giudice nella gara di Schwazer, dopo che il marciatore lo aveva accusato.
Telefonata Tre, 27 giugno 2013, minuto 15:15 del docufilm, interlocutore un impiegato della Fidal:
GF: La sai l’Ultima? Ho appena chiuso il telefono, sai chi ma ha chiamato? Lamine Diack(ex-Presidente della Iaaf che nel 2015 sarebbe stato arrestato per corruzione, NdR) dandomi il massimo supporto, dicendomi di andare avanti.
Impiegato Fidal: Anche qui c’è la solidarietà di tutti, di chiunque.
Donati chiosa: “E questo è l’ambiente da cui è partito l’ordine di rifare il controllo antidoping a Schwazer.
"Forse non ci vedremo più" Schwazer saluta l'allenatore. Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana, scrive Claudio Torre, Venerdì 12/08/2016, su "Il Giornale". Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana e di rientrare in Italia. Ma dietro le spalle si lascia amarezza e quella sensazione di impotenza di chi voleva gareggiare e adesso si ritrova a dover restare fermo e probabilmente a rinunciare alla sua carriera. E così ha salutato il suo allenatore Sandro Donati, l'uomo che lo aveva fatto rinascere. Lo ha guardato in aeroporto e gli ha detto: "Mi sa che è l'ultima volte che ci vediamo...". Una frase che, forse, più della sentenza del tas lascia intender quanto sia ormai definitiva la decisione di Schwazer di mollare tutto. "Alex è cresciuto, saprà cosa fare", ha affermato Donati. "Al momento - spiega Schwazer dopo il suo arrivo in Italia - non ho ancora le idee chiare su cosa farò, fino a mercoledì speravo, perché sono innocente. Ho dato tutto per essere qui sperando di gareggiare. Sinceramente non pensavo alla conferma della squalifica. Adesso tornerò a casa e farò i miei dovuti ragionamenti, ma è ancora presto".
Doping, Alex Schwazer sfida la paura del vuoto: «Con Kathia cambio vita». Il marciatore dopo la mega squalifica: «Non so cosa farò, ma lei è il mio esempio. Appena arrivato a Vipiteno scalerò il passo Giovo in bici: non so stare fermo», scrive Marco Bonarrigo il 11 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il taxi per l’aeroporto è arrivato, Alex no. È uscito presto a camminare sulla spiaggia di Copacabana, quella dove mercoledì mattina ha svolto l’ultimo allenamento della carriera: 36 chilometri sotto il diluvio con Sandro Donati a ruota in bici. Dodici ore dopo la sentenza di squalifica Alex Schwazer ha ancora occhiaie profonde e viso scavato, ma è più sereno.
Come sta?
«Come uno che deve chiudere un capitolo della sua vita in fretta per non farsi male. Non voglio scappare, devo cambiare. Spero di essere capace».
Lei ha un precedente, una lunga squalifica per doping. Non le ha indicato delle vie di uscita?
«È diverso. Nel 2012 è stato faticoso ma più facile: ero colpevole, imbroglione, dopato. Mi sono salvato tornando nel mio mondo, che adesso non esiste più. Ora sono una vittima. Dopo la positività ho passato una settimana allucinante. Mi ha salvato la lotta per la verità che abbiamo iniziato con Sandro Donati. Ma abbiamo perso. Lui continuerà a lottare, con tutto il mio appoggio. Io devo cambiare vita. Subito».
Non era preparato? Come poteva pensare di sconfiggere la federazione internazionale?
«Sono — anzi ero — un atleta, mica un avvocato. Quando affronti una gara lo fa sempre per vincere, anche se hai poche speranze».
Cosa farà adesso?
«Non lo so. Durante la squalifica ho provato col ristorante, gli anziani, l’università. Ho sempre fallito e mi spaventa fallire ancora. Allenamento è massacrarsi di fatica per un obiettivo altissimo. La maggior parte dei lavori è routine, allenamento di scarico. Non riesco a immaginarlo».
Ci sarà un progetto che aveva in mente per il fine carriera.
«Un lavoro nello sport. Ma mi viene da ridere: che mestiere può fare un dopato nel mondo dello sport? Allena i ragazzi?».
Nel 2012 il doping le costò anche la fine del rapporto con Carolina Kostner. Oggi al suo fianco c’è Kathia.
«In questi mesi di allenamento a Roma e poi in queste settimane di angoscia lei è stata un riferimento fondamentale. È una relazione importante, vorrei fosse quella della vita. Amore a parte, ammiro la sua indipendenza: si è costruita un’attività e l’ha portata avanti da sola fin da ragazza. Vorrei essere capace di fare così: inventarmi un mestiere normale con l’entusiasmo che ci mette lei ogni mattina. Kathia non sa nulla di sport, di controlli, di doping. Con Carolina era tutto in comune. Solo vivendo in mondi diversi riesci a non impazzire».
Continuerà a marciare?
«Continuerò a correre e pedalare. Non posso stare fermo, mi viene troppo da pensare. Quando Sandro mi ha detto che avevamo perso, sono andato a camminare sulla spiaggia. Non sono scappato dalle telecamere, io posso dominare i pensieri solo muovendomi. Marciare no: mai più, nemmeno per un metro. La marcia non è libertà, ma controllo maniacale dei movimenti del corpo: le gambe, le braccia, le spalle. La marcia è dolore e agonismo. Non sarò mai più un marciatore».
Scrittori e intellettuali la sostengono, la maggior parte dei suoi colleghi la odia.
«Non ricambio il loro odio, anzi lo capisco. L’atletica è tutti contro tutti. Dare del dopato a un collega è il miglior modo per giustificare che vai più piano di lui o sei meno popolare. Non odio Tamberi: lui non sa chi sono, cosa ho vissuto. Non può capire, per lui e per gli altri sono solo un dopato. Pazienza».
La prima cosa che farà arrivato in Italia?
«Prenderò un treno per Bolzano e il bus fino a Vipiteno. Poi salirò in bici e scalerò il Passo Giovo».
Resterà a Vipiteno?
«È la mia terra, ci sono i miei genitori. Non potrei mai lasciarla».
Guarderà le gare olimpiche di marcia?
«Le ho cancellate dalla mente».
Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove). Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano, scrive Gianluca Ferraris l'11 agosto 2016 su "Panorama".
Io so, ma non ho le prove.
Io so che Alex Schwazer è innocente.
Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.
Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.
Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.
Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.
Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.
Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.
Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.
Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.
Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.
Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.
Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.
Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.
Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.
Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.
Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.
Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.
Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.
Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.
Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.
Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.
Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.
Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.
Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.
Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.
Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.
Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.
Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.
Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.
Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.
Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.
Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.
GIALLO PANTANI: 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS. Scrive il 31 luglio 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle Voci”. “Un caso che presenta almeno 200 anomalie, la morte di Marco Pantani. Un’archiviazione costruita su macroscopiche illogicità. Come credere alla storia dei poliziotti che mangiano un cono Algida durante il sopralluogo e inconsapevolmente gettano la carta nel cestino? O dei tre giubbotti che qualcuno ha a sua insaputa lasciato nel residence? Poi le analisi di Marco a Madonna di Campiglio: come può un gip non trasferire gli atti a Napoli quando ci sono le verbalizzazioni di camorristi che parlano espressamente di corruzione per taroccare quelle provette? Ma si sa, la camorra non corrompe, minaccia di morte…”. Un fiume in piena, l’avvocato Antonio De Rensis, ai microfoni di Colors Radio per puntare l’indice contro un mare – è il caso di dirlo – di anomalie nella tragica vicenda del campione, scippato di quel Giro già stravinto nel 1999, per via delle scommesse di camorra che avevano puntato una montagna di soldi sulla sua sconfitta (e quindi il Pirata “doveva perdere”, a tutti i costi); e poi “suicidato” nel residence “Le Rose” di Rimini, perchè, con ogni probabilità, dava fastidio, “non doveva parlare”, su quel mondo nel quale non dettano legge solo le scommesse della malavita organizzata (capace, a fine anni ’80, di “far perdere” uno scudetto già vinto al Napoli di Maradona), ma anche quella del doping, come dimostra il fresco “caso Schwazer”, con il suo manager, Sergio Donati, minacciato di morte per il timore che possa alzare il sipario su colossali traffici e affari innominabili che costellano il “dorato” mondo sportivo. E’ attesa in questi giorni – la previsione era per fine luglio, prima settimana di agosto – la decisione del gip di Forlì circa il destino dell’inchiesta sul giro d’Italia ’99 taroccato e la sconfitta del Pirata decisa “a tavolino” dalla camorra per via dell’enorme giro di scommesse, come hanno descritto prima Renato Vallanzasca, poi svariati “uomini di rispetto” dei clan campani, a cominciare dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, leader delle cosche di Mondragone abituate a grossi affari esteri (già ad inizio anni ’90 investivano in alberghi e ristoranti scozzesi, epicentro Aberdeen: i “deen don”, come scriveva già allora la stampa britannica) e in vena di riciclaggi spinti. Il legale del pentito La Torre – che ha raccontato per filo e per segno i colloqui con altri tre big boss – è Antonino Ingroia, l’ex magistrato di punta del pool di Palermo, poi passato, con poca fortuna, in politica (quindi avvocato e consulente per la Regione Sicilia targata Rosario Crocetta). Una decisione, quella del gip di Forlì, che a non pochi addetti ai lavori pare scontata: la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per competenza, visto che sono in ballo i clan di camorra, la regia del giro taroccato è made in Campania, non pochi boss hanno già verbalizzato su quelle storie e ancora possono farlo (insieme ad altri collaboratori). C’è tutto un bagaglio di conoscenze & competenze, quindi, alla Dda di Napoli, per poter agire al meglio e far luce sul giallo Pantani. Un’archiviazione “tombale”, a questo punto, suonerebbe non solo come una schiaffo alla famiglia Pantani, ma a tutti gli italiani e a quel minimo di Giustizia che – pur ridotta a brandelli – ancora esiste. E soprattutto affinchè non venga un’altra volta calpestata, come è già capitato e continua a capitare in tanti misteri e buchi neri della nostra “democrazia” altrettanto taroccata, proprio al pari di quel maledetto Giro. L’intervista con l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, è stata rilasciata a Colors Radio, l’emittente romana diretta da David Gramiccioli, in vita da un anno ma già con indici d’ascolto molto elevati, con solo in Italia, ma anche all’estero. Impegnata soprattutto sul fronte dei diritti civili, dei diritti spesso e volentieri negati e calpestati nel nostro Paese, per dar voce a chi è in attesa di giustizia, o di quella salute portata via dagli interessi di baronie e case farmaceutiche. Uno stupendo spettacolo, diretto e interpretato da Gramiccioli, “Vorrei avere un amico come Rino Gaetano”, dedicato alla musica e all’arte civile di un artista al quale l’allora mainstream dichiarò guerra (in tutti i sensi, fino ad ammutolirlo nel senso letterale del termine), è appena andato in scena a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, altro avamposto che lotta non solo per la sua sopravvivenza, ma per fare cultura nel deserto partenopeo, sempre più cloroformizzato dal neomelodismo “arancione”. Uno spettacolo che seguendo il fil rouge di poteri, mafie & massonerie, legava storie e misteri d’Italia, dal caso Montesi al giallo Moro, passando per il Vajont, con una serie di rivelazioni da novanta, autentico regalo per la memoria collettiva: una risorsa da coltivare come pianta sempre più rara. Ecco, di seguito, l’intervista a De Rensis, che potete ascoltare direttamente dal sito di Colors Radio, cliccando fra i programmi sulla casella Voce on Air.
PARLA L’AVVOCATO DELLA FAMIGLIA PANTANI:
“Marco Pantani non era forse il più forte. Ma certo il più amato, mai uno più di lui nella storia del ciclismo. Ogni pomeriggio 10 milioni di italiani davanti alla tivvù a vedere il Giro o il Tour. Forse ha cominciato ad essere un problema anche allora. Il ciclismo forse non era abituato a digerire un fenomeno del genere. Paradossalmente anche questo può essere stato un problema…”.
“Stiamo aspettando le decisioni del gip di Forlì, per fine mese, primi di agosto. Ma è una vicenda che si descrive da sola, nel suo percorso giudiziario”.
“Qui ci sono dichiarazioni scritte, nero su bianco, in cui boss della camorra, come Augusto La Torre, citato da Roberto Saviano nel suo Gomorra, dice espressamente che i medici incaricati delle analisi, quella mattina, furono corrotti. Specifica, non minacciati, ma corrotti. Come se non ci fosse intimidazione, quindi estorsione. Lo sanno tutti, tu non puoi difenderti, dalle richieste della camorra, se non rischiando la vita. La camorra vive di intimidazioni: o lo fai o ti ammazzo”.
“Queste carte, queste verbalizzazioni non sono le uniche. C’erano anche quelle di Rosario Tolomelli, che fu intercettato, dichiarazioni riportate anche in tivvù, e poi quelle di Renato Vallanzasca. E adesso noi, di fronte a questi elementi così chiari, siamo in attesa di capire se il procedimento potrà essere trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Se il suo vicino di casa dice di lei appena un decimo di quello che è stato detto, lei viene ovviamente indagato. Qui abbiamo un capoclan che dice che chi ha fatto i controlli quella mattina a Madonna di Campiglio è stato corrotto, e noi stiamo ancora a chiederci se dobbiamo archiviare o andare avanti! Io mi chiedo, non tanto come avvocato quanto come cittadino: ma noi cittadini possiamo andare avanti così?”.
“Ci sono dei camorristi che dicono questa roba? Tu, Forlì, mandi le carte a Napoli e poi vediamo che cosa succede. Stiamo scherzando? Ma si può sapere in che Stato viviamo? E’ proprio qui che la vicenda di Pantani ci fa capire a che punto siamo arrivati. Fa capire che tutto ciò che dovrebbe essere normale, da noi diventa difficile, quasi impossibile”.
“Domanda. Perchè? Perchè io ho dovuto leggere nell’archiviazione per i fatti di Rimini (la “morte” di Marco nel residence “Le Rose” di Rimini, ndr), nero su bianco, che un gip della procura dice ‘può darsi che la carta del gelato Algida è stata gettata inconsapevolmente da un poliziotto nel corso del sopralluogo’? Ma è possibile pensare che quel 14 febbraio il poliziotto fosse impegnato a mangiare un cornetto durante il sopralluogo? Ecco, io mi chiedo: questa roba qui è normale?”.
“Possibile leggere, nell’archiviazione del gip, ‘può darsi che i tre giubbotti siano stati portati inconsapevolmente nel residence dal marito della manager di Pantani’, il quale ha negato di aver mai visto quei giubbotti in vita sua? E’ una roba normale? Siccome secondo me non lo è, la vicenda Pantani si descrive da sola”.
“Quello che posso dire è una sorta di promessa che ho fatto e che ora rinnovo. Io mi sento un uomo libero, non ho scheletri nell’armadio, quel poco che ho fatto come avvocato me lo sono sudato, per questo posso fare una promessa: che farò tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere la verità. Non ho poteri speciali perchè non solo un avvocato, ma tutto quello che sarà possibile io lo farò. E sa perchè? Non perchè sono fanaticamente convinto di avere ragione io. Ma perchè se mi si dice che facendo l’ispezione il poliziotto ha buttato nel cestino la carta del gelato, allora vuol dire che ho ragione io!”.
“Se mi avessero confutato con ragioni logiche, io avrei detto a me stesso ‘amico mio, ti sei sbagliato'; ma se uno mi vuol confutare dicendo che uno ha portato i giubbotti inconsapevolmente – come quelli che pagavano le case a loro insaputa – che la carta gelato l’hanno buttata inconsapevolmente nel cestino mentre facevano il sopralluogo, allora vuol dire che ho ragione io! E vado avanti. Perchè quando una spiegazione non è logica, e tale spiegazione viene data da una persona che deve per forza usare la logica nel suo lavoro, vuol dire che le tue argomentazioni l’hanno messa in difficoltà. Se lei mi mette in difficoltà e io le rispondo fischi per fiaschi… La questione è tutta lì”.
“La gente è tutta con noi. Tutti ricordano Marco con enorme affetto. Il ciclismo forse non era preparato per un impatto così forte, una tale passione anche per chi non seguiva quello sport. E forse tutto ciò ha creato problemi collaterali. Ci sono tante sfaccettature, nella vicenda di Marco, che con ogni probabilità non lo hanno aiutato”.
“Ma chi lavora per la giustizia deve estraniarsi da tutti questi condizionamenti ed esaminare esclusivamente i fatti. I fatti ci dicono che verosimilmente quel giorno a Madonna di Campiglio le provette delle analisi vennero alterate. E che nella vicenda della morte di Marco a Rimini molti fatti devono ancora essere approfonditi”.
“Probabilmente quella mattina nel residence la situazione è sfuggita di mano a quelli che erano con Pantani. Non mi voglio addentrare ora in dettagli, ma può darsi che l’evento morte non fosse previsto. Ma l’intera vicenda giudiziaria è stracolma di anomalie. Una per tutte. Alle 10 e 30 Marco telefona alla reception e dice ‘in camera ci sono delle persone che mi danno fastidio, per favore chiamate i carabinieri’. Che poi arrivano alle 20 e 30. Mi chiedo: se io vado in un qualunque albergo a Roma, telefono alla reception e chiedo l’intervento dei carabinieri, scommetto che arrivano prima delle 20 e 30!”. “Questa è solo una delle oltre 200 anomalie del caso Pantani”. “Le risposte a tutti i quesiti? Sono solo e unicamente nei fatti”.
5 GIUGNO 1999. Pantani e il mistero di Campiglio. L’Antimafia sentirà i pm di Forlì. Una commissione d’inchiesta sul Giro 1999? Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare: «Sentiremo i magistrati e faremo le nostre valutazioni». Il procuratore Sottani: al corridore «minacce credibili», scrive Alessandro Fulloni il 31 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Pantani è un simbolo dello sport italiano che merita verità e giustizia. Sentiremo i magistrati di Forlì e faremo le nostre valutazioni. Del resto si sa che le mafie hanno sempre avuto grande interesse per il mondo dello sport e la gran mole di denaro che ruota intorno alle scommesse clandestine». Non si sbilancia, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi: ma non è improbabile né lontano il via a una commissione d’inchiesta mirata a fare luce su ciò che accadde il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando Marco Pantani venne fermato prima del via della tappa del Giro perché trovato con un ematocrito più alto di quello consentito. Che la camorra lo abbia stoppato, con «reiterate condotte minacciose e intimidatorie» nei confronti «di svariati soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del prelievo ematico» del corridore, è uno scenario che al procuratore di Forlì Sergio Sottani e al pm Lucia Spirito che hanno coordinato l’inchiesta -la seconda, avviata nel settembre 2014 dopo che una prima era stata archiviata a Trento nel 2001 - «appare credibile». Ma il movente di queste minacce resta «avvolto nel mistero, anche se qualche squarcio, nonostante il tempo trascorso, si intravede». «Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei a identificare gli autori dei reati ipotizzati». Quelli di truffa ed estorsione e non la corruzione - di cui ha parlato un pentito - cancellata dalla mannaia della prescrizione che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione di un procedimento pur condotto con scrupolo dai due pm, dal loro nucleo di polizia giudiziaria e dai carabinieri della tutela della salute di Roma. A stabilire che destino avrà l’inchiesta - i cui atti sono stati trasmessi da Sottani alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna - sarà la decisione, attesa a giorni, del gip di Forlì Monica Calassi. Che potrebbe percorrere tre strade: accogliere la richiesta d’archiviazione, fissare un’udienza per la raccolta di nuovi elementi, o chiedere un’indagine della Procura antimafia. Intervento, questo, rilanciato dalle novità investigative presenti nelle carte firmate da Sottani. Su tutte, le dichiarazioni di un pentito di camorra, Augusto La Torre, in passato braccio destro di «mammasantissima» campani come Antonio Bardellino, prima, e Francesco «Sandokan» Schiavone, poi. Agli inquirenti il collaboratore di giustizia racconta di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire il carcere duro. Il pentito parla del caso Pantani - ma non ricorda se prima o dopo i fatti di Campiglio - con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Dal terzetto arriva la conferma che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti su Napoli. Punta il dito sui Mallardo di Giugliano: solo loro «possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine. Come quando si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda quella sua delusione dopo la squalifica al Giro: ma come, pure lui «aveva preso la bumbazza»... E gli altri, di rimando: «Ma quale bumbazza e bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...». A verbale usa peraltro parole che avvicinano chirurgicamente la prescrizione: «Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». In quelle carte (leggi il documento della procura di Forlì) c’è pure quanto ribadito da Rosario Tomaselli, affiliato ai clan recluso nel 1999 a Novara con Renato Vallanzasca - il primo a parlare di interessi della camorra sul Giro - che al telefono con la figlia, senza sapere di essere intercettato nell’ambito di un’altra indagine dei carabinieri di Napoli, sostiene che «la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani, cambiando le provette e facendolo risultare dopato». E quando la ragazza insiste - «ma è vera questa cosa?» - lui ribadisce: «Sì, sì, sì, sì, sì». Un sì categorico, ripetuto cinque volte. Quanto al prelievo ematico vero e proprio, i carabinieri del Nas parlano, in un’informativa, di condotta «tutt’altro che trasparente e lineare» dei tre medici che fecero l’accertamento. Non ci sono solo quelle discrepanze sugli orari i cui tempi renderebbero possibile - sono le tesi degli ematologi ascoltati dagli investigatori - l’alterazione dei risultati. Piuttosto, quelle parole sono motivate dal fatto che gli investigatori hanno accertato la presenza, nella stanzetta in cui venne fatto il prelievo, di una quarta persona, il responsabile del team medico: l’olandese Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa. Che l’olandese facesse parte del gruppo - circostanza mai emersa nella prima indagine su Campiglio - lo rivela il suo autista, Simone Cantù, mai sentito prima del 2014. Ma i tre medici ascoltati dagli investigatori e direttamente coinvolti nel prelievo o non ricordano la sua presenza o addirittura non lo conoscono. Circostanza che insospettisce i carabinieri. Che chiedono al gip di intercettarli in vista dell’interrogatorio. Richiesta però bocciata dal gip che «non ravvisa la sussistenza dei gravi indizi» del reato su cui si indaga: appunto l’estorsione. Ma torniamo al 5 giugno. Ore 9 e 15. Cantù avvicina l’olandese nella hall dell’hotel in cui sonno stati fatti i prelievi per ricordargli l’imminente avvio della tappa. Jeremiasse si volta in lacrime: «... oggi il ciclismo è morto...». E poi prosegue: «Marco Pantani ha valori non regolari». Impossibile che il commissario Uci possa spiegare altro: sei mesi dopo morirà - «in circostanze non proprio chiare», scrivono i carabinieri - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo. Nel frattempo sono le Camere a interessarsi di ciò che accadde a Madonna di Campiglio. Se l’approfondimento parlamentare dovesse decollare, avrebbe certo un passo differente da quello giudiziario. «È opportuno che venga chiarito se, effettivamente, le indagini devono fermarsi per la prescrizione oppure se ci sia modo di appurare i fatti anche a distanza di tanti anni. Se la magistratura non può andare avanti, è opportuno - riflette Ernesto Magorno, deputato Pd - che il parlamento verifichi l’esistenza di altri percorsi giudiziari da seguire». «Altrettanto inquietante è il ruolo della criminalità organizzata - osserva un altro parlamentare pd, Tiziano Arlotti - che emergerebbe nell’ambito delle scommesse sportive: un quadro già confermato in molte altre inchieste, che però merita di essere approfondito dalla commissione». Daniela Sbrollini, responsabile nazionale Sport del Pd, incalza: «bisogna fare di tutto perché emerga la verità». Non sono solo queste sollecitazioni ad aver indotto Bindi a chiedere l’audizione dei pm forlivesi: la presidente dell’Antimafia da tempo sta pensando ad approfondimenti su sport, criminalità organizzata e doping. Intrecci attorno ai quali ruota, appunto, «una gran mole di denaro». A opporsi all’archiviazione è Tonina Pantani, la mamma del Pirata. Che attraverso Antonio De Rensis, il battagliero legale della famiglia, ha depositato l’opposizione alla richiesta della procura di Forlì. Lo stesso atto che pende davanti al gip di Rimini, chiamato a decidere sul destino dell’indagine bis sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998: archiviazione o supplemento di indagini.
Pantani, il caso doping e il mistero dei valori del sangue. Al di là dell’ipotetico complotto, una certezza: per 10 anni i dati del corridore presentano anomalie, scrive Marco Bonarrigo il 29 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". La parola fine a quel romanzo tragico che è la vita di Marco Pantani è questione di giorni. I tribunali di Rimini e Forlì stanno per archiviare (su richiesta dei piemme) le inchieste sugli episodi chiave della vicenda del ciclista: la morte (14 febbraio 2004) e l’espulsione dal Giro d’Italia del 5 giugno 1999. E se il procuratore di Rimini Giovagnoli non ha dubbi (overdose di cocaina), quello di Forlì Sottani si arrende a un «movente avvolto nel mistero con elementi acquisiti non idonei a identificare eventuali colpevoli». Ma ritiene «credibile» che qualcuno abbia minacciato chi eseguì il controllo del sangue di Campiglio inducendolo a truccare le provette per incassare i soldi delle scommesse. Questo qualcuno sarebbe la Camorra. Nelle 30 pagine di motivazioni l’ipotesi è costruita da alcuni ex fedelissimi del Pirata (massaggiatore, fisioterapista), da due tifosi che avevano orecchiato minacce in una pizzeria, da Renato Vallanzasca e da quattro camorristi piuttosto confusi. Quanto basta però a risollevare l’eterna ipotesi del complotto. Intanto dagli archivi dei tribunali di Trento e Forlì escono i faldoni dei due processi penali subiti dal Pirata: per l’ematocrito alto alla Milano-Torino e per Madonna di Campiglio. In entrambi i casi Marco fu assolto in appello perché il reato ipotizzato (frode sportiva) non era sostenibile. Ma le carte dimostrano come il sangue di Pantani sia stato un profondo, costante mistero in 10 anni di carriera. Lo dicono i file dell’Università di Ferrara (dominus Francesco Conconi) dove Pantani si recò regolarmente dal 1992 al 1996. Conservati a suo nome o con curiosi pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) mostrano oscillazioni impressionanti: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. E quando Pantani viene ricoverato alle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi. Del controllo di Campiglio ora a tutti vengono in mente dettagli inediti. Ma, interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani, Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco totalmente fuori controllo dal punto di vista sanitario. Su Campiglio rispunta l’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». A completare il quadro, ecco la lettera «personale e non protocollata» che nel settembre 2000 Pasquale Bellotti, responsabile Commissione Scientifica Antidoping, inviò al segretario generale del Coni e alla Federciclismo alla vigilia dei Giochi di Sydney, dove Pantani fu convocato a dispetto di una salute non buona e di un percorso inadatto. Scriveva Bellotti: «Il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma 3 dei 5 parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò Bellotti a occuparsi di altro. Marco Pantani, lui, mentalmente era forse già un ex atleta.
Campiglio 1999, la svolta. Il p.m.: “La camorra fermò Pantani? E’ credibile”, scrive Luca Gialanella il 14 marzo 2016 su “La Gazzetta.it" Confermate le anticipazioni, dalle parole di Vallanzasca in poi: fu un clan camorristico a intervenire per arrivare all’alterazione del controllo del sangue del Pirata la mattina del 5 giugno 1999. E’ tutto scritto nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Forlì, che l’ha chiusa con la richiesta di archiviazione: gli autori dei reati non possono essere identificati. Ma la storia dello sport? Una “cimice” nell’abitazione di un camorrista, le indagini della polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Forlì, guidata dal procuratore Sergio Sottani. Le intercettazioni ambientali e finalmente i riscontri, nomi e cognomi, che svelano, secondo la ricostruzione degli inquirenti, quanto avvenne la mattina del 5 giugno 1999 nell’hotel Touring di Madonna di Campiglio, alla vigilia della penultima tappa con Gavia, Mortirolo e arrivo all’Aprica. Il controllo del livello di ematocrito di Marco Pantani in maglia rosa. L’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia per ematocrito alto, 51,9% contro il 50% consentito allora dalle norme dell’Uci, la federciclismo mondiale. L’inizio della fine sportiva e umana dello scalatore di Cesenatico. “Un clan camorristico intervenne per far alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”: è l’ipotesi che segue il pm di Forlì. Parole che in questi anni avevamo sentito più volte, dalla famosa frase del bandito Renato Vallanzasca in carcere (“Un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani. ‘Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati’) al lavoro di indagine della Procura di Forlì, che il 16 ottobre 2014 riaprì l’inchiesta sull’esclusione di Pantani da Campiglio con l’ipotesi di reato “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Indagine già svolta nel 1999 a Trento dal pm Giardina, e archiviata. Scommesse contro Pantani, scommesse miliardarie (in lire) che la camorra non poteva perdere. Da qui il piano di alterare il controllo del sangue. La Procura di Forlì ha ricostruito tutti i passaggi, ha sentito decine di persone, in carcere e fuori. Ha avuto la prova-regina da cui partire, con l’intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Ma i magistrati sono andati oltre, hanno ricostruito la catena di comando, sono arrivati ai livelli più alti dell’associazione criminale. “Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose ed intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico”, scrive il pm Sottani. “Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”. Ecco la richiesta di archiviazione. Eppure forse uno dei più grandi misteri dello sport mondiale ha trovato una verità, almeno parziale. A distanza di 17 anni. E i legali della famiglia Pantani stanno lavorando per capire se possano esserci spiragli per qualche azione in campo civile e sportivo.
"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani". Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport del 14 Marzo 2016. Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione. L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa. Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta.
Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”
Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?”
U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Noooo.”
U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”
P: “In galera.”
U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”
P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?”
U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Una dichiarazione...”
U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”
P: “Ma è vera questa cosa?”
U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”
Tonina Pantani: «È stata ridata la dignità a Marco». La madre parla dell'intercettazione secondo la quale la Camorra avrebbe fatto risultare positivo il ciclista di Cesenatico al controllo antidoping: «Finalmente tutti sapranno che l’avevano fregato», scrive “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. «Non mi ridanno Marco, logicamente, ma penso gli ridiano la dignità, anche se per me non l’ha mai persa». Tonina Pantani parla dell'intercettazione di un detenuto che sostiene che la Camorra abbia fatto perdere il giro al figlio, Marco. «Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l’avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Si sarebbe preso quei 15 giorni a casa e poi sarebbe rientrato, calmo. Però non l’ha mai accettato, non l’ha mai accettato perché non era vero. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l’avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose».
Legale famiglia Pantani: «A Madonna di Campiglio non doveva essere fermato». Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico: «Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata». Scrive “Tutto Sport” martedì 26 gennaio 2016. Marco Pantani a Madonna di Campiglio, al Giro d'Italia, nel giugno del 1999, non doveva essere fermato. Lo ribadisce l'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico, in una intervista andata in onda stamane durante la trasmissione Rai della Tgr Emilia-Romagna 'Buon Giorno Regione'. "Credo - sottolinea il legale - che siano emersi dei fatti che in ogni caso disegnano gli avvenimenti di quel giorno a Campiglio in maniera diversa. Ricordo che Marco nel pomeriggio tornando a casa si fermò all'Ospedale Civile di Imola. L'ematocrito era tornato a 48.2 ma soprattutto le piastrine che a Campiglio (dove il pirata venne sottoposto ad un controllo Uci, ndr) erano 100.000, all'Ospedale di Imola erano 170.000. I due esami sono totalmente incompatibili, dobbiamo solo capire se è più attendibile quello fatto in una stanzetta di un hotel a Campiglio o in un Ospedale Civile della Repubblica italiana". La Procura di Forlì sta ancora indagando su quello che è accaduto a Madonna di Campiglio, indagine della quale anche la Direzione distrettuale antimafia di Bologna si occupa per la presunta interferenza della Camorra e di un giro illegale di scommesse nell'esclusione di Marco Pantani nel Giro d'Italia. "Credo anche con grandissimo impegno - sottolinea De Rensis - lo dico da spettatore esterno. La sensazione che noi abbiamo sempre avuto quando abbiamo colloquiato con il Procuratore Capo e il Sostituto, è stata sempre quella di essere ascoltati, non siamo mai stati un elemento di fastidio per loro e questo ci ha dato una grande soddisfazione". Da questa indagine ribadisce l'avvocato della famiglia Pantani "noi ci aspettiamo che il Procuratore Capo e il Sostituto con il loro lavoro intenso e molto serio, ridisegnino i fatti. Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata perché Marco Pantani, noi sosteniamo e ne siamo fermamente convinti, non doveva essere fermato". Nel filone di indagini che riguarda la Procura di Rimini sulla morte di Marco Pantani, riaperto un anno e mezzo fa, il legale della famiglia Antonio De Rensis, nell'intervista Rai ribadisce che "l'indagine non è chiusa, anzi - aggiunge - devo dire che dopo la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero sulla quale deciderà il Giudice delle indagini preliminari, che dovrà fissare un'udienza, abbiamo avuto ancora più conforto, perché leggendo le carte di quell'indagine abbiamo capito che forse abbiamo ragione noi". Sul caso, il legale ha ricordato che "non soltanto qualche giorno dopo la riapertura, il Pubblico Ministero incaricato si è chiamato fuori (il 9 settembre ha chiesto di astenersi da quell'indagine) ma anche il Gip che era stato nominato per decidere sulla richiesta di archiviazione, ha chiesto di astenersi per cui adesso è stato nominato un altro Gip che mi risulta essere arrivato a Rimini da poco e che speriamo abbia la forza di fare chiarezza su questa indagine che ha decine di punti da chiarire: uno per tutti, ricordo che il consulente del Pubblico Ministero ha detto nella sua relazione, ma addirittura anche a un quotidiano nazionale, che le sue conclusioni potrebbero essere completamente smentite facendo ulteriori esami e dice anche quali, e che si può fare molto di più. Davanti a queste cose faccio fatica a pensare che si possa archiviare questa indagine". "Ho molta fiducia nelle indagini - ha concluso De Rensis riferendosi a entrambi i filoni di indagini - in particolar modo ho grande fiducia sul fatto che la Procura di Forlì possa ridisegnare gli avvenimenti di quella mattina".
Caso Pantani, il legale: «Ora assegnino a Marco il Giro d’Italia 1999». L’avvocato Antonio De Rensis: «Ci opporremo alla richiesta di archiviazione e cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro», scrive “Tutto sport” martedì 15 marzo 2016. Come l'inchiesta riaperta sulla sua morte a dieci anni di distanza, anche quella sulla fine sportiva di Marco Pantani si è conclusa con una richiesta di archiviazione. Come i colleghi di Rimini, i Pm di Forlì hanno definito gli accertamenti ritenendo di non aver elementi per sostenere un processo. L'ombra di un intervento della camorra sul Giro d'Italia del 1999 è rimasta tale, un sospetto, forse anche credibile, ma non percorribile, né perseguibile penalmente. Come avvenuto a Rimini, anche a Forlì la famiglia potrà opporsi alla decisione, che spetterà infine ad un Gip. L'inchiesta bis sul complotto nella corsa rosa era nata dall'idea che Pantani il 5 giugno a Madonna di Campiglio fosse stato incastrato dalla criminalità organizzata: bisognava, secondo questa ipotesi, eliminare chi stava dominando il Giro e per farlo si sarebbe alterato il valore dell'ematocrito nel sangue del ciclista di Cesenatico, favorito nelle puntate degli scommettitori. E' su questo che ha insistito l'avvocato Antonio De Rensis, il legale della madre di Pantani, Tonina Belletti. Ha ottenuto prima la riapertura in Romagna dell'indagine archiviata dalla Procura di Trento, quindi che della vicenda si interessasse anche la Dda di Bologna con il Pm Enrico Cieri, tenuto informato periodicamente dai magistrati forlivesi, il capo Sergio Sottani e la sostituta Lucia Spirito, sugli sviluppi degli accertamenti. E' lo stesso legale a spiegare che i Pm hanno "sì ritenuto credibile" che ci sia stata un'alterazione dei test, "ma forse non si può andare oltre". Risultato, richiesta di archiviazione nel merito, conferma il legale. Sul punto la procura non ha fatto commenti. A quanto si è appreso, nell'atto si farebbe riferimento ai reati di estorsione e minacce a carico di ignoti e di questi però non è stato possibile individuare gli eventuali responsabili e pertanto se ne è chiesta l'archiviazione, nel merito. La procura nella richiesta aggiunge che, rispetto ad altri reati teoricamente ipotizzabili, essi sarebbero comunque prescritti. Nell'indagine sono state sentite varie persone, tra cui la mamma del Pirata, giornalisti e medici. Uno snodo poteva arrivare a ottobre 2014, quando fu convocato Renato Vallanzasca. Agli inquirenti l'ex 'bel René' riferì che nel 1999 fu avvicinato in carcere da un esponente della camorra che, visto il ruolo di prestigio di Vallanzasca all'interno della mala italiana, era desideroso di fargli un 'regalo', e cioè di non farlo scommettere, come stavano facendo tutti, sulla vittoria di Pantani, perché il Pirata quel Giro "non lo avrebbe finito". Anche questa persona è stata sentita dagli investigatori. E c'è, agli atti dell'inchiesta, una telefonata intercettata in cui il detenuto, dopo l'interrogatorio, parla con un parente. Racconta di Vallanzasca e di quando dichiarò che "un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: guarda che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine" e che "quindi praticamente la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato". E quando il parente domanda, "Ma è vera questa cosa?", la risposta è un sì, ripetuto cinque volte. Parole che "fanno male", a Tonina Pantani, secondo cui "è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose". Ma non è bastato. L'uomo sarebbe stato riconvocato per chiarire, ma quel poco che ha detto non avrebbe convinto chi indagava sulla possibilità concreta di fare passi in avanti. Sulla richiesta di archiviazione, l'avvocato della famiglia Pantani Antonio De Rensis ha commentato: «È una grande sconfitta - spiega a Sportface.it - per chi all’epoca non è riuscito a capire che ci fosse qualcosa di strano, che i controlli antidoping fossero alterati. E poi questa seconda richiesta di archiviazione rappresenta comunque un atto di accusa, perché conferma la presenza dell’infiltrazione camorristica. Non ci sono più dubbi. Futuro? Ci opporremo alla richiesta di archiviazione. In secondo luogo cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro d’Italia 1999, perché Marco Pantani non l’aveva vinto, l’aveva stravinto. Possibilità che a Marco venga assegnato quel Giro? Io penso di sì, o almeno noi combatteremo per avere almeno una co-assegnazione ad honorem postuma (dopo la squalifica di Pantani fu Ivan Gotti a vincere quell’edizione maledetta della Corsa Rosa, ndr). D’altronde, i fatti sono chiari. Non c’è solo l’intercettazione che sta girando in queste ore, ma una serie di dichiarazione univoche di altre persone informate sui fatti. Novità sull'indagine relativa alla morte di Pantani? Anche qui siamo in fiduciosa attesa: stiamo aspettando la decisione del Gip e anche su questa indagine attendiamo risposte che ad oggi non sono ancora arrivate».
Pantani: 17 anni per avere giustizia, è grama la vita degli avvoltoi. Onore ai giudici di Forlì e un abbraccio fortissimo a Tonina e Paolo Pantani: non hanno mai smesso di difendere Marco dalle palate di fango piovutegli addosso da chi non gli chiederà mai abbastanza scusa, scrive Xavier Jacobelli su “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. Ci sono voluti diciassette anni, perché la verità su quel giorno a Madonna di Campiglio venisse a galla ed è merito dei magistrati della Procura di Forlì se, finalmente, è venuta a galla. Così come le parole di Tonina Pantani non hanno bisogno di nessun commento, tanto ammirevoli sono stati la tenacia e il coraggio con i quali la mamma di Marco e Paolo, il papà, in tutto questo tempo, per tutto questo tempo, hanno gridato al mondo che Pantani non avesse mai barato in quel Giro che stava dominando. Diciassette anni aspettando giustizia. E, se riascoltate Marco parlare durante la conferenza-stampa susseguente l’esclusione dalla corsa, leggete nella sua voce tutto lo choc che ha provato, il dolore immenso che l’ha squassato, infilandolo nel tunnel della depressione che l’ha portato alla morte il 14 febbraio 2004, a Rimini, Hotel delle Rose. In attesa di avere giustizia anche per questa vicenda, il pensiero corre a tutti quelli che il giorno dopo Campiglio e nel tempo che è venuto dopo, hanno sputato fango su Marco. Quelli che il giorno prima Marco pedalava nella leggenda e il giorno dopo veniva scaricato come un pacco postale. Dovunque siano, non chiederanno mai abbastanza scusa. E’ grama, la vita degli avvoltoi.
Ciclismo. «Paga e corri», trema il mondo del pedale italiano. Rischiano la radiazione 3 team manager che chiedevano soldi agli atleti: Viviani testimone chiave, scrive Marco Bonarrigo il 16 settembre 2016. Il 6 novembre 2015 l’inchiesta del Corriere ha raccontato la realtà di ciclisti e calciatori che pagano per lavorare. Da qui parte il lavoro della Procura del Coni. Se lo stipendio te lo devi pagare da solo, che mestiere diventa il ciclista (o il calciatore)? Sono passati dieci mesi da quando un’inchiesta del Corriere della Sera ha dato alcune risposte inquietanti a questa domanda. Nel calcio l’omertà è ancora più forte di tutto, anche se i casi di giocatori di Lega Pro che accusano questa pratica non mancano. Il muro nel ciclismo è crollato grazie al lavoro della nuova Procura generale del Coni (potenziata dal presidente Malagò) che ha approfondito il tema, archiviato due volte dalla disciplinare della Fci. E il risultato di testimonianze e interrogatori fa tremare l’ambiente: sono arrivati i deferimenti ai team manager delle tre principali squadre Professional italiane, ovvero Bardiani (Bruno Reverberi), Androni (Gianni Savio) e Southeast (Angelo Citracca). Rischiano da un anno di squalifica fino alla radiazione. La picconata definitiva a un sistema vergognoso che dura da anni è d’autore: a darla è stato Elia Viviani, due mesi prima di diventare campione olimpico nell’Omnium a Rio. L’azzurro non ha certo dovuto pagare per correre, ma ha confermato con la sua testimonianza del 14 giugno che la Bardiani ha chiesto soldi a Marco Coledan, suo amico e da lui «scelto» per seguirlo alla Liquigas. Coledan, che di primo acchito aveva negato l’episodio (confermato anche dall’agente), è stato a sua volta deferito. Almeno altri 6 corridori invece hanno ammesso di aver pagato o di aver procurato sponsor che pagassero per il loro ingaggio. Se non è l’azienda di famiglia, a tirare fuori i soldi necessari è il nonno che sogna un nipote forte come Moser o magari il papà del compagno più debole, in una sorta di trattativa «2 al prezzo di 1», documentata per due atleti veneti. Nell’inchiesta «Paga e corri» spicca il ruolo anche di alcuni procuratori di ciclismo. O presunti tali, dato che percepire una percentuale sui soldi pagati dal proprio assistito per lavorare è solo uno dei risvolti grotteschi dell’intera vicenda, che dà un quadro sconfortante del movimento. Il capo d’accusa per i tre manager deferiti — violazione dell’articolo 1 del Regolamento della Giustizia sportiva della Federciclismo — è chiarissimo e in poche righe fa capire anche il risvolto tecnico, niente affatto secondario, della vicenda. Citracca, Savio e Reverberi rischiano grosso «per aver condizionato il passaggio al professionismo di atleti non sulla base di meriti sportivi acquisiti, bensì al reperimento di uno sponsor che garantisse un utile per la società ed in particolare per aver richiesto, per tramite del procuratore x al corridore y un importo in denaro a titolo di sponsorizzazione, quale condizione per il suo ingresso in squadra». «Ricordo — dice Viviani davanti al Procuratore del Coni — che per Coledan fu una sorpresa sapere che per svincolarsi dalla Bardiani si sarebbe dovuta versare una penale. Anche perché mi disse che percepiva il minimo dello stipendio e nessuno gli aveva detto che per svincolarsi avrebbe dovuto versare una somma di denaro. L’aspetto anomalo era che non risultava indicato in maniera certa e numericamente precisa l’importo di questa cosiddetta penale (…)». Così, nel discusso contratto 2+1, i soldi per liberarsi erano passati dai 10/15 mila euro iniziali, fino a 35/40 mila. Chi ci perde alla fine è soprattutto il ciclismo.
Ciclismo: scarsi, ma coi soldi di papà Così cala il livello e l’arrivo è miraggio. La difesa: abbiamo ingaggiato in passato corridori che portavano sponsor, ma l’Uci non ha mai contestato il valore sportivo dei nostri atleti, scrivono Marco Bonarrigo e Paolo Tomaselli il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «In passato abbiamo ingaggiato corridori che avevano lo sponsor e non mi vergogno a dirlo. Ramon Carretero? Certo che l’avevo preso per i soldi, c’era un progetto con Panama e la Cina che mi salvava la squadra. Ha fatto una str… si è dopato. Ma che c’entra col fatto che era sponsorizzato dal padre?». Così parlò al Corriere Angelo Citracca, team manager del Team Southeast, uno dei tre deferiti dalla Procura del Coni al Tribunale della Federciclismo. Carretero, figlio di un facoltoso imprenditore panamense, arrivò in Italia nel 2014 con palmares ciclistico nullo ma accompagnato dal cospicuo assegno di papà che lo voleva professionista a tutti i costi. Maglia nera fin dal primo metro al Giro 2015, si ritirò prima di farsi beccare dall’antidoping. Anche per arrivare ultimo aveva bisogno di Epo. Nella memoria difensiva depositata al Coni per difendersi dalle contestazioni, Angelo Citracca spiega: «Il valore sportivo di una squadra è condizione sine qua non per ottenere la licenza internazionale e fino ad oggi l’Uci non ha contestato alcuna carenza di valore ai nostri atleti». Ha ragione: per la Federazione internazionale quando ci sono i soldi il merito passa in secondo piano. Puoi ingaggiare chi credi e anche se perdi tutte le partite non retrocedi mai. Nel professionismo delle due ruote non c’è la serie C. E a fronte di un Carretero «pagante» capita che il toscano Matteo Mammini, dilettante di gran valore, non passi professionista perché, stando alle sue dichiarazioni, avrebbe respinto la richiesta del manager Androni Gianni Savio di raccogliere 50 mila euro per sponsorizzarsi da solo. Indebolito da atleti non all’altezza del compito, il ciclismo italiano di seconda fascia vince poco o nulla. Nel palmares 2016 dei quattro team Professional azzurri (75 corridori stipendiati, almeno formalmente) i terreni di conquista sono Albania, Romania, Turchia, Malesia. Da gennaio ad oggi — in oltre duemila giorni di gara individuali — totalizziamo la miseria di 40 vittorie, quasi tutte in Asia o Europa orientale. Battuti spesso da dilettanti però selezionati per meriti sportivi. Già, ma come si determina il valore atletico in uno sport dove tempi e misure hanno valore relativo? Uno degli indici è la percentuale di ritiri durante le corse che in alcuni team Professional italiani è la più alta del mondo: tolti i capitani (spesso gli unici pagati decorosamente) molti altri si fermano a metà strada in una corsa su tre: ritirati cronici. Appena la testa del gruppo apre un po’ il gas o la strada si impenna, salgono in ammiraglia e tornano a casa. Per poter fare bella figura vengono spediti a correre in Cina o Azerbaigian.
Diritti tv: Infront e i soldi alle squadre. Brescia, «Nel cda uno di fede giurata». Nelle intercettazioni gli scambi e i favori con mezza serie A. Il sospetto è che la compagnia abbia giocato contro Sky, ma anche contro la Lega Calcio, scrive Giuseppe Guastella il 31 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un torneo virtuale di calcio si gioca nell’inchiesta della Procura di Milano sui diritti tv, ed anche se tutti farebbero volentieri a meno di partecipare, il numero delle squadre aumenta. Per gli investigatori esiste un ristretto giro di società e persone in grado di condizionare il mondo del calcio. A partire dalla Infront di Marco Bogarelli, advisor Lega calcio di serie A nell’assegnazione dei diritti, che gestisce anche le sponsorizzazioni di molte squadre. Come il pericolante Cagliari, con il quale a marzo, però, decide di rescindere il contratto pagando ben 10 milioni. La Gdf non dà interpretazioni, si limita a riportare una telefonata, in cui si parla di un incontro tra Bogarelli e il presidente Tommaso Giulini, tra Giuseppe Ciocchetti (socio di Bogarelli) e il legale di Infront Antonio D’Addio che pensa che ci sia «qualcosa che noi non sappiamo con Lotito» (Claudio, presidente Lazio e consigliere federale Lega) perché «un club che sta andando in serie B conta il due di picche». Sotto indagine anche un finanziamento da due milioni andato dal Gruppo di Antonio Percassi, proprietario dell’Atalanta, a Infront, che ha problemi perché non raggiunge i ricavi previsti, e che torna all’Atalanta. Tra Infront e le società ci sono legami e scambi di favori. La Gdf annota che Bogarelli vuole un suo uomo nel cda del Brescia, ma l’ad Rinaldo Sagramola ne cerca uno «non facilmente riconducibile a voi, ma di fede giurata». Soccorsi anche per l’Hellas Verona. «Gli servivano 700 più iva», dice Bogarelli. «Orca trota! Gli ho pagato sette… seicento e qualcosa. Va bene, allora gli metto in pagamento anche l’altra», risponde il socio. Lo stesso avviene con il Bari che non può pagare i calciatori e per il quale interviene Lotito che a Ciocchetti dice: «Me devi risolve quel ca… de problema del Bari, porca…», che «questo pija la penalizzazione». Analoghi problemi nel Genoa, che deve anche iscriversi alla Uefa ma mancano 5 milioni. Interviene Riccardo Silva, presidente della Mp& Silva Group, che detiene i diritti tv del calcio italiano per l’estero, e le Fiamme gialle intercettano un vortice di telefonate con il presidente Enrico Preziosi preoccupato: «Ho perso tutto, anche l’iscrizione Uefa» perché «non ho ricevuto niente, porca pu…..!». Quando i soldi arrivano, Preziosi, secondo quanto dice Ciocchetti, è così contento da proporre il 3% della Giochi preziosi per 10mila euro che quando la società sarà quotata ad Hong Kong, varrà 10milioni. «A noi non costa un c…. È un regalo che ci fa», commenta Ciocchetti. Nella partita dei diritti tv, i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini sono convinti che Infront abbia giocato contro Sky, che oltre al satellite doveva avere anche il digitale terrestre, andato a Rti-Mediaset. Si gareggia anche per il pacchetto «C» (interviste a fine partita) con Galliani che vorrebbe «fare pressione sulle altre squadre...che abbiamo noi... come diritto di marketing», mentre Ciocchetti è preoccupato per l’intera asta: «Ci mettono tutti in galera», «in un’asta pubblica ti ingabbiano». Infine i diritti sulla Serie B. Bogarelli è attento alle esigenze di Rti che, anche qui, è in concorrenza con Sky. Parla con Andrea Abodi, presidente Lega B, che sottolinea le «criticità» avvertendo: «A me interessa che nessuno abbia da dire», anche se la Gdf è convinta che Lega A e B siano «assoggettate alla volontà dell’advisor». Ultima grana, le scommesse online durante le partite. La Juventus protesta perché Silva avrebbe ceduto i diritti a siti stranieri, ma la preoccupazione di Infront è che se ci sono soldi da recuperare non devono tornare alla Lega. Sarebbe «uno spreco».
Diritti tv, intercettazioni e Guardia di Finanza: “Ecco il sistema Infront per favorire Mediaset”. Secondo gli investigatori nel 2014 è stata truccata l'asta per l'assegnazione delle dirette televisive del triennio 2015-2018 dove l'offerta migliore era stata fatta da Sky: "Non c'era trasparenza ed equità". Adriano Galliani al telefono: "Bisogna fare pressione sulle altre squadre", scrive Andrea Tundo il 30 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Centinaia di intercettazioni telefoniche, alcune inequivocabili, a supporto di un’indagine che va avanti dalla primavera dello scorso anno, disegnano quello che gli investigatori non esistano a definire “un vero e proprio sistema” imperniato sul ruolo diInfront nel calcio italiano. Due relazioni della Guardia di finanza, anticipate da La Repubblica, descrivono in maniera limpida quanto l’advisor della Lega Serie A pesi nelle decisioni prese dalla Confindustria del calcio italiano, grazie alle numerose attività svolte per conto dei club e alla vicinanza dei suoi manager, Marco Bogarelli in primis, con il mondo Mediaset e in particolare con Adriano Galliani, ad del Milan e vice presidente della Lega. Nei primi mesi dell’inchiesta – che ha subito una nuova accelerazione negli scorsi giorni con il sequestro di tutti i contratti che legano Infront ai club di A per i quali cura il marketing – gli inquirenti si sono imbattuti nell’ultima trance di assegnazione dell’asta dei diritti tv del giugno 2014. La Lega era infatti chiamata a piazzare il pacchetto C, quello che dà la priorità per le interviste nel pre e post partita, oltre all’accesso delle telecamere negli spogliatoi e ai commenti dei bordocampisti accanto a entrambe le panchine. Un ramo apparentemente insignificante ma comunque appetitoso per le emittenti per fornire un’esperienza completa ai loro clienti. Tanto che – stando alle relazioni delle fiamme gialle – Mediaset prova a forzare la mano per vincere la gara. La proposta del Biscione è infatti più vantaggiosa, ma sarebbe “assolutamente non valida” perché legata a un accordo di sub licenza, secondo quanto riportato da Repubblica. Di conseguenza il reale vincitore sarebbe Sky, che ha imbustato un’offerta più bassa. Ma le intercettazioni telefoniche ci sono alcuni passaggi che chiarirebbero come in quelle ore sia stata indirizzato l’esito. Da Rti infatti chiamano subito Bogarelli: “Adesso devi convincerli tua eseguire la sub licenza”, ordinano. E il presidente di Infront Italy risponde: “Va bene, va bene, va bene, va benissimo (…) date un colpo anche ad Adriano Galliani”. E l’amministratore delegato rossonero, sempre in un’intercettazione riportata da Repubblica, a riguardo dice: “Bisogna fare pressione sulle altre squadre… che abbiamo noi come diritto di marketing”. Un passaggio chiave perché i soldi che arrivano da Infront alle squadre per la gestione del marketing sono un tesoretto importante per la loro sopravvivenza e verrebbero usati come leva per convincere i club a votare ciò che interessa a Infront. E le società sono tante, praticamente tutte tranne Juventus e Roma. Che spesso si mettono di traverso, provocando apprensione all’advisor. Riporta ancora La Repubblica un’intercettazione tra il direttore generale dell’azienda Giuseppe Ciocchetti e il legale della stessa, Antonio D’Addio: “Dopo il precedente dello scorso luglio, che abbiamo molto forzato la mano, io sconsiglierei di forzarla ancora”. Un’opinione condivisa da Ciocchetti, eppure quel pacchetto finisce Mediaset. Gli investigatori allora annotano: “Atteso il ruolo di advisor, Infront dovrebbe agire garantendo ai partecipanti assoluta equità, trasparenza e non discriminazione, garanzia che, dalla lettura delle intercettazioni, non è ravvisabile non solo per il pacchetto C ma anche per i pacchetti A, B, D, E”. Aggiungendo che “risulta significativo che nello stesso periodo non ci sono stati contatti con Sky”. Uno strapotere al quale, come anticipato giovedì da IlFattoQuotidiano.it, ora anche la politica vuole mettere un freno con una revisione della legge Melandri-Gentiloniche impedisca a Infront di occupare più settori, scardinando così il suo grado di influenza. Che arriva, e questo è un altro filone d’indagine già noto, al ‘salvataggio’ di società in difficoltà. Sarebbe accaduto, ipotizzano i pm, con il Genoa di Enrico Preziosi. Illuminante un dialogo tra Ciocchetti e Bogarelli: “Gli abbiamo salvato la vita perché non ha preso sei punti di penalizzazione, per quello che abbiamo fatto, ricordatelo”. “Quello” sarebbe un prestito da 15 milioni di euro arrivato dallo stesso Bogarelli e da Riccardo Silva, numero uno di Mp&Silva, tra i leader mondiali nella commercializzazione dei diritti tv, compresa la Serie A all’estero. Secondo gli inquirenti i soldi arrivati a Preziosi sarebbero provenienti “dalle disponibilità di Silva” accreditate “presso un rapporto bancario estero riferibile a un veicolo Infront”. Una ricostruzione smentita da Mp&Silva che definisce Infront “un competitor con cui capita spesso di intrattenere normali rapporti economici”, specificando che “cosa poi loro facciano dei soldi che prendono da noi, non ci riguarda”.
Diritti tv, le intercettazioni. Il numero due di Infront: “Finiamo tutti in galera”. In una conversazione con l’avvocato della Lega, il manager Giuseppe Ciocchetti si mostra spaventato. E Bogarelli tira in ballo un possibile turno di Tim Cup in Qatar: “Metterebbero un sacco di soldi...”, scrive la “La Gazzetta dello Sport" il 31 gennaio 2016. Grazie ad alcune intercettazioni, emergono novità nell’inchiesta sui diritti tv del calcio, origina dall’arresto per riciclaggio, lo scorso ottobre, del fiscalista Andrea Baroni in un cui filone parallelo i pm di Milano hanno iscritto nel registro degl indagati Marco Bogarelli, presidente di Infront, con l’ipotesi di turbativa d’asta e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Per i presunti finanziamenti ai club sono indagati anche i presidenti di Genoa, Bari e Lazio, Preziosi, Paparesta e Lotito. Ecco il testo di alcune intercettazioni. La prima è quella tra l’avvocato della Lega Calcio Ghirardi e il manager di Infront Ciocchetti. I due parlano di trattativa privata.
G.: «Ma domani il primo, cioè, voglio dire, il legale della Juve, che evidentemente spinge da un’altra parte, solleva il problema e io a questo punto devo rispondere. Allora, io rispondo in coscienza, ma anche nell’interesse di tutti…».
C.: «Però, scusami, si può andare per via privata… Non è che la tesi può essere nulla quella di Mediaset, e deve essere accettata quella di Sky?».
G.: «No, assolutamente, no. Allora, io vado a trattativa privata. Allora, le due offerte che ho ricevuto non sono per me accettabili: una perché comunque, in ogni modo, non mi dà una soddisfazione economica che io mi aspettavo, e quindi ho tutto il diritto del mondo di poterla rifiutare, l’altra perché magari mi dava un’aspettativa economica che a me poteva anche piacere, però purtroppo è condizionata. Allora a questo punto andiamo a trattativa privata, nell’ambito della trattativa privata rimuoviamo quelli che sono i problemi. Ma così io non posso andare a dire: “Allora, l’accetto a condizione che tu la tolga”, cioè io sto modificando un’offerta eh?».
C.: «Facciamo la trattativa privata, così rimuoviamo gli ostacoli, riformulino le offerte, ma che siano loro a riformulare…».
C. osserva: «Ci mettono tutti in galera».
BOGARELLI-GALLIANI — Colloquio tra Bogarelli e Galliani. Per commentare gli esiti delle offerte considerati i quali gli esprime il suo orientamento.
B.: «Senti… invece lì… il pacchetto C lo aggiudicherei…».
G.: «Uh! Tre mi… Cos’è? Più di 3 milioni, assolutamente!».
B.: «Sì, via… Alla grande…».
G.: «Perché tu pensi che il secondo giro si porta a casa ancora qualcosa di più?».
B.: «No, no, no, no… ma poi, dammi retta… andiamo così».
G.: «No, ma non nel C, no, sto parlando diritti esteri».
B.: «Ah, sì, quelli sì, sì, secondo me sì, perché sono tempestato… poi in Qatar, Aspire è interessatissimo a fare la partita del turno di Tim Cup a gennaio…».
B.: «…Metterebbero un sacco di soldi...sono».
G.: «Dai, dai, dai, dai va bene».
CIOCCHETTI-SILVA — Ciocchetti parla con Silva (presidente della MP&Silva Group) del 3% della Giochi Preziosi offerto dal presidente del Genoa.
C.: «e diceva: guarda siccome siete stati gli unici che mi avete dato retta che ogni volta che chiamavo...voglio ricompensarvi di questo vostro sacrificio, quindi ora la società vale 300 milioni, però lui è convinto, poi non so se è così, in quotazione varrà almeno il doppio, se non ancora di più... quindi io sono disposto a darvi il 3% della GIOCHI PREZIOSI, facciamo un contratto di opzione, io l’ho già visto tutto, un contratto d’opzione che voi potete esercitare a 10mila euro, una cagata...5 mila euro, che voi potete esercitare quando volete, quando si sa che la quotazione certa ha un valore di 300 milioni, per il 100%, fino.. che quindi vale 10 milioni... cioè, voi lo esercitate, acquistate 10 milioni, lo fate soltanto se la società vale di più, fino a 25 milioni di guadagno... scusa fino a 25 milioni di valore se ve li tenete tutti voi, quindi più 15, dopodichè dividiamo fifty fifty...».
LA REPLICA — In serata la replica di Infront affidata all'Ansa: l'advisor della Lega calcio per i diritti tv parla di «Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi».
Diritti tv, Infront: "Gravi e fantasiose illazioni". L'advisor della Lega calcio interviene dopo la pubblicazione delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Quanto contenuto negli articoli sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi", scrive "La Repubblica" il 31 gennaio 2016. "Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi". E' la dichiarazione all'Ansa di Infront, l'advisor della Lega calcio per i diritti tv e del marketing di molti club di serie A, dopo la pubblicazione su alcuni giornali delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Con riferimento agli articoli di stampa recentemente divulgati in particolare dal quotidiano La Repubblica e da La Gazzetta dello Sport, Infront - sottolinea la nota - nella sua qualità di advisor della Lega Serie A, ritiene imprescindibile precisare alcuni dei gravi errori di fatto in cui sono incorsi i giornalisti nella ricostruzione e interpretazione degli accadimenti. Non è infatti vero che l'invito a presentare offerte per il Pacchetto C fosse stato "truccato" per agevolare la società Mediaset, come sostiene alcuna stampa. Anzi basta esaminare il reale svolgimento dei fatti per rendersi conto che Sky ha avuto un anno di tempo per aggiudicarsi il pacchetto C, avendo concorso senza la partecipazione di Mediaset, per ben tre volte alla sua assegnazione. Senonché, in ciascuna di queste occasioni, Sky offrì importi o inferiori al prezzo minimo, oppure sempre inferiori al prezzo precedentemente già ritenuto incongruo e per ciò rifiutato dalla Lega". Per l'advisor della Lega calcio "le gravi e fantasiose illazioni contenute negli articoli di stampa, liberamente evinte da stralci di brogliacci di intercettazioni telefoniche, sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi. Non hanno peraltro tenuto in nessun conto - prosegue Infront - come si potrà agevolmente dimostrare nelle sedi a ciò deputate, la circostanza che i regolamenti, i ruoli e il reale andamento dei fatti sono rimasti indenni da ogni tentativo di influenza diretta o indiretta, da chiunque proveniente, sull'esito dell'assegnazione, e semmai intesi a favorire la libera concorrenza tra gli operatori. Negli articoli di stampa - prosegue la nota - si travisa anche il ruolo di Infront, che è un mero advisor della Lega e, come tale, non assume le delibere in capo all'Assemblea di Lega Serie A. Nella sua qualità di advisor si limita dunque a effettuare ricognizioni di mercato, intrattenendo rapporti direttamente con gli operatori del settore, al fine di calibrare in favore della Lega la propria attività di consulenza, che la stampa ha frainteso come attività di interferenza". Infront elenca poi "i fatti". Il pacchetto 'C' - i diritti di trasmissione di interviste della serie A - "è stato oggetto di 3 inviti a presentare offerte sin dal 19 maggio 2014", occasioni in cui partecipò sempre e solo Sky, Mediaset non formulò mai offerte"; dopo che la prima gara non fu aggiudicata perchè "Sky non aveva superato il prezzo minimo, la Lega operò un ribasso del prezzo minimo" per agevolare la rapida assegnazione del pacchetto "accessorio rispetto a quelli principali già aggiudicati, circostanza che - ricorda Infront - lo rendeva assegnabile solo ai soggetti già aggiudicatari dei pacchetti A e B". Sky - ricostruisce Infront - dopo aver offerto zero arrivo a 6 milioni senza mai modificare la cifra, anche in assenza di offerte Mediaset". Il quarto invito fu del 17 marzo 2015, e la Lega vi specificava che l'offerta doveva essere congrua al contenuto, o non sarebbe stata accettata. Il 9 aprile di quell'anno, sottolinea Infront, Sky offrì 6,6 mln euro per 3 anni, Mediaset 8,55 mln per lo stesso periodo ma con la condizione di poter di poter "sub-licenziare i diritti all'aggiudicatario del pacchetto A, ovvero Sky. Condizione, sottolinea Infront, "strumentale a sopportare insieme i relativi costi, non a sottrarli a Sky". Ma il giorno dopo le offerte, "a differenza da quanto lasciato intendere dai giornalisti, veniva deciso di non assegnare il pacchetto nè a Sky nè a Mediaset" perchè la prima non aveva cambiato l'offerta, mentre RTI aveva presentato offerta più alta ma "con la condizione di sub-licenziare, proposta irricevibile". Si proseguì con una trattativa privata, sottolinea ancora l'advisor, e l'8 maggio Sky offrì 7.2 mln per i tre anni, Mediaset 9.34: "nessuno dei due offerenti, pur conoscendo le precedenti offerte del competitor, modificò di fatto la propria. In particolare Sky non aumentò l'offerta per superare quella, a loro già nota, formulata precedentemente da Mediaset (8,55 mln euro). Il pacchetto C venne aggiudicato a Mediaset/RTI il 10 maggio 2015 in quanto miglior offerente". "Non è dunque conforme al vero che siano giunte a segno le ipotizzate pressioni su rappresentanti di Infront o della Lega, finalizzate a sottrarre il Pacchetto C a Sky e assegnarlo a RTI/Mediaset - è la conclusione della nota - E' invece vero che Sky, avendo avuto molteplici occasioni per aggiudicarsi il pacchetto ha nei fatti rifiutato tale opportunità, che non ha dunque colto come conseguenza di una sua autonoma e libera decisione. Si ribadisce pertanto la correttezza dell'operato dell'Advisor Infront e il pieno rispetto delle regole previste dalle procedure di invito e di trattativa privata".
Perché la Bbc e Buzzfeed scrivono che il tennis è uno sport truccato, scrive il 19 gennaio 2016 “Bergamo Post. È un calcio malato. No, aspettate. È un tennis truccato. Nemmeno i belli&dannati della racchetta se la cavano, stavolta. Anche loro sono finiti in mezzo a uno scandalo torbido. Secondo la Bbc eBuzzfeed news, il sito americano di informazione, i tennisti ci truffano dal 2003. Match di Wimbledon, del Roland Garros, e di tutti gli altri tornei del Grande Slam, un sacco di partite truccate da 16 campioni, addirittura dai primi 50 del mondo, e se nemmeno il tennis è al sicuro allora vuole dire che corriamo il rischio di sporcizia in ogni sport. E quel che è peggio è che ci saremmo di mezzo anche noi italiani. «I documenti che abbiamo ottenuto – afferma la Bbc – mostrano come le indagini abbiano trovato cartelli di scommettitori in Russia, Italia settentrionale e Sicilia che hanno guadagnato centinaia di migliaia di sterline con scommesse su partite truccate, tre delle quali giocate a Wimbledon». L’indagine fu avviata nel 2007 in seguito a sospetti sull’incontro tra Nikolay Davydenko e Martin Vassallo Arguello. Il report del 2008. Fu un match non troppo combattuto, oggi lo definiremmo sospetto. I due tennisti non risultarono colpevoli di alcuna violazione, ma l’inchiesta si sviluppò rilevando una rete di scommesse illegale. Il lungo braccio della legge che fa il suo corso. E ci è voluto un bel po’ per arrivare qui. In un report confidenziale del 2008, il gruppo che investigava sul caso affermò che 28 giocatori erano stati monitorati, ma che non era emersa alcuna prova a loro carico. Perché? Il mondo del tennis ha introdotto un nuovo codice anti-corruzione nel 2009, ma è stato deciso che non potessero essere perseguiti i reati compiuti precedentemente. E se non lo avessero fatto da un’altra parte, giureremmo che il finale è il tipico tarallucci e vino. A segnalare i reati è la Tennis Integrity Unit (Tiu), un’agenzia che si occupa di monitorare i match e verificare quelli in modo sospetto. Come? Con tutta una serie di dettagli che fanno scattare degli allarmi (troppi doppi falli, troppe palline gettate al vento eccetera). Questo sistema esiste anche nel calcio.
Tutta colpa di Federer (o quasi). Il tennis delle disuguaglianze dove si scommette per vivere. Oltre ai campi prestigiosi di Wimbledon e Roland Garros, dove una ristrettissima cerchia di giocatori si divide una torta in costante espansione, il tennis vive anche sui campi spelacchiati di tornei con montepremi bassissimi. Ed è lì, tra quei giocatori che non vanno in pari a fine anno, che la tentazione di aggiustare le partite si fa quasi irresistibile, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera” del 19 gennaio 2016. Il paradiso delle scommesse esiste, e si chiama tennis. Lo disse bene Richard Ings, ex giudice di sedia: era quel signore vagamente somigliante all’attore Richard Harris che arbitrava le finali di Wimbledon degli anni Novanta, oggi dirigente affermato, responsabile anche del settore antidoping della Federazione internazionale. «Se volessimo inventare uno sport fatto apposta per truccare gli incontri, questo si chiamerebbe tennis». Era già tutto nero su bianco, ben prima dell’inchiesta di Bbc e Buzzfeed — la trovate sfiorando l’icona blu — che senza rivelare nulla di nuovo ha il merito indiscusso di sollevare il velo su una realtà troppo spesso taciuta per convenienza e in omaggio al Dio denaro che tutto muove e decide nello sport professionistico. A questo paradiso dell’azzardo non manca nulla, davvero. A cominciare da un microclima ideale, reso possibile dalla fame dei comprimari e dall’egoismo delle stelle. Tutta colpa di Federer. Sarebbe un bel titolo, contenente una parte di verità, magari non direttamente addebitabile al campione svizzero, ma di certo al sistema che anche lui ha contribuito a creare. Nel nome dello star system, oggi il tennis è una piramide dove chi sta in vetta gode di privilegi da sogno, e si può dividere il 95 per cento del montepremi dei principali tornei. Agli altri, briciole (sfiorando l’icona blu, l’articolo di Forbes sui tennisti più pagati al mondo: in testa c’è proprio Roger Federer). È un sistema paragonabile a quello dei diritti televisivi delle squadre di calcio: la gente paga per vedere Federer, Nadal, Djokovic, non i loro avversari, i numero 50-60 della classifica. E quindi la torta appartiene quasi per intero ai più forti, che custodiscono gelosamente il loro privilegio. In questa specie di casta sportiva i posti sono limitati. Cinquanta, al massimo settanta. Ci sono giocatori così forti da entrare direttamente in tabellone degli Slam, ma così «poveri» da non riuscire e essere in pari alla fine di ogni stagione. Per loro, i soldi delle scommesse non sono solo una tentazione, ma possono anche essere una necessità. Quale Futures? Ad alzare lo sguardo oltre i cancelli del circolo esclusivo, c’è una realtà fatta di oltre duemila sopravvissuti e sopravviventi che affollano il gradino più basso del circuito Atp, quello dei Futures, i tornei con montepremi collettivi da diecimila dollari al massimo. Dimenticate il Roland Garros, Wimbledon e le lounge eleganti popolate da modelle e industriali di vaglia, con annesso buffet a tre stelle. L’altro tennis, quello dei peones della racchetta, va in scena in località del globo improbabili e neppure troppo esotiche, difficili da raggiungere, dove l’ospitalità è a carico del giocatore, dove spesso manca tutto, dagli spogliatoi alle palline, a campi di gioco decenti. Il montepremi dei Futures è fermo dal 1998, quando già appariva ai più troppo basso. Nello stesso periodo, la cifra scritta sull’assegno destinato al vincitore degli Australian Open, la prima prova degli Slam, si è moltiplicata per 5, arrivando fino a 2,4 milioni di euro. Nei Futures, una vittoria dopo cinque turni viene pagata nei casi migliori 1.400 dollari, ai quali vanno sottratte le tasse. Chi ha la sventura di perdere al primo turno ne incassa soltanto 100-110, di dollari. E per tornei che si disputano in posti sperduti dell’Africa centrale o nel cuore dell’Amazzoni, con quella cifra è impossibile rientrare delle spese di viaggio e di soggiorno. In questa specie di Cayenna con racchette dove la tentazione è più forte e sempre più conveniente della retta via, si aggirano i diavoli tentatori delle scommesse, gli aggiustatori di incontri sempre con computer in mano, pronti a tessere tele e costruire rapporti che resteranno anche in caso di passaggio di categoria del malcapitato giocatore. Si limitano a sfruttare una disuguaglianza divenuta ormai sistema anche a causa dell’ingordigia dei giocatori più forti che fa del tennis un caso unico di oligarchia sportiva. D’accordo, non ci sono le classifiche individuali negli sport di squadra. Ma è certo che il cinquecentesimo calciatore o cestista del mondo non fa certo la fame e una volta finiti gli anni d’oro non dovrà certo preoccuparsi di come tirare a campare, a differenza del suo corrispettivo tennistico. Infine c’è il dettaglio più importante, quello che rende questo scenario ancora più ideale per chi vuole guadagnarci sopra in maniera illecita. Perdere apposta a tennis è facile, mentre invece è ben difficile vederlo a occhio nudo, al netto di qualche svarione terrificante e non casuale filmato appunto a livello Futures e rintracciabile su Youtube, ma lì siamo davvero ai Fantozzi e Filini della scommessa. Nessuno potrà mai dimostrare che quel rovescio tirato fuori di tre centimetri sia davvero indizio di una combine. E davanti a questo, neppure la rivelazione dei nomi coinvolti nell’inchiesta può nulla. La prova è proprio nella pietra dello scandalo dalla quale origina l’inchiesta dellaBbc, quel match Davydenko-Vassallo Arguello che gli aficionados ormai conoscono a memoria, manco fosse un Borg-McEnroe d’annata. Non ci sono colpi che fanno saltare sulla sedia, non si vede la pistola fumante. La partita divenne famosa per l’incredibile quantità di puntate, che all’improvviso raggiunse i quattro milioni di euro, e per la pessima fama di Davydenko. Ma pochi sanno che al termine dell’inchiesta il tennista russo non solo fu assolto, ma chiese e ottenne anche le scuse dell’Atp. Nel tennis le scommesse sono imparabili. Nel circuito Atp è ben nota la lista dei 140 spettatori indesiderati che non possono mettere piede nei palazzetti dove si giocano tornei importanti. Sono i campioni della scommessa in tempo reale, che puntano sul singolo game del primo turno del torneino dei bassifondi, che fanno incetta di informazioni sullo stato di salute dei giocatori. Sono un male incurabile e quindi tollerato nel silenzio generale, come testimonia il non lavoro delle Tennis Integrity Unit, che in questi giorni di rivelazioni si straccia le vesti, ma finora non si era mai lamentata dei poteri meramente simbolici che le sono stati assegnati. Chi invoca come unica panacea possibile l’intervento della magistratura ordinaria fa bene. Con una sola avvertenza: il tennis è il più internazionale degli sport. Mettersi sulle tracce di un illecito per cinque diversi continenti è faccenda complicata. Ci sono problemi di competenza, di tempi soprattutto. Decidere di perdere un game, o un set, o un match, è molto più semplice. Basta far scommettere l’amico o il semplice conoscente, o il vicino di casa. E poi prendimi, o dimostra la frode, se puoi.
Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Si sono ammalate le discipline più polari e quelle più redditizie. Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?..., scrive Emanuela Audisio per “la Repubblica” del 19 gennaio 2016. Ma che razza di roba è diventata lo sport? Un giallo, un romanzo criminale, horror, un road-movie poliziesco mondiale. Con Fbi, Dea, Interpol in azione. Da calciopoli a racchettopoli, per dirla alla banda Bassotti. Era il caro vecchio romantico sport, magliette sudate e fango vero, ora è un susseguirsi di irruzioni, di intercettazioni, di agenti, di polizie che indagano su illeciti e riciclaggio. Era malato lo sport, si sapeva. Ma questa non è malattia, è un’infezione all’osso. Si può ancora voler bene a un quasi cadavere portatore insano di malavita, malaffare, scommesse? Cosa devi pensare quando un tennista russo perde un torneo in Polonia (Sopot) con un giocatore che in classifica è 82 posizioni sotto, in una finale con 7 milioni di dollari di scommesse? Cosa devi intuire quando alla maratoneta russa Lylia Choboukhova, vincitrice di Londra 2012, viene estorta una mazzetta di 450 mila euro per tacere sulla sua positività, e dopo le vengono rimborsati 300 mila da una società fantasma con sede a Singapore? Ciclismo, calcio, atletica, tennis. Si sono ammalati tutti. I giochi più romantici, quelli più popolari, quelli più universali, quelli più elitari. Ma anche quelli più redditizi. E soprattutto sono mancati i dottori, quelli che intervengono subito e non dicono: aspettiamo. Quando la velocista tedesca Katrin Krabbe, oggi commessa, nel ’92 risultò dopata, le circostanze erano già da giallo: si era fatta prestare l’urina dalla moglie (incinta a sua insaputa) del suo allenatore, l’aveva messa in un profilattico, che si era introdotta in vagina prima del controllo. Però che stratagemma, pensarono tutti. Il ciclismo spostò quei confini e si arrivò alle sacche di sangue congelato, all’operacion Puerto, ai sequestri, alle irruzioni all’alba. E si disse: ma c’è proprio bisogno di questi golpe? Poi arrivarono i 7 Tour dell’amerikano Lance. Prima magici, poi misteriosi. Non a caso nello sport il titolo «L.A. Confidential» non si riferisce al libro di James Ellroy ma a quello sul ciclista Lance Armstrong. Grande bandito su due ruote. I malviventi erano gli sportivi. Loro prestavano le vene alla grande truffa. Quando l’americano Jeff Novitzky, agente speciale delle tasse (Irs) che lavora in collaborazione con Fbi e Dea su riciclaggio e narcotraffico, indaga su un’azienda appena fuori San Francisco che si chiama Balco, scopre che tanti campioni la frequentano (in segreto), comprando i prodotti (steroidi e altro) sempre in contanti, anche diecimila dollari a volta. Decide per il blitz e piomba sulla sede con gli elicotteri in una riedizione di Apocalypse Now. C’è la fuga, l’inseguimento, ma le poste elettroniche, le siringhe, conti e fatturati ci sono. Stavolta il bandito è uno che non è nemmeno dottore, si chiama Victor Conte, è lui che rifornisce i grandi campioni dello sport a stelle e strisce. Marion Jones compresa, che finisce in galera. Non paga le tasse per dieci anni nemmeno Chuck Blazer, membro dell’esecutivo Fifa dal ’96 al 2013 e vicepresidente della federazione americana di calcio. Così l’agente Berryman a Los Angeles inizia a indagare e incrocia i report di altri due signori che lavorano all’Fbi e che dal 2010 si stanno occupando di mafia russa. E guarda caso c’entra anche l’assegnazione dei mondiali di calcio a quel paese. L’inchiesta diventa una, con diramazioni in 33 paesi. E porta allo scandalo Fifa. Stavolta i cattivi sono in alto. Quelli in doppiopetto, non in tuta. Si scopre che Blazer ha in affitto due appartamenti al 49esimo piano della Trump Tower per 18 mila dollari al mese. E uno più piccolo solo per i suoi gatti. Chi paga? Lui no, ma il calcio sì. Nel 2005 Blazer si compra anche per 49 mila dollari il carrarmato da strada Hummer (utilissimo a New York) e ne spende 21.600 per il garage. Lo incastrano, lui decide di collaborare, e a Londra 2012 va con il registratore appiccicato sotto la camicia, come nei film, per raccogliere prove sui colleghi. Un altro dirigente Fifa, Jeffrey Webb, nel suo paese, Isole Cayman, ha fatto costruire un nuovo quartier generale per la sua federazione calcio da oltre 2 milioni di dollari. Peccato che le Cayman, una popolazione di appena 58 mila persone, nel football siano al 191esimo posto e non abbiano mai partecipato ad un mondiale. Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, il figlio di Diack, ex presidente Iaaf, è ricercato dall’Interpol, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Giustificazione: sui court ai bravi non conviene vendersi. Ma che bella notizia: e a tutti gli altri invece sì? Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?
TENNISGATE: GLI ALTRI SETTE SPORT CHE HANNO FATTO SCANDALO NEGLI ULTIMI TEMPI, scrive Rai News il 18 gennaio 2016. Tennisgate, i numeri dello scandalo Scandalo Fifa, Blatter: "Ho chiuso con il calcio, la mia è una squalifica senza senso". Fifa: Platini si ritira dalla corsa alla presidenza Lo scandalo che scuote il tennis mondiale. Bbc e Buzzfeed: "Match di alto livello truccati da anni". Calcioscommesse, Montezemolo: "Molta gente deve andare a casa". Calcioscommesse. Mattarella: "Fa indignare, ora severità". Calcioscommesse, 50 arresti: "Truccate partite in Lega Pro e Serie D". Calcioscommesse, Tavecchio: "La delinquenza è un fatto aritmetico". Sfiduciato Belloli. Calcioscommesse, 17 arresti in Calabria Calcioscommesse: 5 indagati per la gara Savona-Teramo di Lega Pro che è valsa la promozione in B 18 gennaio 2016. Il tennis è l'ultimo sport a essere coinvolto in pesanti polemiche in seguito a un'inchiesta della BBC e di Buzzfeed che sostengono di avere le prove del fatto che in occasione di eventi di alto livello alcune partite siano state truccate. Vediamo quali sono gli altri ambiti sportivi che nei tempi recenti hanno dato scandalo. Calcio La crisi del mondo del calcio, con lo scandalo Fifa, ha raggiunto il suo apice lo scorso anno. A maggio 2015, funzionari della federazione internazionale sono stati arrestati dalle autorità americane con l'accusa di racket, frode telematica e riciclaggio di denaro. Le autorità svizzere hanno fatto irruzione nella sede Fifa per una indagine indipendente riguardanti accuse di gestione criminale e riciclaggio di denaro in relazione all'assegnazione dei Mondiali del 2018 e del 2022. Sepp Blatter ha quindi annunciato le sue dimissioni da presidente Fifa e a settembre i procuratori svizzeri hanno aperto un procedimento penale contro di lui su un accordo sui diritti televisivi firmato con l'ex presidente della federazione calcio dei Caraibi, Jack Warner, e per un pagamento fatto al presidente Uefa, Michel Platini. Nel mese di dicembre, Blatter e Platini sono stati sospesi per otto anni da tutte le attività legate al calcio. Il segretario generale della Fifa, Jérôme Valcke, è stato licenziato pochi giorni fa. Il francese era comunque già stato sollevato dal proprio incarico il 17 settembre scorso a seguito dello scandalo relativo alla vendita in nero di biglietti. Inoltre, la Commissione etica aveva aperto formalmente un procedimento in cui raccomandava una sospensione di nove anni da ogni attività legata al mondo del calcio. Il 55enne era in carica dal 2007. Atletica L'atletica leggera è stata travolta dallo scandalo dopo un rapporto della commissione indipendente della Anti-Doping Agency pubblicato all'inizio di gennaio 2016, che ha rivelato il doping sistematico tra gli atleti russi. Uno scandalo considerato soltanto la punta di un iceberg di un movimento molto più grande, scoperto dalla stessa IAAF, con la compiacenza delle cariche più elevate, accusate di corruzione. Il britannico Sebastian Coe è diventato presidente della IAAF lo scorso agosto dopo 8 anni in cui ha ricoperto la carica di vice-presidente, sostituendo il senegalese Lamine Diack, sospeso proprio in seguito a un’inchiesta che lo vede accusato di corruzione per aver coperto i problemi di doping di diversi atleti russi. Da quel momento sono emersi risvolti sempre più inquietanti sul modus operandi tenuto dalla IAAF negli ultimi anni. Ciclismo Marzo ha visto la pubblicazione di una relazione della Circ, la commissione indipendente istituita dall' attuale presidente dell'UCI, Brian Cookson, che ha accusato gli ex leader del mondo dello sport di minare gli sforzi contro il doping e denuncia un trattamento preferenziale all' ex vincitore del Tour de France Lance Armstrong, caduto in disgrazia.. Cookson ha invitato il suo predecessore Hein Verbruggen a dimettersi dal suo incarico di presidente onorario dell'organizzazione. Cricket Lo scandalo ha riguardato la partita del Pakistan contro l'Inghilterra a Lord nell'agosto del 2010. Un anno dopo, tre giocatori della nazionale pakistana sono stati condannati a pene detentive. L'ex capitano Salman Butt è stato in carcere per due anni e mezzo anni per il suo ruolo di "orchestratore" dei "no-balls", l'ex numero due del mondo Mohammad Asif ha ricevuto una pena detentiva di 12 mesi per la consegna delle no-balls fraudolente, e il 19enne Mohammad Amir, considerato il bowler potenzialmente più veloce di tutti i tempi, ha invece passato in un carcere giovanile sei mesi dopo aver ammesso due no-balls intenzionali. Nel settembre 2013, l'ex numero cinque del mondo Stephen Lee è stato squalificato per 12 anni dopo essere stato riconosciuto colpevole di avere truccato sette partite. La pena è stata inflitta con effetto retroattivo, a partire da ottobre 2012. Significa che Lee - ora 41 anni - non potrà giocare fino al 2024. Nel 2014, dopo aver perso in appello, è stato condannato a pagare 125.000 sterline di spese processuali. Rugby Nell'agosto 2009, l'ex direttore della federazione rugby Dean Richards è stato condannato a tre anni di esonero da allenatore per aver architettato lo scandalo Bloodgate, che vide l'ala Tom Williams incorrere in un finto grave infortunio durante un incontro della Heineken Cup a Leinster nell'aprile di quell'anno . Williams aveva in bocca una sacchetta contenente sangue finto, uguale a quelle usate nai film. Inscenò l'infortunio per consentire allo specialista in drop-goal Nick Evans di rientrare in campo con i Quins e portare il risultato finale a 6-5. Si è poi scoperto che Richards ha orchestrato tutto. Ha anche pensato di procurare un vero taglio in bocca a Williams per coprire l'inganno della sacchetta. E che lo stesso allenatore, in combutta con il fisioterapista dei Quins, Steph Brennan con la stessa tecnica aveva messo in scena finte lesioni in altre quattro occasioni. Williams è stato condannato a 12 mesi di sospensione, pena ridotta a quattro mesi dopo che ha rivelato che agiva agli ordini di Richards e Brennan. Corse di cavalli Nell'aprile 2013, Mahmood Al Zarooni, allenatore del purosangue Godolphin, è stato squalificato per otto anni dopo aver ammesso di aver utilizzato steroidi anabolizzanti per cavalli a lui affidati. La British Horseracing ha vietato anche escluso dalle competizioni per sei mesi 15 cavalli addestrati da Al Zarooni.
Meglio il tennis truccato della serie A di Holly e Benji. Cartoni poco animati. Per sconfiggere la noia di un campionato in cui le squadre si scansano e i giocatori non esultano, la si butta su “Holly e Benji”, scrive Jack O'Malley il 18 Gennaio 2016 su "Il Foglio". Liverpool. Avendo probabilmente finito le minorenni da importunare, alla Bbc hanno messo a segno uno scoop che ieri apriva gran parte dei siti di notizie, e che mi ha fatto andare di traverso il rum di metà mattinata. Non si tratta di calcio, ma di un altro degli sport che noi abbiamo inventato e fatto diventare grandi senza trasformarlo in pagliacciata come avrebbero fatto gli americani: il tennis. Secondo le carte lette dai giornalisti della Bbc 28 giocatori di alto livello avrebbero truccato alcune partite, anche di tornei importanti (“Wimbledon!”, shame) per favorire alcuni scommettitori russi, siciliani e del nord Italia. A quel punto sono passato alla vodka. Naturalmente non c’è nulla di certo, a parte un paio di nomi di ex tennisti. C’è molta indignazione, molto scetticismo e molto menefreghismo. Anche se non è sport di contatto, il tennis non è gioco per verginelle: tra l’altro è molto più semplice da truccare di una partita di calcio, per cui è assolutamente normale che succeda. Certo, il fatto che a guadagnarci siano dei russi e degli italiani mi scoccia un po’. Il Blue Monday sarà una bufala, ma noi interisti per non sbagliare l'abbiamo iniziato sabato Male la prima Perché Spalletti, Boateng e Immobile devono stare attenti alla "depressione da ritorno" Quella "bestia" di Ranocchia. Per fortuna c’è la Premier League, che magari è pure truccata, ma in modo ottimo. Domenica pomeriggio mi sono goduto l’ennesima caduta del Liverpool di Klopp (la cui parabola insegna due cose almeno: 1) non basta avere azzeccato un paio di stagioni in Bundesliga per essere un grande allenatore; 2) non basta cambiare allenatore se la squadra fa cagare) per mano del bolso Manchester United di Van Gaal, che ormai sta seduto in panchina come una vecchia zia intirizzita dal freddo che lavora a maglia. Il gol di Rooney è stato un gran bel gol, e confesso che è stato bello vedere esplodere di gioia quel ragazzo di Liverpool tifoso dell’Everton che non segnava ad Anfield da dieci anni. Poche ore prima in Italia mi dicono che Quagliarella è andato a chiedere scusa ai tifosi del Torino per avere chiesto scusa ai tifosi del Napoli. Assurdo, ma forse in questo modo si chiude un cerchio: alla prossima partita forse avrebbe esultato per i gol subiti dalla sua squadra. Chloe Goodman, fidanzata di Jordan Clarke dello Scunthorpe, è una bambinona. Qui la vediamo mentre gioca spensierata a “1,2,3, stella!” Non serviva l’ultima farsa politicamente corretta per dimostrare che la Fifa è lo sgabuzzino della modernità occidentale. Alla cerimonia del Pallone d’oro hanno malamente cancellato dalla fronte di Neymar la scritta 100% Jesus che aveva esibito dopo la vittoria della Champions, ennesima censura dell’elemento religioso che dev’essere espunto dalla laicité calcistica. Già ai brasiliani in passato era stato intimato di non riunirsi al centro del campo per pregare, usanza che disturbava la burocratica divinità della Fifa e il suo poco ieratico profeta, Sepp Blatter, e alla premiazione i conduttori erano visibilmente in imbarazzo quando un atleta di Dio ringraziava il cielo: “Ma parliamo di calcio adesso…”, sembravano dire. La miopia della Fifa in questo caso è duplice. Non solo con fare nordcoreano lavora di Photoshop, ma non si accorge che l’esibizione del religioso al modo degli atleti di Dio è fondamentalmente un pezzo di folclore, una manifestazione culturale, è il segno della croce all’ingresso del campo, gesto che di rado segnala la presenza di un “culture warrior” o di un pericoloso portatore di una visione del mondo effettivamente cristiana. La censura è un eccesso di zelo. A proposito di eccessi. Quando un telecronista paragona un atleta a un cartone animato significa che la fine è vicina: se poi accenna in diretta anche la sigla del suddetto cartone per chiarire il concetto allora vuol dire che qualcuno ha fatto qualcosa per meritarsi tutto questo. E così la fantastica parata di Handanovic su Cigarini è diventata una cosa da Holly & Benji, che è un po’ come quando una volta, in era pre-digitale, di fronte a un bel panorama si pronunciava la scemenza suprema: “Sembra una cartolina”. Handanovic, piuttosto, sembra un portiere estremamente dotato, di quelli da cui traggono spunto i creatori di cartoni animati per fare i loro personaggi. La sua squadra, invece, sembra anche meno in forma dei telecronisti che la raccontano. Per fortuna Giancarlo Marocchi ci ricorda che anche in televisione è possibile scansare le banalità rituali e dire qualcosa. Lui ha detto che quando giocava alla Juve le altre squadre avevano il coltello fra i denti, ora sembra quasi che si scansino. Non come nei cartoni animati.
Scandalo doping, Adidas abbandona l’atletica. Per la Iaaf colpo da 32 milioni di dollari. La rottura era attesa e potrebbe aprire un baratro economico per la Federazione, spingendo al fuggi-fuggi gli altri grandi nomi che sostengono lo sport mondiale proprio nell'anno delle Olimpiadi di Rio, scrive Andrea Tundo, il 25 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si chiuderà a breve il rapporto tra la Federazione internazionale dell’Atletica e l’Adidas. La rottura è una diretta conseguenza dello scandalo doping che ha travolto la Federazione, i cui vertici erano a conoscenza di diversi casi e hanno insabbiato tutto, anche in cambio di soldi. Il divorzio dal colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo, uno dei più importanti sponsor della Iaaf, peserà sulle casse federali per poco più di 32 milioni di dollari, tra soldi e forniture. Una mazzata. Che rischia di innescare un effetto a catena e avrà con ogni probabilità strascichi legali. La notizia diffusa nella notte tra domenica e lunedì dalla BBC è la prima grande conseguenza a livello commerciale per la Iaaf, che finora era riuscita a parare il colpo con gli sponsor. L’addio dell’Adidas potrebbe ora spingere anche altri marchi – Canon, Toyota, TDK, Mondo e Seiko – alla fuga dando il la a un fuggi-fuggi generale, oltre a rappresentare un altro duro colpo alla credibilità della governance di Sebastian Coe, minata da più fronti negli ultimi mesi. L’azione era pianificata da tempo, ma è stata ufficializzata da poco. Già a fine novembre infatti l’Adidas aveva comunicato alla Iaaf di essere molto perplessa sull’opportunità di continuare la sponsorizzazione, firmata otto anni fa e in scadenza nel 2019. La lettera ufficiale, secondo quanto ricostruito dalla tv inglese, sarebbe poi arrivata alla Iaaf due settimane fa. Si spiegherebbe così la breve nota stampa rilasciata dalla federazione lo scorso lunedì. Poche righe per ribadire d’essere “in stretto contatto con tutti gli sponsor e i partner dal momento in cui ci siamo imbarcati nel nostro processo di riforma”. A sei mesi dalle Olimpiadi di Rio, dov’è la regina delle discipline, si concretizza per l’atletica mondiale lo spettro di ingenti danni economici provocati dallo scandalo doping. La situazione della Iaaf è precipitata lo scorso 14 gennaio, quando la Wada ha presentato il secondo capitolo dell’indagine condotta dalla Commissione indipendente presieduta da Dick Pound. Secondo i risultati dell’investigazione c’era una “cultura della corruzione radicata ai vertici della Iaaf”, la cui responsabilità “non può ricadere su un numero limitato di persone”. Inoltre la commissione non ritiene plausibile che “il Consiglio (di cui Coe, poi eletto presidente, faceva parte) potesse non essere a conoscenza del sistema e dell’esteso programma di doping della Russia”. E proprio la prima parte del dossier, quella riguardante Mosca, aveva già messo in guardia l’Adidas: il ruolo dei servizi segreti, l’uso sistematico di sostanze dopanti da parte dei marciatori, i laboratori antidoping paralleli e le richieste di denaro per coprire le positività rappresentavano già una base sufficiente per meditare l’addio, assieme alla richiesta di un segnale forte degli sponsor giunta anche da alcuni atleti. Le conferme fornite dalla seconda puntata dell’inchiesta della Wada riguardo una cultura radicata del doping e della corruzione per coprirlo hanno spinto il gigante tedesco a formalizzare il suo addio all’atletica. Un passo avanti rispetto alle semplici parole di dispiacere espresse di fronte allo scandalo Fifa. Nonostante anche lì tangenti e corruzione siano arrivate a toccare i vertici, Adidas resta il più solido partner commerciale del calcio mondiale.
Blatter, Platini e l’ombra del doping: l’anno di scandali nello sport, scrive Sport Sky il 31 dicembre 2015. Il 2015 che si è appena chiuso, può essere ricordato tra i peggiori per la politica sportiva, a causa del terremoto che ha sconvolto la Fifa, detronizzando i vertici e affossando anche le Roi Michel. Ma anche l’atletica ha avuto i suoi guai, tra corruzione e l'insabbiamento del caso Russia. Il 2015 che si è appena concluso, è stato senza dubbio l’annus horribilis della politica sportiva, soprattutto calcistica e dell’atletica leggera. Vi riproponiamo tutti gli scandali, con la speranza che il 2016 possa essere un anno decisamente più tranquillo da questo punto di vista.
Il calcio italiano vive in primavera l’onta del fallimento del Parma. Il club, sommerso dai debiti, non trova un acquirente e, dopo diversi cambi di proprietà e punti di penalizzazione per il mancato pagamento degli stipendi, è costretto a ripartire dalla Serie D. La squadra, guidata da Roberto Donadoni, retrocede con grande dignità e viene smantellata a fine stagione.
Il 27 maggio, alla vigilia delle elezioni per la presidenza della Fifa, un’operazione della polizia svizzera appoggiata dall’Fbi, smaschera un sistema fatto di corruzione, riciclaggio di denaro e tangenti che porta all’arresto di sette membri della Federazione mondiale. Tra loro non risulta il numero 1, Sepp Blatter. La talpa che ha permesso di scoperchiare il vaso si chiama Chuck Blazer, per anni presidente della Federcalcio nordamericana. Si ravvisa un sistema corrotto di compravendita di diritti tv e marketing per centinaia di milioni di euro, in vigore da quasi un quarto di secolo.
l 29 maggio, si tengono in un clima tesissimo le elezioni per la Fifa. Nonostante tutto, Sepp Blatter viene rieletto presidente. Ma lo svizzero, al quinto mandato, darà le proprie dimissioni appena quattro giorni dopo, annunciando nuove elezioni nel 2016. Subito emerge la candidatura di Michel Platini, attuale numero 1 della Uefa.
In Italia non ce la passiamo certo bene. A giugno, esplode l’ennesimo scandalo. A seguito delle inchieste Dirty Soccer e Treni del gol, vengono arrestate importanti personalità del calcio professionistico e dilettantistico, colpevoli di aver truccato diversi match di Serie B, Lega Pro e Serie D. Coinvolte società come Savona, Teramo, Barletta, Brindisi e soprattutto il Catania del presidente Pulvirenti, che viene immediatamente retrocesso in Lega Pro.
L’8 ottobre, il Comitato etico della Fifa sospende per 90 giorni i tre uomini più potenti del calcio mondiale: Sepp Blatter, Michel Platini e il segretario generale, Jerome Valcke. Le Roi è invischiato in un pagamento di due milioni di franchi svizzeri ricevuti dalla Fifa nel 2011, per una consulenza svolta tra il 1999 e il 2002.
Il primo novembre, l’ennesima bufera mediatica si scaglia contro Carlo Tavecchio. In una registrazione privata, il presidente della Figc, parla in maniera offensiva di ebrei e omosessuali, cadendo ancora una volta in fallo dopo le frasi razziste e sessiste pronunciate nei mesi precedenti.
A novembre, esplode lo scandalo doping nell’atletica leggera. Le autorità francesi mettono sotto accusa l’ex presidente della Iaaf, Lamine Diack, sospettato di riciclaggio di denaro e corruzione: avrebbe incassato somme di denaro dalla federazione russa di atletica leggera in cambio del silenzio su più casi di positività al doping.
Il 13 novembre, la Iaaf prende una clamorosa decisione, sospendendo la tempo indeterminato la Russia da tutte le competizioni internazionali. Si parla di decine di casi di doping nascosti alle autorità e di un sistema dopante “di stato” che ha drogato i risultati degli ultimi anni, specialmente dei Mondiali di Mosca 2013.
Sempre nel mese di novembre, cade anche il gigante Germania. La Federcalcio tedesca viene accusata di aver comprato voti nell’assegnazione del Mondiale 2006. Per “responsabilità politica”, si dimette il presidente federale Wolfgang Niersbach.
Il 2 dicembre il terremoto colpisce anche l’atletica italiana. La Procura antidoping del Coni, infatti, chiede la squalifica di 26 azzurri per “elusione del controllo” e “mancata reperibilità”. Tra gli atleti, anche nomi eccellenti come Andrew Howe e Giuseppe Gibilisco.
Il 10 dicembre, anche il neo presidente della Iaaf, Sebastien Coe, finisce nel mirino della magistratura francese: è infatti accusato di aver deliberatamente favorito la città di Eugene nella corsa ai Mondiali di atletica leggera del 2021.
L’11 dicembre, il Tas di Losanna rigetta il ricorso contro la sospensione da parte del Comitato etico della Fifa da parte di Michel Platini, accusato di corruzione. La sua corsa alla presidenza della Fifa si fa sempre più complicata.
Il 18 dicembre, la Commissione etica squalifica per 8 anni il Presidente della Fifa, Sepp Blatter e quello della Uefa, Michel Platini. L’accusa, decisamente grave, è quella di corruzione. Per Blatter, carriera finita. Per “Le Roi”, un duro colpo che ne mina la credibilità conquistata in 40 anni di calcio.
Inchiesta sul calcio italiano: 64 dirigenti, giocatori e procuratori indagati per fatture false ed evasione fiscale. Indagine della procura di Napoli: persone, tra le quali l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, Adriano Galliani, Claudio Lotito, Alessandro Moggi e alcuni calciatori tra cui Ezequiel Lavezzi, scrive Dario Del Porto il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Terremoto giudiziario nel mondo del calcio. Perquisizioni e sequestri per i reati di evasione fiscale e false fatturazioni, per ordine della Procura di Napoli. Gli indagati sono 64 tra cui l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, il dirigente del Milan Adriano Galliani, il presidente della Lazio Claudio Lotito l'agente di calciatori Alessandro Moggi e alcuni calciatori, tra cui Ezequeil Lavezzi. Le indagini della Finanza sono condotte dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e dai pm Stefano Capuano, Vincenzo Ranieri e Danilo De Simone. La Procura napoletana ipotizza un "meccanismo fraudolento architettato per sottrarre materiale imponibile alle casse dello Stato" nella compravendita dei calciatori. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra il 2009 e il 2013. I procuratori degli atleti, sostengono gli inquirenti, "provvedevano a fatturare in maniera fittizia alle sole società calcistiche le proprie prestazioni, simulando che l'opera intermediazione fosse resa nell'interesse esclusivo dei club, mentre di fatto venivano tutelati gli interessi degli atleti assistiti dagli agenti medesimi". L'inchiesta della Procura era partita a seguito delle indagini sulle rapine commesse ai danni di alcuni calciatori del Napoli e dall'intercettazione di una telefonata in cui Lavezzi, parlando con il suo procuratore, Alejandro Mazzoni, sembrava fare riferimento all'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera a favore di Chavez, altro atleta argentino, Chavez. Mazzoni replicava affermando che il conto, già aperto con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava muovendo per aprirne un altro. Da qui, la finanza aveva avviato una serie di accertamenti sugli aspetti economico finanziari dei contratti dei calciatori della scuderia Mazzoni. Il sequestro è stato disposto, per importi di alcune migliaia di euro ciascuno, nei confronti di otto procuratori sportivi: Alessandro Moggi, Marco Sommella, Vincenzo Leonardi, Riccardo Calleri, Umberto Calaiò, Adrian Leonardo Rodriguez, Fernand Osvaldo Hidalgo, Inev Alejandro Mazzoni, Edoardo Luis Rossetto. Trentasette dirigenti societari: Antonio e Luca Percassi, Claudio Garzelli, Giorgio Perinetti, Luigi Corioni, Gianluca Nani, Sergio Gasparin, Pietro Lo Monaco, Igor Campedelli, Maurizio Zamparini, Rino Foschi, Daniele Sebastiani, Andrea Della Valle, Pantaleo Corvino, Alessandro Zarbano, Enrico Preziosi, Luciano Cafaro, Jean Claude Blanc, Alessio Secco, Claudio Lotito, Marco Moschini, Renato Cipollini, Aldo Spinelli, Adriano Galliani, Aurelio De Laurentiis, Tommaso Ghirardi, Pietro Leonardi (a suo tempo indagato per concorso in bancarotta fraudolenta nell'inchiesta sul fallimento del Parma Fc) Pasquale Foti, Edoardo Garrone, Umberto Marino, Massimo Mezzaroma, Roberto Zanzi, Giovanni Lombardi Stronati, Francesco Zanotti, Sergio Cassingena, Dario Cassingena, Massimo Masolo. E diciassette calciatori: Gustavo Gerrman Denis, Juan Ferbando Quintero Paniaugua, Adrian Mutu, Ciro Immobile, Matteo Paro, Hernan Crespo, Pasquale Foggia, Antonio Nocerino, Marek Jankoulovsky, Cristian Gabriel Chavez, Ignacio Fideleff, Ivan Ezequiel Lavezzi, Gabriel Paletta, Emanuele Calaiò, Cristian Molinaro, Pabon Rios, Diego Miliyo. Contestualmente al decreto di sequestro, i pm hanno anche firmato l'avviso di chiusura delle indagini preliminari. Rispetto all'elenco dei destinatari del decreto di sequestro firmato dal giudice Luisa Toscano, l'avviso non coinvolge Andrea Della Valle e sei calciatori: si tratta di Emanuele Calaiò, Ciro Immobile, Marek Jankulovsky, Pasquale Foggia, Christian Molinaro, Matteo Paro. Nei loro confronti si profila l'archiviazione del fascicolo in quanto, successivamente al deposito del decreto di sequestro, ma prima della sua emissione, la legge ha modificato le soglie di punibilità di questo genere di reati. A questi indagati pertanto il decreto di sequestro non sarà notificato. Le società potevano dedurre le spese dal debito imponibile, ottenendo anche la detrazione dell'Iva. In parole povere, rileva la Procura, "l'importo pagato dal club costituiva un reddito da imputare effettivamente al calciatore e di conseguenza la società ometteva il pagamento delle ritenute fiscali e previdenziali". Le presunte violazioni riguardano 35 società di A e B. Il sequestro è scattato nei confronti di 12 indagati per un importo complessivo di 12 milioni di euro. Contestualmente, il pm ha chiuso le indagini per 64 persone. Tutti gli indagati potranno replicare alle accuse nei successivi passaggi del procedimento. Il decreto di sequestro potrà essere impugnato dalla difesa davanti al tribunale del Riesame. L'inchiesta che ha portato ai provvedimenti di oggi nasce con la Guardia di Finanza che nel 2012 nelle sedi del Napoli e della Figc acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Psg, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si sono presentati nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva ed esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, era l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. L'attenzione della procura e della Gdf si è concentrata su diversi aspetti della gestione dei club: dalla ricostruzione dei rapporti tra società, procuratori e calciatori alle modalità di trasferimento di questi ultimi; dall'esame dei contratti alle modalità d'inserimento nei bilanci dei giocatori; dalle operazioni di compravendita e rinnovo alla gestione dei diritti d'immagine e dei diritti televisivi; dall'attività di scouting ai compensi per i calciatori qualificati come "fringe benefit". Nell'ambito dell'inchiesta sono state eseguite una serie di perquisizione presso le abitazioni e altri luoghi da loro frequentati da calciatori e i loro rispettivi procuratori coinvolti nell'indagine. Lo scopo del blitz delle fiamme gialle - si legge in una nota del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli - è rinvenire eventuale documentazione bancaria e contrattualistica inerente ai fatti illeciti contestati ossia condotte fraudolente finalizzate a evadere il fisco. Sequestri da parte del nucleo di polizia tributaria della Gdf sono in corso anche a Bologna. L'inchiesta coinvolge l'attuale ds del Bologna Calcio, Pantaleo Corvino, ma per vicende precedenti al suo arrivo in Emilia. La società rossoblu non è toccata dai provvedimenti in esecuzione. "No comment" è la posizione del Napoli in merito all'inchiesta "Fuorigioco" della procura di Napoli. Il capo della comunicazione del club di De Laurentiis ha spiegato che la società "non commenta le inchieste in corso". Anche il Milan ha commentato l'inchiesta: "La vicenda è assolutamente marginale e non fondata, troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". "Ho parlato con Lotito, non ha ricevuto nessun atto dal quale risulta che è indagato. Nessun avviso di garanzia, niente. Ha saputo tutto dalle notizie di oggi". Così l'avvocato della Lazio, Gian Michele Gentile. "Se è indagato? La procura non se lo sarà inventato, ma ad oggi Lotito non ha avuto nessuna notifica di alcun atto. Non abbiamo nessun segnale di alcun tipo, se ci fosse stata una perquisizione Lotito me lo avrebbe detto". Secondo gli investigatori, ci sarebbe un tesoro milionario di alcuni calciatori occultato nelle banche in Svizzera. L'inchiesta "madre" era infatti sulle diverse rapine commesse ai danni di calciatori del Napoli; da una conversazione tra il calciatore Ezequiel Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni, il 20 gennaio 2012, si capì che c'era qualcosa da approfondire. Il suo procuratore riferiva a Lavezzi alcune informazioni che lo stesso aveva chiesto sull'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera in favore di un altro calciatore argentino, Cristian Chavez. Mazzoni, anche lui indagato, dice al "Pocho" che il conto estero, già esistente con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava adoperando per aprirne un altro con l'Istituto Farakin. L'ascolto di questa conversazione spinge gli investigatori a effettuare alcuni riscontri sugli aspetti economici dei contratti partendo proprio da quello di Lavezzi. In particolare sul trasferimento del "Pocho" a Paris Saint Germain, la polizia giudiziaria avrebbe accertato evasioni fiscali record; sarebbe stata emessa infatti una falsa fattura da Alessandro Moggi, la numero 18, per un valore di oltre due milioni e mezzo di euro in favore di Lavezzi, in cui attestava esecuzioni di prestazioni rese dal suo agente Mazzoni, pari a circa un milione e 600 mila euro. In tal mondo Lavezzi poteva evadere il Fisco italiano dichiarando il lavoro del suo agente in Francia dove avrebbe pagato di meno e favoriva Mazzoni che avrebbe guadagnato a nero il suo compenso. "Ho letto quello che avete letto voi e non posso fare commenti su cose che non conosco". Il presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio commenta così, da Potenza, dove sta partecipando all'inaugurazione della nuova sede del comitato regionale lucano, gli sviluppi dell'inchiesta "Fuorigioco" della Procura di Napoli.
Un altro teorema sul calcio: inchiesta su fatture inesistenti. Un altro assalto al calcio italiano. Nel mirino squadre di A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e falsa fatturazione. Il Milan: "Inchiesta infondata", scrive Sergio Rame, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". Una nuova bufera si abbatte sul calcio italiano. Una inchiesta, condotta dai pm della procura di Napoli Danilo De Simone, Stefano Capuano e Vincenzo Ranieri coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, solleva nuove accuse contro massimi dirigenti, calciatori e procuratori di squadre di calcio di serie A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e false fatturazioni. Ma, come al solito, l'impianto accusatorio sembra un teorema che non regge e che mira soltanto a indebolire il nostro calcio. Oltre cento persone coinvolte. Almeno trentacinque società di serie A e B nel mirino. L'inchiesta "Fuorigioco" parte nel 2012 ipotizzando presunte violazioni fiscali commesse sia dalle società sia dai procuratori e dai calciatori nell'ambito di operazioni di acquisto e cessione dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori stessi. "Il meccanismo fraudolento - spiegano dalla procura - è stato architettato per sottrarre materia imponibile alle casse dello Stato italiano". I procuratori, dicono gli inquirenti, fatturavano in maniera fittizia la propria prestazione alla sola società calcistica, come se la loro intermediazione fosse nell'interesse esclusivo del club, mentre di fatto tutelavano gli interessi dei loro atleti assistiti. Le società potevano così dedurre dal reddito imponibile queste spese, beneficiando di detrazioni di imposta sul valore aggiunto relativa proprio a questa pseudo prestazione. E i calciatori non dichiaravano quello che era "sostanzialmente un fringe benefit" riconosciuto loro dalla società calcistica nel momento in cui si accollava il pagamento procuratore. Inoltre, dicono le indagini, agenti argentini riuscivano a farsi tassare in Italia i propri compensi ricorrendo a documentazione fiscale e commerciale fittizia e l'interposizione di società "schermo" con sedi in paradisi fiscali. L'inchiesta nasce nel 2012 quando la Guardia di Finanza, piombata nelle sedi del Napoli e della Figc, acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Paris Saint Germain, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si presentano nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva e esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, è l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. Tra i sessantaquattro di indagati nell'indagine della procura di Napoli, che ha portato al sequestro di beni per circa 12 milioni, ci sono nomi eccellenti come l'ad del Milan Adriano Galliani, il numero uno della società partenopea Aurelio De Laurentis, il presidente della Lazio Claudio Lotito, l'ex presidente e ad della Juventus Jean Claude Blanc. "È una vicenda assolutamente marginale e non fondata - minimizzano i legali del Milan - troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". Tra i calciatori, indagati anche "il pojo" Lavezzi e l'ex giocatore Hernán Crespo. Nella rete dei magistrati sono finiti anche diversi procuratori tra cui Alessandro Moggi. Per i pm partenopei sono responsabili "in maniera sistematica di reati tributari, mediante condotte fraudolente esclusivamente finalizzate a evadere il fisco".
Torna la vetrina dei pm: un'inchiesta ogni estate. Un mondo con pochi controlli che ora fa gola al fisco. E le Procure ne approfittano per cercare la ribalta, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 26/06/2013, su "Il Giornale". Nove mesi. Tanto è durato il lavoro degli uomini della finanza. Nove mesi per mandare in frantumi le vetrine del football italiano. Da una parte le trattative e le chiacchiere del calcio mercato, dall'altra l'azione plateale dei piemme. Puntuale, quando arriva l'estate, il tempo per tenere alta l'attenzione e la tensione, secondo usi e costumi della nostra giustizia. Ho usato l'aggettivo «plateale» perché, in contemporanea con la vicenda della procura napoletana, in Inghilterra la Premier League ha reso pubblica, senza trombe e blitz mattutini, la tabella degli emolumenti che i club professionistici inglesi hanno garantito, si fa per dire, ad agenti e procuratori per l'acquisto o la cessione dei calciatori: novantuno milioni di euro, questa la cifra complessiva che vede in testa alla lista il Manchester City che, nel periodo 1 ottobre 2011-30 settembre 2012 ha versato 12 milioni e mezzo di euro come consulenza e indennità ai procuratori. L'elenco è chiuso dal Southampton con soli settecentosessantunomila euro. Da segnalare che il Queens Park Rangers, nonostante l'esborso di otto milioni di euro, è retrocesso al termine della stagione. É storia vecchia, la circolazione del denaro, nel calcio, non ha frontiere e i controlli non sono sempre assidui. Il caso di Lionel Messi che va a transazione con il fisco spagnolo pagando 10 milioni di euro o quello di Mourinho anch'egli alle prese con una vicenda fiscale, sono la conferma che il pallone è oppio per i popoli e banca per l'erario. Sempre che quest'ultimo operi nel rispetto del contribuente. Da ieri, comunque, la voce che circola fuori dall'Italia, è che la serie A, ma non soltanto, «non paga le tasse». I club hanno già rispedito la palla al mittente, loro non c'entrano, sono i procuratori ad avere, eventualmente, violato le leggi. Ma chi è che tratta con i procuratori? Chi affida loro le trattative di acquisizione e cessione? Di tutto questo dovrebbe occuparsi anche la Fifa, la federazione calcistica internazionale la quale dovrebbe esercitare un controllo delle operazioni e verificare la loro trasparenza. Ma è di questi giorni il caso di un calciatore brasiliano richiesto dalla Lazio che ha trovato l'accordo con il club relativo e lo stesso calciatore, il quale però risulta prigioniero di un fondo d'investimento inglese, Doyen Sport. Silenzio totale da parte degli organi di controllo, Blatter e la Fifa lasciano che il football venga violentato. Anderson, il calciatore in questione, verrà in Italia, troverà ad attenderlo la procura di Napoli e le Fiamme gialle? Qualsiasi riferimento al calcio come momento di evasione è puramente casuale.
Calcio, inchieste e scandali: una storia che si ripete. L’inchiesta della procura di Napoli ribattezzata «Fuorigioco» fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio, dopo le partite anche la finanza truccata, scrive Giovanni Bianconi il 26 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La nuova frontiera sono le frodi fiscali: fatturazioni fittizie alle società per mascherare all’erario i guadagni di giocatori e procuratori. L’ipotesi d’accusa della Procura di Napoli fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio aprendo il filone, in parte già noto, della finanza truccata. Che segue quello più classico delle partite truccate: per favorire le scommesse clandestine oppure per permettere a qualche squadra di evitare figuracce o retrocessioni, com’è avvenuto lo scorso anno con il Catania del presidente reo confesso. Dai tempi del Totonero scoperto nel 1980 (quando le partite in tv si vedevano solo nelle sintesi differite di 90° minuto, ancora in bianco e nero), con i calciatori arrestati insieme a faccendieri di bassa lega, a quelli recentissimi delle scommesse intercontinentali e in diretta sulle partite di ogni campionato, atleti e dirigenti continuano a vendere i risultati. Per guadagnare soldi attraverso collegamenti con vere e proprie associazioni per delinquere. Così come dirigenti senza scrupoli continuano a contattare arbitri o colleghi di altri club (da Calciopoli in avanti: ma quanti sono i casi mai scoperti?) per indirizzare l’esito delle partite. E ancora il pasticcio dei passaporti falsi per far figurare italiani o “continentali” stranieri sconosciuti, da tesserare anche se non si potrebbe. Fino alle false fatturazioni di cui si riparla oggi. E’ come se il calcio –non solo in Italia, visto quello che accaduto alla Fifa – fosse condannato a convivere con la corruzione, in una deriva che non c’è modo di fermare. Il ricorso al malaffare sembra un vizio ineliminabile, forse nella convinzione che tanto la Grande Macchina dello spettacolo e del business non si potrà fermare: per i soldi che muove, ma anche per gli entusiasmi e le passioni che continua a suscitare nel pubblico (ignaro o rassegnato) degli stadi e delle pay-tv. Lo scandalo passa, il circo del calcio resta. In attesa del prossimo scandalo.
Calcio e scandali, binomio che ha più di 80 anni di vita, scrive “Televideo Rai”. La prima volta nel 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Calcio e scandali. Un binomio epico che ha più di 80 anni di vita, un filo rosso che ha tenuto unito il pallone, in Italia e non solo, tra squalifiche, retrocessioni, coinvolgimenti eccellenti, manette soprattutto quando la posta si faceva alta. Già, perché è con le scommesse che il pallone ha preso la sua peggior deriva, sconfinando dal campo al tribunale, officiando il tradimento dei tifosi; e ogni volta è stata bufera. La prima nel lontano 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Piccola cosa se messa a confronto con lo scandalo vero che squassò i vertici della serie A. La tempesta arriva infatti nel 1980, dopo l'esposto di due scommettitori: nella polvere e in carcere finirono nomi noti anche del massimo campionato, tra cui Manfredonia e Giordano della Lazio, Albertosi e Morini del Milan, compreso il presidente dei rossoneri, Felice Colombo. Giornate pesantissime, con i campioni del calcio made in Italy portati via in manette dai Carabinieri mentre sullo sfondo andavano in scena i 90 minuti più attesi della settimana. La giustizia ordinaria assolve allora i giocatori coinvolti, ma quella sportiva usa il pugno di ferro: Milan e Lazio retrocedono in B (per i rossoneri si tratta della prima discesa tra i cadetti): le squalifiche per i calciatori vanno da tre mesi a sei anni. Colpito anche Paolo Rossi, salvato solo dall'amnistia dell'82 grazie alla quale partecipa al fortunato Mondiale in Spagna che porta degli Azzurri di Bearzot il terzo titolo iridato. Si trattò del primo grande scandalo di illeciti sportivi e partite truccate nella storia del calcio italiano, che portò anche alle dimissioni del presidente federale Artemio Franchi. Ma anche in epoche più recenti il calcio scommesse è tornato padrone della scena: nel 2001 un'inchiesta su Atalanta-Pistoiese di Coppa Italia, per un presunto tentativo di combine per consentire scommesse pilotate. Nel 2004 un altro mezzo tsunami: sotto i riflettori dei giudici sportivi finiscono il Modena, la Sampdoria, il Siena e alcuni giocatori noti, tra cui Stefano Bettarini, allora marito della conduttrice tv Simona Ventura, che la disciplinare condanna a cinque mesi di stop. Il Modena evita la retrocessione, blucerchiati e toscani se la cavano con una multa, prosciolto il Chievo, pure finito nella bagarre. Un altro terremoto l'Italia del pallone lo ha vissuto nel 2006, con Calciopoli: ma qui lo scandalo non era per le scommesse, ma per la presunta corruzione di arbitri e di massimi dirigenti di club. Una bufera - che prosegue ancora nelle aule del tribunale di Napoli - che portò in ambito sportivo alla retrocessione in serie B addirittura della Juventus. E poi il colpo di spugna sui vertici di allora, presidente federale compreso. Ma gli scandali non hanno confini. In Germania nel 2009 quindici persone finirono in manette nell'ambito di un'inchiesta su un giro di scommesse illegali legato a una serie di partite di calcio truccate in una decina di Paesi europei. L'Uefa allora aveva avvertito: sta per scoppiare uno scandalo scommesse di dimensioni europee. Un fil rouge da cui il pallone non sembra proprio riuscire a districarsi.
Il giocattolo rotto: tutti gli scandali del calcio italiano. Il primo ai tempi del fascismo quanto il Torino fu accusato di corruzione. Nel 1980 è la volta del calcioscommesse che torna nel 2011, oggi il blitz della Gdf per i contratti - Moggi e Mazzoni tra gli indagati - I contratti ai raggi X, scrive Matteo Politanò il 25 giugno 2013 su "Panorama". Nuovo scandalo nel calcio italiano, nuovo imbarazzo per lo sport più seguito del paese. Il blitz della Guardia di Finanza nelle sedi di 41 squadre di Serie A, B e campionati minori riapre ferite mai rimarginate. Nel mirino la documentazione relativa ai contratti tra i club, i calciatori e i procuratori per un'indagine nata circa un anno fa. Le ipotesi avanzate dal nucleo di polizia tributaria di Napoli sono quelle di associazione a delinquere, reati fiscali internazionali, fatture false e riciclaggio. Nel mirino anche le big: perquisite le sedi di Milan, Juventus, Inter, Roma, Napoli, Lazio e Fiorentina. Una lunga scia di scandali che fanno disinnamorare e e strappano altri pezzi di un giocattolo che ciclicamente si mostra sempre più rotto. La prima inchiesta nella storia del calcio italiano risale alla stagione 1926/1927 quando fu revocato lo scudetto vinto sul campo dal Torino. La Figc aprì un'inchiesta dopo l'uscita di un articolo dal titolo "C'è del marcio in Danimarca" che portò ad indagare su un tentativo di corruzione ad un giocatore della Juventus, Luigi Allemandi, da parte di un dirigente del Torino. 50.000 lire di acconto per il terzino bianconero al fine di permettere una facile vittoria granata nel derby. La stracittadina si concluse poi per 2-1 ma Allemandi fu tra i migliori in campo e le reti nacquero dagli errori di altri giocatori come Rosetta e Pastore. Allemandi fu prima squalificato a vita e poi riabilitato dopo una stagione. Il vero tornado sul calcio italiano si abbatté però nel 1980 con il più grande scandalo che investì società di A, B, dirigenti e calciatori. A marzo un commerciante romano inviò alla Procura della Repubblica di Roma un esposto sostenendo di essere stato truffato da alcuni giocatori della Lazio tramite la mediazione di un ristoratore della zona. Avrebbe dovuto ricevere "soffiate" dai giocatori biancocelesti ma dopo aver perso grosse somme di denaro decise di denunciare il tutto. Dopo 3 settimane la magistratura fece arrestare diversi tesserati di serie A, tra questi anche Bruno Giordano e Lionello Manfredonia della Lazio ed Enrico Albertosi del Milan. Paolo Rossi, Oscar Damiani, Beppe Savoldi, Giuseppe Dossena e altri ricevettero degli avvisi a comparire come persone informate dei fatti. Fu il primo grave colpo inflitto all'immagine e alla credibilità del calcio italiano che culminò con la retrocessione di Milan e Lazio e con pesanti squalifiche per molti giocatori (tra i quali Paolo Rossi che però fu graziato due anni più tardi in tempo per vincere la coppa del Mondo). Nel 2001 finì sotto la lente d’ingrandimento la partita tra Atalanta e Pistoiese di Coppa Italia e tre anni dopo Sampdoria, Siena e Modena furono invischiate in un nuovo mini-scandalo che costò 5 mesi di squalifica a Stefano Bettarini e qualche multa pecuniaria alle società. Alla vigilia del mondiale 2006 ecco un nuovo scandalo per devastare immagine e credibilità del calcio italiano e del paese tutto: calciopoli. A metà aprile 2006 la Gazzetta dello Sport, Repubblica e Il Corriere della Sera iniziano a pubblicare intercettazioni ascoltate dai Carabinieri. Inizia un'indagine con il maresciallo Auricchio che consegna il fascicolo con le intercettazioni alla procura federale. Si scopre che alcuni dirigenti, tra cui Luciano Moggi della Juventus, avevano contatti con i designatori arbitrali. Inizia il processo a giugno, nel frattempo emerge anche che Moggi aveva consegnato delle sim svizzere agli arbitri e che Meani del Milan andava spesso a cena con i disegnatori e con gli arbitri, soprattutto con Collina. Il processo si svolge in tempi rapidissimi e si conclude con la condanna di primo grado alla Serie C1 per la Juventus, Serie B per Milan, Fiorentina, Lazio e Reggina. Alla fine la Juventus è retrocessa in Serie B con 30 punti di penalizzazione, le altre restano invece in Serie A con penalizzazione. A febbraio 2010 emergono almeno 700.000 intercettazioni ascoltate ma incomprensibilmente non consegnate dal maresciallo Auricchio alla procura federale. Nelle intercettazioni si scopre che altre squadre si comportavano come la Juventus e soprattutto emerge che Facchetti (ex presidente dell'Inter) visitava spesso gli arbitri prima delle partite a San Siro, a volte arrivando anche ad intimorirli per aiutare l'Inter. Si scoprono fitti legami tra l'Inter e i designatori e tra il Milan e i designatori ma i termini di prescrizione sono scaduti e l'Inter non può essere condannata. L'ultimo scandalo in ordine di tempo è quello legato al Calcioscommesse che dal 2011 ha visto coinvolti calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo parte dalle procure di Cremona e Bari basandosi sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Settimana dopo settimana l'inchiesta si allarga a macchia d'olio coinvolgendo volti noti della serie A, da Cristiano Doni a Giuseppe Signori si scopre un universo di atleti pronti a vendere lo sport e a comprare combine con l'aiuto di organizzazioni criminali. E' l'ennesimo terremoto per il campionato italiano, ultimo colpo inferto ad un circo che non può più arrogarsi il diritto di chiamarsi semplicemente "gioco".
Calcio sporco: gli scandali italiani in 10 tappe, scrive Nicola Bambini su Vanity faire del 30 giugno 2015. «Il treno delle 11 c’è? Certo, quello è il direttissimo». Risultati puntuali, da far invidia alle Ferrovie dello Stato. Nessuna stazione o locomotiva nelle intercettazioni che hanno svelato le partite comprate quest’anno dal Catania, bensì tante parole in codice ma facilmente smascherabili. I treni sono i giocatori e l'orario rappresenta il numero di maglia, così da poterli identificare. Che poi un treno che parte alle 11 è verosimile, ma quando esce fuori quello «delle 33» la conversazione assume contorni grotteschi. D'altronde camuffare le parole quando si compiono certi illeciti è necessario: i protagonisti nascondono il linguaggio ma forse vogliono nascondere anche un po' se stessi, mettere la testa sotto la sabbia e vergognarsi di fronte ad una simile vigliaccata. Il primo pensiero, e non potrebbe essere altrimenti, va agli appassionati, a chi segue l'evento dallo stadio e da casa, con sacrifici pure economici. Magari litigano per guardarsi la partita invece che andare al cinema, salvo poi assistere ad un match che è pura fiction. Autogol regalati, errori pilotati, risultati accomodati: sceneggiature già scritte con finali che qualcuno sa già. «Corruzione», «associazione a delinquere» e «frode sportiva» si ripetono come una cantilena nauseante e riempiono senza sosta le pagine dei giornali. Già dagli anni Venti, a dire il vero, quando una testata dell’epoca, il Tifone, smascherò il tentativo di corruzione che costò al Torino lo Scudetto del ’27: era il caso Allemandi, il primo grande scandalo del calcio italiano. Le macchine di Polizia sulla pista dell'Olimpico segnarono nel 1980 la fine dell'innocenza e l'inizio del declino. Sei anni dopo infatti ci fu la seconda parte dell’inchiesta, poi nel 2000 nuovi scandali, fino alla «rumorosa» squalifica di Conte e una lista infinita di nomi noti coinvolti. Passando tra passaporti falsi e arbitri chiusi negli spogliatoi. E la solita domanda: dello sport cosa resta?
1/10. CASO ALLEMANDI - 1927. Una lettera sbriciolata in mille pezzi ma che, dopo 18 ore di lavoro, riprende forma come un puzzle e svela il tentativo del Torino di corrompere un difensore della Juventus, tale Luigi Allemandi, per poter così vincere derby e campionato. E’ il primo vero scandalo del calcio italiano: Scudetto revocato ai granata, seppur alcuni retroscena non furono mai chiariti.
2/10. TOTONERO - 1980. Le immagini delle camionette di Polizia e Guardia di Finanza sulla pista dello Stadio Olimpico in attesa di portare in carcere alcuni giocatori è rimasta negli annali. La prima vera grande pugnalata alla credibilità del calcio italiano: partite truccate e scommesse clandestine, coinvolti club di A e B. A pagare più di tutti furono Milan e Lazio, retrocesse d’ufficio.
3/10. TOTONERO BIS - 1986. Come un fantasma che aleggia sopra gli stadi italiani, lo scandalo corruzione torna in picchiata e avvolge stavolta anche le serie minori. Confessioni e intercettazioni non lasciano spazio a dubbi: si scommette a tutti i livelli, la Procura di Torino smaschera partite truccate anche in terza e quarta serie. Spicca il nome di Renzo Ulivieri, squalificato tre anni.
4/10. ATALANTA-PISTOIESE - 2000. «Attenzione, c’è un flusso di scommesse anomalo sul match di Coppa Italia: il primo tempo la vittoria del club di casa, pareggio al triplice fischio». E’ la Snai a dare l’allarme, soprattutto quando la partita finisce proprio come prevedeva il flusso di denaro. Gli indagati tutti assolti in appello, ma uno di questi, Cristiano Doni, confermò: «Sì, era truccata».
5/10. PASSAPORTI FALSI - 2001. Altro triste primato per il pallone italiano: il primo caso di falsificazione documentaria nel calcio europeo si verifica nel Bel Paese. Quindici i calciatori extracomunitari naturalizzati illecitamente, su tutti spiccarono i nomi del laziale Veron, del milanista Dida e soprattutto dell’interista Recoba. Ammende per le società coinvolte, ma nessuna penalizzazione.
6/10. CALCIOPOLI - 2006. Rolex in regalo a Natale e tante sim telefoniche per non essere rintracciati. Sono queste le immagini che più di tutte colpiscono leggendo gli atti del clamoroso scandalo che, alla vigilia dell’indimenticabile Mondiale in Germania, sventra la credibilità del calcio italiano: Luciano Moggi diventa l’emblema, la Juventus finisce in B.
7/10. ARMA LETALE - 2009. Ancora una volta sono le serie minori a finire sotto la lente degli investigatori: tirando i fili di un’indagine antimafia, la Procura di Potenza scopre alcuni legami tra Giuseppe Postiglione, presidente della squadra locale, ed alcuni esponenti della malavita organizzata: l’accusa parla di associazione a delinquere volta ad alterare i risultati delle partite.
8/10. LAST BET - 2011. Da Cremona arriva l’ennesimo schiaffo al calcio italiano, questo particolarmente forte visto che il procuratore De Martino emette ben quattro tranche di custodia cautelare. Il giro di affari si allarga, spunta una cupola di scommettitori internazionali con base a Singapore. Tanti i nomi coinvolti, ma la condanna più rumorosa è quella per il ct Antonio Conte.
9/10. DIRTY SOCCER - 2015. Decine di partite truccate tra Lega Pro e Serie D, una sfilza interminabile di indagati tra tesserati e non: il mese scorso la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha scoperto «una stabile organizzazione criminale che ha messo in atto condotte finalizzate ad alterare i risultati di varie partite. Il problema è tutt’altro che risolto». C’è da credergli.
10/10. I TRENI DEL GOL - 2015. «Il treno delle 13 è sicuro? Certo, il direttissimo». No, non si tratta di uno scambio di informazioni su un binario di una stazione, bensì del linguaggio in codice usato da alcuni esponenti del Catania per comprare partite: i treni erano i giocatori e l’orario invece il numero di maglia. Il presidente Pulvirenti ha confessato di aver comprato cinque partite.
Caccia all'arbitro. Aggressioni, violenza, offese: un mestiere pericoloso. Arbitri presi d'assalto per avere semplicemente fatto il loro dovere. Le aggressioni agli arbitri nelle partite di calcio non fanno più tanto clamore perchè spesso si assiste a ingiurie verbali, a imprecazioni a atti volgari contro chi di una partita deve fare attenzione al rispetto delle regole da parte delle squadre. A volte le aggressioni diventano anche fisiche e si è in presenza di vere e proprie violenze che cancellano i momenti di sport e indignano chi vede lo sport come momento di aggregazione sociale.
Partita contro la violenza, arbitro picchiato. È accaduto nel Lecchese durante un campionato dilettantistico. L'arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e il capitano della squadra ospite lo ha colpito al volto, scrive il 18 aprile 2016 “La Gazzetta”. Un giovane arbitro è stato picchiato nel fine settimana "contro la violenza nei confronti degli arbitri". Un paradosso divenuto purtroppo triste realtà. Le partite del calcio dilettantistico lombardo sono iniziate con dieci minuti di ritardo per dare un segnale forte, ma a Cernusco Lombardone (Lecco), durante una partita del campionato provinciale della categoria Juniores, l'arbitro Marco Airoldi è stato vittima di un'aggressione. Airoldi, studente di 18 anni di Vercurago, da due anni arbitro dell'Aia di Lecco, dirigeva la partita del centro sportivo di Cernusco Lombardone, dove la Brianza Cernusco Merate ha ospitato e battuto per 3 a 0 il Costamasnaga. Il giovane arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e per tutta risposta il capitano della squadra ospite - una volta vista assegnata la terza rete - lo ha colpito al volto. Il giocatore in questione da diversi anni milita nel Costamasnaga, ed è coetaneo dell'arbitro. Il direttore di gara ha sospeso la partita e si è poi recato al pronto soccorso dell'ospedale di Lecco per farsi medicare le contusioni. Poco dopo sono giunte le scuse dello stesso capitano e dei suoi dirigenti. Faticano invece a capacitarsi i vertici degli arbitri lecchesi, visto che, per l'appunto, si trattava di un turno di campionato espressamente dedicato alla condanna di atti di violenza.
Intervenendo il 2 maggio 2016 nel corso di un incontro tra gli arbitri e la stampa presso il Centro congressi Frentani, a Roma, il capo dei fischietti italiani ha anche espresso la sua opinione: «Com'è possibile che oggi, sui campi di calcio italiani, si permetta che ogni anno vengano picchiati 650 arbitri? Tutti assieme dobbiamo dire a quei delinquenti che girano attorno ai campi, che il calcio non è roba per loro». E' l'amaro sfogo del presidente dell'Aia, Marcello Nicchi. Il direttore generale della Figc, Antonello Valentini ha dichiarato a Radio RAI il 19 settembre 2015: «In Italia si giocano 570 mila partite ufficiali in una stagione effettiva, 18-20 mila a settimana dalla Serie A ai campionati giovanili, con 570mila arbitri, quindi in campo ogni anno e nella passata stagione sono stati 600 gli arbitri aggrediti e malmenati.
Addirittura 600 (record in Sicilia, 128 casi) e oltre il 30 per cento degli arbitri hanno fatto ricorso alle cure mediche. Sessanta atti di violenza sono stati consumati ai danni di arbitri-ragazzini, di 16-17 anni. Una vergogna. La maggior parte delle aggressioni sono a causa dei tesserati: 69% calciatori, 24% dirigenti, i "terzi" (spettatori o padri dei calciatori) rappresentano il 13% sugli episodi violenti.
Caccia all'arbitro. Nella stagione 2014-2015 è raddoppiato il numero delle aggressioni, scrive Leo Gabbi il 27/10/2015. Una volta tanto parliamo di arbitri, ma non le famose giacchette nere della nostra Serie A, bensì di tutti quei giovani e anche solo ragazzini, che per passione, anziché giocare in una squadra, si mettono a dirigere le partite. Sarà forse anche un pizzico di protagonismo o di leadership a portarli a questa scelta per certi versi “estrema”, per altri incomprensibile ai più, ma spesso, come avviene fatalmente per i loro colleghi più grandi, questi mini-arbitri si trovano al centro di polemiche infinite che spesso sfociano addirittura in aggressioni verbali e in qualche caso persino fisiche non solo da parte dei dirigenti delle squadra, ma anche di genitori e amici dei giocatori. Situazioni vergognose e inaccettabili, in cui spesso il ragazzino in giacchetta nera si trova ad arbitrare giovani molto più grandi di lui, senza avere la minima protezione dentro e fuori dal campo. Questo avviene spesso nel nostro calcio minore, nelle ultime settimane con una concentrazione di episodi preoccupanti, ma a volte riguarda anche altre discipline. Qualche tempo fa ad esempio, nel Pisano, un gruppo di genitori, durante un torneo di minibasket ha cominciato a prendere a male parole un arbitro, appena 12enne, costretto poi ad abbandonare il parquet in lacrime. A Cremona invece, durante una partita di volley femminile under 13, i genitori delle ragazzine hanno dato vita ad una vera e propria rissa sugli spalti. L’80% degli episodi è però sempre riconducibile al nostro sport più popolare. E se ancora qualcuno pensa che il calcio violento nasce dagli scontri di Serie A e B, dovrebbe farsi un giro sui campetti di periferie, le domeniche mattina, per capire quanta rabbia viene a volte incanalata sui giovani fischietti. Quasi un anno fa a Lecce una partita di seconda categoria si è trasformata in caccia all’uomo, prima in campo e poi negli spogliatoi per un giovane arbitro che poi, al pronto soccorso ha avuto una prognosi di 21 giorni. Poi altri casi recenti in Sicilia, Sardegna, nel Lazio, ma anche in Lombardia e Veneto. I dati ufficiali certificano che il fenomeno è sempre più preoccupante: nella stagione 2014-2015 ma anche in quella appena iniziata, i direttori di gara hanno subito quasi il doppio delle aggressioni rispetto a quelle precedenti e il primato negativo riguarda proprio i campionati del Settore Giovanile, con la Federazione che ha inasprito le pene, ma che non sembra abbia ottenuto un’inversione di tendenza. C’è una specie di senso di impunità in coloro che commettono certe azioni violente, che a volte trascina all’eccesso anche altre persone, mentre sono più rari i casi in cui gruppi di papà e mamme si ribellano e denunciano chi esagera. A mali estremi però, meglio reagire senza aspettare altre conseguenze. In 90 anni di calcio nostrano, mai gli arbitri hanno scioperato: forse invece sarebbe il caso di mandare un segnale forte, perché questa escalation delle violenze, spesso sottaciute o quasi, non può sempre diventare come la polvere che finisce sotto il tappeto. Fonte: Sir
Arbitri, offesi e picchiati, scrive Massimiliano Castellani il 5 novembre 2014 su "Avvenire". Se Paolo Sollier, il centravanti dal “pugno chiuso” volesse aggiornare il suo libro manifesto degli anni ’70 Calci e sputi e colpi di testa, il protagonista principale non sarebbe più un calciatore, ma un giovane arbitro italiano, magari di colore. In questo autunno rovente per il nostro pallone si è passati dagli attacchi verbali alle violenze fisiche sui direttori di gara. Solo nell’ultima settimana, tre arbitri aggrediti, di cui due minorenni. Qualcuno leggendo la vicenda dell’arbitro 17enne Luigi Rosato, minacciato addirittura di morte via facebook, dopo le aggressioni subite durante la gara Atletico Cavallino- Cutrofiano (Seconda categoria), forse avrà pensato che si trattava di un caso limite, magari isolato. Illusi, colti in pieno fuorigioco. Solo nel mese di ottobre sono stati 30 i casi di violenze contro gli arbitri, molti dei quali minorenni, spesso coetanei degli stessi giocatori, i quali rappresentano il 64% dei “picchiatori” dei poveri direttori di gara. Il resto del lavoro molto sporco lo fanno dirigenti e genitori. Come nel caso dell’altro arbitro pugliese, Lucio Del Sole, 18 anni, malmenato a Montesano Salentino da un 50enne, papà di un calciatore, durante Tricase-Sogliano Cavour (Giovanissimi). Del Sole e l’arbitro 16enne di Lecco aggredito a Calolziocorte durante Victoria-Polisportiva Foppenico (Allievi), oltre al referto arbitrale hanno presentato anche quello medico rilasciatogli dall’ospedale in cui gli hanno diagnosticato rispettivamente 3 e 5 giorni di prognosi. Unica nota lieta di queste giornate di ordinaria follia sono state le lacrime del 14enne calciatore che rivolgendosi all’arbitro Del Sole gli ha detto solidale: «Mi scuso per mio padre... ». Il mondo adulto oltre alla testa ha perso anche la dignità: dal 2009 alla stagione calcistica 2013-2014 sui nostri campi si sono verificati 2.323 episodi di violenza contro gli arbitri. Una cifra drammaticamente da “primato mondiale” che va a sommarsi a quella dei 109 casi di direttori di gara che sono dovuti ricorrere alle cure sanitarie. Nella deriva in cui siamo, l’Aia (Associazione italiana arbitri) ha dovuto creare un Osservatorio ad hoc. Sotto stretto controllo soprattutto il movimento che rimane all’ombra dei riflettori del grande calcio: la maggioranza dei 375 episodi di violenza registrati nell’ultima stagione hanno avuto come teatro partite di tornei giovanili e dilettantistici. La Serie A, come insegna il pandemonio conseguente alla direzione di Juventus- Roma dell’arbitro Rocchi (si è arrivati alle interpellanze parlamentari), non dà certo il buon esempio, e l’immagine delle “giacchette nere” viene continuamente infangata. E questo, nonostante la nostra scuola arbitrale sia ancora riconosciuta a livello internazionale come la migliore. Non a caso il designatore Uefa è l’ex fischietto d’oro Pierluigi Collina che, dinanzi al fenomeno dell’escalation violenta, ha commentato amaro: «Mai stato picchiato. E sono stato fortunato, non bravo». Collina ha anche viaggiato sotto scorta. Tutto ciò è accaduto in un Paese in cui non abbiamo mai avuto arbitri palesemente corrotti come l’ecuadoregno “castiga Italia” Byron Moreno. (Mondiali di Corea-Giappone 2002). In un secolo e più di storia della vituperata - ingiustamente - categoria (l’Aia è nata nel 1911), si ricordano solo due casi di corruzione acclarata: quelli dei signori Pera e Scaramella, arbitri che negli anni ’40 incassarono assegni per aggiustare il risultato. Vicende distanti anni luce da una realtà odierna, in cui il “capro espiatorio” è diventato il “23° in campo”, il temuto e odiato uomo nero. Quando oltre alla divisa, è nera anche la pelle dell’arbitro, si verificano reazioni assurde, tipo quella che ha visto protagonista in negativo un ex calciatore di Serie A, il bomber Emiliano Bonazzoli. Il 35enne attaccante ora in forza all’Este (serie D) si è beccato dieci giornate di squalifica in quanto il 28 settembre scorso al termine della gara contro la Correggese si era rivolto con epiteti di «discriminazione razziale» nei confronti dell’arbitro Ramy Ibrahim Kamal Jouness, medico di Torino di origini marocchine. «Quello di Bonazzoli è stato il primo episodio della stagione in corso, ma nella scorsa sono stati 8 i casi di discriminazione razziale contro arbitri romeni e di colore, e tutti si sono verificati tra i dilettanti», spiega il sociologo Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e antirazzismo nel calcio. Mentre i calciatori “G2”, gli italiani figli di stranieri, da Balotelli a El Shaarawy fino ad Ogbonna hanno conquistato le luci della ribalta, di “G2” direttori di gara in Serie A neanche l’ombra. «Questo la dice lunga – continua Valeri –, del resto anche nella multietnica Francia il primo arbitro nella massima serie è comparso solo un paio di anni fa». Si trattava del signor Silas Billong di Lione, classe 1974, origini camerunensi, arbitro di terza divisione chiamato a dirigere Nizza-Lens, ma soltanto perché era la domenica in cui i suoi colleghi della Ligue1 scioperavano. E anche il presidente dell’Aia Marcello Nicchi, visto il dilagare delle angherie di cui sono vittima i suoi associati, minaccia sciopero. «La Federcalcio deve dare risposte concrete altrimenti ci fermiamo, a partire dalla Serie A». Per discriminazione razziale si può anche interrompere la partita, ricorda la Uefa, ma quella contro l’arbitro finora ha prodotto un solo stop, però in Olanda. Da noi nel 2007 a dire «basta» ci aveva provato il signor Slimane Ouakka della sezione di Rimini: durante Argenta- Forlì (serie D) dopo ripetuti insulti razzisti e uno schiaffo ammollatogli da un difensore dell’Argenta, riportò le squadre negli spogliatoi. Logica avrebbe voluto il 3-0 decretato a tavolino in favore del Forlì, mentre il giudice sportivo optò, clamorosamente, per la ripetizione della partita. «L’apertura dell’Aia ai figli di stranieri o a quelli residenti in Italia portata avanti negli ultimi anni è stata molto importante, ma questi ragazzi vanno sostenuti e tutelati con delle campagne di sensibilizzazione mirate, altrimenti continueremo a vedere bravi arbitri, uomini e donne, che stanchi di sentirsi discriminati per il colore della pelle o per la loro etnia, mollano proprio quando potrebbero decollare verso quel professionismo che, ad oggi, rappresenta un miraggio», denuncia Valeri. Cattivi pensieri di abbandono comuni a ragazzi come il romeno Marian Bogdan Vamanu, insultato sul campo del Real Casal (Promozione lombarda) dai tifosi in trasferta del Calcio Rudianese. «Vamanu – conclude Valeri – è della sezione di Cremona, la stessa di Chaida Sekkafi, la 16enne di origine marocchina che ha debuttato lo scorso anno. È stato il primo arbitro con il velo in testa... In un momento come questo proviamo a non distruggere la speranza».
Arbitro di calcio, mestiere pericoloso: in Italia più di una aggressione al giorno. Nella stagione 2013- 2014 ben 375 casi, quest'anno già 42: categoria abbandonata a se stessa. Il presidente Nicchi al fattoquotidiano.it: "Mai fatto abbastanza da chi di dovere", scrive Andrea Tundo il 2 novembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". E’ il 9 ottobre e Alessandro Comerci, 18 anni, arbitra Virtus Sanremo-Dianese. Un dirigente della squadra di casa lo colpisce con un violento pugno allo zigomo destro: venticinque giorni di prognosi per un fischio contestato in una partita di allievi provinciali. Giosj Castangia ha 24 anni ed è una guardalinee, il 21 settembre deve gestire un caldo finale di gara tra Lerici e Ortonovo, Promozione ligure. Si becca un forte calcio al fianco destro e uno al gluteo. Dieci giorni di prognosi. Settimana scorsa, Prima Categoria piemontese, siamo al 25esimo del secondo tempo tra Vanchiglia e Carrara 90. L’arbitro Umberto Galasso sventola il cartellino giallo in faccia a un giocatore di casa che per tutta risposta lo colpisce con uno schiaffo. L’aggressione di Luigi Cannas da parte del presidente del Sanluri (Eccellenza sarda) a metà settembre e i pugni incassati dal 17enne Luigi Rosato durante Atletico Cavallino-Cutrofiano sono solo gli ultimi sintomi di un cancro silenzioso che si annida nei polverosi campi della provincia italiana. E che dall’inizio della stagione conta già 42 casi. In Italia viene aggredito più di un arbitro al giorno. Nell’ultimo anno solare l’Osservatorio violenza dell’Associazione italiana arbitri ha registrato 376 episodi. Negli ultimi cinque sono stati 2365, con un picco di 630 durante i campionati 2010/11. La stagione conclusasi a giugno ha fatto segnare un leggero rialzo rispetto alla precedente arrivando a 375, di cui 303aggressioni fisiche gravi. Novantotto nella sola Sicilia, seguita da Calabria (44), Campania (39) e Veneto (30). Ma anche in una regione meno violenta come il Lazio (17) si rintracciano storie di ordinaria follia. Uno dei 61 casi che si sono verificati nel corso di partite del settore giovanile e scolastico è accaduto a fine maggio a Terracina, in provincia di Latina. Il dispositivo del giudice sportivo relativo alla sfida tra gli under 19 di Hermada e Campo Boario sembra la sceneggiatura di un film sul bullismo. Un giocatore del Campo Boario “colpiva violentemente (l’arbitro) con un calcio alla schiena facendolo cadere con la faccia a terra e costringendolo alle cure del pronto soccorso dell’ospedale di Formia che lo giudicava guaribile in sette giorni”. Alcuni suoi compagni di squadra continuavano il pestaggio con violenti pugni ai fianchi e alla schiena, sputandogli addosso e cercando di colpirlo al volto con una bandierina. Per poi entrare nello spogliatoio “mettendolo a soqquadro” e “disponendo dei suoi effetti personali ed indumenti, questi venivano gettati dentro il water”. La giustizia sportiva ha punito otto giocatori e l’allenatore per un totale di diciotto anni di squalifica. “Sono sei stagioni che lotto con tutti i mezzi possibili per risolvere un problema sottovalutato da cento anni. Ci sono responsabilità precise del mondo federale. È sempre stato fatto poco – attacca il presidente dell’Aia Marcello Nicchi – Picchiare centinaia di arbitri all’anno viene concepita come una cosa normale, ma non è accettabile. Non devono essere sfiorati”. Fanno parte del gioco, interpretano il ruolo più delicato. Eppure sono proprio gli altri protagonisti della partita i primi a scagliarsi contro di loro. Il 64 per cento delle aggressioni avviene per mano dei calciatori, una su cinque vede coinvolti i dirigenti e nel 18% dei casi i direttori di gara vengono presi di mira dai tifosi. “È una vergogna tutta nostra – prosegue il numero uno dell’Aia – Oltretutto in controtendenza rispetto alla qualità degli arbitri, in netta crescita”. Quello di Nicchi è uno sfogo e allo stesso tempo l’ennesimo appello. Perché se è vero che si verificano episodi di violenza nell’1% delle partite disputate, questa non è una faccenda da rinchiudere nella fredda statistica: “Trovo immorale farne un discorso di percentuali. Qui si parla di cultura sportiva, di rispetto. Ben venga la disamina degli errori ma si parli anche delle nostre virtù. Prendiamo le botte ma siamo quelli che arbitrano la finale mondiale. Il buon esempio deve arrivare dai giocatori delle serie più importanti, quelle esposte mediaticamente. I loro comportamenti, i loro sorrisini, le loro urla diventano schiaffi nei campionati dilettantistici e mancanza di cultura nel settore giovanile”. Da qui la decisione: “Perseguiremo tutti quando c’è violenza. Questa gente uccide il calcio e in un Paese civile finirebbe in galera. Dobbiamo cambiare orizzonte, parlando di prevenzione e divulgazione delle regole”. Anche perché, oltre ai calci e ai pugni, resiste lo sterminato sottobosco delle offese che sfugge al radar dell’Osservatorio. Basta leggere quanto ha scritto il 17enne aggredito domenica scorsa a Cavallino, ringraziando genitori, amici e colleghi: “A te mamma, grazie, perché nonostante quella sola volta che sei venuta a vedermi arbitrare, dopo solo mezz’ora, ti sei allontanata non potendo sopportare i toni e le contestazioni che mi venivano rivolti e, nonostante ieri lavavi la mia divisa sporca di sangue con gli occhi lucidi di pianto, mi hai sempre incoraggiato e sostenuto con il tuo sorriso”. Tra qualche settimana Luigi Rosato tornerà in campo, giusto il tempo di far trascorrere i 21 giorni di prognosi. Per un nuovo fischio d’inizio.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.
Stefano Vitelli, il gip del tribunale di Torino, nell'ordinanza di custodia cautelare siglata a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juve ed indagate in prevalenza per associazione mafiosa, dà conto di un "preoccupante scenario". Di fatto, per il gip, biglietti delle partite e soldi andavano spartiti per garantire la calma in tribuna. Scrive vitelli che "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus,) hanno consentito di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultrà".
Lo scrive il gip di Torino: "Alti esponenti Juve permisero bagarinaggio", scrive “Cronaca Qui” l’11 luglio 2016. L'ultima inchiesta sulla presenza della 'Ndrangheta in Piemonte ha fatto emergere il "preoccupante scenario" che ha visto "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus - ndr) consentire di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultras". Lo scrive il gip del tribunale di Torino Stefano Vitelli nell'ordinanza di custodia cautelare siglata la scorsa settimana a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juventus, indagate in prevalenza per associazione mafiosa. Si tratta di un filone secondario dell'inchiesta della Dda torinese. Il giudice è del parere che sia stato questa politica ("voi non create problemi di ordine pubblico e noi vi facciamo guadagnare con i biglietti") a suscitare le attenzioni delle cosche. "Avere consentito da parte di taluni responsabili della società juventina un sistema di questo tipo - scrive - ha determinato, fra l'altro, la formazione di un importante giro di facili profitti su cui, come era facile prevedere, hanno messo gli occhi e poi le mani anche le famiglie mafiose operanti in zona, creando un pericoloso e inquietante legame di affari tra esponenti ultras e soggetti appartenenti a cosche mafiose". Sono state diverse le persone ascoltate in questi giorni in procura, a Torino, nell'ambito dell'inchiesta sui tentativi di infiltrazione della 'Ndrangheta negli ambienti della tifoseria della Juventus. Fonti vicine alla società bianconera affermano comunque che non si tratta di esponenti del club. E' la procura di Cuneo, intanto, a svolgere gli accertamenti sul caso di Raffaello Bucci, il capo ultras dei Drughi morto suicida l'8 luglio (il giorno dopo essere stato interrogato come testimone dagli inquirenti). L'uomo si è gettato da un viadotto dell'autostrada Torino-Savona all'altezza di Fossano, nel Cuneese.
Raffaello Bucci, giallo morte ultras Juventus: ‘ndrangheta, bagarinaggio…, scrive l'11 luglio 2016 "Blitz Quotidiano". C’entra la ‘ndrangheta nella morte di Raffaello Bucci, 41 anni, ultrà della Juventus che faceva da “anello di congiunzione tra le tifoserie e la società? Se lo domanda Marco Bardesono sul Corriere della Sera, sottolineando la strana coincidenza della morte di Bucci proprio dopo essere stato interrogato dai pubblici ministeri che indagano sulla gestione, da parte di una cosca della ‘ndrangheta, del bagarinaggio allo stadio. Bucci era consulente per la sicurezza della biglietteria della Juve, e il giorno dopo essere stato interrogato come testimone si è buttato dal viadotto Torino-Savona, lo stesso dal quale si era gettato nel 200 Edoardo Agnelli, figlio di Gianni Agnelli. Forse, è l’ipotesi di Bardesono del Corriere della Sera, chi era coinvolto pensava che Bucci avesse fatto dei nomi. Spiegano Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca su Repubblica: Il giorno prima era stato sentito dal magistrato di Torino Monica Abbatecola come testimone nelle indagini che hanno portato, lunedì scorso, all’arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra quelli dei presunti boss e malavitosi spicca il nome di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. E nelle carte dell’indagine compare anche il direttore generale della Juventus, Beppe Marotta, che non è indagato. La polizia sta cercando di ricostruire tutti i movimenti e i contatti di Raffaello Bucci nelle ultime ore, prima del suicidio. Non è stato trovato né un biglietto né un messaggio e nessuno sa dare una spiegazione al suo gesto. Al contrario, quelli dell’entourage Juve, che lo conoscono, raccontano che era molto gratificato per il nuovo incarico fiduciario che gli era stato dato dai dirigenti della squadra. La sola ombra che segna la sua vita negli ultimi tempi è la scomparsa della madre. Ma gli investigatori sospettano che possa esserci un legame tra la sua morte e la vicenda per la quale è stato convocato in procura. Dal verbale della sua deposizione risultano incertezze e contraddizioni. E non si esclude che qualcuno lo abbia avvicinato per conoscere il contenuto dell’interrogatorio. Forse un incontro così sconvolgente da spingerlo a farla finita. Il tentativo di infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle tifoserie organizzate era già stato raccontato nell’inchiesta San Michele. E ripreso pochi giorni fa da Roberto Saviano sul suo blog: “Alcuni boss sarebbero partiti in aereo dalla Calabria alla volta di Torino per assistere gratis, allo stadio, il 5 aprile 2006, a Juventus-Arsenal”. “Fummo accolti da un ragazzo che ci consegnò i biglietti in una busta – è scritto nelle carte – non pagammo”. Sette anni dopo, la scena si ripete. Questa volta è il capo ultrà Fabio Germani che ritira il pacco di biglietti alla reception dell’hotel dove la squadra si ritira prima delle partite. Sono per il boss Rocco Dominello, che cerca ticket da rivendere per l’incontro Real Madrid-Juve del 23 ottobre 2013. A farglieli recapitare al Principi di Piemonte è Giuseppe Marotta in persona. Raccomandata la “massima riservatezza”. Qualche tempo dopo, i tre si incontrano in un bar della città. Questa volta Rocco Dominello chiede a Marotta di organizzare un provino per un giovane calciatore figlio dell’amico Umberto Bellocco, del clan di Rosarno. (…) E l’appuntamento viene seguito dai poliziotti, che intercettano un giro di email per organizzare il provino. Ma il giovane Bellocco non sarà mai ingaggiato. Bucci veniva considerato un testimone importante come Dino Geraldo Mocciola, 52 anni, leader storico dei “Drughi” della curva bianconera. Anche di lui si sono perse le tracce. È stato convocato in Procura, ma non si è presentato. I poliziotti lo cercano da giorni, invano.
Raffaello Bucci: ‘ndrangheta negli Ultrà Juve, i “Gobbi” bagarini dietro il giallo della morte, scrive il 12 luglio 2016 Edoardo Greco su "Blitz Quotidiano". Il giallo della morte del capo ultrà juventino Raffaello Bucci detto “Ciccio”, caduto dallo stesso ponte di Fossano dal quale si era buttato Edoardo Agnelli, scoperchia una situazione non del tutto sconosciuta a chi frequenta o conosce la curva bianconera. Una realtà riassumibile in due punti e che può spiegare come mai il quarantunenne capo ultrà dei “Drughi” possa essere stato indotto al suicidio da minacce pesantissime o possa essere stato direttamente “suicidato”:
1. la ‘ndrangheta ha infiltrato i gruppi ultrà della Juventus, arrivando a formarne uno, di gruppo, di sua diretta emanazione.
2. La vendita dei biglietti è un vero business che rende molto lucrativo e ambito il ruolo di capo ultrà della Juve: in uno stadio tutto esaurito durante tutta la stagione, con un’offerta 40 mila posti a fronte di una domanda di milioni di tifosi, non sorprende che il bagarinaggio sia un’attività che faccia gola a criminali di “prima fascia”.
1. Come la ‘ndrangheta ha infiltrato la curva della Juventus, e perché. Scrive Ottavia Giustetti su Repubblica Torino:
«Andiamo avanti! Eh abbiamo il benestare da tutte le parti e nessuno domani ci può dire a noi “che avete fatto?”… Andiamo avanti e non è detto che non ce la prendiamo noi, la curva, direttamente». Il 14 aprile 2013 alle cinque del pomeriggio Giuseppe Sgrò, Saverio Dominello e Marcello Antonino del clan di Rosarno viaggiano sull’auto di Sgrò e si compiacciono per l’accordo che è stato raggiunto. Snocciolano i particolari e si ripetono su quanti consensi possono contare per mettere le mani sul business dei biglietti delle partite. «Abbiamo Rosarno, Barrittieri, Seminara, Reggio» dicono. E il 21 aprile, durante l’incontro tra Juventus e Milan, in curva sud si verifica il fatto decisivo, il clan annuncia il suo ingresso e srotola lo striscione «Gobbi». Fabio Farina è l’uomo destinato a gestire i rapporti tra dirigenti della biglietteria della squadra e il clan, secondo il giudice Stefano Vitelli nell’ordinanza che il 4 luglio ha portato in carcere 18 persone per associazione mafiosa. «Noi siamo dentro lo stadio dal 21, contro il Milan» aveva annunciato Farina all’amico Giuseppe Selvidio, entrambi indagati, mentre erano in corso le trattative per saldare i rapporti tra mafia e ultras. «Ma che fai vieni in curva tu il 21?» gli chiede Selvidio. «Eh se devo venire – risponde Farina – se prendiamo soldi sì, che cazzo me ne frega a me». Che Farina abbia fiutato la possibilità di guadagnare è chiaro dal 3 aprile, quando parlando con lo zio Frank spiega: «… Adesso i fratelli Ercolino (Lo Surdo) mi hanno chiamato che stanno fondando una curva – dice – mi hanno già chiesto tutti i biglietti, a me me li passano come li pagano loro, non ho un c… da fare mi butto dentro gli stadi e vaffa…». Prima di entrare però i calabresi devono ottenere il definitivo via libera degli storici club ultras. Il referente del gruppo Vikings pone una sola condizione: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma l’osso duro è Gerardo Mocciola, detto Dino. Torinese e capo indiscusso dei «Drughi» che ha scontato 20 anni per l’omicidio di un appuntato dei carabinieri e che sembra svanito nel nulla dopo gli arresti del 4 luglio. È lui l’uomo che incontrano in un bar di Montanaro. È lui che dà l’ok definitivo. Ma da lì a poco il business si rivela troppo appetibile per essere lasciato nelle mani di Farina. Ed entra in gioco Rocco Dominello figlio di Saverio, referente del clan di Rosarno. Dominello gestisce gli affari cooperando con Fabio Germani, altro capo ultrà bianconero che presenta a Dominello il security manager della Juventus, Alessandro D’Angelo, che non è indagato ma che risulta essere l’anello di congiunzione tra il gruppo ultras e la società bianconera. Non c’è, al momento, prova che il dirigente Juve potesse conoscere i suoi legami con la malavita. Ma ci sono conversazioni tra i due dai toni molto confidenziali. «Perché ormai hanno paura di me Ale, capisci?» dice Dominello quando viene a sapere che D’Angelo ha ridotto le tessere ai «Vikings» per agevolare i «Gobbi». Poi gli chiede consiglio su come contattare il dg Marotta. «Dominello e Germani – scrive il gip – sono ben inseriti nei meccanismi della società e ottengono plurimi biglietti da rivendere a prezzo maggiorato». Ma un giorno gli scappa la mano e un «cliente» svizzero si lamenta e con la società di aver pagato 620 euro un biglietto che ne costava 140. Stefano Merulla, responsabile della biglietteria Juve, sa che quel pacchetto era stato opzionato da D’Angelo. E si rivolge a Germani per chiederne conto. Poi racconta che la società ha cominciato ad avere sospetti sulla provenienza del “socio”. Ma D’Angelo trova il modo per continuare a rifornire il clan. «Li mettiamo sotto un codice diverso – dice a Dominello – devi solo dirmi chi va a ritirarli».
2. Come funziona il sistema del bagarinaggio con i biglietti delle partite della Juventus. Come, cioè, il business dei ticket venduti a sovrapprezzo finisca per finanziare le paghe mensili che i clan assicurano ai loro affiliati carcerati. Spiegano sul Secolo XIX: «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i “Bravi ragazzi”, gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti: «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti.
L'affare dei biglietti di favore scuote la Torino bianconera. La vicenda sollevata dal suicidio del leader degli ultrà juventini interrogato in un'inchiesta sulla 'ndrangheta, scrive Nadia Muratore, Martedì 12/07/2016, su “Il Giornale”. Per cercare di risolvere il giallo che avvolge il suicidio di Raffaello Bucci, uno dei leader dei «Drughi», gli ultrà della Juve, la procura di Torino ha disposto il sequestro dei due telefoni cellulari trovati nella sua vettura, abbandonata sul viadotto dell'autostrada Torino-Savona e dal quale Bucci si è buttato giovedì scorso. Nello stesso giorno della sua morte, la squadra mobile di Torino, si è recata a Margherita - piccolo comune in provincia di Cuneo dove viveva l'ultrà juventino, per cercare nella sua abitazione elementi utili a capire il perché abbia deciso di togliersi la vita, poche ore dopo essere stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm torinese della Dia Monica Abbatecola nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra i nomi di spicco emersi nell'indagine, oltre a quelli di presunti boss e malavitosi, anche quello di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. Nell'abitazione di Margherita, oltre ad alcuni effetti personali, gli inquirenti hanno sequestrato due computer, che saranno analizzati nei prossimi giorni. Intanto l'autopsia sul corpo di Bucci che all'ospedale di Cuneo era arrivato ancora vivo - conferma che l'uomo è morto per i «politraumi causati dalla caduta». Se non ci sono dubbi che l'uomo si sia suicidato, gli inquirenti vogliono capire se sia legato all'indagine inerente all'infiltrazione della 'ndrangheta nella curva bianconera e al business del bagarinaggio. Per trovare la chiave del giallo forse bisogna tornare al gennaio 2014, quando Bucci abbandona la curva bianconera. Autentico tesoriere degli ultrà, si fa da parte per non meglio precisati dissapori con gli altri capi. Quando fa rientro allo Stadium, lo scorso anno, ha cambiato divisa. Indossa una tuta del club: è diventato «supporter liaison officer», figura introdotta dal regolamento Fifa come anello di collegamento tra tifoseria e società. Ciccio, come lo chiamano nell'ambiente, riceve grandi apprezzamenti dal club. Per gli ultrà, invece, è «l'infame», perché parla con la polizia e sta dall'altra parte della barricata. Il giorno prima di suicidarsi, la procura di Torino lo convoca in merito all'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in curva e lui è costretto a ripercorrere quella delicata stagione 2013-14, quando gli investigatori documentano le relazioni tra i membri della famiglia Dominello, clan collegato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, e la tifoseria bianconera. L'obiettivo è entrare nella curva, con il nuovo gruppo ultras «I Gobbi» e mettere così le mani sul business dei biglietti. Il capo del sodalizio è Fabio Farina, accusato di aver sparato a maggio del 2013 alcuni colpi di pistola contro una nota discoteca di Torino dopo una discussione con la security. Il racconto di Bucci al pm però è lacunoso. Magari aveva paura che quelle sue «relazioni pericolose» venute a galla con l'inchiesta della Dia torinese, mettessero a rischio il suo nuovo incarico alla Juve. O forse a intimorirlo è stato qualcuno che non poteva rischiare che Ciccio, con le sue dichiarazioni, rivelasse un mondo criminale che gira intorno alle partite di calcio.
Il business dei bagarini in mano alla ’ndrangheta. Profitti anche ai carcerati. Le indagini sulla curva della Juve svelano il potere ultrà. Si allarga l’inchiesta sulle infiltrazioni della malavita nei gruppi di ultras per gestire il business dei bagarini, scrivono Federico Genta e Massimilano Peggio il 12/07/2016 su "La Stampa”. «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i «Bravi ragazzi», gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti. «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti. Anche il club bianconero sta seguendo gli sviluppi dell’indagine, attraverso i suoi avvocati. «Dalla Juventus - afferma Luigi Chiappero - escono solo biglietti a pagamento nel rispetto delle procedure di vendita, e i funzionari addetti a queste incombenze sono persone di specchiata professionalità».
Il clamoroso sold out per il concerto milanese di Springsteen, quando nel giro di 60 secondi sono stati venduti 40mila tagliandi, ha riacceso i fari sul cosiddetto "secondary ticketing": pratica legale inevitabile o illecito bagarinaggio digitale reso possibile da sofisticati software? Mentre negli Stati Uniti la magistratura indaga e inizia fornire le prime sconcertanti risposte, in Italia il problema sembra non stare a cuore quasi a nessuno. Il messaggio di Ligabue a Repubblica: "Io ho sempre cercato di fare il massimo per contenere i prezzi". Inchiesta di "La Repubblica" dell'8 marzo 2016.
Il caso Springsteen solo la punta dell'iceberg, scrivono Paolo Gallori e Carmine Saviano. Springsteen, dopo un minuto introvabili anche i biglietti per il 5 luglio. Biglietti già esauriti sulle pagine web del rivenditore ufficiale allo scoccare della vendita online, ma allo stesso tempo disponibili a prezzi folli sui siti di "secondary ticketing". Un problema che non riguarda solo i patiti del rock, la cui ultima traumatica esperienza è stata lo scorso 9 febbraio il sold out del concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio a San Siro, quando 40mila biglietti sono spariti nel giro di un minuto dall’unico rivenditore online autorizzato, Ticketone. Con situazioni simili devono regolarmente fare i conti anche gli appassionati di calcio e sport vari per, per i quali entrare in possesso del singolo biglietto per un evento top - tipo finale di Champions League per intenderci – è molto spesso impossibile e l’unica alternativa a disposizione è l’acquisto in un costoso pacchetto all incusive, comprensivo di volo e albergo. Un "pedaggio" odioso che può sopportare il fan sfegatato, questa procedura definita "secondary ticketing", ma che non dovrebbe essere tollerato da tutti gli altri attori della filiera che compone un evento dal vivo. Dall’artista al promoter, dall’agenzia che rappresenta l’immagine della star fino a chi gestisce materialmente i luoghi dei concerti. Negli Stati Uniti si narrano le gesta di temerari hacker che in solitaria sono riusciti a gestire fino a 75 identità diverse, riuscendo così a comprare centinaia di biglietti con pochi clic. La stragrande maggioranza dei casi, come ha accertato la più recente (e probabilmente unica) inchiesta condotta sin qui sul fenomeno, ha però contorni molto meno romantici. Al centro della vicenda c’è ancora una volta lui, Bruce Springsteen, una delle rock star più amate di sempre. Secondo quanto ha appurato il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, lo scorso 10 dicembre su tre diverse piattaforme digitali sono stati offerti i biglietti (a prezzi da capogiro) per il tour del Boss ancor prima che la prevendita ufficiale fosse aperta. Ai siti di secondary ticketing Stubhub, Ticketnetwork e Vivid Seats viene intimato quindi di oscurare quelle offerte e le società che li controllano vengono allo steso tempo invitate a un incontro per aprire un tavolo contro la speculazione. Nel frattempo il lavoro di indagine del procuratore Schneiderman, sostenuto anche dalle denunce di cittadini esasperati dall’impossibilità di riuscire ad acquistare i biglietti per i grandi eventi musicali o sportivi attraverso i canali ufficiali, va avanti e i primi risultati vengono resi noti a fine gennaio 2016. A parte gli inquietanti intrecci di proprietà tra siti ufficiali e siti di “rivendita” (TicketsNow ad esempio appartiene dal 2008 a TicketMaster), gli investigatori accertano una gestione dei tagliandi che già a monte lascia ben poche possibilità all’acquirente "outsider". Il 16% finisce infatti nella disponibilità di promoter, artisti e operatori dell’industria musicale, sponsor e fan club. Un altro 38% è riservato poi ai possessori della carta di credito convenzionata con il sito di rivendita ufficiale. A ciò si aggiungono infine veri e propri abusi e pratiche fraudolente che impediscono ai consumatori di accedere ai biglietti al giusto prezzo. Schneiderman punta l’indice in particolare contro veri e propri broker attivi sulle piattaforme del secondary ticketing dove rivendono biglietti con margini di guadagno medi del 49% in più rispetto al prezzo base, arrivando talvolta a offrirli anche a prezzo decuplicato. Per alimentare il loro business, questi intermediari utilizzano i “ticket bots”, software nemmeno tanto costosi che consentono di acquistare sui siti delle rivendite ufficiali quanti biglietti si desiderano anche per gli eventi più attesi, quelli da cui l’utente comune denuncia di restare sempre tagliato fuori. Biglietti che poi finiscono nel circuito del “secondary ticketing” generando grandi guadagni perfettamente esentasse. A emblema di questa pratica scandalosa il rapporto di Schneiderman cita in particolare l’episodio dell’8 dicembre 2014, quando in un solo minuto un singolo "acquirente" riuscì ad accaparrarsi online 1012 biglietti per un concerto degli U2 al Madison Square Garden nonostante il rivenditore avesse fissato un limite massimo di quattro tagliandi. Il bottino complessivo fu però ancora più ricco, con due soli broker capaci di assicurarsi la bellezza di 15mila biglietti del tour degli U2 in Nord America. "La nostra inchiesta - concludeva Schneiderman - è solo l’inizio del nostro sforzo per la normalizzazione del business della compravendita di biglietti". Una promessa che non è detto il procuratore riuscirà a mantenere, ma che sicuramente non avrebbe un grande futuro qui da noi. Il problema principale è che più si va fondo nel funzionamento di questo malcostume, più appare evidente che gli unici a rimetterci sono i fan. Per tutti gli altri si tratta di una pratica che comporta solo benefici. Così, tanto più in un paese come l’Italia dove il ricorso alle class action è ancora a uno stato embrionale, la speranza che possa cambiare qualcosa appare piuttosto remota. L'unico modo per contrastare il bagarinaggio online sarebbe probabilmente quello di controllare nominalmente ogni biglietto all'ingresso del luogo dell'evento. Ma è solo una pia illusione farlo in concerti o eventi sportivi che prevedono l'apertura dei cancelli a poche ore dall'inizio dell'evento e file di decine di migliaia di persone. In genere viene accertata solo la validità del biglietto e non se lo stesso è finito nelle mani del titolare di turno dopo chissà quanti e quali passaggi di mano virtuali. Un mercato parallelo che nell'assenza di precise legislazioni in materia, e nell'assenza di interventi da parte delle “polizie postali” dei vari paesi, non fa altro che crescere. Secondo uno studio di “Research and market” pubblicato alla fine del 2015, nel giro dei prossimi quattro anni il secondary ticketing avrà un incremento del 20%. E i settori coinvolti non saranno solo quelli relativi alla musica: altro settore coinvolto è quello degli eventi sportivi, dalle prossime Olimpiadi di Rio fino alle partite di calcio dei maggiori campionati europei. La polizia postale ci ha confermato che di indagini non ne sono mai state fatte, ma che per partire hanno bisogno di una denuncia. Compito che praticamente nessuno sembra volersi assumere. Inutile, ad esempio, sperare in una presa di posizione degli artisti come accaduto in Gran Bretagna (vedi pezzo di Andrea Silenzi qui sotto). Repubblica ha cercato di coinvolgere in questa inchiesta giornalistica gli artisti italiani (si contano sulle dita di una mano) capaci di riempire uno stadio e che in teoria si dovrebbero sentire danneggiati, ma dai loro staff sono arrivati solo cordiali dinieghi e frasi di circostanza del tipo "noi facciamo in modo che i biglietti siano venduti al prezzo più basso possibile, ma poi, una volta che sono finiti, se c’è chi è disposto a pagarli quelle cifre che possiamo farci?". A cercare di smuovere le acque ci prova un promoter, Claudio Trotta, titolare della Barley & Arts, l’agenzia che gestisce, tra l’altro, proprio i tour di Bruce Springsteen. Dopo lo scandalo del febbraio scorso, Trotta ha annunciato l’intenzione di presentare un esposto e ha prima scritto a tutte le parti "tecniche" coinvolte, a cominciare da quell’Assomusica che da statuto dovrebbe combattere simili anomalie, e poi, in uno sfogo affidato alla sua pagina Facebook, si è rivolto alle associazioni dei consumatori, agli artisti e alla Siae. Senza dimenticare l’Agenzia delle Entrate, vista l'evidente evasione fiscale di chi lucra sul secondary ticketing, e il Parlamento, affinché colmi un evidente vuoto legislativo su un fenomeno che non può essere paragonato al tradizionale bagarinaggio o alla casuale cessione di biglietti tra privati. Iniziativa su cui lo stesso manager non pare fare troppo affidamento, se è vero che la stessa requisitoria si concludeva con una domanda tanto retorica quanto sibillina: "Vi siete mai chiesti come mai io sia solo in questa battaglia?". Trotta nella lettera agli addetti ai lavori denunciava in particolare il fatto che "i biglietti in questione riportano sul retro dell’evento le condizioni a cui il soggetto acquirente è tenuto a sottostare". "In particolare - ricordava - l’art. 7 stabilisce che ‘Il titolo di ingresso non può essere permutato, ceduto a titolo oneroso né può essere oggetto di intermediazione o utilizzato ai fini commerciali’. Pertanto, chiunque violi le disposizioni sopra citate non solo si rende responsabile di un inadempimento contrattuale che darà origine a un’azione civile per il risarcimento dei danni, ma verranno valutati altresì i presupposti per l’azione penale con ogni relativa conseguenza”. Raggiunto solo a ridosso della pubblicazione dell'inchiesta di Repubblica, Ferdinando Salzano, amministratore delegato di Friends & Partners, ha voluto ricordare l'impegno "culturale" della sua agenzia per educare il pubblico dei concerti a tenersi lontano dagli avvoltoi e la sperimentazione del biglietto nominale effettuata durante il tour teatrale di Ligabue. Inoltre annuncia l'intenzione di voler presentare una denuncia alla Polizia Postale. "Oggi stesso darò mandato ai miei legali. Dopo aver messo all'indice le piattaforme digitali, bisogna dare un volto a chi le utilizza per speculare". Secondo Salzano, l'aspetto più importante dell'azione di Trotta è in un passaggio: "Aver denunciato la connivenza a livello internazionale tra gente del nostro ambiente e le piattaforme. In America è provata. Per l'Italia, non si può dire nulla senza prove. Indaghi la polizia". A dare manforte a Salzano ci sarà lo stesso Ligabue, che dopo aver letto la nostra inchiesta, ci ha voluto mandare una sua precisazione: "Personalmente ho chiesto da sempre a chi mi rappresenta di fare di tutto perché chi viene ai miei concerti spenda la cifra più ragionevole possibile per lo spettacolo, la produzione, l'accoglienza migliore che gli si possa offrire. Tutto quello che viene fatto nel nome di questa mia richiesta è totale merito di Claudio Maioli e Ferdinando Salzano". A rendere difficile una soluzione giudiziaria del problema c’è però in Italia una sentenza della Cassazione del 2008 che ha risolto un presunto caso di bagarinaggio sentenziando che “chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica”, almeno finché non sia dimostrata la provenienza illecita del bene. Lo snodo diverrebbe quindi riuscire a dimostrare l’acquisto tramite software tickets bot e poi saperlo tracciare fino a risalire al "burattinaio". L’Unione Nazionale dei Consumatori, dopo i primi tentativi di pressione su Ticketone, suggerisce invece una strada alternativa. "Gli abbiamo scritto cercando di farli venire allo scoperto – afferma il segretario Massimiliano Dona – a seconda di come rispondono sapremo come muoverci, l’arma potrebbe essere una segnalazione all’Antitrust per pratiche scorrette, perché l’operatore, in questo caso unico, che vende online deve combattere i fenomeni devianti. Ticketone può dire di non averne colpa, ma non può non interessarsi del dopo". Un precedente conforta Dona: "Denunciammo quelli di TripAdvisor per le recensioni di alberghi e ristoranti i cui autori non erano identificabili. La loro difesa, tipica dell’operatore online, fu: 'noi siamo solo intermediari'. Invece furono condannati, perché dovevano fare tutto il possibile affinché gli autori di quei giudizi fossero identificabili”. Più o meno la logica che il procuratore Schneider ha applicato intimando alle tre piattaforme di rimuovere le offerte di biglietti più inaccettabili.
Così un software aggira tutti i controlli, scrive Martina Nasso. Tre minuti e venti secondi. È il tempo impiegato da un utente non registrato per l'acquisto di un biglietto sul sito TicketOne. Un minuto e mezzo se ha già un account. Al software TicketOne Spinner Bot bastano pochi secondi per compiere la stessa operazione. Un ticket robot (bot) è un programma per computer che automatizza il processo di ricerca e acquisto dei biglietti per concerti, eventi sportivi e spettacoli sulle piattaforme di acquisto online. In Italia TicketOne è la principale biglietteria virtuale autorizzata. Alle 11 di martedì 9 febbraio l'azienda ha aperto la prevendita per il concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio allo stadio San Siro di Milano. In un minuto sono svaniti migliaia di biglietti. Alcuni agenti hanno acquistato i biglietti con il software robot per poi rivenderli a prezzi altissimi al grande pubblico sui siti di secondary ticketing come TicketBis, Viagogo e Seatwave. Queste piattaforme sono una sorta di bagarini 2.0 e hanno creato un mercato di vendita dei ticket parallelo a quello autorizzato. Su Viagogo, un posto per la data milanese del Boss arriva a costare anche 1500 euro, più di dieci volte il prezzo di vendita originale. "TicketOne Spinner Bot" è un software acquistabile online con una spesa di 950 dollari. La sua caratteristica principale, oltre alla velocità, è di riuscire a eludere il sistema che limita gli acquisti multipli su TicketOne. Il sito prevede, infatti, alcune misure per evitare che un singolo possa acquistare più di quattro/sei biglietti per quegli eventi, come i grandi concerti, per i quali la domanda supera di gran lunga l'offerta. In questi casi interviene un sistema di sicurezza che si basa sull'utilizzo di captcha, codici di sicurezza che l'utente deve compilare, e sul controllo degli indirizzi IP. La persona interessata all'evento può procedere all'acquisto solo inserendo il codice alfabetico corretto e, una volta acquistato il numero massimo di biglietti, TicketOne registra il suo l'indirizzo IP e gli impedisce di comprare altri tagliandi per lo stesso evento. Se dall'altra parte dello schermo, però, non c'è una persona in carne e ossa, i sistemi di sicurezza non sono poi così efficaci. "TicketOne Spinner Bot" bypassa i captcha e si collega a server proxy che creano indirizzi IP multipli. Chi lo utilizza può impostarlo inserendo l'orario di apertura del botteghino. Allo scoccare dell'ora stabilita il programma inizierà automaticamente la ricerca e in pochi secondi garantirà al proprietario centinaia di biglietti. Dopo aver superato il controllo del captcha, il software crea indirizzi IP multipli e inganna il sistema di controllo. TicketOne, così, collegherà la vendita a tanti utenti quanti sono gli indirizzi IP generati. Per rendere ancora più efficace il meccanismo e non destare sospetti nel caso di controlli individuali effettuati dagli amministratori del sito, spesso i broker usano per i pagamenti più carte di credito, intestate a persone diverse. I ticket robot non sono una novità. Nel 2007 Ticketmaster.com, la principale biglietteria online degli Stati Uniti, fece causa alla RMG Technologies Inc. La società vendeva software per l'acquisto automatico di biglietti che ingannavano i sistemi di controllo del sito. Ticketmaster vinse il processo nel 2008 e ottenne un risarcimento di 18,2 milioni di dollari. Alla RMG Technologies fu impedito di creare altri programmi per superare i sistemi di controllo della biglietteria virtuale. Sono passati dieci anni da allora e né in Italia, né negli USA esiste una regolamentazione sull'utilizzo di questi programmi che continuano a moltiplicarsi e mettono a dura prova la pazienza e soprattutto le tasche dei fan.
Ora all'estero si muovono le star, scrive Andrea Silenzi. Biglietti e concerti, una questione mai risolta. In Italia se ne parla dai tempi dello storico tour dei Beatles, nel giugno del 1965. I due concerti all’Adriano di Roma (uno pomeridiano, l’altro serale) si svolsero davanti a una platea con più di un posto vuoto: il prezzo dei biglietti (dalle 5.000 alle 7.000 lire) era per l’epoca piuttosto elevato, e la cosa fece discutere. Negli anni Settanta, col boom di spettacoli, la “questione biglietti” divenne un fatto politico. “Riprendiamoci la musica” era lo slogan che faceva da colonna sonora a scavalcamenti, sfondamenti e proteste: la contestazione sul caro-biglietti portò conseguenze drammatiche durante il concerto di Lou Reed al Palasport del febbraio 1975, con cariche della polizia e lacrimogeni lanciati tra gli spalti. A quell’epoca i biglietti si acquistavano, nella maggior parte dei casi, sul posto: il concetto di prevendita non era molto diffuso, il bagarinaggio avveniva fuori dai cancelli. Ma rispetto ad oggi, tutta la macchina organizzativa era meno minuziosa e più pioneristica. L’avvento di colossi della prevendita come l’americana Ticketmaster ha trascinato il business dei concerti in una nuova dimensione, professionale ma non priva di contraddizioni. Più di venti anni fa i Pearl Jam trascinarono in tribunale (finendo sconfitti) Ticktmaster con l'accusa di monopolio e, soprattutto, di praticare prezzi troppo alti con un ricarico eccessivo per i diritti di prevendita. Elementi profondamente contrari alla politica della band nei confronti dei fan. Da allora, la situazione si è fatta sempre più complicata. Quando la vendita si è trasferita sul web, ai grandi circuiti ufficiali si sono affiancati i cosiddetti “secondary tickets sites”, siti web che offrono biglietti per qualsiasi evento (soprattutto musicali e sportivi) a prezzi spropositati. Negli ultimi anni il fenomeno ha assunto proporzioni imbarazzanti, al punto di finire nel mirino delle autorità giudiziarie americane. All’inizio di dicembre il procuratore generale di New York ha inviato una lettera ad alcune agenzie di prevendita online per chiedere spiegazioni sulla presenza sui loro siti di biglietti per il concerto di Bruce Springsteen prima ancora della loro messa in vendita ufficiale. Sempre Springsteen, con le prevendite del suo tour italiano della prossima estate, ha riportato i riflettori sulle misteriose prassi dei siti secondari e sulla rabbia di utenti e musicisti. Come è possibile che decine di migliaia di biglietti spariscano dalle prevendite ufficiali in pochi minuti per poi ricomparire sui siti secondari a prezzi stratosferici? Secondo un’indagine condotta dal settimana americano Billboard, la Bibbia dell’industria musicale statunitense, per le sei date del tour americano di Adele erano disponibili, sulla carta, 750.000 biglietti. Nei fatti, però, solo 300.000 sono finiti sul mercato. Circa 350.000 sono stati riservati con una “pre-sale” mirata a partner commerciali, acquirenti di pacchetti vip e altri operatori. Dai 300.000 rimasti vanno poi tolti quelli rastrellati dai siti secondari. I fan, ovviamente, sono in rivolta. Il problema è molto sentito anche in Gran Bretagna, dove un gruppo di musicisti, manager e promoter (di cui fanno parte, tra gli altri, Mumford & Sons, Elton John, Coldplay, Radiohead, Ed Sheeran, Blur, Noel Gallagher, Iron Maiden e molti altri) ha scritto una lettera aperta al governo britannico, pubblicata dal Times, per prendere le difese dei fan e per chiedere di stabilire nuove regole che vietino di vendere tagliandi con un ricarico superiore al 10% rispetto al loro prezzo base. Nella lettera si sottolinea inoltre la necessità di creare un sistema “trasparente di vendita e acquisto dei biglietti” che costringa compratori e venditori a dichiarare la propria identità. La situazione è talmente esasperata che Elton John ha dichiarato pubblicamente di preferire una platea vuota piuttosto che vedere i suoi fan pagare prezzi assurdi. Il promoter inglese Harvey Goldsmith ha parlato di “disastro nazionale”, mentre tutti i musicisti invocano protezione per i loro fan. Che al momento pagano e subiscono. Ovunque.
Colpito anche il calcio, ma nessuno interviene, scrive Cosimo Cito. Profumo di tabacco, un lungo cappotto, la voce: "Biglietti". C’erano una volta i bagarini. C'erano le domeniche allo stadio, freddo gelido o caldo di primavera, loro c’erano sempre, austeri, imperturbabili nella loro augusta, tollerata illegalità. Se volevi saltare la fila, o solo se volevi vedere la partita, dato che al venerdì, quando i botteghini aprivano, i biglietti li prendevano loro, è da lì che dovevi passare. Inutile farsi domande, solo pagare. Chi si asteneva tornava a casa ad ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Non è strano, per nulla, se il termine bagarino derivi dal francese bagarre. Oggi l’operazione si svolge davanti a uno schermo di un computer. È il secondary ticketing applicato allo sport. Se la scorsa settimana si cliccava, ad esempio, su Ticketbis.it, Roma-Fiorentina, Curva nord. Il prezzo di un biglietto arrivava a 80 euro. Tanti, dato che il tagliando, acquistato per vie normali, regolari, sul circuito Ticketone, non supera i 35 euro. Più del doppio. Perché farlo, quel biglietto, a quel costo? Perché, magari, non c’è alternativa: la rivendita regolare dura il tempo di un amen, un’ora al massimo in genere, il tempo perché i biglietti vadano esauriti. Tutti nelle mani di soggetti, il più delle volte agenzie, che poi rivendono i tagliandi attraverso il cosiddetto secondary ticketing. E non è nemmeno illegale. Queste società d’intermediazione tra domanda e offerta operano in un vuoto normativo e sono regolarmente iscritte ai registri delle Camere di commercio. Teoricamente dovrebbe trattarsi di piattaforme sulle quali è possibile rivendere biglietti acquistati per eventi ai quali non ci si può più recare. In realtà i rivenditori non sono semplici tifosi vittime di un imprevisto, ma più spesso organizzazioni, spessissimo vicine alle società, che acquistano biglietti con l’unico scopo di rivenderli a prezzi maggiorati e specularci. SeatWave, Ticketbis e Viagogo rivendicano la legalità del servizio: i siti, tecnicamente, non vendono biglietti, ma fanno da mediatori tra domanda e offerta, con una provvigione del 20% nell’intera operazione di compravendita, niente di più, il costo del servizio. Accedervi è un attimo: basta registrarsi, cercare l’evento e decidere se vendere o acquistare un biglietto. Per chi voglia rivendere i propri biglietti, è semplicissimo: ci si registra, si inserisce un numero di carta di credito, si è, comunque, identificabili. E il gioco è fatto. A confermare che la pratica è legale, è stata anche la Corte di Cassazione, che con la sentenza 10881 del 2008 ha spiegato come "chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica", almeno finché non viene dimostrata la provenienza illecita del bene. In Inghilterra la rivendita dei biglietti per le partite di calcio è connessa al consenso delle società. In Italia tutto avviene al buio della Lega, in una terra di mezzo: non essendo vietato - secondo la dottrina massimalista del diritto - è quindi concesso. Speculazione, niente di più, dicono loro. E i biglietti nominali non sono affatto un problema. Già al Mondiale brasiliano, quando le prime crepe in seno alla Fifa si aprirono proprio a causa di una compravendita illegale di biglietti destinati ai vip da parte di alti papaveri della Federcalcio mondiale, chi voleva, poteva lanciarsi in acquisti spericolati (anche 30mila euro un biglietto per la finale), senza paura di essere fermato ai tornelli d’ingresso del Maracanã. I controlli sulla legittima proprietà dei tagliandi sono praticamente inesistenti. Oppure accade anche questo: che emettitori legittimi di biglietti pratichino sottobanco il secondary ticketing. Ticketbis, società leader nel settore, è nata in Spagna nel 2009, opera in oltre 40 paesi e ha un giro da un milione di biglietti online: in Italia è attiva dal 2011 e ha all’incirca 100 mila utenti, ma il traffico sta crescendo. Nel 2015 ha fatturato circa 80 milioni di euro. Alle accuse di essere veicolo di bagarinaggio online risponde così, anzi rilancia: "Dovremmo aprirci all’idea del 'prezzo dinamico' – spiega Giulia Chiari, regional manager per l'Europa della società - è assurdo imporre un prezzo fisso a ogni evento. La soluzione è quella di piegare la legge della domanda e dell’offerta alle necessità dei potenziali acquirenti. Questo siamo noi, veicolo di un più moderno modo di intendere il mercato. Del resto, chi ha mai accusato Ryanair o altre società che praticano vendite online, di fare bagarinaggio di biglietti? Abbiamo un'idea paludata del mercato, in America il secondary ticketing è molto più utilizzato che da noi, molto più conosciuto. E molto più compreso". Soprattutto dopo il lavoro del procuratore Schneiderman.
Bigliettopoli, così lucrano i bagarini 2.0. Il secondary ticketing è ormai una pratica diffusa e (solo in teoria) legale. Con software che riescono ad acquistare in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi vanno alle stelle. Un esempio? Il concerto di Springsteen può costare anche 1500 euro, scrive Luciana Grasso il 22 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Volete vedere il concerto di Bruce Springsteen ma i biglietti son finiti prima che poteste anche solo pensare di fare click? Oppure, volevate andare lo scorso ottobre a Torino, a sentire Madonna, ma i 180 secondi di apertura della prevendita non vi sono bastati per conquistarvi un biglietto? Niente paura. I biglietti ci sono ancora (e c’erano anche per Madonna). Basta sapere dove cercarli, e avere i soldi per pagarli. Non si tratta di cifre da poco: un biglietto per Springsteen a Milano, a pochi giorni dall’apertura ufficiale della prevendita (tra l’altro del tutto contestuale alla sua chiusura, visto che la disponibilità è durata solo pochi minuti) possono costare anche 1500 euro (primo anello San Siro), oppure, se non andate troppo per il sottile e vi accontentate, come i loggionisti, del terzo anello, potete cavarvela con circa 150 euro. Stessa solfa a Roma, anche se con prezzi più bassi. Cifre che equivalgono a multipli del prezzo di partenza: il prato a San Siro costava, in origine, 80 euro; il terzo anello 40,00, ma che ormai non fanno più rumore, perché fanno parte di una pratica diffusa (e, almeno in teoria legale) che si chiama secondary ticketing, evoluzione virtuale del vecchio bagarinaggio. «Nulla vieta, a chi ha un biglietto che non usa di rivenderlo. Allo stesso modo con cui si può vendere una bicicletta o un paio di sci smessi. L’importante è la pratica sia occasionale e non a scopo di lucro e che dunque non costituisca una speculazione ai danni del nuovo acquirente e non sia una fonte di reddito costante. Se così non è si apre anche tutta una faccenda che va oltre e i concerti e i biglietti e interessa piuttosto il fisco». A spiegarlo è Tommaso Salvetti, startupper torinese della piattaforma Hit Your Tix, l’unica sino ad ora ad aver invertito il sistema di vendita: non è più il venditore che fissa il prezzo ma l’acquirente indicando quanto è disposto a spendere «Così cerchiamo di conciliare le esigenze di chi si ritrova con un biglietto in più e quelle di chi invece è rimasto a bocca asciutta, cercando di fare in modo che entrambi ci guadagnino e nessuno ci perda. Non solo: ma sul nostro sito non si possono effettuare più di dieci vendite l’anno dello stesso ID, indipendentemente dall’account e cerchiamo di tenere alla larga i disonesti». Sì, perché il problema non sono i biglietti e il loro prezzo, ma quelli che li fanno sparire in pochi secondi. Il modo più usato per farlo è l’uso dei bot, ossia dei software che riescono a razzolare via in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi prendono a salire. Contro i bot, e, inevitabilmente contro il secondary ticketing, da tempo, musicisti e canali di vendita ufficiali di vendita stanno cercando darsi da fare come possono. Nel 2013 TicketMaster (un colosso simile alla nostrana TicketOne) citò in giudizio 21 persone accusandole di aver usato bot per comprare più di 200mila biglietti al giorno. Ligabue, a suo tempo, escogitò il sistema di ‘liberare’ a 48 ore dalla data del concerto, ulteriori ingressi. Un sistema provato proprio dagli organizzatori del Mondovisione Tour di Ligabue, Riservarossa e F&P Group, che da sempre sono schierati contro il secondari ticketing e hanno invitato più volte il pubblico a non comprare biglietti fuori dai circuiti di vendita autorizzati, “anche per evitare l’elevato rischio di incorrere in biglietti falsi e non validi”. Nel gennaio 2015 ottanta tra musicisti e personalità di spicco della musica inglese, come Nick Mason dei Pink Floyd, Ed O'Brien dei Radiohead e Sandie Shaw chiesero al parlamento britannico di approvare una legge per eliminare il mercato secondario. «I primi a voler arginare le speculazioni siamo noi, non consentiamo più di comprare più di 4 biglietti alla volta e non consentiamo di fare più di 4 collegamenti da uno stesso account - spiega Andrea Grancini, vicedirettore generale di TicketOne -. Nell caso di Springsteen addirittura abbiamo imposto il limite di una sola transizione ad account. I numeri però sono stati comunque enormi: il nostro sito ha avuto 372 mila visitatori tra le 10 e 30 e le 11; abbiamo aperto le vendite alle 11 e alle 11 e 32 avevamo venduto 23 mila biglietti, 8 mila dei quali nei primi 5 minuti. Numeri notevolissimi nella transazione dei quali, va detto, non abbiamo riscontrato anomalie o ingressi fraudolenti, che avremmo fermato immediatamente. A quel che ci risulta gli acquirenti sono esseri umani”. Umani che, poi, hanno cambiato idea, e ora rivendono il biglietto a 1500 euro. Buona visione.
PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.
Gb, questionario a scuola: "Di che lingua sei: italiano, napoletano o siciliano?". Scuse dal Foreign Office. L'iniziativa per stabilire l'area linguistica di provenienza aveva lo scopo di fornire una migliore assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Ma è stata interpretata, alla fine, come una "schedatura" in base all'origine regionale. "Rammarico" del governo britannico per un "errore storico", scrive Enrico Franceschini il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Parlate italiano, napoletano o siciliano? La domanda fa parte di un questionario che alcune scuole della Gran Bretagna hanno inviato alle famiglie dei nuovi alunni per l'anno scolastico iniziato da circa un mese. L'iniziativa aveva, in teoria, uno scopo non discriminatorio: stabilire l'area linguistica di appartenenza dei figli di immigrati per poter fornire sia ai bambini, sia eventualmente ai genitori, la necessaria assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Analizzando il modulo, si notano suddivisioni anche per i vari tipi di lingua punjabi, cinese, arabo. E l'elenco contiene una categoria anche per il sardo (sardinian), considerato una lingua a parte. Ma quale che fosse l'intento, il risultato è stato comunque di far sentire i nostri connazionali come se venissero "schedati" in base all'origine regionale. Come se esistessero almeno tre tipi di cittadino italiano: l'italiano-italiano, l'italiano-napoletano e l'italiano-siciliano. Qualche famiglia italiana ha segnalato la cosa alla nostra ambasciata di Londra e la protesta è stata immediata. "L'Ambasciata d'Italia nel Regno Unito è intervenuta per richiedere la modifica di talune categorizzazioni regionali riferite all'Italia comparse sui moduli online per l'iscrizione scolastica in alcune circoscrizioni in Inghilterra e nel Galles", afferma una nota dell'ufficio stampa della nostra sede diplomatica. "I codici presentati per la selezione dell'appartenenza etnica, utilizzati sui siti di alcune circoscrizioni scolastiche, indicavano infatti una scelta fra italiano, italiano - napoletano e italiano-siciliano. L'Ambasciata ha protestato con le autorità britanniche, richiedendo la rimozione immediata di tali categorizzazioni". Nella nota verbale di protesta si ricorda che "l'Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato": un commento all'insegna dell'understatement inglese, cioè senza bisogno di gridare, da parte della nostra ambasciata, che in parole semplici suonerebbe come una tirata d'orecchi al ministero d'Istruzione britannico, non lo sapete che l'Italia non è più un'espressione geografica? A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all'Italia "deplorando l'accaduto" e assicurando "un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili". Il Foreign Office, tra l'altro, ha fatto sapere che "verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all'accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese". Alle scuse del Foreign Office segue la dichiarazione di un portavoce per esprimere il "rammarico" causato a Downing Street dall'errore "storico". "Il governo britannico - spiega anche il portavoce - acquisisce informazioni linguistiche come parte del censimento scolastico per assicurarsi che gli studenti di madrelingua diversa dall'inglese possano ricevere la migliore istruzione possibile nel Regno Unito. Ci è stata segnalata la presenza di uno storico errore amministrativo nei codici linguistici in uso fin dal 2006. Anche se tale errore non ha avuto alcun impatto sull'istruzione ricevuta dagli alunni italiani nel Regno Unito, il governo britannico esprime il proprio rammarico per l'accaduto e per le offese da questo eventualmente arrecate. Il ministero dell'Istruzione britannico ha modificato i codici in questione e da oggi tutti gli allievi di madrelingua italiana saranno classificati sotto un unico codice". Soddisfatto l'ambasciatore Pasquale Terracciano: "Si evita così il montare di una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità da parte di qualche isolato distretto scolastico più che a una reale volontà discriminatoria. E' importante evitare l'insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit". Prima delle scuse del Foreign Office, l'ambasciatore era stato molto duro nel denunciare "iniziative locali motivate probabilmente dall'intenzione d'identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno. Ma di buone intenzioni è lastricata la strada dell'inferno, specie quando diventano involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali". Mentre il sottosegretario al ministero dell'Istruzione italiano, David Faraone, si era detto incredulo per il fatto che "ancora oggi siamo costretti ad affrontare pregiudizi di questo tipo. La scuola italiana ha superato da tempo questi stereotipi e in Italia, come nel Regno Unito, si deve lavorare per l'integrazione e la formazione delle generazioni future".
Il questionario inglese che scheda gli studenti napoletani e siciliani. La protesta del nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano, che ha spedito al Foreign Office una «nota verbale» per sollevare il caso, scrive il 12 ottobre 2016 Fabio Cavalera, corrispondente a Londra per "Il Corriere della Sera". Una pagina di un documento del «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles che raccoglie dati su etnia e prima lingua degli studenti, richiesti ai genitori al momento dell’ammissione. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. A essere cattivi, invece, c’è da pensare di molto peggio. Fatto sta che in alcune scuole del Regno Unito, all’atto dell’iscrizione, occorre passare dalle forche caudine della classificazione etnica. E per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. Non poteva stare zitta la nostra rappresentanza diplomatica dinanzi a uno scempio tale e difatti l’ambasciatore Pasquale Terracciano ha spedito alForeign Office una «nota verbale» per sollevare il caso che è stato documentato in un certo numero di scuole dell’Inghilterra e del Galles: al momento della richiesta di ammissione on line richiedono ai genitori «di specificare l’etnia e la prima lingua» del figlio. Una sorta di marchio che «deve essere rimosso con effetto immediato». I primi a inorridire sono stati i nostri connazionali del distretto metropolitano di Bradford i cui consigli scolastici hanno messo in rete la «classificazione». Ma, chissà come, quello che poteva essere un errore isolato è diventato un modulo adottato anche, per esempio, nel Galles. Non in qualche istituto isolato di qualche isolato villaggio. Ma niente meno che dal «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles. Seguiti successivamente, Bradford e Galles, da altri consigli territoriali. I connazionali, dunque, hanno informato l’ambasciata che si è mossa sul ministero degli esteri di sua maestà. Dabbenaggine? Ignoranza? L’ambasciatore Terracciano esclude che si tratti «di una forma di discriminazione attiva». E ha ragione. Nessuna violenza. Ma ritiene che in un momento caratterizzato da una sensibilità particolare sui temi dell’immigrazione e in piena tensione Brexit, sia fastidioso e pericoloso «introdurre una distinzione artificiale» del genere. Un capitombolo di pessimo gusto. La spiegazione non va ricercata in volontà persecutorie contro gli italiani che sono trattati benissimo e apprezzati moltissimo. Più semplicemente, forse, è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento.
Poi c'è la spiegazione di chi dà per scontato che nel 2016 i bambini di famiglie meridionali all'estero ancora non sappiano parlare l'italiano, come se non esistesse la tv o internet per divulgare la madre lingua.
Italiano, napoletano o siciliano? L'autore del post del 12 ottobre 2016 su "Butan" si firma Maicol Engel. In queste ora (ma erano già alcuni giorni che circolava) mi state segnalando in tantissimi la notizia del questionario inglese per le famiglie degli studenti, questionario che secondo tanti sarebbe “scandaloso” visto che prevede quattro caselle diverse per gli italiani, una per i napoletani, una per i siciliani, una per gli “altri” e una generica Italians. Un questionario per «schedare» gli studenti napoletani in Inghilterra. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. … per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento. Queste le parole del Corriere della Sera, che evidentemente, come tutte le testate italiane, si è fermato solo a guardare le notizie circolate in Italia e le lamentele degli italiani residenti in UK, senza cercare il documento da cui si partiva. Non si sta parlando di nazionalità o provenienza diversa, ma di lingua. L’elenco che viene fatto compilare per l’ammissione a scuola spiega chiaramente che viene richiesta la prima lingua (che si parla a casa) e difatti basta guardare con attenzione per accorgersi che l’Italia non è l’unico paese ad avere più caselle possibili. Scelte diverse per lingue diverse. I berberi hanno 4 scelte, gli arabi 7, chi viene dal Bengali 3, i cinesi 6 e così via. Si tratta di dialetti o variazioni della lingua base, dialetti che sono così diffusi da necessitare una casella a parte. Qui potete trovare uno degli elenchi che prevedono questo sistema di codificazione della prima lingua. Noterete che subito prima di Italian c’è Informazione non ottenuta, ovvero chi compila può tranquillamente omettere la lingua. Come potrete vedere ci sono 4 scelte (più una dedicata alla lingua sarda). Chi vuole può tranquillamente scegliere che parla come prima lingua italiano. Il fatto che ci siano altre scelte non condiziona questa possibilità, non è una schedatura etnica, solo un tentativo di capire quale sia la prima lingua dell’alunno. Alcuni di voi storceranno il naso, lo capisco, ma io stesso ho un amica nata in UK da genitori italiani che oggi conosce l’italiano perché l’ha imparato con corsi appositi, a casa sua si parlava solo dialetto (lei viene dalla Basilicata). Ci sono tantissimi nostri connazionali che a casa parlano solo e unicamente i dialetti delle loro zone di provenienza, e così i figli, magari nati in terra straniera, non sono in grado di parlare l’italiano, ma solo il dialetto di mamma e papà. Non c’è davvero nulla di così scandaloso, non se la stanno prendendo con i nostri emigranti, non c’è nessuna intenzione di schedare gli alunni, ma solo l’interesse a sapere quale sia la lingua principale parlata a casa. Sia chiaro, i nuovi quesiti per le ammissioni a scuola hanno infastidito anche alcuni britannici d’altra nazionalità, le lamentele sul web si sprecano. Ma è importante accettare che il nostro paese esporta anche italiani che all’estero, per non perdere le radici di casa, parlano solo nel loro dialetto regionale. Probabilmente il napoletano e un generico dialetto siciliano sono quelli più diffusi. Non ci trovo nulla di così scandaloso, non fosse che gli stessi britannici nello scrivere napoletan hanno commesso un errore, visto che la grafia corretta è neapolitan. Lo so che sembra incredibile, ma dobbiamo accettare che non tutti in Italia parlino l’italiano come prima lingua anche a casa, anche nel 2016. Non ci sarebbe nulla di male, difendere l’identità regionale è qualcosa a cui noi italiani teniamo molto, da sempre, non fosse che alcuni di questi genitori l’italiano se lo sono scordato da anni (se mai l’hanno saputo). Io però con gli inglesi a questo punto sono un po’ arrabbiato. Perché non hanno evidenziato anche il bolognese? Dopo le lamentele del nostro ambasciatore sembra che il governo inglese si sia scusato, alcuni usano la cosa come dimostrazione che fosse una schedatura e che l’articolo qui sopra non abbia senso. Se arrivati fin qua siete ancora di quell’opinione evidentemente non mi so spiegare bene. Resto fermamente convinto che la polemica nata su questa storia sia equivalente alla denuncia fatta dal sindaco di Amatrice contro Charlie Hebdo, un ulteriore via per farci prendere per i fondelli all’estero. La cosa che mi fa sorridere di più è che in altro contesto, pur di difendere l’ufficialità di questo o quel dialetto certi soggetti si sarebbero strappati le vesti.
Io Andrea Pasini, censurato perché dalla parte degli italiani, scrive l’11 agosto 2016 su “Il Giornale”. “E’ evidente stanno avendo la meglio i populismi, i nazionalismi. Stanno avendo la meglio quelli che dicono che per risolvere il problema bisogna creare muri, mettere fili spinati, chiuderci. Ecco questo sta succedendo. Noi è da questo pericolo che dobbiamo guardarci, non da altri. E questo pericolo noi ce lo abbiamo a casa. Ecco allora vedete è molto triste quando in Europa sento dire che non è tempo di occuparci di chi ci abita vicino, no no no, non è questo il momento, perché siamo a corto di risorse, noi dobbiamo pensare ai nostri concittadini, non alla sorte di chi ci abita vicino. MAI RICETTA FU PIÙ SBAGLIATA, MAI, MAI, MAI”. Le parole arrivano dalla bocca di Laura Boldrini, presidente della Camera in viaggio di Stato in Marocco lo scorso giugno. Questo discorso, delirante quanto traditore di questa nazione, è la giusta premessa per farvi capire cosa mi è successo. Sui miei canali social ho deciso, fedele alle mie idee, di schierarmi dalla parte del popolo italiano, di cui faccio fieramente parte. Ho un blog sul sito de Il Giornale chiamato “Avanti senza paura” perché in un momento come questo fatto di crisi, di umiliazioni, di privazioni e di sputi sul tricolore bisogna scendere in campo e non tirare indietro la gamba. Per questo le mie parole sono state censurate. In un post su Facebook, in allegato con una foto dell’Italia che riportava la dicitura “Primo Stato al mondo ad essere razzista con i propri cittadini”, ho ripreso le parole del direttore Alessandro Sallusti, in merito alla questione dell’assenza degli alti vertici nazionali ai funerali delle vittime di Dacca, affermando, senza pentirmi, che la vera discriminazione è perorata nei confronti degli italiani. Gli unici a pagare veramente, gli unici a rimetterci, gli unici a trovarsi senza nulla tra le mani, mentre la nave affonda. All’estrema funzione per i nostri concittadini barbaramente assassinati in Bangladesh, per mano degli islamici, dov’erano la Boldrini, Renzi e la Boschi? Perché non hanno dichiarato lutto nazionale? Il governo ha assassinato queste persone una seconda volta. Ed allora segnalazione su segnalazione, fatte probabilmente da un gruppo di islamisti, capaci solo di mettere al bando i propri contestatori, mentre dalla parte opposta persona dopo persona cliccava mi piace e commentava supportando le mie teorie, sono stato bloccato. Bloccato per 30 giorni da Facebook. Vi rendete conto è l’ennesima volta che mi succede un fatto del genere, ma perché Mark Zuckerberg e i suoi adepti ostracizzano la mia voce senza nemmeno controllare i post che mi vengono cancellati. Vi sembra giusto? Il tanto sbandierato articolo 21 della Costituzione, quello che recita “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, che fine ha fatto? Quando si buca l’ulcera del marcio di questa nazione, evidenziando il cancro che ci sta affossando, veniamo messi a tacere. Cercano di mettermi un bavaglio perché la mia macchina fotografia rappresenta la realtà, la loro un mondo terzomondista visto solo nelle vignette di Zerocalcare. A questo punto, ognuno di noi, deve avere il coraggio di dire ciò che pensa, con ogni strumento, sempre nel rispetto altrui, ma senza farsi intimidire e schiacciare dalla repressione. Repressione che si paventa bollando con il termine razzista chiunque non la pensi come lo status quo a capo di questo paese. La Boldrini, dal suo scranno d’oro fatto di menzogne e d’odio per la nostra patria, ci ammonisce dicendoci che è aberrante pensare prima a quelli che ci stanno vicino, che abbiamo bisogno di un nuovo piano Marshall, che abbiamo bisogno, in buona sostanza, di perdere la nostra storia pur di farci invadere. Fandonie buone solo a tappare la bocca di chi vuole ridestare questo paese. Chi ha l’interesse di mettere a tacere le mie parole, quelle di libero cittadino? Tagliare i ponti, nascondere i concetti, cercare di privare di potenza i messaggi non servirà a nulla, certi richiami non passeranno inascoltati. Mentre i media hanno crocefisso Amedeo Mancini, dandogli del fascista per essersi difeso da un aggressione, la Magistratura ci dirà la verità sui fatti non le prime pagine dell’intellighenzia di sinistra, stiamo assistendo allo sterminio di nostri concittadini per mano del terrorismo islamico. “Sono buoni, ma si sono radicalizzati” è il nuovo slogan, il nuovo mantra da recitare all’infinito, il nuovo Pokemon Go di chi gioca con le vite degli italiani. Nizza segna la fine della pace, l’inizio di una guerra che sta mettendo a dura prova l’Europa e vuole sventrarla. Ma il problema, per il sistema, sono i miei concetti, gli stessi del popolo che è stanco di subire un’immigrazione clandestina senza fine come una condanna da scontare all’infinito, che ci rende carcerieri e vittime. Il pavimento sotto i nostri piedi crolla ed avvenimenti come Mafia Capitale ce lo hanno insegnato, il business dell’importazione di schiavi in Italia rende più dello spaccio e del traffico d’armi. Ma gridare queste verità ti porta ad essere bollato, trasformandoti in un nemico del politicamente corretto. “L’antirazzismo come terrore letterario” è l’ultima fatica di Richard Millet, ed è lo specchio di questo mondo, retorico quanto finto. Politici inginocchiati fanno il volere della tolleranza, dell’accoglienza e dei farlocchi diritti umani che ci privano della nostra identità. L’Europa “sta morendo per incapacità di restare se stessa di fronte a un’immigrazione incalcolabile, incompatibile, generalmente ostile e infine distruttiva”, dunque denunciarlo diventa marchio d’infamia. Italiani tutto questo è una vergogna. Siamo, ci tengo a ribadirlo, l’unico paese al mondo capace di essere razzista con i propri cittadini. Ora basta con il razzismo anti-italiano, questa è casa nostra. Abitazioni, alberghi ed una pioggia di soldi dati ai clandestini, i rom non pagano le tasse delinquono e hanno la possibilità, pur non tirando fuori un centesimo, di usufruire gratuitamente del sistema sanitario ed il tutto grava sulle nostre spalle. Dopo gli attentati di Dacca, di Nizza e di Monaco ci vogliono mettere a tacere senza poter dire e pensare che gli islamici ci fanno paura e che dobbiamo trovare un modo per arginare le loro derive terroristiche capaci di mettere in crisi l’Europa intera. A questo punto vogliamo sapere chi finanzia la costruzione di moschee e vogliamo evitare al nostro paese di essere colpito, direttamente, da una guerra santa che si sta trasformando in un pericolo mortale per l’Occidente. Lo Stato carogna spreme il nostro sudore, i nostri sacrifici vessandoci senza darci nulla in cambio. Paghiamo e siamo costretti a restare muti, non permettetevi di fare nessuna richiesta o l’oblio e l’abbandono saranno il vostro unico futuro. Se esprimiamo il nostro parere, come nel mio caso, ci danno dei razzisti, dei discriminatori, degli ingiusti e per questo veniamo repressi come il peggiore dei criminali. Alla gogna tramite processo sommario, con modalità che ricordano quelle tanto care ai partigiani. Vogliamo parlare di casa popolari? Costruite con i soldi dei contribuenti di questo paese vengono occupate illegalmente dagli immigrati, spesso senza regolare permesso di soggiorno, mentre moltissimi nostri concittadini rimangono a dormire in auto o peggio su di una panchina perché il governo si gira dall’altra parte. Seguire l’iter burocratico non porta a nulla, le liste d’attesa parlano straniero ed essere nati da Bolzano a Palermo diventa un requisito negativo per l’assegnazione di alloggi popolari. Dobbiamo tacere perché gli immigrati sono poveri, arrivano da una guerra, sono scappati dal lato oscuro del globo. Non importa nemmeno se quando li aiutiamo ci sputano in faccia dicendo che il nostro cibo è spazzatura, quando si lamentano delle sistemazioni ricevute, quando chiedono più soldi, quando vogliono internet e Wi-Fi oppure quando arrivano a scontrasi, anche fisicamente, con le forze dell’ordine che cercano di riportare la calma a fronte delle loro proteste. Noi dobbiamo fare silenzio. Per non parlare dei rom, definiti una comunità disagiata che va aiutata ad integrarsi a fronte della volontà di voler continuare con le loro abitudini, sbeffeggiandoci, tanto i conti li paga Pantalone. L’Agenzia delle Entrate sempre ligia a controllare i nostri conti in banca e le nostre attività commerciali ha mai fatto un controllo fiscale a queste persone? Sono intollerante anche se chiedo un accertamento a chi vive come un parassita? E’ ora di finirla. Mi sono stancato di tutto questo e siccome ho sempre regolarmente pagato le tasse e rispettato la legge, mi prendo la libertà di dire che mi sono rotto le palle davanti a tutto questo schifo. Questa, lo grido con tutto il fiato che ho, è ancora la nostra terra e se difendere gli italiani, che ogni giorno subiscono le peggiori angherie, vuol dire essere razzista chiamatemi pure razzista. Per me sarà solamente un grande onore.
Come funziona l'invidia (e perché in fondo è utile), scrive Giovanni Camardo il 26 dicembre 2015 su Focus. Tutti la provano, nessuno la confessa. Perché è dolorosa per sé e pericolosa per gli altri. Ma è anche utile: ci avverte che abbiamo perso un confronto, dandoci la spinta a migliorare. Perché lei sì e io no? Si prova astio per chi possiede qualità che si vorrebbero avere: come bellezza e gioventù, in questa foto. L’invidia nasce da un confronto sociale perdente, spesso con una persona simile a sé, in un settore che è rilevante per la persona: per esempio, tra donne, sul campo dell’avvenenza. L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. Si sperimenta quando un altro ha qualcosa che noi vorremmo: oggetti, posizione sociale, o qualità come la bellezza o il successo in amore. È la sofferenza dovuta a un confronto perdente con qualcuno, in un campo che è importante per la persona. Può essere un’emozione, cioè la “stretta” provata quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, o diventare un sentimento duraturo: uno stato di malessere e inadeguatezza, con malevolenza verso la persona invidiata. Tutti la provano, per ciò che sta loro a cuore. «Dai ragazzi, verso il compagno che prende voti migliori o è fidanzato, agli anziani: in una ricerca condotta nelle case di riposo vari ospiti hanno confessato di invidiare chi riceve più visite da figli e nipoti» spiegava Valentina D’Urso, già docente di psicologia generale all’Università di Padova e autrice di Psicologia della gelosia e dell’invidia. Se tutti la provano, quasi nessuno la confessa. Si può ammettere di farsi prendere dall’ira, di crogiolarsi nella pigrizia o di soffrire per gelosia, ma di essere rosi dall’invidia no. «È l’emozione negativa più rifiutata. Perché ha in sé due elementi disonorevoli: l’ammissione diessere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro senza gareggiare a viso aperto ma in modo subdolo, considerato meschino» scriveva D’Urso sul suo libro. Sophia Loren non aveva davvero nulla da invidiare… ma ha comunque lanciato un’occhiata “valutativa” al décolleté di Jayne Mansfield, in un ristorante di Beverly Hills (Usa) nel 1958. L’invidia infatti spesso è caratterizzata dall’ostilità nascosta verso l’altro, dal desiderio di danneggiarlo – magari dietro le spalle con commenti denigratori – e di privarlo di ciò che lo rende... invidiabile. Tradizionalmente si teme proprio lo sguardo malevolo dell’invidioso: non a caso la parola latina invidia, rimasta uguale, ha la stessa radice di videre, vedere. Dante, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite da fil di ferro: così sono chiusi gli occhi che invidiarono e gioirono dalla vista dei mali altrui. Anche un’altra caratteristica dell’invidia la rende difficile da ammettere, persino a se stessi. Si prova soprattutto per chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Per una donna è bruciante il confronto con la conoscente bella e corteggiata, più che quello astratto e “sproporzionato” con una top model; si invidia il collega che è stato promosso, non il direttore generale. Così bersaglio d’invidia spesso diventano persone che ci sono vicine e a cui vogliamo bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli: l’uguaglianza di opportunità rende doloroso l’essere inferiori rispetto ai successi di un fratello o una sorella, in un campo importante per sé. In più, l’invidia per le preferenze fatte dai genitori – come nel racconto biblico di Giuseppe, prediletto dal padre e venduto dai fratelli – si può mescolare alla gelosia per l’affetto dei genitori, che si teme di perdere. Lui ha la coppa, e io? È doloroso sentirsi inferiori rispetto ai successi di un fratello. Chi è invidioso, quindi, lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile per il tuo successo e potrei anche farti del male. Così come Caino uccise Abele, i cui sacrifici erano più graditi da Dio. Basti pensare a un esperimento condotto da Andrew Oswald, della University of Warwick (Gb), e Daniel Zizzo, della University of East Anglia (Gb): i partecipanti, con un gioco al computer, ottenevano differenti somme di denaro e bonus casuali. Poi avevano la possibilità di bruciare i guadagni degli altri, visibili sullo schermo, restando anonimi ma sacrificando parte delle loro vincite. E il 62% dei giocatori lo hanno fatto, pagando fino a 25 centesimi per ogni euro bruciato, cioè perdendo soldi pur di annichilire la ricchezza altrui. Per invidia e risentimento verso guadagni ingiusti. Non solo gli svantaggiati colpivano i più ricchi e avvantaggiati dai bonus: i ricchi, sapendo che sarebbero stati bruciati, colpivano tutti per rappresaglia... Dal test è emerso, dicono gli autori, “il lato oscuro della natura umana”. «Ecco perché l’invidia è messa al bando e condannata dalla società: implica ostilità ed è socialmente distruttiva, perché la persona invidiosa è potenzialmente pericolosa. Non solo: minaccia lo status quo e mette in dubbio la legittimità della distribuzione delle risorse, stabilita dal Creatore. Non stupisce che nella cultura cristiana sia uno dei 7 vizi capitali» aggiunge Richard Smith, psicologo della University of Kentucky (Usa) che studia i meccanismi dell’invidia. L’invidia è velenosa anche per chi la vive. «È spiacevole. Si provano senso di inadeguatezza e inferiorità. Si ha la sensazione che il vantaggio dell’altro non sia meritato, con frustrazione, perché si pensa di non riuscire a ottenere la stessa cosa. Inoltre chi tende a essere invidioso rischia, invece di apprezzare le proprie abilità in senso assoluto, di valutarle solo se confrontate con quelle di altri che appaiono migliori: questo diminuisce l’auto-valutazione» dice Smith. L’invidia è dolorosa, insomma, come ha mostrato uno studio condotto da un team di scienziati giapponesi. Che hanno analizzato con la risonanza magnetica funzionale cosa accadeva nel cervello dei partecipanti, a cui veniva chiesto di immedesimarsi in situazioni con diversi personaggi. Di fronte a quelli simili a loro, ma più brillanti su aspetti per loro rilevanti, scattava l’invidia. E nel loro cervello aumentava l’attivazione della corteccia cingolata anteriore dorsale: tanto maggiore quanto più intensa era l’invidia che il partecipante diceva di provare. «La corteccia cingolata anteriore dorsale è legata all’elaborazione del dolore fisico o sociale» spiega Hidehiko Takahashi del giapponese National institute of radiological sciences, che ha guidato la ricerca. L’attivazione in questa regione cerebrale si ha per esempio in risposta a un dolore sociale, come il senso di esclusione. E può quindi riflettere la caratteristica dolorosa di un’emozione legata al confronto sociale come l’invidia, con la sensazione di essere esclusi da un campo per sé rilevante. Dolorosa per sé, potenzialmente pericolosa per gli altri. Perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è come la paura, che è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un campanello d’allarme: ci avverte velocemente che siamo perdenti nel confronto sociale. «Essere in una posizione inferiore è svantaggioso, quindi un’emozione che segnala questo stato e ci dovrebbe spingere a uscirne deve essere spiacevole» puntualizza Smith. Secondo David Buss della University of Texas (Usa) e Sarah Hill della Texas Christian University, è un’emozione sviluppata come “sostegno” nella competizione per le risorse (cibo, partner ecc.). Secondo gli studiosi, conta la posizione all’interno del gruppo riguardo a quantità di risorse e capacità di ottenerle: per questo gli esseri umani hanno sviluppato un’attenzione particolare a giudicare tutto in termini di confronto sociale. Per la soddisfazione non conta solo quanto si ha, ma se questo è più o meno di quanto hanno gli altri con cui ci si rapporta. Anche nel mondo animale non fa piacere vedere che i vicini gustano l’uva e noi no… Lo hanno mostrato esperimenti condotti sulle scimmie. Un gruppo di cebi dai cornetti sono stati addestrati a svolgere un compito – mettere pietre nelle mani del ricercatore – ricevendo in premio pezzi di cetriolo. Le scimmie, a coppie, potevano vedersi. Quando a una i ricercatori cominciavano a offrire uva, un cibo preferito, l’altra svolgeva meno velocemente il compito, si agitava, a volte scagliava via pietre e cetrioli: mostrando un’emozione simile all’invidia. Le scimmie, ricevendo una ricompensa minore per lo stesso compito, hanno reagito negativamente alla mancanza di equità. Questa reazione è stata rilevata anche nei cani che mostravano segni di tensione e non davano la zampa al ricercatore senza ricevere nulla in cambio, se vedevano che il compagno era invece premiato con una salsiccia per la stessa azione. E l’invidia è il meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Nel corso dell’evoluzione si sarebbe rivelata un beneficio: gli individui invidiosi che giudicavano il loro successo sulla base della posizione rispetto ai rivali avrebbero investito più sforzi per raggiungere status e risorse; i meno attenti sarebbero rimasti indietro, sfavoriti nella selezione naturale. Per Buss e Hill è normale che si invidino le persone vicine, amici o fratelli: confronto e competizione avvenivano nei piccoli gruppi in cui un tempo vivevano gli uomini. Anche alcuni comportamenti hanno una funzione precisa. Come il non ammettere l’invidia: non si rende evidente al gruppo la propria posizione inferiore e si è più credibili nelle strategie nascoste di attacco mirate a diminuire lo status del rivale. Una di queste è parlarne male: chi ascolterebbe qualcuno che “parla solo per invidia”? «Questa emozione è una chiamata all’azione. O si cercano modi per “abbassare” una persona (è il caso dell’invidia “maligna”) o si lavora duro per alzarsi al suo livello (ed è quello che accade con una seconda forma di invidia, quella benigna, priva di sentimenti ostili)» dice Smith. «L’invidia può essere benigna quando porta all’emulazione: in questo caso canalizza le energie per cercare di avere un bene o il riconoscimento che è stato dato agli altri. Insomma, è una spinta a metterci in moto: così facciamo appello alle nostre capacità per raggiungere un traguardo. Possono spingere all’emulazione i modelli di persone “invidiabili” (per esempio quelli proposti dalla società, come sportivi o personaggi dello spettacolo) per cui si prova ammirazione, desiderando di essere come loro. E ci sono in fondo casi in cui la competizione è legittima, come nello sport: chi arriva secondo potrà invidiare chi l’ha superato, ma si allenerà per superarlo alla gara successiva» dice D’Urso. Se l’invidia segnala uno svantaggio, impegnarsi per recuperare è la migliore strategia per non rodersi (vedi anche come superare l'invidia). Non solo. Questa spinta all’emulazione fa sì che l’invidia sia una delle basi… della società dei consumi: porta a desiderare i beni degli altri e a comprarli. Susan Matt, storica della Weber State University (Usa), sostiene che ai primi del ’900, nella società americana, l’invidia per i consumi che si potevano permettere i ricchi è stata “sdoganata”: prima condannata, poi incoraggiata come legittima aspirazione della classe media e popolare, a cui erano ormai a disposizione i beni della produzione di massa. Nell’“invidia del consumatore” non si arriva alla malevolenza verso l’altro, ma all’acquisto di una borsa firmata o di uno smartphone. E il marketing alimenta l’invidia. I beni di consumo d’élite si basano sul fatto che sono esclusivi e chi li possiede è invidiato: e questa, contrariamente all’essere invidioso, è una caratteristica ambita. In fondo dire “Ti invidio per…” è un’espressione di ammirazione: ammessa, perché non si prova davvero questa emozione. La brillante carriera di un invidiato rivale si è interrotta? Si prova “schadenfreude”, il piacere maligno davanti alle disgrazie altrui. Ma all’invidia è collegato anche un piacere. Maligno, certo: è chiamato schadenfreude, ovvero la soddisfazione davanti alle disgrazie altrui. Se la crisi stronca un brillante rivale, se l’affascinante conoscente ha un problema... si può provare schadenfreude. Richard Smith ha condotto diversi esperimenti in cui agli studenti partecipanti erano presentate storie di ragazzi normali oppure brillanti e vincenti: all’invidia scatenata verso questi ultimi si accompagnava poi la soddisfazione nel sapere che avevano avuto problemi. «Il legame era già stato evidenziato da pensatori come Aristotele (384-322 a. C.) o Spinoza (1632-1677)» sottolinea Smith. «L’invidia non è divertente, a meno che la sfortuna (dell’altro) giochi a nostro favore: se la persona che ci ha superato nel confronto sociale ha un problema, ora deve scendere un gradino. E questo ci dà soddisfazione». Anche questo maligno piacere è stato analizzato a livello cerebrale dallo studio giapponese guidato da Hidehiko Takahashi. Di fronte alle sfortune capitate ai personaggi invidiati, i partecipanti provavano schadenfreude: a questo corrispondeva una maggiore attivazione dello striato ventrale, area legata al “circuito della ricompensa” del cervello. Si prova, cioè, un autentico piacere. Come mai? La sfortuna della persona vincente la “abbassa” e c’è quindi un riequilibrio delle posizioni. «Lo svantaggio dell’altro è vantaggio per sé nel terreno della competizione sociale; l’inferiorità e la sua sgradevolezza possono così trasformarsi in superiorità e soddisfazione. Il dolore dell’invidia si riduce e si ha una sensazione piacevole. Infine si placa il senso di ingiustizia che spesso è parte dell’invidia: la sfortuna sembra meritata» spiega Smith. Scatenano schadenfreude anche l’antipatia o il fatto che l’altro abbia meritato il castigo, per esempio finendo nei guai per un comportamento che condannava ipocritamente. E anche situazioni di rivalità tra gruppi, dove una perdita per gli altri è un guadagno per sé: le ricerche hanno evidenziato questa soddisfazione nei tifosi di calcio, per sconfitte della squadra rivale. Uno degli studi di Richard Smith l’ha messa in luce nella politica: «Si prova schadenfreude per i problemi in cui inciampano i politici dei partiti rivali, dagli scandali sessuali alle gaffe. Tuttavia, soprattutto nelle campagne elettorali, si sperimenta soddisfazione anche per eventi che possono avere un peso per la sconfitta dell’avversario, benché si tratti di notizie negative per tutti: per esempio, cattivi risultati economici. Abbiamo rilevato schadenfreude soprattutto nei più coinvolti sostenitori di un partito, pur mescolato alla consapevolezza che i fatti fossero in sé negativi».
I sintomi dell’invidia, scrive Cristiana Milla il 27 dicembre 2015. Quali sono i sintomi dell’invidia? E come si esprimono? Proviamo ad individuarne alcuni aspetti. Chi non è stato invidioso nella sua vita almeno una volta? In certi momenti di più, in altri di meno, noi tutti siamo stati invidiosi o magari lo siamo ancora oggi. A volte l’invidia non è soltanto verso una persona in particolare, ma diventa una invidia diffusa, verso tutti coloro a cui le cose vanno particolarmente bene, che sia in ambito lavorativo o affettivo o altro. Cos’è l’invidia? L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva. Per cercare di proteggere il nostro valore, svalutiamo il modello abbassandolo al nostro piano, invece che rinunciare alle nostre mete diventando indifferenti. L’invidia è quindi un tentativo di scacciare lo stimolo svalutando l’oggetto, la meta, il modello. Desiderare e giudicare diventano allora le fonti dell’invidia. Dal punto di vista psicologico l’invidia è anche un modo di guardare gli altri, possiamo definirlo un tratto di personalità. Infatti l’invidioso non si limita ad osservare con occhio ostile il suo collega di lavoro, guarda con la stessa modalità anche il vicino di casa, il compagno di sport, l’amico con cui va in vacanza, il fortunato che ha vinto la lotteria, etc. Potremmo addirittura tracciare un profilo di personalità del soggetto invidioso, facendola rientrare nelle tipologie psicologiche. I sintomi dell’invidia. Proviamo allora ad evidenziare alcuni sintomi della presenza dell’invidia quando padroneggia in qualche modo la personalità di un individuo e conferisce un carattere distintivo al suo modo di essere, di pensare, di comportarsi, etc. Proviamo a riconoscere questi sintomi dell’invidia negli altri, e perché no, anche in noi stessi. La malignità. L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”, partendo talvolta da una semplice battuta o un gesto. Naturalmente una volta avviato il pettegolezzo, c’è sempre qualcuno che si associa, che vuole aggiungere la sua critica, producendo una reazione a catena fin a che la persona in oggetto non viene fatta letteralmente “a pezzi”, derisa, svalutata. Il giudizio. L’invidioso, per opporsi all’ingiustizia universale attacca e svaluta chi è più fortunato, chi è più felice, chi è più forte, chi è più dotato. Nel nome della giustizia si tramuta in un demolitore di tutto ciò che emerge dalle infinite differenze individuali e dalle infinite circostanze della vita. In questo modo l’invidioso troverà sempre una zona buia dell’essere su cui scagliarsi, travestito da giudice e bramoso di vendetta. La critica. Le persone invidiose solitamente non si prodigano, non si impegnano, anzi spesso restano ad osservare chi si dà da fare come meri osservatori. La loro attenzione è rivolta piuttosto a trovare il difetto, il punto debole di chi stanno osservando e a individuare un suo eventuale errore. Poi, nel momento meno appropriato, scagliano le loro critiche, svalutando la loro vittima. Quest’ultima, invece di reagire, rimane basita, turbata, perché non se l’aspettava. Anzi tenta di giustificarsi, di far comprendere le sue intenzione, ma l’altro, l’invidioso, risponde con altri dubbi e critiche, senza nessuna intenzione di volerlo capire, perché il suo obiettivo è invece quello di dimostrargli che non vale, di insinuargli il dubbio e di apparire ai suoi occhi come persona forte e autorevole. Chi sono quindi solitamente le vittime preferite di questi soggetti invidiosi? Tutte quelle persone attive, che si spendono, che si prodigano per gli altri e le persone che hanno progetti da realizzare. Il pessimismo. Ottimismo e pessimismo non sono soltanto due atteggiamenti verso le difficoltà della vita, possono anche essere due modalità diverse di mettersi in relazione con se stessi e con gli altri esseri umani. Il pessimista ha una visione negativa del futuro. Dagli uomini si aspetta di solito il peggio, e delle gente in generale non ci si deve fidare e non merita il suo aiuto. Se per esempio raccontate un vostro progetto ad un pessimista, lui in brevissimo tempo vi mostrerà tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà a cui andrete sicuramente incontro e che, una volta raggiunto l’obiettivo, non avrete che delusioni e frustrazioni. Vi farà alla fine sentire negativi e svuotati. Il pessimista ha infatti uno straordinario potere di contagio. Il vittimismo. L’invidia non si esprime solo attraverso l’aggressività, la svalutazione degli altri, ma anche in maniera opposta attraverso l’autocommiserazione, il lamento, il vittimismo. Solitamente infatti quando ascoltiamo una persona lamentarsi, descrivere i soprusi che ha subito, gli ostacoli che ha incontrato, tutte le disgrazie che le hanno impedito di raggiungere i suoi obiettivi, non pensiamo all’invidia. Anzi, partecipiamo alla sua sofferenza e la compatiamo per non aver potuto realizzare ciò che la vita le aveva promesso. Chi si autocommisera in questo modo è convinto di essere trattato ingiustamente dal mondo che, invece, è stato molto generoso con tutti gli altri. Se le ascoltiamo con attenzione queste persone lamentose sono in realtà profondamente passive, stanno a guardare, non agiscono. Non affrontano la vita, non si buttano, non rischiano. Spesso vorrebbero che fossero gli altri a darsi da fare al posto loro, a risolvergli i problemi. Cristiana Milla, psicologa e psicoterapeuta.
Le «due scuole italiane» e la forbice del divario che si allarga. Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga? Afferma Gian Antonio Stella l'11 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953) è un giornalista e scrittore italiano. È nato ad Asolo (TV), dove il padre insegnava, da una famiglia originaria di Asiago. Ha vissuto a Vicenza dove ha frequentato il Liceo ginnasio Antonio Pigafetta. «Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi». Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi. Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª…Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.
Povera scuola italiana, ormai è un diplomificio. Maturità, passa il 99,5% degli studenti. Non esiste più selezione. Un danno per i giovani, scrive Mario Margiocco su "Lettera 43" l'11 Agosto 2016. Nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71 («Il Secolo XIX», «Panorama», «Italia Oggi»), dal 1992 al 2010 ha lavorato al «Sole 24 Ore». Corrispondente da Bruxelles e dalla Germania, ha seguito dagli Stati Uniti il crac finanziario e le elezioni presidenziali. Puntuali come le stelle di S.Lorenzo, arrivano tutti gli anni i risultati degli esami di Stato di fine ciclo della scuola media superiore di ogni tipo. E come sempre anche quest’anno in Italia è un trionfo. Anzi, nel 2016 un record: promosso il 99,5% degli ammessi agli esami. In Francia i promossi all’equivalente Bac, compresi quelli che hanno superato l’immediata prova orale di recupero dopo aver fallito la prova principale, sono stati nel 2016 l’88,5% dei candidati, una cifra simile a quella che era una volta la percentuale totale dei promossi anche in Italia. Poiché occorre tenere conto anche dell’ammissione all’esame, quest’anno rifiutata in Italia al 4% degli studenti che non si capisce come siano arrivati all’ultimo anno se ritenuti alla fine incapaci di potersi presentare all’esame, siamo a un soffio dalla promozione totale. La logica è chiara: si nega l’ammissione a quelli che sarebbero proprio un’onta per il corpo docente, e si promuovono tutti gli altri, salvo qualcuno rarissimo che ha proprio sbagliato tutto, magari perché in giornate “no”. Ma perché allora non si risparmiano i soldi necessari per gli esami e non si dichiara la promozione di tutti gli idonei al titolo secondo i docenti dell’istituto di origine? Perché la legge prevede un esame di Stato. Ma che credibilità ha un esame di Stato che promuove tutti? Il confronto con la Francia è micidiale. O la loro è una scuola di aguzzini, o la nostra un inattendibile diplomificio. In certe aree ben più che altrove. In genere chi ha fatto, e i più giovani sono oltre i 60, gli esami di una volta sia ai Licei che agli Istituti se nel sonno sogna ancora un esame scolastico, ed è un incubo, non è in genere un esame universitario, ma quello di maturità. Era, nella calura di luglio e agosto, un tormento, una prova di nervi. E restava sul terreno tra rimandati e bocciati un terzo circa degli studenti. Di questi, un 30% recuperava a ottobre, dopo essersi rovinata l’estate. Poi gradatamente tutto è diventato meno impegnativo e ora lo è assai meno. Bene, non è successo solo in Italia. Da noi però si è andati oltre il lecito e comprensibile, perché solo in Italia l’idea di una selezione che sarebbe in sé “antidemocratica”, quindi da rifiutare in blocco come concetto pedagogico classista, ha fatto breccia anche fra molti insegnanti. Che non a caso si sono formati, i più anziani ormai in pensione ma che hanno in tutti i sensi “fatto scuola”, in un periodo ben preciso della scuola e delle università italiane. L'inizio del declino con i movimenti studenteschi del 1968. Chi ha frequentato l’università, grossomodo, nel decennio 65-75 ricorderà benissimo la forte pressione di gruppi studenteschi organizzati contro la selezione e per la sostituzione di esami difficili con esami facili, per l’abolizione degli scritti, degli esami di lingua straniera dove non si poteva non tradurre decentemente alcune frasette, per iscritto, e via andare. Il danno, nelle facoltà umanistiche in genere perché in quelle tecnico-scientifiche era meno facile declassare il curriculum, è stato enorme. C’era molto da svecchiare, ma in nome della qualità, non della banalità. Vari dubbi sulla serietà del cosiddetto movimento studentesco del 68 – e dei suoi alleati e facilitatori sul fronte politico e sociale - sono incominciati così, osservando la voluta banalizzazione dei corsi di studio. Poi l’ondata ha raggiunto Licei e Istituti di vario genere. E ormai è endemica, e da anni. Tutto questo, si fa finta di ignorare da più parti, arreca grave danno agli alunni di origini modeste, tenuti agli studi con sacrificio personale e della famiglia, che hanno più di altri bisogno di un diploma valido e credibile, non solo perché è di Stato. Investono molto, è irresponsabile consegnargli alla fine un pezzo di carta svalutato. Un discorso particolare, anche quest’anno, meritano i 100 e lode in alcune regioni meridionali. Le prime regioni per numero assoluto di 100 e lode sono del Sud, anche se il Sud non brilla nelle prove internazionali, tipo Ocse e altre, di abilità scolastica degli studenti nelle varie materie. Le lodi sono 934 e in forte aumento sul 2015 in Puglia, (in aumento quasi ovunque, soprattutto al Sud, ma non sempre, è giusto rilevare), che ha meno degli abitanti del Piemonte ma cinque volte più lodati. Va detto che si distinguono, per serietà a parere di chi scrive, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna, che se avessero in rapporto alla popolazione gli stessi lodati della Calabria dovrebbero triplicare e oltre i propri. Se la Puglia avesse sulla popolazione gli stessi 100 e lode della Basilicata, ne avrebbe un terzo. Basilicata e la provincia autonoma di Trento, che ha un ottavo degli abitanti della Puglia ma solo un 45mo dei suoi 110 e lode, sono le uniche due realtà dove il massimo voto è meno frequente che nel 2015. Sulla scuola nel Sud Italia scrisse pagine memorabili un secolo fa e oltre Gaetano Salvemini, da Molfetta, uno degli uomini migliori, più onesti, generosi e brillanti, del 900 italiano. La pletora di voti massimi lascia il sospetto che l’analisi di Salvemini non sia del tutto superata, nonostante il molto tempo trascorso. L'intellettuale amava e difendeva la piccola gente del Meridione, allora braccianti per lo più analfabeti, e fece molto per loro. Non amava la media e piccola borghesia meridionale, a caccia di diplomi per assicurarsi il “posto” e continuare a primeggiare sulla piccola gente. E, ancora nel 1955, rieditando vecchi scritti sulla scuola, ripeteva una tesi a lui cara, avendo osservato la ricchezza che gli insegnanti estranei alla mentalità compromissoria locale avevano sempre seminato: inviare nel Sud per cinque anni, a stipendio maggiorato, i vincitori dei concorsi a cattedre del Nord, per spezzare il peso di quella piccola borghesia sul sistema scolastico meridionale. Non è successo proprio così. I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario. Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: «I nostri studenti sono davvero bravi». Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.
Tra premi dimezzati ed eccellenze al Sud: ecco quanto vale davvero il 100 e lode, scrive TGCom 24 il 3 giugno 2016. In nove anni il bonus del Ministero dell’Istruzione per chi supera col massimo la Maturità si è praticamente dimezzato. Ma è polemica per la maggiore diffusione dei super diplomati al Sud. Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente. Lo scrive Skuola.net. Siamo nell’ormai lontano 2007 quando l’ex ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, pensa che i super diplomati meritino un premio, un incentivo a continuare così, e la legge che lo stabilisce è la n.1 dell’11 gennaio di quell’anno. I diplomati con 100 e lode del 2007 sono quindi i primi a beneficiare di un premio che di ben 1000 euro, ma che con gli anni è stato non poco ridimensionato. Chi ha ottenuto il massimo dei voti nel 2010, solo tre anni dopo ha visto ridurre l’assegno a poco più della metà, 600 euro per la precisione. L’anno successivo nasce Io Merito, il programma nazionale di valorizzazione delle eccellenze del Ministero, grazie al quale gli studenti che hanno conseguito la votazione di 100 e lode all'esame di Stato sono inseriti nell'Albo Nazionale delle Eccellenze, insieme a tutti gli altri che si sono distinti in competizioni e progetti internazionali. Ogni anno, in base ai fondi disponibili e al numero di beneficiari acclarato, il Miur stabilisce quanto denaro erogare ai ragazzi iscritti a questo registro. Quindi la torta va spartita in un numero di parti maggiore. Nel 2011, come l’anno precedente, il bonus corrisponde a 500 euro. Un po’ meglio va ai super diplomati 2012 che ricevano un bonus di 650 euro per il sudore versato sui libri, ma nel 2013 si torna ai più morigerati 500 euro. Il minimo storico si tocca nell’ultimo biennio, dove ai genietti vanno 450 euro. Una riduzione del premio che negli ultimi anni è stata accompagnata da un giro di vite sulla concessione del 100 e lode. Alla Maturità 2012 per ottenere la lode bisognava raggiungere 100 punti senza l’aiutino dei crediti bonus (fino a 5) e una media voti superiore a 9 dal terzo in poi. Tuttavia in termini percentuali i super diplomati non sono cambiati drammaticamente: se nel 2007 erano lo 0,7%, nel 2009 erano lo 0,9%, nel 2012 lo 0,6% per poi ritornare lo 0,9 % nel 2015, ovvero 3896 persone per dare una idea delle cifre in ballo. Non sono nemmeno cessate le polemiche, che vedevano le regioni del Sud, mediamente più prodighe nell’elargire il massimo della votazione rispetto alle altre. Alla maturità 2015, Puglia, Campania e Sicilia sono state le tre Regioni con il più alto numero di 100 e lode in termini assoluti: 788 solo nella prima. I detrattori del 100 lode facevano notare che si trattava degli stessi studenti (in termini di campione statistico) che all’epoca della prova Invalsi di seconda superiore del 2011/2012 hanno contribuito a far ottenere risultati sotto la media alle regioni del Meridione. In ogni caso i genietti del 2016 possono consolarsi con le agevolazioni che troveranno se, caso mai, volessero frequentare l’università. Sono diverse, infatti, quelle che prevedono qualche bonus per chi si diploma con il massimo dei voti. A Bologna e alla Statale di Milano l’anno prossimo l’esonero dalle tasse è totale. Alla Sapienza di Roma, i super diplomati sono esentati dal pagamento della prima rata universitaria, mentre all’Università di Padova hanno un esonero parziale dalle tasse. Un po’ peggio va a chi vuole immatricolarsi all’Università di Palermo dove al massimo si ottiene un rimborso della quota versata per sostenere il test d’ingresso del corso di studi scelti. Ma quali sono questi corsi di studio in cui si riversano poi i 100 e lode? Stando ai dati riportati dal Focus sugli immatricolati 2015/2016 del Ministero dell’Istruzione, il 25% circa dei diplomati con il punteggio massimo all’università sceglie l’area di Ingegneria, seguito poi dal 15% di chi opta per quella Medica. Al terzo posto, ex aequo, ci sono poi l’area Scientifica e quella Economico – statistica scelta, in entrambi i casi, dall11% circa di 100 e lode 2015.
Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.
Prove Invalsi – Ocse ed Esame di Maturità con lode: c’è chi fa, volutamente, confusione per instillare, ancora una volta, malsane stille di razzismo. Si fa confondere l’oggettivo con il soggettivo.
Quando il nord vuol sempre primeggiare e quando i dati vengono analizzati dalle opinioni risibili e partigiane degli opinionisti settentrionali.
Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, alla luce dei risultati scolastici degli studenti italiani diffusi l’11 agosto 2016 dal ministero dell'Istruzione, solleva il problema delle modalità di valutazione degli studenti nelle scuole italiane, scrive “L’Ansa" il 12 agosto 2016. «E' evidente che c'è qualcosa che non funziona nella scuola italiana e nei suoi sistemi di valutazione - accusa - se i ragazzi del Nordest, in testa alle classifiche Ocse e Invalsi per preparazione, poi risultano all'ottavo posto nelle statistiche dei "cento e lode" alla maturità». Da qui l'appello al ministro: «convochi al più presto una commissione ministeriale di esperti, riattivi sistemi di verifica su campioni omogenei di scuole e di studenti». E' un leghista e per tale va trattato.
Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi (Bertrand Russell)
L’ignorante parla a vanvera. L’intelligente parla poco. ‘O fesso parla sempre (Totò)
Maturità: 100 e lode al Sud, governatori del Nord in rivolta, scrive Tiziana De Giorgio nel suo articolo pubblicato il 13 agosto “La Repubblica”. Exploit di diplomi col massimo dei voti in Puglia e Campania, che da sole superano Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Ma i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi. Si riaccende così il dibattito sulle divergenze nei parametri di valutazione. Solo Toti si smarca: “Complimenti ai ragazzi di un Sud che vuole ripartire da merito e impegno”.
In Veneto è stata bollata come “un’emergenza”. Con la Regione guidata dalla Lega che parla di giovani del Nord-Est ingiustamente penalizzati. E che lancia un appello al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: si invocano controlli a campione sugli alunni, ispezioni a sorpresa negli istituti di tutta Italia, commissioni ministeriali formate da esperti che possano in qualche modo garantire uniformità, quando vengono assegnanti i voti in classe. In Piemonte, è l’assessore all’Istruzione del Pd, Gianna Pentenero, a chiedere un cambio di rotta: “Non ne faccio una questione Nord e Sud – precisa -, ma non si può non ammettere che c’è una divergenza evidente tra i parametri di valutazione”. I risultati della maturità pubblicati nei giorni scorsi dal ministero – che mostrano un profondo squilibrio fra le regioni del Nord e quelle del Sud nella distribuzione dei voti più alti – entrano nel dibattito politico. E sono in tanti, dal Piemonte all’Emilia Romagna, dal Veneto alla Lombardia, a chiedere in maniera trasversale una riflessione. “Servirebbe, per esempio, che i test Invalsi diventassero un elemento comune da cui partire per rivedere i criteri di valutazione su base comune – prosegue Pentenero – così da non svantaggiare gli studenti che devono far valere quei voti per l’accesso nelle università”. Perché è questo uno degli aspetti che ha riacceso il grande dibattito sulla valutazione. E sull’Italia a diverse velocità in tema di scuola: da un lato, l’exploit di diplomi da 100 e lode in regioni come Puglia e Campania, che da sole superano quelli di Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Dall’altro i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi, sugli studenti di seconda superiore, che capovolgono la piramide e vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi rispetto a quelli del Sud. In Emilia Romagna, l’assessore alla Scuola, Patrizio Bianchi, parla di un esame di maturità “poco affidabile” rispetto a meccanismi di valutazione più standardizzati come l’Ocse. E invita tutti a non prendere il punteggio dell’esame finale come metro di valutazione del livello delle strutture scolastiche o della preparazione degli studenti. “Questi dati non sono certo una novità – commenta invece il governatore della Lombardia, Roberto Maroni – ma sorprendono sempre. E rispetto a quelli rilasciati dall’Invalsi stridono”. Fuori dal coro, invece, il forzista Giovanni Toti, presidente della Liguria: “È sempre difficile fare questo genere di classifiche – spiega – perché cambiano le sensibilità e i contesti da regione a regione”. Quindi, sui voti dei neodiplomati, preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno: “Faccio i complimenti ai ragazzi del Sud. Spero siano il simbolo di un Sud che ha voglia di ripartire sul merito e l’impegno”.
L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva.
Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.
Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?
Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.
"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»
Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?
«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.
Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.
Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.
A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!
A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.
Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.
"I brianzoli? Dei foruncolosi m...": la vergogna di Roberto Vecchioni, scrive Tommaso Labranca il 7 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Il mondo della creatività è pieno di coppie: Gilbert & George, Cochi & Renato, Dolce & Gabbana. Roberto & Vecchioni. Quello che per anni ci è apparso come un solo individuo con sigaro e chitarra è invece un semplice guscio che contiene due personalità. L’artista degli arazzi alfabetico-geografici era ben conscio di ciò che faceva quando si scisse in Alighiero & Boetti. Roberto & Vecchioni invece fingono di ignorarsi come fanno gli inquilini di un qualunque condominio milanese. Roberto ha fatto per molti anni il professore di italiano nei licei. Con molto laissez faire, dice qualche ex allievo. Pare aspettasse sempre l’ultimo momento prima di entrare in classe, staccando a fatica gli occhi dalla Gazzetta dello Sport. Vecchioni, che fa il cantautore, racconta che la Gazzetta la leggeva il padre, uomo «non propriamente di sinistra», mentre lui, giunto all’età della ragione, iniziò a comperare l'Unità su cui, ammette con una certa autoironia, per un certo periodo scrisse di corse di cavalli. Il professore Roberto, ancora prima dei danni dell’algoritmo ministeriale, era stato trasferito in diversi istituti sparsi tra la provincia di Milano e di Brescia. Pare si fosse trovato particolarmente bene a Desenzano sul Garda al punto che pochi anni fa scese in campo per difendere attivamente la locale spiaggia Feltrinelli dall’ennesima cementificazione. Il cantautore Vecchioni della spiaggia Feltrinelli francamente se ne infischia, anche perché lui ha sempre pubblicato per Einaudi. Compreso l’ultimo libro scritto in collaborazione con il professore Roberto, La Vita che si ama - Storie di felicità. Accolto all’uscita nell’aprile del 2016 con un interesse inferiore a quello per le Pagine Bianche, il libro balza ora ai disonori delle cronache locali per una frase poco lusinghiera riservata all’esperienza vissuta dal professore a Cesano Maderno, località della Brianza profonda a poca distanza da quel Carate Brianza dove sia Roberto sia Vecchioni sono nati nel 1943. Una signora che abita sempre in zona, a Triuggio, attratta dal nome dell’autore, prende in prestito il libro dalla biblioteca. A un certo punto ecco il passaggio che le fa sgranare gli occhi: «Io venivo da Cesano Maderno, dalla diossina, da una classe di figli di operai e mobilieri che vestivano male, parlavano male, si muovevano da far schifo, non si abbronzavano mai e collezionavano foruncoli». Sarà un errore di stampa? Sarà un foglio dell’ennesimo zibaldone giovanile del supersnob Arbasino finito per sbaglio nel mémoire del compagno Roberto? No. È proprio farina del sacco del professore-cantautore che fa rotolare per strada la falce e il martello e segue il Grande Fascista Lucio Battisti deciso a «fuggire via da te Brianza velenosa». E brufolosa. Scoppia la polemica, la lettrice rende il libro alla biblioteca senza finirlo, i giornali locali tentano di contattare il cantautore Vecchioni per avere chiarimenti, ma non ricevono risposta. Ci credo. È il professor Roberto che avrebbero dovuto cercare. Lui avrebbe spiegato tutto. Avrebbe detto che quelle parole le ha scritte Vecchioni per far capire quanto odiasse la provincia italiota. Lui ha la testa piena di viaggi esotici e nei suoi dischi è partito da Samarcanda per arrivare a Malindi, con tappe a Calabuig e a Hollywood, incontrando solo vip come Velasquez e Robinson Crusoe. Tutto ciò che è locale, lombardo gli fa un po’ senso. Di San Siro ha più volte ricordato d’aver visto solo le luci dal di fuori. In una sua canzone degli esordi precisava sdegnato che Io non devo andare in via Ferrante Aporti. A dire il vero cercava di evitare anche il resto d’Italia, in particolare aveva il terrore di risvegliarsi a Messina «città che è degna d’ogni stima, ma che ci faccio io a Messina?». Già, meglio svegliarsi a Palermo per raccontare a un pubblico di studenti che la Sicilia è «un’isola di merda» come fece nel 2015. Come oggi i brianzoli, anche l’anno scorso i siciliani non la presero bene. Suvvia, amici della Trinacria. Voi che avete dato alla nazione una grande coppia come Franco & Ciccio, chiudete un occhio. E voi, sudditi monzesi che ci avete regalato Morgan & Andy dei Bluvertigo, siate pazienti. Immaginate la fatica che deve fare il professor Roberto per mettere una pezza alle mattane del cantautore Vecchioni. Come quella volta che il docente volle a tutti i costi guidare e fu fermato dalla Polizia Stradale di Desenzano che gli rilevò un tasso alcolico superiore a quello ammesso. Al suo fianco il professore continuava a giustificarlo: «Non è alcol! È che ha preso uno sciroppo per la tosse!». Risultato: patente sospesa per 15 giorni. A tutti e due. Tommaso Labranca
I giovani italiani ed i profughi: «Tolleranti, ma spaventati». L’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo. Il curatore Rosina: «Il nostro Paese mostra le sue fragilità», scrive Riccardo Bruno il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. I giovani italiani sono i primi in Europa a definirsi tolleranti e a riconoscere le diversità degli altri. Ma quando si abbandonano i principi e si diventa più concreti, ecco che spuntano timori e paure. Alla domanda — gli immigrati migliorano la vita culturale del Paese nel quale vanno a vivere? — solo 4 su dieci dicono di sì. La percentuale più bassa in Europa, per intenderci i coetanei spagnoli superano il 70%. È questa l’immagine, con chiari e molti scuri, che viene fuori dall’indagine sul «Rapporto tra immigrazione e insicurezza nei giovani europei» promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo (con il sostegno di Banca Intesa, Fondazione Cariplo e Università Cattolica di Milano). Seimila giovani tra i 18 e i 32 anni, un campione sondato da Ipsos in sei nazioni (Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Germania e Polonia) dopo il 14 luglio. Nelle risposte, dunque, anche le preoccupazioni crescenti dopo i fatti di Nizza. Le cifre, ovunque (un po’ meno in Germania), segnalano una sensibilità di fondo delle nuove generazioni a considerare le ragioni degli altri. Valori minori, ma significativi, anche nel riconoscere che l’Unione Europea ha promosso l’integrazione tra diverse culture (i giovani italiani sono i più convinti con il 64,9%). Quando le domande si fanno più stringenti — gli immigrati rendono il Paese più insicuro? — ecco che affiorano le perplessità, e il campione si spacca. Più della metà di italiani, tedeschi e francesi ritiene che la situazione è peggiorata, i polacchi arrivano quasi all’80%. «I Paesi con un alto impatto di arrivi, difficoltà politica a offrire soluzioni all’emergenza, basso livello del dibattito pubblico, sono quelli in cui prevalgono gli aspetti negativi» osserva Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica di Milano e curatore dell’indagine. La percezione dei ragazzi italiani non si discosta dai pari età europei anche quando si affronta l’apporto degli immigrati all’economia. Si allontana invece sensibilmente quando si considera la dimensione culturale. «Differenze che evidenziano la nostra fragilità — aggiunge il professor Rosina —. Da noi più che altrove mancano gli strumenti per comprendere che il mondo sta cambiando, che le nazioni che si aprono all’esterno sono quelle che cresceranno di più, creando un benessere condiviso. E le cause sono molteplici, a partire dall’inadeguatezza della scuola a promuovere le competenze interculturali, a far sentire il valore della propria identità e nello stesso tempo favorire l’interazione con gli altri». Nelle risposte dei nostri giovani pesano sicuramente anche l’esposizione diretta ai flussi migratori e una situazione economica in cui si fatica a trovare lavoro. «Non a caso i laureati hanno un atteggiamento molto più positivo rispetto a chi ha un titolo di studio più basso — prosegue Rosina —. Non solo perché si trovano in condizioni oggettive migliori e temono così meno la concorrenza degli immigrati, ma anche perché posseggono gli strumenti per capire che, al di là della congiuntura, il nostro Paese si impoverirebbe senza il contributo di tutti». L’indagine dell’Istituto Toniolo così finisce per raccontare l’apparente paradosso degli italiani, popolo accogliente eppure spaventato. Conclude Rosina: «Apprezziamo le diversità eppure aumentano le insicurezze, accogliamo i profughi per una questione umanitaria, non perché pensiamo che rappresentino una risorsa. Esattamente il contrario dei tedeschi».
Il Turista fai da te. Il Salento e l’orda dei profughi.
Arrivano in massa, senza soldi e con la litania lamentosa e diffamatoria: perché qua è diverso?
La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità.
Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo nella ricerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche.
E’ un emigrante con la seconda casa abusiva, oppure con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto.
Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo.
Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale.
Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…
Cari razzisti, siete più stupidi che cattivi, scrive "Il Dubbio" il 2 ago 2016. Odiano immigrati, islamici e zingari considerati causa di ogni male. Contro ogni logica l’accoglienza dei rifugiati è solo «un’invasione capitanata dalla Boldrini e dai buonisti». Ormai è da tempo che seguendo il dibattito sui social, mi trovo quasi sempre, per le mie opinioni, assimilato alla definizione di “buonista” o anche “finto buonista”. Che a rigor di semantica fà di me un buonista finto, quindi un non-buonista, ma lasciamo perdere visto che la logica non è la loro caratteristica. Chi sono loro? Sono i cattivisti. I destinatari degli ineffabili editoriali di Libero e della propaganda xenofoba del segretario della Lega. Una pletora di persone si erge a baluardo della civiltà occidentale scagliandosi contro l’immigrazione, l’islam, la diversità, la povertà (non intesa come problema da combattere, ma come fastidio verso chi suo malgrado ne ha a che fare) e i loro complici un po’ minchioni e inconcludenti: i buonisti. Loro i cattivisti invece, da buoni analfabeti funzionali, hanno una soluzione, per ogni male che affligge la nostra società: il carcere, la pena di morte, la ruspa, le deportaz... ehm i rimpatri, fare la guerra agli islamici giacché «non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani», che poi è un po’ come dire che «non tutti quelli che si masturbano sono stupratori, ma tutti gli stupratori si masturbano». Non comprenderanno mai che il 98% delle vittime dell’Isis e del terrorismo islamico sono persone di fede islamica, che se abbiamo la vicissitudine di vivere in un epoca in cui c’è una porzione di territorio tra i confini della Siria e dell’Iraq governato da un sedicente Califfo forse non è esente da colpe la singolare idea di esportare un po’ di sana democrazia, bombardando a dritta e a manca. Subito ti incalzeranno con un: «E allora l’undici settembre?» A nulla varrà ricordare che nessuno degli attentatori era di nazionalità irachena. E poi: «Quindi era meglio lasciare Saddam?» questo punto li esalta, poi però sono sempre i primi a magnificare l’accordo di Berlusconi con Gheddafi che «aveva fermato gli sbarchi di immigrati». A loro non interessa sapere che in Europa, secondo stime Onu, è presente solo il 10% dei sessanta milioni di rifugiati, protagonisti di quella che è la più grande emergenza in tal senso della storia dell’umanità. Contro ogni evidenza si tratterà sempre di «un’invasione capitanata dalla Boldrini alla testa degli squadroni buonisti». Non vacilleranno neanche se gli fai notare che probabilmente i loro figli a scuola hanno compagni, o figli di genitori, che non sono nati in Italia e che non hanno nessuna simpatia per i terroristi, giacché ora hanno imparato su qualche sito che riporta aforismi (pochi di loro hanno la capacità di concentrazione che superi le quattro righe) una nuova parola: la taquiyya, ovvero la possibilità nella tradizione islamica di venire meno ali obblighi religiosi, o addirittura di rinnegare esteriormente la fede. Sono troppo intelligenti per credere che la taquiyya, che per altro è una tradizione valida soprattutto tra gli sciiti che nella comunità islamica in Italia sono una sparuta minoranza, è autorizzata solo quando si trovino in pericolo o per sfuggire ad una persecuzione (cosa per altro prevista anche da più evoluti ordinamenti giuridici). Loro risponderanno che è in corso un’invasione con l’avallo del Vaticano di Papa Francesco e dei poteri forti, perché si sa: i poteri forti sono responsabili di ogni malefatta. E gli zingari? Beh, è semplicissimo: basta usare la ruspa e cacciarli al loro paese. Il fatto che molti siano Italiani? Lo risolvono facilmente: «Non esistono zingari Italiani, sono tutti delinquenti». Non avranno il minimo tentennamento neanche una volta edotti che sono, o erano, “zingari”: Antonio Banderas (origini kalé), Yul Brinner (rom da parte del nonno paterno, acquistò il titolo di presidente onorario dei rom), Michael Caine (rom romanichael), Charlie Chaplin (romanichael da parte di madre), Joaquin Cortes (kalé Spagnolo), Rita Hayworth (kalé), Elvis Presley (di padre sinto e di madre romanichael), lo scienziato e premio Nobel per la medicina August Krogh (rom). In fondo è un popolo dedito solamente all’accattonaggio, ai furti ed allo spaccio. E di certo non saranno così ingenui da credere che nel corso della storia i popoli si sono mossi, che probabilmente neanche i sanniti o i volsci saranno stati entusiasti quando furono (loro sì) invasi dai romani. Che comunque i primi a muoversi, siamo stati noi verso i loro paesi. Che i trentacinque Euro spesi al giorno per mantenere ogni migrante, loro dicono in alberghi a quattro stelle (che poi ce li vorrei vedere questi cattivisti a vivere in uno di questi “alberghi”), rappresenta un esborso infinitesimale rispetto all’evasione fiscale di questo paese. Alla fine del 2014, Il Giornale ha valutato in 55 milioni al mese il costo della «invasione degli immigrati», definizione che la dice lunga sul fatto che anche questa testata non sia buonista. Anzi, per andare sul sicuro, diciamo pure che il costo ora sia di 60 milioni al mese, con un aumento del 10% rispetto a quanto ipotizzato dallo stesso quotidiano. Un osservatore esterno come Richard Murphy, fondatore del Tax Justice Network, ha calcolato il valore dell’evasione fiscale in 145 Paesi. Per l’Italia, anno 2011, siamo a 183 miliardi di euro che, divisi in rate mensili come quelle del Giornale, fanno 15 miliardi e 250 milioni al mese. Loro sono troppo scaltri per cadere in questo ragionamento. Ricordo quando ero giovane che l’odio sociale era del tutto riservato al mondo della droga nella sue varie declinazioni. C’era chi voleva la pena di morte, ma solo per i grandi spacciatori, chi voleva invece arrestare tutti i drogati e via dicendo. Prima ancora, io non posso ricordarlo ma è comunque un dato storico, la causa di tutti i mali erano i meridionali. Ora le statistiche tendono a confermare che l’uso di droga sia rimasto più o meno stabile negli anni, e pare anche che i meridionali siano addirittura aumentati, ma loro se ne sono dimenticati perché è diminuita “l’emergenza sociale” (la visibilità), soppiantata dalle “trame delinquenziali” di tutte queste persone generalmente con la pelle colorata. Ora, cari cattivisti, lasciate che vi dica una cosa senza rancore e spinto dalla possibilità che possiate migliorarvi attraverso un sano spirito di ricerca: il mondo è più complicato di quanto crediate. Non siamo noi ad essere buonisti ed inconcludenti, siete voi ad essere ignoranti e stupidi. Più stupidi che cattivi.
DIRE “SCIMMIA” E’ PEGGIO DI DIRE “TERRONE”? Gli islamici meglio dei meridionali?
Teo Teocoli «Io litigioso? È vero, ma sono migliorato. Mio padre mi picchiava e non lavorava mai». A 71 anni («e rotti...») ammette che uscire dalla televisione l’ha fatto «incavolare». Ora si sente più libero e sincero. «Non ho mai saputo confrontarmi serenamente con gli altri», scrive Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Strano destino quello di saper far ridere, dunque ispirare simpatia, irradiare socievolezza e contemporaneamente avere nervi (e freni) talmente fragili da rischiare l’incidente al primo intoppo. Problemi che non si risolvono con un tagliando. Questa ingombrante coesistenza di un’anima burlesca e di un’altra conflittuale, accompagna da sempre Teo Teocoli, poliedrico showman, inventore di personaggi e imitazioni già nell’enciclopedia dell’umorismo nostrano. A 71 («e rotti...») anni d’una vita esagerata dove poco è stato risparmiato, Teo tenta di ridimensionare questo duello interiore: pare che il suo dottor Jekyll abbia mandato (quasi) in pensione mister Hyde. «Grazie a quattro donne speciali, mia moglie Elena e le mie figlie Anna, Chiara e Paola che m’hanno cosparso di zucchero. Poi per il gusto del teatro in giro per l’Italia. Uscire dalla televisione all’inizio m’ha fatto incavolare ma ora sono felice: canto, racconto storie, mi chiedono di fare Peo Pericoli e Caccamo e io zac glieli faccio. Dopo i bis con i ragazzi dell’orchestra si prende la macchina, un panino al formaggio, minerale e via a casa alle 5 del mattino. Mi sento di nuovo giovane». Donne (di famiglia) e teatro come terapia naturale. E le sfuriate, i litigi con mezzo mondo? Non saranno mica invenzioni... «La facilità allo scontro mi arriva da un’infanzia difficile. Mamma veniva da una famiglia di giostrai, papà era andato in Marina sotto le bombe inglesi. Dopo la guerra siamo sbarcati a Milano, zona Niguarda-Fulvio Testi a quei tempi quasi campagna. Mamma cuciva in sartoria, papà non lavorava e non si vedeva mai, meglio perché quando arrivava mi picchiava di brutto: il classico padre-padrone. Ero un disadattato: di fronte al bidello in divisa ho pianto per ore, facevo fatica a scrivere e leggere, non capivo nemmeno il concetto di proprietà. Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…! È un miracolo che sia arrivato a ragioneria perché non ho mai studiato niente, giuro. M’intortavo le prof, facevo ridere anche loro». Lo spartiacque di Teocoli, un 25 aprile personale che lui infatti chiama liberazione, arriva a fine anni 60 con il primo cospicuo guadagno, un milione di lire nella pubblicità L’uomo in Lebole: l’uomo era l’attore Armando Francioli, lui il ragazzo. Poi i primi show e la popolarità. «Papà veniva spesso in teatro, soprattutto in camerino, a chiedermi soldi. E io pronti, l’accontentavo: era pur sempre mio padre. Mamma ha vissuto di più e m’ha visto ai massimi. Contenta? Sì, a parte quando ho sposato la ventenne Elena: ha pianto ma non di gioia: si sentiva tradita e sì che avevo 40 anni!». Concesse le attenuanti, il carattere irascibile resta fuori discussione. «Ho sempre agito d’istinto e anche per ignoranza non ho mai saputo confrontarmi serenamente con gli altri. Comunque in 17 anni di Derby, grande scuola con gente tipo Jannacci, Toffolo, Andreasi, Valdi, non ho mai litigato. Ho fatto la spalla a tanti colleghi come Lopez, Albanese, Gnocchi, Boldi. Di certo sono sempre stato me stesso: con i balordi del Giambellino, con gli alto-borghesi di Milano o in costa azzurra a casa di Brigitte Bardot, Salvador Dalì, Gilbert Becaud». Per ogni contrasto Teocoli ha correzioni o giustificazioni. Quella volta che ha rimbrottato il pubblico all’anteprima di Restyling Faccio Tutto? «Avevo ragione, alle anteprime venite gratis ma state zitti, mica si cazzeggia con i vicini!». Il bisticcio con Berlusconi? «Ero uscito da Antenna 3 con un bel successo, mi aveva fatto promesse mai mantenute». Con Fatma Ruffini, potente produttrice di Mediaset? «Pretendeva di fare la regista, tagliava gli sketch. Con me non va bene. Ho rinunciato a un miliardo e mezzo di lire a Paperissima perché il copione faceva schifo». Con Albanese che l’accusava d’improvvisare troppo? «Ma và, con Antonio la verità è che gli ho dato una sberla non prevista e lui l’ha presa male ma è finita lì. M’è successo anche con Elio delle Storie Tese». Con Celentano che pretendeva 35 milioni per una canzone da mettere in un film? «Siamo amici da 57 anni, anzi con un cappellaccio e gli occhiali io sono Adriano, come potrei litigare? Il guaio è che di quelle cose lì si occupa Claudia...». Con Paola Ferrari alla Domenica sportiva? «Stavo parlando di Ronaldo e sul più bello lei m’interrompe! Feeling zero, ho lasciato subito lo studio». Un po’ deluso da Fazio che non l’ha richiamato a Sanremo («ma con Fazio non puoi litigare, è di gomma»), deliziato da Pietro Garinei («Te stavo ad aspettà da 35 anni!») che l’ha riportato al Sistina, ancora furente pensando a Ballando con le stelle («un incubo, 4 ore di prove al giorno e poi votazioni a capocchia»). Qualche suo amico sostiene che per le conquiste femminili ci vorrebbero un paio di calcolatrici. Fra l’altro ha vissuto per un periodo a Roma con Franco Califano: cosa non sarà mai successo in quelle notti romane? «In realtà Franco era più romantico di quello che sembrava: s’innamorava. A Roma nel ‘69 recitavo in Hair con Loredana Bertè e Renato Zero, stavo in scena anche completamente nudo e non faccio per dire ma... Beh insomma nel dopo spettacolo si uniscono Veruschka e Marisa Mell, una più bella dell’altra e entrambe assai interessate: la serata l’ho poi...finita con Veruschka. Mi ricordo invece proprio agli inizi due filarini semiplatonici con Wilma Goich e Orietta Berti. Orietta dormiva dalle suore!». Ma anche nelle notti milanesi Teo non ha scherzato. «D’altra parte gli anni ‘70 erano sesso, droga e rock and roll, atmosfera pazzesca, libertà, niente senso del peccato». Neanche per la droga? «Va bè, gli spinelli non li contiamo, uno dei più belli con Califano l’abbiamo fumato dopo Italia-Germania 4-3. Ho provato la metedrina, usata ai tempi da molti studenti sotto esami per studiare di notte. C’era talmente tanto da fare, come si poteva dormire? Risultato, occhi spalancati tre giorni di fila e da lì mai più. Cocaina? La prima pista ci ho starnutito su come Woody Allen in Io e Annie e m’hanno guardato storto. Poi ho imparato a non starnutire ma dire che m’abbia preso seriamente sarebbe una bugia. Fra l’altro la roba che circolava era meno pericolosa di quella di oggi. Comunque non ne vado fiero e alle mie figlie ho parlato chiaro». Che voto si darebbe come padre? «Forse avrei dovevo avere più polso ma m’è sempre piaciuto far ridere le ragazze. Il guaio è che quando fai la faccia severa faticano a riconoscerti».
Al Bano: “Negli anni ’70 sono stato messo in disparte, così sono emigrato”. Al Bano è stato ospite de "Le Invasioni Barbariche" di Daria Bignardi con la quale ha parlato della sua vita privata, dell'incontro con Romina Power e del suo rapporto idilliaco con la Russia, scrive Fabio Giuffrida il 26 marzo 2014. Dopo 10 anni di attesa, Al Bano ha accettato l'invito di Daria Bignardi ad intervenire nella trasmissione tv "Le Invasioni Barbariche" che anche stasera ha avuto grandi ospiti. "Hai venduto milioni di dischi, hai compiuto 70 anni…", così è iniziata l'intervista al cantautore di Cellino San Marco. Subito la Bignardi ha mostrato le immagini del concerto che ha tenuto in Russia con Romina Power e che è stato trasmesso, in esclusiva in Italia, da Rai 1. Queste le sue parole: Da 19 anni non cantavamo assieme. Più che emozionato, non sapevo cosa sarebbe successo. Questo perché mi è stato chiesto di abbassare due toni visto che lei diceva di essere fuori esercizio […] Noi c'eravamo visti in questi anni 2-3 volte soltanto. Finché c'è stato, è stato un grande amore, quando è finito, invece, è stato un grande dolore.
Ha pure difeso la Russia: Amo la Russia, che bella gente! Mi dispiace che Putin sia stato escluso dal G8, non la vedo una cosa giusta. Ha seminato una buona dose di democrazia, viveva in un paese schiacciato da un altro tipo di politica […] Ha tirato fuori la Russia da un periodo di gravi incertezze sociali. Ti pare logico che le Pussy Riot devono andare proprio nella Chiesa, nella cattedrale, per andare a ballare, a spogliarsi? Non è un luogo per fare quello che hanno fatto.
Al Bano però non crede affatto nella politica: Non mi ha mai dato fiducia la politica. Speriamo che le cose cambino. Io aspetto il miracolo… […] Alcuni partiti mi hanno chiesto pure di candidarmi, dalla destra alla sinistra al centro. Renzi? L'ho incontrato una volta, mi auguro che mantenga tutto quello che dice […] Licio Gelli mi chiese di entrare nella P2. Gli ho risposto: "Poi vedremo". Io sono nato libero.
Ha ammesso di essere stato snobbato negli anni '70, forse perché non faceva parte di una certa fazione politica (il partito comunista). Lui, però, ha deciso di emigrare e in giro per il mondo ha ottenuto il successo che meritava: I miei brani non venivano passati dalle radio. Luciano Salce aveva fatto una rubrica, la "Schif Parade", e lì c'ero sempre […] Ero stato messo in disparte negli anni '70 in Italia.
Poi ha ripercorso tutti i lavori svolti a Milano: Facevo l'imbianchino e dormivo nella casa vuota che stavo imbiancando con una coperta. Non mi pagavano nemmeno. Poi lavorai in un bar in piazza del Duomo, come cameriere. Solo che la ragazza che piaceva al titolare si innamorò di me, e lui si infuriò dicendo: "Voi terroni arrivate qui e vi prendete tutto, pure le donne!". E io gli risposi: "Un giorno tornerò e mi dovrai servire tu!". Poi lavorai alla Innocenti fino a quando mi misero in cassa integrazione. Successivamente vidi su un giornale che il clan Celentano cercava nuove voci.
Quella fu la svolta della sua vita: Mi presentai ai provini e venni preso. Avevo un contratto discografico. Mi fecero incidere una canzone in inglese ma io non conoscevo la lingua, così in un mese la imparai. L'incontro con Romina avvenne sul set nel 1967 a Roma in occasione di un film tratto dal successo discografico del momento, il brano "Nel sole": La trovavo strana. Era sempre solitaria e poi la vedevo troppo americana, con la minigonna.
L’antirazzismo ipocrita. Il paradosso antirazzista. Per la Cassazione l’espressione “sporco negro” è razzista, l’ingiuria “italiano di m…” no, scrive Silvia Cirocchi, il 9 agosto 2013 su “Quelsi”. Secondo la Corte di Cassazione, al contrario dell’espressione “sporco negro”, l’ingiuria “italiano di merda” non ha una connotazione razzista, in quanto se fosse connotata in termini razzisti implicherebbe “una esteriorizzazione immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avendo riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore” (Cassazione, sez. V, 11 luglio 2006, n. 37609), che dunque “veicoli l’espressione di un pregiudizio di inferiorità e di negazione dell’uguaglianza”. Se, dunque, l’espressione “sporco negro” integra l’aggravante della connotazione razzista dell’ingiuria perché è correlata nel contesto territoriale ad un pregiudizio di inferiorità razziale, come riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza n. 9381/2006, lo stesso non può dirsi per la frase ingiuriosa “italiano di merda” in quanto nel comune sentire del nostro Paese il riferimento all’italiano non è connaturato ad una situazione di inferiorità, essendo la comunità etnica italiana maggioritaria e politicamente egemone nel nostro Paese. Così ha deciso la Corte di Cassazione, nella sentenza della sez. V., n. 11590 dd. 25 marzo 2010, respingendo il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Trieste avverso la sentenza del Giudice di pace di Pordenone. In parole povere, se uno straniero insulta un italiano esclamando “italiano di merda”, in Italia, non è punibile in alcun modo per istigazione all’odio razziale. Così ha deciso la Cassazione nel 2010.
Razzismo. Un'origine illuminista. Marco Marsilio, Vallecchi, pagg.191. In questo studio, l'Autore ricostruisce la storia del mito della razza, individuando nei filosofi che fondano il pensiero moderno le radici di un nuovo atteggiamento di fronte al genere umano. Si è spesso notato come la cultura occidentale, non volendo più essere razzista, abbia cercato di non esserlo mai stata, scaricando ogni "responsabilità" sul Nazionalsocialismo in particolare, come se fosse un accidente della storia. Indagando a ritroso sui presupposti filosofici del razzismo biologico, troviamo al contrario robuste origini nel pensiero illuministico: l’inserimento dell’uomo nell’ambito della storia naturale, la classificazione della specie, la critica della dottrina biblica della comune origine dell’umanità. Su questo terreno si sono poi sviluppati il positivismo, le misurazioni antropometriche e la nascita di nuove discipline che daranno dignità scientifica al razzismo. La riduzione dell’uomo alla sua sola dimensione materiale e quantificabile, la deificazione della ragione, il paradigma tecnologico assunto a criterio di verità, sullo sfondo di una costante polemica anticristiana, sono il filo conduttore della cultura razzista, che con la scoperta delle leggi della genetica associate all’evoluzionismo toccherà gli esiti estremi dell’eugenetica. “Questo à un libro sgradevole. E scomodo. Sgradevole perché non è simpatico che qualcuno ricordi che Kant pensava che i negri puzzassero…mentre Voltaire era convinto che le negre si accoppiassero con gli scimpanzé. Non ci sono solo i soliti Gobineau e Rosenberg in questa galleria degli orrori prodotti dal pensiero umano. Da Linneo a Darwin a Spencer – passando per Lombroso, Marx e Carrell – la galleria costruita da Marco Marsilio comprende il meglio della filosofia e della scienza moderne.”
Il razzismo? Figlio dei Lumi. Un pamphlet tratta con coraggio un tema sgradevole come la superiorità dell’uomo bianco sin dall’Illuminismo, scrive Andrea Galli «Avvenire» del 2 settembre 2006. Il libro: Marco Marsilio, Razzismo, un'origine illuminata, Vallecchi, pp. 188. Da Kant a Voltaire fino a Montesquieu, «negri» e «primitivi» sono equiparati agli animali. Storia di un pensiero atroce che ha fatto proseliti. Non è simpatico che qualcuno ricordi che Kant pensava che «i negri puzzassero» e che la nazione è tale «per comune discendenza di stirpe», mentre Voltaire era convinto che le africane si accoppiassero con gli scimpanzé dando vita a mostri sterili, o che «ancora oggi in Calabria si uccide qualche mostro generato dalle donne. Non è improbabile che, nei paesi caldi, delle scimmie abbiano soggiogato delle fanciulle». Del resto, sempre Voltaire notava «che i negri e le negre, trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della stessa specie» e che «i mulatti sono semplicemente una razza bastarda». Mentre il suo collega britannico David Hume era sicuro che sempre «i negri, e in generale tutte le altre specie di uomini siano per natura inferiori ai bianchi». E per Montesquieu «non ci si può convincere che Dio, il quale è un essere molto saggio, abbia posto un'anima, e soprattutto un'anima buona, in un corpo tanto nero». Così si legge nella prefazione a Razzismo, un'origine illuminista di Marco Marsilio, un libro effettivamente sgradevole e impertinente, quanto salutare e meritevole di una segnalazione. Si tratta di un volo radente lungo la storia delle teorie razziali, dalla loro genesi alla loro maturazione - dall'Histoire Naturelle del Buffon, al lavoro degli enciclopedisti francesi, alle Idee per una filosofia della storia dell'umanità di Herder, alla frenologia, al darwinismo e ai suoi derivati sociologici, all'eugenetica svedese, all'antisemitismo nazista, al superomismo sovietico - il cui passaggio più significativo rimane quello sul lato oscuro del cuore della modernità, cioè l'illuminismo. I dati e le fonti citate sono noti da tempo, ma la loro raccolta in una sintesi di 190 pagine torna più che utile per scardinare certi luoghi comuni duri a morire, per esibire fatti ampiamente documentati ma che continuano ad essere relegati in un angolino polveroso della divulgazione culturale. Ancora non molto tempo fa, per citare un esempio banale, un insospettabile Giuliano Ferrara (insospettabile di filo-voltairismo) invitava a Otto e Mezzo un focoso interlocutore (Antonio Socci) a non scadere in esagerazioni come il sostenere che Voltaire coltivasse e diffondesse idee pesantemente razziste e antisemite. Il libro di Marsilio avrebbe apportato qualche elemento di chiarezza al dibattito. Ricordando per esempio, oltre ai passi di cui sopra, pagine del Trattato di Metafisica o dei Dialoghi tra A, B, C tradotto dall'inglese dal signor Huet. Qui François Marie Arouet sostiene che la possibilità di evolversi verso la perfezione dei popoli civili è presente nei selvaggi nella misura in cui ciò è permesso dalla predisposizione dei loro organi, predestinati a ciò da un Dio «razionale». Il brasiliano «è un animale la cui specie non è ancora giunta al suo compimento», «anche lui avrà forse un giorno dei Newton e dei Locke», una prospettiva tuttavia possibile solo «nell'ipotesi che i suoi organi siano abbastanza duttili e vigorosi da giungere a quel termine: perché tutto dipende dagli organi». Nella loro condizione attuale, al di fuori della prospettiva evolutiva, i popoli primitivi non meritano quindi alcun apprezzamento, «gli uomini non socievoli corrompono l'istinto della natura umana», tanto che Voltaire si chiede: «Il selvaggio isolato e bruto (ammesso che sulla terra esistano simili animali, cosa di cui dubito), che cosa fa se non pervertire da mane a sera la legge naturale, col vivere inutile a sé e a tutti gli uomini?». Con queste premesse, scrive Marsilio, si giunge fatalmente a sposare e teorizzare un ideale colonialista di «civilizzazione» a sfondo razziale. Marsilio non cita nella sua panoramica il libro di Eric Voegelin Razza, storia di un'idea, da poco pubblicato in italiano, ma ne condivide in buona misura la tesi di fondo. Ovvero, che la perdita di una visione antropologica classica - segnata dall'idea rivoluzionaria di dignità dell'uomo, di ogni uomo, introdotta dal cristianesimo - abbia aperto le porte, assi eme alla nascita delle scienze empiriche, ad un riduzionismo biologico dell'umano. Il sogno di liberare l'uomo dai vincoli e dalle rigidità di una gerarchia metafisica, ha finito per sottoporre quest'ultimo a metri di valutazione e classificazione degradanti. Emblematico di tale scivolamento il caso di John Locke. Descrivendo come si può spiegare ad un bambino inglese cosa sia l'idea di uomo, e notando che «il bianco o il colore carne fa parte di questa idea», Locke poteva concludere che «il bambino può dimostrarvi che il negro non è un uomo». Colui che è tutt'oggi considerato un maestro del pensiero liberale, un campione della tolleranza, era allo stesso tempo il sostenitore di un pregiudizio tanto brutale da negare l'appartenenza al genere umano in virtù del colore della pelle. Oltre che beneficiario diretto dei proventi della tratta degli schiavi, con i suoi oculati investimenti azionari nella Royal African Company, monopolista del settore.
Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”.
Il gravissimo incidente ferroviario in Puglia del 12 luglio 2016, alle ore 11.05, dove hanno perso la vita almeno 23 persone e 52 feriti, irrompe su tutti i siti dei media internazionali, diventano l'apertura della Cnn international, di Le Figaro, di El Pais e della Suddeutsche Zeitung. In primo piano anche su Bbc, sul New York Times, il Washington Post e i britannici Guardian, Telegraph e Mirror. In evidenza anche sul sito di Al Jazeera. Invece in Italia?
Anzaldi: "Vergogna Rai, diretta dalla Puglia solo tre ore dopo lo scontro". Sky prima col collegamento telefonico già a mezz'ora dallo scontro. Poi in diretta con un inviato e addirittura due telecamere. La Rai tre ore dopo. E' la denuncia che il deputato Pd e membro della vigilanza Rai, Michele Anzaldi, ha fatto via Twitter a proposito del tremendo schianto tra due treni in Puglia che ha provocato almeno venti morti e decine di feriti. "Vergogna Rai: incidente Puglia h 11.30, prime immagini h 14.30! Sky con 2 telecamere. 30 dipendenti Tgr Puglia + Rainews: Tg3 al tel con sito locale" è la denuncia di Anzaldi.
L'accusa di Minoli che demolisce la Rai: "Vi dico la verità sulla strage in Puglia". E poi sul canone...scrive Libero Quotidiano il 18 luglio 2016. Per ora, in attesa del suo programma, Giovanni Minoli "debutta" a La7 come ospite a Omnibus. E l'ex volto noto della Rai (che con la Rai ha chiuso con grande polemica tempo fa) non perde l'occasione per cannoneggiare contro Viale Mazzini. La critica riguarda la copertura del disastro ferroviario in Puglia della scorsa settimana. In conclusione della trasmissione condotta da Gaia Tortora, Minoli ha azzannato: "La notizia dell’incidente testimonia l’importanza delle televisioni locali. Montrone con TeleNorba ha preso 10 e lode, ha fatto dal primo istante una copertura straordinariamente approfondita. Seconda SkyTg24, ultima la Rai, che ha pure la sede lì vicino, è arrivata per l'ultima. Poi ti chiedi pure che 'sto canone tutto alla Rai perché fa servizio pubblico, ti viene un dubbio, forse è inutile, magari gliene andrebbe dato mezzo".
L’informazione di TeleNorba, un esempio di professionalità. Le immagini dello scontro dei treni tra Andria e Corato al centro della diretta televisiva di TeleNorba: gli inviati dimostrano grande dedizione e professionalità, scrive Aldo Grasso il 13 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Mentre si cercano di capire le cause dell’incidente ferroviario accaduto tra Andria e Corato, è difficile cancellare dalla mente le immagini dello scontro, i vagoni letteralmente sbriciolati, i pezzi di lamiera volati per decine di metri nella campagna pugliese, ai lati dei binari. È difficile dimenticare le lunghe dirette televisive, costrette tristemente a far la conta di morti e feriti, a raccogliere i disperati singhiozzi dei parenti. Ho passato quasi tutto il pomeriggio e la sera di martedì 12 luglio a seguire la lunga edizione straordinaria prontamente allestita da TgNorba24, il canale informativo di TeleNorba (canale 510 di Sky). Ho seguito la testimonianza di un agente di polizia che quasi non riusciva a parlare: «Ho visto persone morte, altre che chiedevano aiuto, persone che piangevano. La scena più brutta della mia vita». Ho visto la scena del bambino estratto vivo dalle lamiere del «treno bianco» o del «treno giallo» (così i cronisti cercavano di distinguere i due convogli). Ho sentito ripetere all’infinito il nome degli ospedali della zona: Andria, Corato, Barletta, Bisceglie, Bari. A sera inoltrata, un carrello ferroviario ha cercato di spostare una motrice per aprire un varco ai soccorritori, così da verificare l’eventuale presenza di altre vittime nei vagoni accartocciati. Noi abbiamo sempre parlato di TeleNorba, il network fondato da Luca Montrone e ora retto dal figlio Marco, perché è stato una fucina di comici e di artisti (Emilio Solfrizzi, Antonio Stornaiolo, Gennaro Nunziante, Pio e Amedeo, Checco Zalone…), ma anche l’informazione, sotto la direzione di Enzo Magistà, ha svolto un ruolo importante per le Puglie e, più in generale, per il Sud. In simili tragedie non ha molto senso sottilizzare sulla copertura delle reti televisive, tutte fanno quello che possono. Ma mi sembrava giusto sottolineare il lavoro di TgNorba24, i cui inviati hanno dimostrato una dedizione e una professionalità non comune.
Eppure c’è chi parla male del suo direttore.
Magistà definitivamente condannato. Altro che candidato alle regionali, scrive “Polignano web” il 22 Dicembre 2014. Articolo pubblicato su "La Voce del Paese - ediz. Polignano", nelle edicole polignanesi dal 19 dicembre. Magistà, il giornalista condannato e moralizzatore. Spesso adotta il metodo Boffo: vedi il caso del vicesindaco di Polignano, Parco dei Trulli e altro ancora. Il direttore di Fax e TgNorba… altro che candidato alla Regione. Parla Judice, l'ex sindaco vittima del metodo-Magistà: “Quand’ero sindaco valicò i limiti della decenza. Fu umiliato per la sospensione dall’Ordine sul caso omicidio di Meredith”. Sua Magistà Vincenzo, direttore di Fax e TgNorba è stato definitivamente condannato per diffamazione. Ma non è l’unico guaio giudiziario in cui è inciampato colui che, ogni settimana, moralizza dalle pagine di Fax, contro il vicesindaco di Polignano (che non è ancora comparso nemmeno in udienza). Insomma, un condannato che fa la morale a un imputato. Magistà ci sta abituando al peggio: a volte ritorna, senza un chiaro motivo, con editoriali dedicati nei vari comuni (come nel caso del vicesindaco e del megapiano di lottizzazione Parto dei Trulli), altre volte inspiegabilmente scompare. È stato l’ex sindaco di Conversano, avvocato Ciccio Judice a trascinarlo in tribunale e a vincere la battaglia legale, consegnando Magistà alla condanna definitiva. In questi giorni è stato lo stesso Judice a dare notizia della condanna definitiva del direttore, postando un commento sul profilo facebook dell’eurodeputato Raffaele Fitto (vedi foto in basso). Lo ha fatto, perché si è parlato di una ipotetica candidatura di Magistà alle primarie del centrodestra per la scelta del candidato presidente alle regionali di Puglia del 2015, del dopo Vendola. “Sarei il candidato della società civile” – ha fatto sapere Magistà in una intervista. “È una candidatura autoreferenziale, che non potrebbe avere alcun proselito” – replica invece Judice, in una intervista esclusiva rilasciata qui, a La Voce del Paese, nel corso della quale Judice spiega in che modo indecente sarebbe stato “aggredito” da Fax e da Magistà quando era sindaco a Conversano. Nell’intervista che segue, Judice fa apparire altri “scheletri” nell’armadio del direttore.
Avvocato, con quel commento da lei rilasciato sulla pagina di Raffaele Fitto, ha riaperto il passato. Vuole raccontarci cosa è accaduto con il direttore Magistà, con precisione e dettagli? La sua è una vendetta?
“Egregio Direttore, volentieri rispondo alle Sue domande nella speranza di dare un contributo per un costruttivo rapporto tra “informazione” e lettore, di fondamentale importanza per una crescita sociale moderna e democratica. Il mio rapporto con la stampa locale, nella mia lunga esperienza politico-amministrativa, specie l’ultima da Sindaco, è sempre stata di rispetto ed equilibrato confronto. Ciò sino a quando il settimanale “Fax”, diretto dal sig. Magistà Vincenzo, per ragioni legate ad interessi politici locali e di egemonia personalistica, si è trasformata in una agguerrita aggressione a “colpi bassi” e senza soluzione di continuità dal 2006 in poi. I toni giornalistici, specie nello spazio riservato al “redazionale” di prima pagina, sottoscritto dallo stesso direttore, sono andati sempre più in crescendo, senza limiti alla correttezza, per lo specifico scopo di farmi “cadere” dalla mia carica di Sindaco della mia Città. Ma ciò senza successo, in quanto il Magistà ha dimostrato di essere privo di credibilità, tanto che io ho completato indisturbato il mio pieno mandato. Pur tuttavia, avendo le sue peripezie disinformative valicato i limiti della decenza e del lecito è stato da me querelato per il reato di diffamazione a mezzo stampa, avendo offeso gravemente la mia dignità ed onorabilità di uomo, di professionista e di allora rappresentante di Conversano. La Corte di Cassazione penale con sentenza del 26.9.2014, confermando la precedente sentenza di II grado emessa dalla Corte di Appello di Bari, ha, quindi, definitivamente condannato il Magistà per il grave reato a lui da me contestato. Così aprendo la strada alla procedura disciplinare da parte dell’Ordine dei Giornalisti, oltre all’azione di risarcimento danni. Con tale epilogo ho ottenuto una giusta giustizia. Tale mia iniziativa è stata del tutto doverosa, anche al fine di riscattare gli anni di indecoroso attacco personale, attraverso una efficace lezione di vita a carico del mio scorretto “antagonista”, non solo professionale, così da farlo riflettere nelle sue periodiche pontificazioni mediatiche. La mia non ha avuto assolutamente il sapore della vendetta”.
Chi potrebbe a suo avviso candidarsi nel centrodestra alle regionali?
“Di certo nessuno del centrodestra avrebbe interesse a farsi rappresentare, quale candidato alla massima rappresentanza regionale dal Magistà, la cui candidatura, del tutto autoreferenziale, non potrebbe avere alcun proselito, anche per le sue ulteriori trascorse vicissitudini professionali (umiliante sospensione per sei mesi dall’Albo dei giornalistici per la vicenda “Meredith”, sottoposizione a giudizio civile dinanzi al Tribunale di Bari per risarcimento danni da parte della curatela “Treemme srl”, della quale società era stato il rappresentante in consiglio d’amministrazione, nominato dal Consiglio comunale di Conversano, durante il suo unico mandato di consigliere comunale, ecc…). Intrigante, sul piano del confronto politico, sarebbe, invece, lo scontro tra i vertici dei due maggiori schieramenti: Emiliano – Fitto, ambedue di collaudata esperienza, ed in questo momento…non è poco”.
Vorrebbe rientrare in politica? Le piacerebbe tornare a fare il sindaco?
“Quando l’esperienza politico - amministrativa è frutto di volontariato e di amore per la propria gente, privo di ambizioni personali e di “carrierismo”, deve essere ciclico. L’alternanza, anche generazionale, è una garanzia di democrazia e di difesa dei valori della collettività. Pertanto, ho ritenuto giusto, dopo quasi venti anni di contributo alla mia Città in seno al Consiglio comunale ed alla Giunta municipale, ritornare al lavoro che mi appassiona e che mi gratifica quotidianamente. Il ricordo della “politica” rimane perenne, essendo un momento importantissimo della propria vita, specie per le tantissime esperienze di alta umanità e, perché no, anche di …bassa umanità, della quale ho fatto tesoro. Un rientro in “politica” sarebbe un tradimento alla propria scelta di coerenza, anche se continuerò ad interessarmi ed impegnarmi, dal di fuori, ai problemi del mio territorio”.
Come valuta l'operato amministrativo di Lovascio e dei sindaci dei comuni limitrofi (es. Polignano)?
“La carica di Sindaco è particolarmente difficile ed impegnativa, specie per la perenne mancanza di risorse economiche; se poi a questa si associano le emerse carenze di capacità personali dei nostri attuali rappresentanti sindacali, i problemi per i cittadini si complicano. La mia Città né è testimone, vivendo, specie negli ultimi anni, momenti di evidente declino, in particolar modo se rapportata agli ottimi risultati di alcuni comuni limitrofi, in primis Polignano e Monopoli, che hanno sopraffatto, con i loro attuali validissimi rappresentanti politici, le sorti di Conversano, con abilità e meritevole rappresentatività”.
Ciononostante, a dispetto da quanto su detto: “Laurea honoris causa” in marketing a Enzo Magistà (TgNorba). La consegna avverrà lunedì 27 giugno alle ore 17 nell'Aula Magna "Aldo Cossu" del Palazzo Ateneo, scrive "Borderline24” il 21 giugno 2016. Il rettore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Antonio Uricchio, lunedì 27 giugno alle ore 17 nell’Aula Magna “Aldo Cossu” del Palazzo Ateneo conferirà la Laurea Honoris causa in Marketing al Direttore del TgNorba, Enzo Magistà. L’Ateneo barese ha deciso di riconoscergli il merito di aver promosso la Puglia e il mezzogiorno su scala nazionale, favorendo lo sviluppo sociale ed economico del territorio. Magistà è stato tra i fondatori di Telenorba, nel 1976, e da allora ne dirige l’informazione. La cerimonia si aprirà con la lettura del dispositivo di conferimento della laurea honoris causa da parte del direttore del dipartimento di Economia, Management e Diritto d’impresa, professor Vittorio Dell’Atti. La laudatio sarà tenuta dal professor Ernesto Somma, ordinario di Economia Applicata nella stessa Università. Il direttore Enzo Magistà terrà la lectio su “Comunicare la Puglia”.
Laurea honoris causa a Enzo Magistà, l’inventore del Tg locale. Il riconoscimento dell’Ateneo barese al direttore del Tg Norba “per aver promosso la Puglia e il Mezzogiorno, favorendolo sviluppo sociale ed economico del territorio”, scrive Maurizio Angelillo su "Radio Norba". La buona informazione migliora il territorio e se il territorio migliora cresce anche la sua economia. Il mondo accademico condivide da tempo questa relazione tra mezzi di informazione locali e crescita dell’economia, ma da oggi questa tesi ha un testimonial: Enzo Magistà, da sempre direttore del Tg Norba. Lunedì, il rettore dell’Università degli studi di Bari, Antonio Uricchio, conferirà a Magistà la Laurea honoris causa in Marketing, riconoscendogli “il merito di aver promosso la Puglia e il Mezzogiorno su scala nazionale, favorendo lo sviluppo sociale ed economico del territorio”. La cerimonia si aprirà con la lettura del dispositivo di conferimento della Laurea honoris causa da parte del Direttore del Dipartimento di Economia, Management e Diritto d’impresa, Vittorio Dell’Atti. La laudatio sarà tenuta da Ernesto Somma, ordinario di Economia Applicata. Enzo Magistà terrà invece la lectio su “Comunicare la Puglia”. Sarà l’occasione per celebrare quarant’anni di informazione televisiva locale di Telenorba, un modello a cui tutte le tv locali italiane si sono ispirate. Un modello giornalisticamente creato da Magistà (quando nessuna tv locale aveva inserito organicamente nei palinsesti veri Tg strutturati), in piena sintonia con la missione del Gruppo Norba e del suo fondatore, ing Luca Montrone. Un modello elaborato sulla scuola italiana di giornalismo televisivo, rappresentata dalla Rai, e dalla scuola americana della Cnn, che Magistà ebbe modo con il suo editore e i suoi collaboratori di studiare ad Atlanta. Un modello, quello del Tg Norba, molto imitato, che ha portato Telenorba ad essere la prima tv locale italiana per ascolti. L’alto riconoscimento accademico giunge nel bel mezzo della rivoluzione digitale (inaugurata con la nascita del canale Tg Norba 24, la prima all news locale italiana a diffusione nazionale) e dell’era del web, che vede Magistà in prima linea con il suo bagaglio di studi ed esperienze non solo nella tv ma anche nella carta stampata (è direttore e fondatore del settimanale Fax, fenomeno editoriale di giornale intercomunale) e nella radio, perché Magistà, prima della tv, è stato direttore della primogenita del gruppo, Radionorba, di cui ha diretto per anni l’informazione.
Il disastro ferroviario in Puglia sulla tratta Corato-Andria ed il Binario unico del giornalismo italiano. Che fine hanno fatto la mamma e la figlia trovate morte avvinghiate?
La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. "Sono 23 le vittime del disastro ferroviario avvenuto in Puglia il 12 luglio 2016 alle ore 11.05 sulla tratta Corato-Andria; 52 i feriti transitati dai pronto soccorsi degli ospedali; 24 le persone attualmente ricoverate, otto dei quali in prognosi riservata, tra cui il piccolo Samuele che 7 anni appena compiuti e che era con la nonna, morta nell'incidente ferroviario. Non ci sono dispersi. I dati sono stati ufficializzati in una conferenza stampa che si è tenuta dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano e dal professor Franco Introna, primario di Medicina Legale del Policlinico di Bari il 13 luglio 2016 alle ore 14.30. Otto cadaveri individuati da dettagli: anelli, fotografie o carte che gli infermieri hanno mostrato ai familiari. Per quasi tutti i giornali Giuseppe Acquaviva è lo sfortunato contadino morto sul suo campo. Per “Andria Live”, invece, Giuseppe Acquaviva, 59 anni, di Andria, era disoccupato e viaggiava con la sorella Serafina Acquaviva, detta Lella, 62 anni, anche lei morta nell'impatto. Per “La Repubblica”, invece, era un ragioniere. E poi la chicca. Da più fonti e con più interviste si è parlato che i soccorritori si sono ritrovati anche davanti ad una scena di due corpi esanimi abbracciati: una madre e sua figlia. I loro nomi, però, non risultano tra quelli comunicati dalle autorità come vittime riconosciute o non riconosciute. Sono state ritrovate senza vita una madre e sua figlia, avvinghiate l'una all'altra in quell'ultimo abbraccio istintivo e protettivo. Una scena drammatica che i soccorritori si sono trovati dinanzi agli occhi, non appena giunti sul luogo del disastro, su quel tratto ferroviario a binario unico che collega Bari a Barletta, in Puglia. A raccontarlo sono gli stessi soccorritori all'emittente locale Telenorba ed ad altre emittenti private. Testimonianze su cui hanno ricamato i loro commenti centinaia di giornalisti. "Erano contro un ulivo, la mamma con il suo corpo proteggeva la bimba piccola ed erano in posizione fetale. Sono le prime che ho trovato, in mezzo a teste, braccia, mezzi busti sparsi ovunque sotto gli ulivi", ha raccontato Marianna Tarantini, una volontaria del Ser di Corato, una delle prime ad arrivare sul luogo dell'incidente. Che sia una bufala a cui tutti ci sono cascati? Scrivevano i giornali: Giuseppe Acquaviva, il contadino proprietario del fondo, 51 anni, nato ad Andria il 15.02.1957, faceva il contadino. La mattina dell'incidente lavorava nel suo campo agricolo, che confinava con la ferrovia. Era impegnato nella potatura degli alberi, quando alcuni pezzi dei treni lo hanno colpito in pieno. L'uomo è morto in ospedale. Stava lavorando nel suo campo di fianco al luogo dell'incidente. Poi è arrivato lo schianto, i finestrini che esplodono, i pezzi di ferro lanciati a velocità folle in tutte le direzioni. Uno di questi lo ha colpito in testa. Era arrampicato su un albero, lì vicino alle rotaie, Giuseppe Acquaviva. La sua campagna sfiora la ferrovia, al rumore dei treni che passano non ci faceva più caso. Perché la sua morte è pura follia, un maledetto sbaglio. Ieri mattina stava tagliando i rami, non ha fatto in tempo a voltarsi al boato dei due convogli che si schiantavano. Le lamiere lo hanno investito, i pezzi dei convogli gli sono arrivati addosso come schegge impazzite. Il contadino è morto, la stessa fine dei pendolari e dei passeggeri, lui che sul treno non c’era e non stava andando da nessuna parte. Era lì, a tagliare i rami. L’unica vittima del disastro ferroviario che non è stata recuperata tra i rottami dei convogli. L’hanno trovato sotto il suo albero. «Non aveva alcun segno sul corpo - raccontano i medici del Bonomo - solo un buco impressionante in testa. Non c’era nulla da fare». Adesso quella campagna è un cimitero, solo sangue e lamiere sparse ovunque. Tranne che inserire il nome di Giuseppe nella lista dei morti del treno.
E poi ci sono i commenti degli idioti italici.
“20 terroni deceduti, grande notizia!”, il post razzista fa infuriare Facebook. A poche ore dalla tragedia ferroviaria, compare su Facebook un post razzista di tal Giorgio Cutrera: " 20 terroni deceduti...Grande notizia... - si legge - 20 non sono tanti, ma è pur sempre meglio di niente”. Il web si indigna e lo segnala alla Polizia Postale, scrive il 12 luglio 2016 “Trnews”. Mentre il Salento, come il resto d’Italia resta senza parole davanti alla tragedia che questa mattina ha macchiato di sangue i binari tra Andria e Barletta, qualcun altro sembra che sia riuscito persino a prendersi cinque minuti per ironizzare su questo catastrofico episodio: “20 terroni deceduti…Grande notizia…non sono tanti, ma è pur sempre meglio di niente”. Questo è quanto si legge nel post che ha mandato in furie tutto il popolo di Facebook. “Che dio benedica i malfunzionamenti e i disagi”, si continua a leggere nello status su cui è pubblicata anche la foto dell’incidente ferroviario. Inutile dire che il post sta facendo il giro del web, accompagnato da una valanga di commenti e offese contro l’autore di questo gesto inaccettabile. Il profilo risulta privato, ma è già stato segnalato alla Polizia Postale. Ed ancora...
Tragedia ferroviaria in Puglia, riecco i razzisti social: lazzi e battute sui “terroni morti”, scrive il 12 luglio 2016 Gianmaria Roberti su “Il Desk”. Non sono isolati gli episodi di chi esulta per la strage dei treni. Su Facebook è stato aperto un gruppo per denunciare gli account discriminatori. E’ il corollario permanente di ogni sciagura. L’idiota del web colpisce anche per la strage ferroviaria nel Barese. C’è il razzista da tastiera che scippa il cantautore pugliese Caparezza, trasformando il brano “Vieni a ballare in Puglia” nel macabro “Vieni a scontrarti in Puglia”, didascalia dell’immagine con i treni accartocciati che ha fatto il giro del mondo. Ma sui social sono tutt’altro che isolati i commenti entusiastici. C’è chi esulta per i “20 terroni deceduti”, che “non sono tanti ma è sempre meglio di niente”. Qualcuno si lascia andare al sarcasmo ottuso: “Volevo rassicurare tutti coloro che si sono preoccupati, l’incidente è avvenuto a Bari, non in Italia, potete stare tranquilli!”. Un altro commenta sodisfatto: “Enniente dormo due orette e scopro che in Puglia è avvenuto un incidente, Dovrei dormire più spesso”. E un giovane veneto tal Nicola Destro osserva: “La cosa che più mi stupisce dell’incidente dei treni in Puglia è il fatto che ci siano i treni in Puglia”. Su Facebook è stato aperto un gruppo per segnalare gli account dei razzisti.
Bisogna segnalare che la Puglia, così come tutto il sud Italia, è frequentata da tanti turisti stranieri. Per questi motivi moltissime ambasciate straniere hanno telefonato alle Asl ed alle Prefetture, per avere notizia di eventuali coinvolgimenti di loro connazionali nella tragedia avvenuta sui treni della tratta tra Corato ed Andria. Tratta che collega anche l'aeroporto di Bari, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno".
Strage dei treni: non basta cercare solo i colpevoli, scrive Antonio Tedesco il 12 luglio 2016. Mentre leggiamo i giornali ci coglie una tristezza infinita. Un bilancio drammatico, ancora parziale ma funesto: 23 morti e decine di feriti, uno dei peggiori incidenti ferroviari degli ultimi cinquant’anni in Italia. È difficile trovare le parole e analizzare lucidamente una tragedia di queste dimensioni, l’ennesima per il nostro Paese. Ha ragione Pino Aprile (l’autore di “Terroni”), quando dice che mentre al Nord si costruisce la costosissima, e forse poco utile, TAV Torino-Lione, il Sud viaggia a binario unico. Da anni la Puglia è la meta estiva preferita dagli italiani e da milioni di stranieri ma sconta gravi problemi infrastrutturali, come del resto tutte le regioni del Sud Italia. Scarsi sono gli interventi pubblici e poca è l’attenzione della classe dirigente e della politica locale, spesso di scarsa qualità, sempre meno efficace ed efficiente. Una tragedia, quella di Corato, che ha spezzato la vita a tanti, troppi, studenti e lavoratori pendolari che deve accendere i riflettori sullo stato di arretratezza delle infrastrutture del Sud, perchè negli ultimi anni ha prevalso la cultura che non bisogna fare investimenti nelle regioni meridionali, perchè “c’è la mafia e i politici che rubano” (mentre nel Nord Italia vige la trasparenza e la legalità). Questa perversa “cultura” dominante ha prodotto uno scenario da area sottosviluppata; nel nostro Mezzogiorno ci sono ancora alcune tratte ferroviarie non elettrificate e delle aree completamente isolate (a Matera non arriva il treno ad esempio). Nei prossimi giorni sicuramente ci sarà la caccia al colpevole: errore umano, oppure colpa dell’azienda che gestisce la tratta ferroviaria. Si apriranno commissioni e si accerteranno responsabilità e carenze. Un copione già visto. L’auspicio è che si apra una seria discussione sulla condizione di arretratezza del Sud, costantemente penalizzato da politiche “nordcentriche”. Ci aspettiamo un cambio di rotta, un attenzione maggiore alle difficoltà delle Regioni meridionali, anche nel trasporto ferroviario e aereo. Secondo alcuni dati (citati da Pino Aprile e da altri giornalisti) su 4.560 milioni per le ferrovie negli ultimi anni i governi ne hanno destinati solo 60 per il Sud. Povera Puglia, povero Mezzogiorno d’Italia.
Un fatto è certo. Il Governo centrale usa i fondi europei come finanziamento sostitutivo a quello statale per lo sviluppo del mezzogiorno considerato area svantaggiata, anziché considerarlo aggiuntivo. Essendo appunto fonti europei essi riguardano mini progetti e non un programma ad ampio raggio. Ecco perché quasi tutte le risorse statali vanno spalmate sul centro-nord Italia e per il Sud manca una programmazione. I Fondi Europei sono tre: il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), il FSE (Fondo Sociale Europeo), il FEASR (Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Rurale). I tre fondi cofinanziano i Programmi Operativi Regionali (POR) e i Programmi Operativi Nazionali (PON). Se si pensa che per le lungaggini burocratiche create ad arte per fomentare la corruzione questi fondi spesso non vengono spesi, ecco come tali finanziamenti per evitarne la scadenza dei termini di spesa, vengano dirottati al centro nord in aggiunta a quelli statali già previsti per opere finanziate di ampio respiro. Insomma il sud: cornuto e mazziato.
Scontro fra treni in Puglia, una tragedia annunciata. Non si investe nelle ferrovie del sud, scrive Giacomo Pellini il 12 luglio 2016 su “Left”. È di almeno 20 vittime e decine di feriti, il bilancio provvisorio dello scontro frontale avvenuto tra due treni delle Ferrovie del Nord Barese. L’incidente si è verificato oggi verso le 11 sul binario unico tra Ruvo di Puglia e Corato, in aperta campagna. «C’è stato uno scontro frontale su un binario unico, alcune carrozze sono completamente accartocciate e i soccorritori stanno estraendo dalle lamiere le persone» ha detto il comandante dei vigili urbani di Andria, Riccardo Zingaro. Subito i soccorsi hanno estratto dalle lamiere un bimbo di pochi anni, che, fortunatamente ancora in vita, è stato trasportato via con l’elicottero. Secondo il presidente della Provincia di Barletta-Andria-Trani, Giuseppe Corrado, il numero dei morti è sicuramente destinato ad aumentare. Il sindaco di Corato, Massimo Mazzilli, ha scritto su facebook che «il disastro è paragonabile alla caduta di un aereo», visto le conseguenze che ha comportato il grave incidente: uno dei treni ha due vagoni rimasti intatti, l’altro solo l’ultimo, e pezzi di lamiera sono sparsi praticamente ovunque. «Faremo chiarezza» ha affermato il premier, Matteo Renzi, esprimendo il proprio cordoglio per le famiglie. Il Ministro dei trasporti, Graziano Delrio, giunto sul posto, ha chiamato immediatamente la società della Rete ferroviaria italiana (Rfi) – che gestisce l’infrastruttura ferroviaria, ed è partecipata al 100% dalle Ferrovie dello stato (Fs) – per chiedere un «supporto alle indagini e supportare le società coinvolte» (che non appartengono a Fs, ma fanno parte della società Ferrotramviaria Spa). E annuncia una Commissione d’inchiesta per chiarire le cause dell’incidente, ancora sconosciute. «Cerchiamo di recuperare il ritardo di decenni per le infrastrutture del sud» diceva sempre Delrio nel 2015, rispondendo dopo un articolo del Mattino, a firma di Marco Esposito, dove si denunciava la sproporzione degli investimenti tra nord e sud del paese nell’aggiornamento 2015 del Contratto di programma con la Rfi. Su 4859 milioni di euro previsti dallo Sblocca Italia e dalla Legge di stabilità 2015, denunciava Esposito, solo 60 sono destinati alla rete ferroviaria del sud, contro i 4799 per il nord. «Per l’esattezza, al Mezzogiorno è destinato il 19 per cento dei nuovi finanziamenti complessivi e l’1,2 per cento se si considerano soltanto quelli ferroviari. Contro il 98,8% di quelli destinati al nord del Paese» conclude poi Esposito. Secondo il rapporto di Legambiente, Pendolaria, 2015, sullo status del trasporto ferroviario pendolare nel nostro paese, l’Italia viaggerebbe a due velocità diverse: da una parte treni ad Alta velocità sempre più moderni e veloci, in costante aumento a causa dell’aumento progressivo degli investimenti (+7% nel 2015), dall’altra una diminuzione degli Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza (-22,7% dal 2010 al 2014). Dal rapporto emerge come vi sia un grande divario tra il nord e sud Italia, dove i treni regionali sono vecchi, lenti e dove, ogni giorno, tra Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna ne transitino meno rispetto alla sola Lombardia. Legambiente denuncia anche come la maggior parte delle linee non sono elettrificate e a binario unico, cosa che – come abbiamo appreso, purtroppo, dall’episodio di oggi – rende i viaggi nelle regioni del sud insicuri e pericolosi. C’è poi il caso di Matera, capitale europea della cultura nel 2019, patrimonio dell’Unesco, che è l’unico capoluogo di provincia italiano non coperto dalla rete ferroviaria. Anzi, Matera una stazione ce l’ha, ma non è attiva: i lavori per la sua costruzione cominciarono nel 1986, ma non furono mai terminati. Una città che non esiste, per Fs. Per riparare al danno, le Ferrovie hanno lanciato la formula «Freccia link», collegando la stazione di Salerno – coperta dalle Tav – con dei pullman diretti nella città lucana. Forse Trenitalia – partecipata al 100% da Fs – è troppo impegnata nell’acquisto della società ferroviaria greca Trainose, per la quale ha investito ben 100 milioni di euro, come ha recentemente denunciato il deputato di Sinistra Italiana, Franco Bordo, «Il nuovo management di Trenitalia, invece di fare operazioni estere, pensi alle decine di migliaia di pendolari che ogni giorno vivono sulla loro pelle la drammatica situazione in cui versa il nostro sistema ferroviario», ha sostenuto il parlamentare, che ha poi concluso: «Il trasporto pendolare dovrebbe rappresentare una priorità per l’azienda, non le acquisizioni all’estero». Ma intanto in Puglia è già successo l’irreparabile.
I corpi fra gli ulivi della mia Puglia dimenticata dall'Alta velocità, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 13/07/2016, su “Il Giornale”. Furgoni funebri tra gli ulivi. Polvere rossa sollevata dagli elicotteri. L'aria è afosa, pesante, soffocante. Sembra aggiungere ansia alla tragedia. Si cercano vite, si contano i morti. Non è possibile. Sì, qui è possibile. Tredici chilometri e un solo binario dividono Andria da Corato. Un binario, unico, solo, per una terra, il Sud, la Puglia, le Puglie, come ci insegnavano a scuola, per quanto lunga è questa terra piena di contraddizioni e di luce e di solitudine, dimenticata da chi discute, parla, scrive e decide sull'alta velocità, privilegio e premio di un'altra e alta Italia. Ulivi secolari, come guardiani, lungo i fianchi di questi due convogli. Stavolta non sono loro a piangere, prosciugati dalla xylella cattiva e malvagia, stavolta osservano la morte degli uomini, la fine tragica di un viaggio, improvvisamente interrotto, lungo una curva che ha negato la possibilità di scorgere, di vedere, di salvarsi. Piange la Puglia di Banfi e dei Negramaro, piange la Puglia di Arbore e di Mimmo Modugno, piange come sa fare da sempre, amara terra mia ma senza l'elemosina delle proprie lacrime, abituata a soffrire e a offrire, le pepite della sua natura, del suo mare, del suo sole. Ma questo, oggi dodici di luglio, non conta nulla, i turisti restano attoniti, disarmati, in disparte, rispettosi del dolore altrui. Niente sagre, spente le luminarie. È l'ora del silenzio. La Ferrotramviaria ha ottant'anni di storia, fondata da Ugo Pasquini, conte di Costafiorita. Il servizio fa il suo lavoro quotidiano, pendolari, studenti, viaggiatori qualunque. Ha pronti i grandi progetti per raddoppiare i binari, per interrare le linee proprio nella zona di Andria. Ma la burocrazia sconfigge l'intelligenza, tutto bloccato. La scena del disastro sembra una beffa. Due treni si sono sfidati su quella striscia nera, correndo uno contro l'altro, per errore umano. Non si sa di chi. Si sa quando. Uno dei due non doveva essere lì, non doveva lasciare la stazione di partenza, non doveva. Lo ha fatto. L'Et 1016 che avrebbe dovuto lasciare la stazione di Corato alle 10.48 e arrivare ad Andria alle 10.59, forse viaggiava in ritardo. Secondi fatali. L'altro, l'Et 1021, partito da Andria alle 10.58, avrebbe raggiunto Corato alle 11.09. Alle undici, l'incontro. Lo scontro. Le voci dei politici disturbano il dolore, il silenzio, il cordoglio. Ronzano i loro commenti, come zanzare maledette, parole inutili, un repertorio di sempre, annunciano indagini, promettono la verità, preannunciano commissioni di inchiesta. Il sole di Puglia non concede luce a questa storia improvvisa. Una madre abbracciata alla figlia. Giacciono, morte. Sembrano addormentate. L'ultimo sonno, ultima atroce immagine di una fine improvvisa, il tentativo di proteggere la vita, accucciandosi davanti all'arrivo della morte, il gesto eroico di una genitrice verso la propria speranza, la coscienza che ormai non c'è più, nulla oltre le lamiere stracciate, gli schizzi di sangue, le urla di strazio. Il silenzio della morte nella carrozza dove si parlava della vita, scherzando, ascoltando la musica, sognando come in un qualunque giorno. Adesso un giorno diverso. Mille figure continuano ad agitarsi negli uliveti: ministri, governatori, prefetti, sindaci, infermieri, medici, e poi parenti, amici, volti di cera, disperati, angosciati, alla ricerca di una voce, di una semplice parola, una promessa, un'illusione, i due convogli sono come mostri giurassici accartocciati, cambia la luce del giorno, il frinire delle cicale rompe il silenzio tra gli ulivi, il palazzetto dello sport di Andria raccoglie le bare di zinco e di noce. La sera, come sempre, porta il dolore della speranza ormai inutile. Quella madre e la sua bambina non dormono più abbracciate.
La solidarietà dei vip pugliesi. Uno dei primi è stato Giuliano Sangiorgi, il cantante dei Negramaro. E poi Lino Banfi, e Flavia Pennetta: dal mondo dello spettacolo a quello dello sporti, il dolore di volti e nomi noti per la tragedia ferroviaria nel Barese.
Sangiorgi, su Facebook, pubblica l’immagine di un binario e scrive: “Sono su un treno qualunque che mi porterà verso giorni di musica e bellezza. Ma oggi il cuore è sospeso. Come se non lo sentissi più battere. Sento solo il suono delle rotaie che mi porta altrove...nella mia terra. Oggi l’oro perlato degli ulivi si è tinto di rosso. Ogni pensiero è rivolto a quelle persone che hanno perso la vita su un binario che taglia in due la Puglia e da oggi... anche l’anima di tutti noi”.
E su Twitter il dolore di Lino Banfi, originario proprio di Andria.
E su Facebook anche il messaggio di Al Bano, che parla di immane incredibile disgrazia.
Raf, che dedica un pensiero alla sua terra ferita.
Un cuore e le mani giunte in segno di preghiera, questo il messaggio affidato ai social network da Emma Marrone, che seppur nata a Firenze si è trasferita da piccola ad Aradeo, in Puglia, terra d’origine dei genitori.
E su Twitter anche il messaggio dei Sud Sound System.
Su Facebook l’appello di Mietta, nata a Taranto.
E affidano a Twitter il loro messaggio anche due tenniste azzurre di origini pugliesi: Roberta Vinci, tarantina, e la brindisina Flavia Pennetta.
LA MORTE CI RENDE UGUALI.
Serafina Acquaviva, nata ad Andria il 14 maggio 1954, 62 anni. Viveva ad Andria insieme al fratello Giuseppe e faceva la casalinga. Nessuno dei due si era mai sposato. Martedì erano andati insieme all'ospedale di Bari perché lei era andata a fare alcuni controlli neurologici
Giuseppe Acquaviva, nato ad Andria il 15 febbraio 1957, 59 anni. Viveva ad Andria insieme alla sorella Serafina. Nessuno dei due si era mai sposato. Inizialmente è stato scambiato per un contadino perché il suo corpo è stato ritrovato nei campi, invece era anche lui sul treno, a fianco di sua sorella. La sorte ha deciso che, oltre a vivere insieme, morissero nell'abbraccio mortale delle lamiere. Giuseppe e Lella Acquaviva, fratello e sorella uniti in un destino inesorabile, scrive “Andria Live” il 14 luglio 2016. «Erano persone affettuose, amavano camminare insieme. Stavano andando in Policlinico perché mia zia doveva effettuare un esame e una visita specialistica». Giuseppe e Lella (all'anagrafe Serafina) Acquaviva, fratello e sorella, 59 e 62 anni, erano su quel treno: la sorte ha deciso che, oltre a vivere insieme, morissero nell'abbraccio mortale delle lamiere. Una vita «umile, riservata, fatta di affetti semplici, di passeggiate insieme», ci racconta una nipote. Il sig. Giuseppe non era un contadino: diplomato aveva conseguito il diploma di maturità commerciale, ma ultimamente svolgeva lavoretti occasionali: aiutava tante persone e accudiva la sorella, di salute precaria e invalida. Entrambi mai sposati, vivevano da sempre insieme, per accudirsi vicendevolmente. Una storia semplice ma terribile, di una famiglia che nel disastro ha perso ben 2 membri: «Erano persone affettuose, amavano camminare insieme. Stavano andando in Policlinico perché mia zia doveva effettuare un esame e una visita specialistica». Non un contadino raggiunto dalla morte mentre lavorava nei campi, dunque, ma un passeggero come gli altri che è andato, accanto alla sorella, incontro a un destino inesorabile.
I macchinisti, capotreno e capostazione: Pasquale Abbasciano, di Andria, nato ad Andria il 17.04.1955, era uno dei due macchinisti. A fine anno sarebbe andato in pensione. Amava il suo lavoro e la campagna, coltivava ciliegie. Dopo il lavoro doveva andare ad Andria per raggiungere la figlia che era in Comune per le pratiche preliminari del matrimonio. A quanto si apprende, inoltre, qualche anno fa Abbasciano sarebbe rimasto coinvolto in un deragliamento leggero dello stesso treno ma senza conseguenze. Luciano Caterino, 37 anni, nato a Ruvo di Puglia il 29.04.1979, originario di Corato (Bari), era invece il macchinista del convoglio giallo proveniente da Bari. L'uomo nell'impatto è rimasto dilaniato. Si sarebbe sposato a breve. Il suo corpo è stato dilaniato dal tremendo impatto e recuperato a brandelli. La sua è una perdita che colpisce tutta la comunità di Corato". Così Massimo Mazzilli, sindaco del comune pugliese, ricorda Caterino. "Luciano - prosegue il sindaco - viene da una famiglia apprezzata in paese e so che il papà, un lavoratore autonomo, era rimasto vedovo da poco. Era uno che si dava da fare per vivere e so che stava preparando il suo matrimonio che era imminente. Alla notizia della sua perdita la famiglia si è chiusa in se stessa. In serata conto di incontrare i suoi cari per porgere a nome di tutta Corato il senso del nostro cordoglio". «Un grande lavoratore, un grande collega, un grande amico» dicono i colleghi della Ferrotramviaria. Tutti preferiscono il silenzio, almeno per ora: «è difficile riprendere a lavorare o anche solo a pensare». Albino De Nicolo, 53 anni di Terlizzi, nato a Terlizzi il 23.01.1959, capotreno, finora dato per disperso nella strage ferroviaria avvenuta ieri mattina sulla Andria-Corato, è ufficialmente tra le vittime accertate. Il capotreno terlizzese, 53 anni, è stato identificato già ieri presso il Policlinico di Bari. Nicola Gaeta, nato a Bari il 16.01.1960, capostazione.
Michele Corsini, 61 anni, nato a Milano il 20.02.1955, originario di Barletta, si muoveva tra la città natale, dove gestiva un bar, e Bergamo. La mattina dell’incidente aveva preso il treno per arrivare a Barletta dall’aeroporto di Bari Karol Wojtyla.
Maurizio Pisani, nato a Pavia il 26,08,1966, 49 anni, originario di Pavia, laurea alla Sda Bocconi, era il fondatore della Pisani Foor Marketing. Stava andando a prendere l'aereo per tornare a Milano, lascia una bimba di pochi anni. Viveva a Milano e proprio nel capoluogo lombardo stava tornando dopo aver passato del tempo con la figlia e la moglie (che non si trovavano sul treno) in Puglia. Cristina Chiabotto in lacrime. Nell'incidente ferroviario in Puglia che è costato la vita a un suo amico vip, un volto dell'imprenditoria e anche del piccolo schermo. Si tratta di Maurizio Pisani, 49 anni. Esperto di marketing, era uno dei giudici de La ricetta perfetta, il talent culinario condotto dall'ex Miss Italia. "Svegliarsi questa mattina e sapere che sul quel maledetto treno c'eri anche tu, Maurizio", scrive l'ex Miss Italia, "è stato un onore lavorare con te, porterò sempre nel cuore il ricordo di una tua battuta, la tua calma, la tua ironia, la tua grande professionalità e l'amore immenso per tua figlia, proprio lei che stavi correndo ad abbracciare e che raccontavi con tanta luce negli occhi". Il talent della Chiabotto è andato in onda suLa5, una delle reti digitali del gruppo Mediaset. "E' un duro colpo ed è proprio vero come la vita possa cambiare in un istante", continua la showgirl," in quel brutto gioco del destino, su un treno pronto ad unire tante anime. Il gruppo della Ricetta Perfetta vola nel tuo ricordo e stringe con un abbraccio immenso i tuoi cari. Bello averti incontrato sul mio cammino". Maurizio Pisani è stato il fondatore della Pisani Food, agenzia di consulenza e outsourcing di strategia, marketing, vendite e training legati al mondo del food. Il manager durante la sua carriera aveva lavorato nelle aree marketing di alcune delle aziende più importanti del mercato food & beverage italiano.
Maria Aloysi, 49 anni, nata a Bari il 4.10.1966, viveva a Modugno ma tornava spesso ad Andria per far visita al padre. Lascia il marito Donato e i figli LeoMarco e Andrea. Stava tornando verso Bari dopo aver passato alcuni giorni ad Andria ad assistere il padre. "Ha preso il treno all'ultimo minuto: quella mattina era molto in ritardo ma alla fine ce l'ha fatta". A parlare è Giuseppe Colaleo, cognato di Maria Aloisi, 49 anni, morta nell'incidente ferroviario avvenuto in Puglia. "Su quel treno - racconta l'uomo - avrebbe potuto esserci mio fratello: ogni giorno si davano il cambio" per assistere un loro parente. "Mio fratello l'ha accompagnata al treno - aggiunge - e quando ha visto le immagini in tv si è fatto il segno della croce". Maria Aloisi inizialmente era tra i dispersi: "Abbiamo vagato per tutti gli ospedali, alla fine ci hanno mandati al Policlinico di Bari", dove oggi ci sono stati i riconoscimenti delle vittime. "Mio fratello - precisa - ha spiegato che sua moglie aveva una collana con una lettera 'M' come ciondolo, e che aveva una cicatrice sul labbro superiore. Insomma, segni di riconoscimento". A questo punto, aggiunge, "una infermiera ha detto è probabile sia qui". Maria lascia due figli, di 21 e 28 anni.
Benedetta Merra, nata ad Andria il 18.06.1964, 52 anni di Andria, si stava recando a Bari per alcuni controlli medici.
Rossella Bruni, nata a Trani il 16.03.1994 22enne la cui famiglia è originaria di Martina Franca, una delle vittime dell’incidente ferroviario di Corato. Non c’è la formalizzazione di un elenco delle vittime per ora ma la comunicazione del sacerdote non lascia speranze. Fra l’altro, Michele, papà di Rossella, era catechista in quella parrocchia ed ha comunicato la notizia al prete. Rossella, con la sua famiglia, viveva da anni ad Andria dove il padre è funzionario comunale. Blogger, scrittrice, attivista per i diritti delle donne, la giovane originaria di Andria scriveva su "Il ritorno di Gea" con il nickname Malinii Paroliera.
Julia Favale, nata in Francia il 04.07.1965, nata a Chalon-sur-Saône, era docente di conversazione francese. Aveva lavorato presso al Liceo Classico di Andria, dove viveva, e presso il Liceo Scientifico di Barletta.
Enrico Castellano, nato a Ostuni l’1.1.1942 aveva 72 anni. 74 anni, fratello del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco. Viveva tra Torino e Cuba. Da tempo viveva a Torino ed era un dirigente del Banco di Napoli. Dopo la pensione tornava più spesso in Puglia. Lunedì era atterrato a Bari per andare a trovare il figlio in occasione del compleanno del figlio di due anni. La festa era stata organizzata per martedì che sarebbe poi coincisa con il giorno del suo onomastico, come ha raccontato il figlio Giuseppe che ha ricordato il padre: "Mi avevi abituato ad attenderti e a farti desiderare…e un po’ mi piaceva… perché rivederti era un segno di conquista e di grande appagamento. C’erano le nostre chiacchierate che parlavano di mesi trascorsi lontani l’uno dall'altro. Mi hai insegnato a vivere in modo spensierato e sfrontato trovando il giusto equilibrio tra la follia e la razionalità. Amavo il tuo stile, la tua infinita classe. Però quest’ultima parte del tuo infinito libro non l’avrei mai voluta leggere".
Donata Pepe, 60 anni, nata a Cerignola il 03.10.1953, originaria di Terlizzi, è la nonna del piccolo Samuele, il bambino trovato ancora vivo tra le macerie e salvato dai soccorritori. Donata ha salvato la vita al nipote Samuele. Il bambino di 6 anni era tra le sue braccia quando c’è stato lo scontro ed è stato salvato dai vigili del fuoco. Stavano andando a Barletta per prendere una coincidenza per Milano e tornare a casa dai genitori. Il piccolo era in Puglia per passare qualche giorno di vacanza con la nonna. “Stavo dormendo sulla nonna, e poi c’è stato quello scoppio fortissimo”, è riuscito a dire Samuele agli zii. Il ragazzino è ricoverato in prognosi riservata, ma non in pericolo di vita. Piangeva, il piccoli Samuele di 6 anni appena, con le lamiere che gli comprimevano il petto e anche il pianto era un dolore in più. Aveva tanto male, tanta paura e cercava la nonna con cui era in vacanza in Puglia. Tornavano da una gita a Bari. Non poteva muoversi incastrato tra i rottami del treno. «Tranquillo, non avere paura. Adesso ti tiriamo fuori noi», i soccorritori gli parlano con calma e con dolcezza anche se non c’è un attimo da perdere e le mani si muovono con ansia tra i sedili accartocciati. Ma Samuele continua a piangere. «Guarda qui», una delle persone che cercano di salvarlo gli mostra i cartoni animati sul telefonino. E mentre il bimbo con gli occhi pieni di lacrime si distrae con il cellulare, i soccorritori muovono le lamiere piano piano. Gli “angeli” sono scesi dal Drago 52, l’elicottero dei vigili del fuoco intervenuto sul luogo dell’incidente. Appena a terra hanno sentito le urla di un bimbo che si trovava dietro un sedile con un pezzo di lamiera che gli comprimeva il petto. Samuele è stato tirato fuori dai rottami, caricato sull’elicottero e portato in ospedale. Samuele è in un lettino del reparto pediatria con schegge di vetro nel corpo. «Gliele stanno ancora togliendo» dicono i medici che cercano in tutti i modi di proteggere questo cucciolo.
Fulvio Schinzari, nato a Galatina il 31.10.1957, era stato commissario a Canosa di Puglia e Trani. Il corpo dell’uomo è stato riconosciuto da un collega poliziotto che stava lavorando ai soccorsi. Stava tornando al lavoro dopo le ferie il vice questore aggiunto della Polizia di Stato Fulvio Schinzari, una delle vittime della tragedia ferroviaria. Da Andria, dove viveva con la moglie e due figlie (in un primo momento si era diffusa la notizia, poi smentita, che anche una di loro si trovasse sul treno), era diretto a Bari: qui, esattamente quattro anni fa, aveva assunto l'incarico di dirigente dell'ufficio del Personale della Questura. 59 anni, nato a Galatina (Lecce), Schinzari ha svolto tutta la sua carriera di poliziotto in Puglia. Ma nei ranghi della Polizia di Stato non è entrato subito. Dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1985, per quattro anni ha fatto l'avvocato. Nell'ottobre del 1989 è entrato nei ruoli dei funzionari della Polizia, dove ha ricoperto diversi incarichi. Il primo, per circa un anno, a Bari: funzionario addetto alla Squadra Mobile. A seguire, per un lungo periodo, da fine '91 a inizio 2000, è stato funzionario al Commissariato di Barletta con incarico di responsabile della squadra di polizia giudiziaria e poi, dal 2000 al 2002 ha diretto il Commissariato di Canosa di Puglia. Dal 2002 al 2005 è stato responsabile del settore Sicurezza e Protezione Civile presso il Comune di Andria e a seguire, per due anni, ha diretto il Commissariato di Corato. A Canosa, come dirigente del Commissariato, è tornato nel febbraio 2007: qui è rimasto fino al giugno 2012, quando ha assunto l'incarico di Dirigente dell'Ufficio del Personale della Questura di Bari: stava raggiungendo l’ufficio a Bari da Andria, dove abitava, per prendere servizio alle 14 dopo un periodo di ferie. «Era un poliziotto atipico», dice chi lo conosceva. La musica era la sua grande passione. «Dove sei?», chiede una signora all’amica. Sono le 15 del giorno più lungo ad Andria. «Sono in ospedale, ho accompagnato la moglie di Fulvio. Lo sta cercando, lui prende sempre quel treno. In ufficio non c’è, al cellulare non risponde...» Un urlo senza fine, la telefonata s’interrompe. È la moglie del vice questore aggiunto di polizia Fulvio Schinzari, di 59 anni. Le hanno appena detto che il marito era sul treno maledetto, il suo corpo è lì in ospedale. E lei grida tutto il suo dolore, grida finché non le manca l’aria. Fulvio Schinzari era uno dei tanti pendolari di quella linea. Viveva ad Andria e lavorava alla questura di Bari, tutti i giorni avanti e indietro. Si temeva che con lui ci fosse anche la figlia, spesso viaggiano insieme. Ma la ragazza ieri mattina non era sul convoglio accanto al padre. Lascia due figlie. Era appena tornato dalle ferie e stava andando a Bari dove 4 anni fa aveva assunto l’incarico di dirigente dell’ufficio del personale.
Antonio Summo, nato a Terlizzi il 12.11.2001, aveva 15 anni e stava tornando a casa, a Ruvo di Puglia, dopo aver partecipato a un corso di recupero per gli esami di riparazione nel suo istituto superiore a Andria. Era andato ad Andria per sostenere due esami di riparazione. Il destino lo ha fermato tra un esame e l’altro: la mattina aveva sostenuto la riparazione in una delle materie di cui aveva il debito, il professore lo aveva invitato a tornare a casa a riposarsi e tornare nel pomeriggio. Non doveva neppure andare a scuola Antonio Summo, 15 anni (nella foto sopra), Antonino per chi lo conosceva. Ieri aveva mal di pancia e suo padre gli aveva detto di non andare ad Andria. Ma Antonio ha insistito, “papà devo recuperare due debiti formativi, lo sai”. I genitori lo hanno riconosciuto dalla borsa, dai libri, dai pantaloncini e dalle scarpe da ginnastica. “Un ragazzo eccezionale, suonava la tromba al Conservatorio”, ricorda la zia Pasqua Livorti. Seconda superiore all’industriale di Andria, e una lezione finita fatalmente prima. “Il professore li ha mandati a casa in anticipo”. Alla stazione del suo paese, a Ruvo di Puglia, c’era il nonno ad attenderlo. Purtroppo invano. Il 30 giugno, Antonio aveva superato il test d’ingresso al «Piccinni», il conservatorio di Bari, come trombettista. Era orgoglioso di quel successo, se ne faceva vanto con suo padre, artigiano titolare di una falegnameria nella zona industriale, e sua madre, casalinga. Ma più ancora con suo fratello e con gli amici. Era tanto felice di poter rendere professionale lo studio della tromba che la sbavatura all’industriale era passata in secondo piano. Oggi e domani di sarebbe dovuto esibire in due uscite con la banda di paese. Esibizioni sospese, ovvio, perché Ruvo è in lacrime. Il padre non voleva che sostenesse gli esami, ma lui aveva insistito: «Non ti preoccupare papà. Io vado» gli aveva risposto. I genitori lo hanno cercato invano tra i feriti in tutti gli ospedali della zona. Sul foglietto bianco si legge: «Dal presidente da tutta la società Real football». Poi, un genitore che ha accompagnato i ragazzi, ricorda Antonio come «un giovane tranquillo, sorridente, educato», e con la «passione per il calcio. Un ragazzo che amava giocare a pallone ma a cui piaceva anche molto suonare», precisa mentre i giovani amici ricordano che «l’ultima partita a pallone insieme l’hanno giocata a giugno, per il campionato».
Jolanda Inchingolo, nata ad Andria il 10 12.1991, 25 anni, studente di Lettere e Filosofia (per altre fonti stava andando a Bari per il tirocinio prima di conseguire la laurea in Chimica). Si doveva sposare il prossimo settembre con, il ragazzo che ora urla disperato. Stava andando a Bari anche per incontrarlo. E’ stata riconosciuta da un anello con una pietra nera che portava al dito, non lo toglieva mai. Jolanda stava andando a Bari proprio per incontrare lui. Amava il suo fidanzato e amava Parigi. Sul suo profilo c’è la Torre Eiffel, e il giorno dopo gli attentati terroristici di un anno fa aveva messo la foto di loro due, modificata con i colori della bandiera francese. “Aveva un unico desiderio: fare la mamma. E chissà quanto sarebbe stata bella”.
Patty Carnimeo, 30 anni, nata a Modugno l'1.11.1985, che lascia una figlia di due anni e mezzo. "Era originaria di Bari - racconta sua zia - ma si era trasferita ad Andria dopo il matrimonio. Era un angelo, bellissima e dolcissima". Altre amiche precisano che Patty faceva l'estetista e veniva tutti i giorni a Bari per lavoro: "Prendeva sempre quel treno, non ce lo saremmo mai aspettato". "Come si fa - domanda sua zia - a spiegare a una bimba di due anni e mezzo che tua madre non c'è più? Come crescerà quella bambina senza una mamma?
Gabriele Zingaro, nato ad Andria il 30.10.1999, 23 anni di Andria. Studente di Scienze dei materiali e Perito industriale diplomato all’Istituto Tecnico Industriale Onofrio Jannuzzi e appassionato di musica. Gabriele faceva il metalmeccanico, aveva da poco trovato lavoro in una fabbrica di Modugno. Si era recato al Policlinico di Bari per farsi controllare una ferita a un dito che si era procurato in un infortunio sul lavoro. «Aiuta qualcuno. Nel dubbio. Aiuta Qualcuno» scriveva come motto sul suo profilo Facebook.
Francesco Ludovico Tedone, nato a Terlizzi il 4.01.1999, 17 anni, di Corato, appassionato di videogiochi: Francesco ha trovato la morte sul treno mentre tornava verso casa. Il giovane era uno studente dell’Itis Jannuzzi di Andria: «Era tornato alla nostra scuola dopo aver frequentato il quarto anno di informatica in Giappone con l'organizzazione Intercultura. Era stato in segreteria per l’iscrizione alla quinta classe che avrebbe frequentato da settembre» lo ricorda uno dei suoi professori su Facebook.
Salvatore Di Costanzo, nato a Bergamo il 2 11.1959, 56 anni, del quartiere Colognola di Bergamo. Di Costanzo, di professione agente di commercio, era noto nella Bergamasca per essere allenatore del calcio provinciale. Ieri pomeriggio si sarebbe dovuto recare ad Andria per un appuntamento di lavoro: volato di prima mattina da Orio al Serio, era atterrato all'aeroporto di Bari, ma dopo un sms inviato a un amico, di lui non si era avuta più traccia. Nella serata di ieri il suo nome non era tra quelli delle vittime accertate, ma verso le 22, non avendo avuto comunicazioni di alcun tipo, la moglie e il figlio Marco erano volati direttamente in Puglia per capire la situazione poi la conferma con il riconoscimento della salma da parte del figlio Marco.
Alessandra Bianchino, di Trani, aveva 29 anni, nata a Trani il 5.11.1987, viveva a Andria e, come scriveva sul suo profilo Facebook, lavorava all'Oratorio giovanile salesiano della città. Sempre disponibile per il prossimo, Alessandra Bianchino, 29 anni, natali a Trani, una laurea in Scienza dell’Educazione e un impegno sin da piccola nell'oratorio dei Salesiani di Corso Cavour ad Andria. Nel mondo dell’associazionismo e del volontariato la conoscevano tutti ad Andria. A partire dai volontari dell’Avis, impegnati da ieri in una straordinaria gara di solidarietà per la raccolta di plasma. Una esperienza tante volte condivisa con lei che già da bambina aiutava in Chiesa e frequentava il catechismo prima di proseguire il suo impegno all’insegna della solidarietà all’oratorio. Chi la conosceva - come Giampaolo, un amico d’infanzia - la descrive come «una ragazza dolce, affabile, piena di voglia di vivere». Sembra fosse di ritorno dall'aeroporto di Bari dopo un breve soggiorno a Milano da parenti.
Giovanni Porro, l'ultimo a essere identificato è stato, nato ad Andria l’1.06.1956, 60 anni, di Andria, che lavorava presso la Comunità Montana di Ruvo e si stava recando lì. Giovanni Porro, “ultimo” tra gli sventurati. A casa non c’era nessuno ad aspettarlo e nessuno poteva immaginare il suo triste destino, scrive Sabino Liso su “Andria Live” il 15 luglio 2016. Porro Giovanni, andriese classe 1956. Chi ha avuto modo di conoscerlo lo ricorda come una persona schiva, molto umile; viveva da solo, non aveva né moglie, né figli ad aspettarlo a casa. Un fratello e una sorella con i quali non si sentiva assiduamente. Martedì si stava recando a Ruvo, presumibilmente, sul posto di lavoro: era impiegato presso la Comunità Montana. «Ultimamente – ci racconta suo nipote Francesco– era ossessionato da un fantomatico trasferimento professionale a Bari. Aveva me come punto di riferimento, si era allontanato da tutti. Ha vissuto nell’ultimo periodo una fase difficile della sua esistenza ma cercava di andare avanti nonostante tutto. Schivava l’aiuto degli altri; piuttosto, assisteva le persone in difficoltà. Un modo per reagire alla vita che è stata caratterizzata da innumerevoli delusioni, fino all’ultimo». Martedì non ha detto a nessuno che stava uscendo di casa e nessuno avrebbe potuto immaginare che fosse su quel treno maledetto che alle ore 11.00 si è andato a schiantare. È stato l’ultimo tra le vittime ad essere riconosciuto presso l’ospedale di medicina legale di Bari. Ad effettuare il riconoscimento della salma c’erano Francesco e sua moglie Ketty. Francesco ci racconta che dopo aver appreso della tragedia ha subito chiamato al cellulare suo zio, inviando anche innumerevoli messaggi, ma senza avere risposta. Questo è accaduto fino alle sera di martedì. Conseguentemente si è recato a casa sua ma anche lì non c’era traccia della sua presenza e nemmeno i vicini sapevano dare notizie sul suo conto. Ha pensato di andare a dichiarare la sua scomparsa al palasport dov’era in corso il censimento dei dispersi ma anche lì Giovanni Porro non compariva in nessuna lista né degli infortunati e né dei deceduti. Lì uno spiraglio di luce, che purtroppo svanisce quando viene esortato dalla Polizia a recarsi a Bari. Ci è voluto poco per capire che, forse, tra le 23 vittime c’era anche suo zio. Poi la corsa all’istituto di Medicina Legale e la triste scoperta. È morto a 60 anni Giovanni Porro, ultimo tra gli sventurati. Problemi di socializzazione accelerati da qualche sfortunata circostanza di troppo. L’infinito, ora, potrà dargli tutto ciò che in vita non è riuscito a prendere. A guardare la sua foto, Giovanni aveva in sé una bellezza che solo i “vinti” sanno trasmettere. Una bellezza che ci invita a riflettere sull’importanza di non rimandare a domani le carezze, una pacca sulla spalla, una parola di conforto verso chi è più debole. Verso gli ultimi.
Le testimonianze dei sopravvissuti. Le testimonianze raccolte dal cronista di Tele Sveva subito dopo l'incidente tra Andria e Corato. Una signora ai microfoni di Tg Sveva: "Ho liberato mio marito togliendo le macerie con le mani". Volontario della Protezione civile: "Numerosi bambini si sono messi in salvo da soli scendendo dalle vetture". «L’ho tirato io da sotto le macerie», dice sconvolta una sopravvissuta. «Io scalza», continua. «E sono andata da mio marito che gridava». «Io non mi ricordo niente» dice il marito di lei. Confuso. Incredulo. Una ferita alla testa: «Gambe e piedi delle persone a pezzi». Poi riprende la moglie: «Scavalcare è triste», e si riferisce ai corpi che ha dovuto superare per aiutare il marito ad uscire dalle lamiere. «Ma per gli altri non potevo fare niente. Stavano le loro gambe in un altro posto». “Quel rumore, non lo dimenticherò mai. E poi il buio, i lamenti. Le grida, tante grida. Riesco ad alzarmi, comincio a camminare, mi accorgo che sotto di me ci sono dei cadaveri. Li pesto, vado avanti. Cerco Matteo, mio marito. Urlo il suo nome, ma lui non mi sente. Poi riesco a trovarlo: è incastrato nelle lamiere. Scavo con le mani, cerco di togliergli di dosso quei pezzi di ferro. Alla fine ci riesco, non so neanche io come, e attraverso un buco del treno lo porto fuori. Restiamo lì, abbracciati.” Questa è la storia di Giuseppina Rutigliani, la donna sopravvissuta al disastro ferroviario che ha salvato il marito. Giuseppina e Matteo sono sposati da 40 anni e si sentono miracolati, sono sopravvissuti. Non è stato così per gli altri 27 passeggeri del treno maledetto. Un altro testimone ha aggiunto: “Stavo ascoltando la musica, poi mi sono trovato a terra senza riuscire a muovermi. Ho visto anche il controllore che purtroppo era bloccato e insieme ad altri abbiamo aspettato i soccorsi. Non doveva succedere”. Una studentessa universitaria ci racconta tra le lacrime: «Ho visto le mie amiche morire davanti a me, senza poter fare nulla. É una scena che non dimenticherò mai, abbiamo sentito lo schianto e nessuno si spiegava il perchè». La confusione e lo shock sono stati fortissimi anche in un'altra ragazza, che lavora in un noto pub andriese, che ancora attonita ci ha dichiarato: «Io non so come sia successo. So soltanto che eravamo partiti da Andria e abbiamo sentito la botta fortissima. Non si riusciva a capire nulla, se dovessimo scendere dal treno. Sentivamo le urla, ma fino a che sono arrivati i soccorsi eravamo tutti in stato di shock». "In quel momento mi trovavo in mezzo al campo, a una cinquantina di metri dal luogo dell'incidente, stavo finendo di montare l'impianto di irrigazione dell'orto quando ho sentito un boato. Ho visto tantissimi detriti che volavano verso l'alto. Mi sono subito precipitato perché non è una cosa che si vede tutti i giorni. Mio papà è proprietario di queste terre da venticinque anni e non è mai successa una cosa del genere. Mi sono avvicinato, ho aiutato delle ragazze a scendere dal treno e ho indicato ai soccorsi la posizione in cui ci trovavamo. Erano tutti spaventati, per fortuna i passeggeri di dietro erano illesi, solo un po' doloranti". A parlare è un ragazzo che lavorava nei campi, ieri mattina, al momento dello schianto fra i due treni in Puglia; in queste ore vengono raccolte le dichiarazioni anche dei sopravvissuti. Uno dei primi soccorritori arrivato sul posto, il volontario della Protezione Civile Felice Gammariello, ha detto che numerosi bambini che viaggiavano sui due treni si sono messi in salvo da soli scendendo dalle vetture. Gammariello ha sottolineato che la maggioranza dei feriti, in base a quello che ha potuto notare, aveva diverse fratture. Ha infine lodato la “rapidità dei soccorsi” in quanto pochissimi minuti dopo la collisione sul posto erano a lavoro già molte squadre. Nel primo pomeriggio una donna si è presentata all’ospedale di Barletta cercando disperatamente la figlia. La ragazzina è stata rintracciata qualche ora dopo: è ricoverata e le sue condizioni non sono gravi. Mamma e figlia si sono abbracciate in ospedale tra la commozione di medici, pazienti e soccorritori. Una donna all’ottavo mese di gravidanza invece ha raccontato: “Mi sono sentita spingere avanti, è successo tutto così velocemente e non ho capito granché. Sono stata salvata dai ragazzi che erano sul treno”. La donna è stata intervistata dal Corriere del Mezzogiorno subito dopo l’incidente, nella campagna dove i superstiti si sono raccolti. “Ho visto mia madre a terra, mio padre e mia sorella avvolti nel sangue. I ragazzi che stavano sul treno ci hanno aiutati a scendere e a metterci in salvo. Sono incinta all’ottavo mese, non riesco a credere a quello che è successo”. Anche Marianna Tarantini, volontaria del Ser di Corato, è fra le prime persone a essere giunte ieri sul luogo tragedia. E oggi è ancora qui per continuare a prestare soccorso. Ha ancora gli occhi pieni di lacrime, mentre racconta i momenti dopo il disastro. Ha trovato corpi ammassati l'uno sull'altro, nel migliore dei casi. C'erano "teste, braccia, mezzi busti sparsi ovunque sotto gli ulivi". In mezzo, i corpi ancora intatti di due vittime, rimaste abbracciate anche dopo aver perso la vita. "Erano contro un ulivo - ricorda commossa -, la mamma con il suo corpo proteggeva la bimba piccola ed erano in posizione fetale. Sono le prime che ho trovato". Una scena struggente, ma allo stesso tempo di una dolcezza infinita. "Chi è mamma può capire la dolcezza infinita di questi corpi abbracciati, con la madre che ha tentato fino all'ultimo di proteggere la sua bambina". La morte le ha portate via insieme, l’una nelle braccia dell’altra. I soccorritori le hanno trovati così, strette strette come se fino all’ultimo avessero tentato di proteggersi, di farsi scudo con i corpi. Madre e figlia, immobili nell’abbraccio tra le lamiere accartocciate, tra le urla e il sangue e i corpi feriti. Madre e figlia non si muovevano più, inutile qualsiasi tentativo di salvarle. E tra le tante storie di morte che circolavano ieri ai margini dei binari insanguinati c’era la loro. «Le hanno trovate abbracciate», un dettaglio in più che aggiunge solo strazio a una giornata che non conosce altro che lacrime. Un’immagine che presto avrà anche una storia e si saprà chi era questa mamma che con il suo abbraccio ha tentato di salvare la figlia, l’ultimo gesto disperato. E dove andavano prima che lo schianto le fermasse.
Disastro ferroviario, le drammatiche testimonianze. Le agghiaccianti parole di chi è riuscito a salvarsi, scrive “Norbaonline” il 12 luglio 2016. "Quel rumore, non lo dimenticherò mai. E poi il buio, i lamenti. Le grida, tante grida. Riesco ad alzarmi, comincio a camminare, mi accorgo che sotto di me ci sono dei cadaveri. Li pesto, vado avanti. Cerco Matteo, mio marito. Urlo il suo nome, ma lui non mi sente. Poi riesco a trovarlo: è incastrato nelle lamiere. Scavo con le mani, cerco di togliergli di dosso quei pezzi di ferro. Alla fine ci riesco, non so neanche io come, e attraverso un buco del treno lo porto fuori. Restiamo lì, abbracciati. Poi qualcuno ci separa e ci porta in ospedale. L'ho rivisto ora". Giuseppina Rutigliani accarezza la mano di Matteo Mascoli: stanno insieme da 40 anni e questa mattina stavano andando a Corato all'istituto dove è ricoverato il loro figlio disabile. Dovevano pagare la retta. Ora invece sono ricoverati all'ospedale “Bonomo” di Andria, assieme ad altri 26 sopravvissuti dello scontro. Loro ce l'hanno fatta, possono raccontare l'incubo che hanno vissuto e l'orrore che si porteranno dentro per sempre, dopo aver visto certe immagini. Ad esempio quelle che descrive con le lacrime agli occhi Enza, l'operatrice del 118 di Corato. "Quando siamo arrivati c'erano pezzi di corpi ovunque. Ad un certo punto abbiamo visto una donna che era come rannicchiata su se stessa, con le braccia incrociate sul petto. Ci siamo avvicinati e abbiamo capito: tra le braccia stringeva la sua bambina, ha cercato di proteggerla in tutti i modi. Enza non riesce ad andare oltre, dice solo: "le lamiere, le lamiere l'hanno dilaniate". Al Bonomo i sopravvissuti li riconosci dallo sguardo perso nel vuoto. Dalla labbra che ancora tremano per la paura. Monica Gigantiello sta andando a fare una tac, ha 24 anni. "Ero seduta di spalle, ho sentito soltanto un boato invadere tutto il vagone e poi mi sono ritrovata a terra. Tra noi c'era un signore che lavorava per il 118 e ci ha salvato, è riuscito a farci uscire". Cosa hai visto Monica? "Non voglio ricordare, ma non riesco a mandare via tutte le urla". Sabino, invece, ricorda. Lui è il figlio del vecchio primario del pronto soccorso dell'ospedale di Andria. "Mai avrei pensato di essere testimone di quello che papà mi ha raccontato tante volte, mai avrei creduto di poter vedere così tanto orrore". E invece non è andata così. "Per miracolo, sono vivo per miracolo. Non mi ricordo nulla, sono vivo per miracolo", butta fuori con un filo di voce Michele, 35 anni. A lui gli è andata bene, solo qualche ferita lieve. Si aggira per il pronto soccorso come uno zombie, qualcuno che è tornato da laggiù. Ognuno di quelli che ce l'ha fatta, dicono i medici, è sotto choc. Continuano a ripetere di aver visto decine di cadaveri, di sentire ancora le urla della gente attorno a loro. Oppure stanno in silenzio. E chissà cosa ha visto, cosa ha pensato, Giuseppe Acquaviva. Chissà se ha fatto in tempo a pronunciare qualche parola. Perché la sua morte è pura follia, un maledetto sbaglio. Giuseppe faceva il contadino, era nel suo campo questa mattina. Stava raccogliendo il frutto del suo lavoro. Poi è arrivato lo schianto, le lamiere che si contorcono, i finestrini che esplodono, i pezzi di ferro lanciati a velocità folle in tutte le direzioni. Uno di questi lo colpisce in piena testa. È un attimo. "Non aveva alcun segno sul corpo”, raccontano i medici del Bonomo, “solo un buco impressionante in testa. Non c'era nulla da fare". Tranne che inserire il nome di Giuseppe nella lista dei morti del treno.
La testimonianza di Valentina Achille, sopravvissuta alla sciagura ferroviaria, scrive Serena Ferrara il 13 luglio 2016 su “Bisceglie in diretta”. «Avevo scelto le ferrovie del Nord Barese perché sono più pulite, confortevoli e puntuali». Valentina Achille, 24 anni, studentessa in scienze politiche prossima alla laurea, ce l’ha fatta. È tra i sopravvissuti del più tragico incidente ferroviario della storia della Puglia. Tranese, volontaria del centro di Bisceglie “Tra Naso e Coda”, divide la sua vita tra Trani, Bisceglie ed Andria. Una ragazza dal cuore d’oro, la descrivono gli operatori dell’ASD di via Luchino Visconti, che con lei hanno condiviso tanti momenti di impegno civico. Due costole rotte e alcune ferite sul volto, la diagnosi dei medici dell’ospedale Bomono di Andria, dove la ragazza, ricoverata, trova la forza di scrivere un lungo, commuovente messaggio su Facebook. Valentina era partita alle 7.30 da Trani, in direzione Bari. Ad accompagnarla il fidanzato Pietro Loconte, di Andria, che la stava supportando nel difficile periodo della stesura della tesi di laurea. Aveva scelto Ferrotramviaria e non Trenitalia, anche in questa occasione «per l’igiene, il comfort, la puntualità» Per lei, la mattinata si era conclusa positivamente, con un ok dato sul lavoro svolto da parte del prof. dell’università. Il treno del ritorno l’avrebbe accompagnata dalla sorella prima, dal fidanzato ad Andria poi. «Ieri mi ero svegliata con tanti buoni propositi… appena rientravo da Bari sarei andata da mia sorella e poi a pranzo dal mio ragazzo. Ho sempre preferito la Barinord al Trenitalia…per l’igiene, il confort e soprattutto la puntualità (una volta sono rimasta 3h in treno nelle fs). Ieri ero felice, il capitolo della tesi va bene e potevo andare avanti, J Ax nelle orecchie e il solito viaggio…» racconta. Poi lo scontro, annunciato da “qualcosa che non andava”: più fermate sospette durante il viaggio, diversi inceppamenti del mezzo, di cui ufficialmente nessuno ancora parla. «Un solito viaggio che però stava avendo problemi… troppe volte abbiamo sostato e che qualcosa non andava si sentiva. Un attimo e mi sono ritrovata sotto il tavolino dei sedili… un forte boato “cazzo sta succedendo??” … il tempo di riprendermi e un ragazzo si è accertato delle mie condizioni… ho pensato ad una bomba poi non so forse per pensare ad altro ho iniziato a cercare la borsa per bere acqua che non ho più bevuto… una testa su di un albero … cazzo vale sei viva… ho pensato e subito le lacrime mi hanno attraversato! la mia maglia sporca di sangue e il petto dolorante… grazie al ragazzo della valigia blu e a quello della campagna siamo usciti dal treno...». A soccorrerla, grazie ad un messaggio Whatsapp, il fidanzato, giunto sul posto grazie alle indicazioni inviate tramite tracciamento GPS dalla fidanzata, che solo così si è potuta salvare. «Eravamo salvi… era una tragedia più grossa di quello che pensavo… ho avvisato Pietro, mia sorella e famiglia e un paio di amici nessuno ci credeva …io non ci credo ancora … questa notte ho rivissuto tutto… ma io sono viva… si viva... distrutta ma viva … nel 2016 non si può morire così!!! cosa ho pensato una volta qui? che devo essere grata di poterlo raccontare…piango per il dolore di chi ha perso cari e di chi è ancora a rischio! Sono felice per la ragazza bionda che ho accompagnato… fin quando non ho saputo che stava bene io non avevo dolori … appena rilassata ho pensato che forse proprio così bene non sto ma poco importa sono viva e devo alzarmi!!» Commuoventi le parole di ringraziamento che scrive d’un fiato sul web: «Ringrazio il mio ragazzo, la mia vita, che ha anche aiutato il 118 ad arrivare su quel luogo dimenticato da Dio… gli operatori del pronto soccorso e tutto l’ospedale … i dottori e infermieri che mi hanno rassicurato e confortato... che hanno asciugato le mie lacrime e detto” non è una gara a chi soffre meno, chiedi aiuto e piangi quanto vuoi … ma rilassati!” La mia famiglia, non che quella di Pietro e le mie custodi… mi sono vicine … come tutti voi che mi avete contattato! Siate felici per me… camminerò e riprenderò a pieno la mia vita! certo le ferite fisiche… la cicatrice al mento e le costole fratturate resteranno con me per sempre ... quelle degli occhi che hanno visto e del cuore stremato dalle urla, per cui non potevo fare nulla, le userò per farmi forza! Ora si va avanti, soprattutto per coloro che non ci sono più!! Ringrazio il mio Papà che dal cielo mi ha fatto da scudo, ne sono sicura! Ancora grazie e scusate se non rispondo … ma sono scossa mi fanno male i denti e piango». Anche Pietro è molto scosso, quasi avesse perso alcuni anni della sua ancor giovane vita: «La prima telefonata è arrivata alle ore 11.00 – racconta – ma ero convinto che Valentina fosse arrivata in stazione, ad Andria, e non risposi. Subito dopo arrivarono altre due telefonate: alla terza capì che era il caso di rispondere. La voce era straziante, piangeva, non capivo cosa stesse succedendo. Decisi di affidarmi all’istinto: mi misi subito in sella alla Vespa per cercare una pattuglia e ricevere delle indicazioni. Nessuno sapeva di cosa stessi parlando. Ho seguito la prima ambulanza che ho visto sfrecciare lungo la direzione dell’incidente, ma fummo costretti a fermarci, perché non conoscevamo il luogo esatto dell’incidente. Fu un operatore del 118, frattanto giunto sul posto, a fornirmi la posizione tramite whatsapp, dopo alcuni minuti. Giunto sul posto, mi si parò di fronte una scena orribile: tutti urlavano, c’erano persone piene di sangue, gente che non dava segni di vita. Non sapevo dove andare, cosa fare, correvo da una parte all’altra senza riflettere. Alle 11.40 telefonai nuovamente a Valentina, che si trovava dall’altra parte del binario. La raggiunsi con il cuore spezzato e decisi di portarla via da quell’inferno maledetto. Fornì aiuto a chi potevo e mi misi in macchine insieme ad un’altra ragazza e un ragazzo. Riuscimmo a raggiungere il pronto soccorso di Andria alle 12.00. Prime notizie alle ore 17.00: Valentina era salva, ricoverata al quinto piano per via delle fratture. Grazie a chi si è preso cura della mia Valentina, grazie a chi ha reso possibile il miracolo».
Lo studente, il contadino, l’agente: quelle vite perdute fra gli ulivi in Puglia. Il pellegrinaggio dei familiari nelle camere ardenti degli ospedali. Lo strazio del riconoscimento, solo in cinque avevano i documenti, scrive Francesca Paci il 13/07/2016 su “La Stampa”. Il nonno di Antonio urla come un pazzo. Per ore la famiglia Summo ha girato da un ospedale all’altro, Andria, Barletta, Bisceglie, cercando tra i feriti il quindicenne che non rispondeva più al cellulare. Giungono all’istituto di medicina legale del Policlinico di Bari verso le 18. I genitori non ce la fanno a entrare e tocca a questo omone con la camicia madida di sudore riconoscere il nipote tra i corpi a cui ancora mancano i nomi. Solo cinque avevano i documenti addosso: il resto delle borse, gli zainetti, i portafogli, tutto è sparpagliato tra le macerie nella campagna degli ulivi insanguinati. Antonio è lì dentro, il nonno impreca contro il cielo, mamma e papà, fuori, inebetiti nel caldo torrido, rivivono in trance le ultime immagini del ragazzino, quasi a convincersi che la sorte avrebbe potuto essere diversa: «Gli avevamo detto di non andare. Non serviva che pendolasse ogni giorno tra Andria e Ruvo per recuperare quelle due materie. Ma Antonio ci teneva tanto, gli piaceva l’istituto tecnico, voleva seguire le lezioni e arrivare a settembre prontissimo. Non doveva andare e invece è andato e poi il preside della scuola gli ha detto che avendo lavorato bene poteva tornare a casa prima, poteva prendere il treno in anticipo, poteva arrivare per pranzo e non è arrivato più...». Per tutto il pomeriggio la camera mortuaria del principale ospedale del capoluogo pugliese, dove si trovano 20 delle 27 vittime della tragedia ferroviaria di ieri, accoglie un’umanità sbandata, confusa, disperata ma anche incredula, attonita, aggrappata a speranze già dissolte. Una signora dai capelli argentei indossa ciabatte e una vestaglia a fiori incrociata sul seno, era ai fornelli quando l’hanno chiamata. Due ragazzi barcollano abbracciati, lei ripete singhiozzando «non c’era nessun bisogno che andasse oggi a comprare quel maledetto macchinario ma sembrava sempre che i campi non potessero aspettare». Un uomo sui quaranta s’incammina verso l’obitorio con un bollettino che sbuca fuori dal taschino della camicia, viene direttamente dall’ufficio postale. Lo schianto dei treni dei pendolari ha colto le loro famiglie nella routine di giornate scandite dal bacio del mattino e da quello della sera. Tutti cantilenano il mantra dell’impossibile rassegnazione «Non si può morire così nel 2016». C’erano braccianti, studenti, impiegati, chi andava e chi tornava, c’era il tessuto produttivo della regione a bordo dei vagoni accartocciati come si fossero divorati a vicenda divorando al tempo stesso la campagna circostante e il contadino ucciso dalle lamiere volanti mentre si arrampicava su uno dei suoi ulivi. C’era Fulvio Schinzari, 59 anni, alto funzionario della polizia di Bari, una scomparsa che lascia i colleghi della Questura balbettanti, sotto shock, tutti incollati alle foto di treni in corsa che Fulvio aveva postato online appena qualche giorno fa. C’era il settantatreenne Enrico Castellano, un ex funzionario del Banco di Napoli ormai residente a Torino da quasi mezzo secolo che era rientrato ad Andria lunedì per festeggiare il compleanno del nipotino oggi, 13 luglio, onomastico di San Enrico: data la mattinata oziosamente soleggiata aveva pensato di trascorrere un po’ di tempo con i vecchi amici di Bari, il fratello, la sorella, aveva appuntamento in un ristorante sul mare, qualche ora appena e poi di nuovo in treno per la cena a casa del figlio. E c’era Pasqua, una estetista di trent’anni che come sempre si recava al lavoro da Andria a Bari, poco più di un’oretta di viaggio durante la quale guardare e riguardare sul telefonino gli scatti più recenti della figlioletta di due anni. Pasqua, come diversi altri, non risulta tra i feriti, il cellulare è muto, sua cugina Tamara, studentessa di medicina a Roma, aspetta notizie sugli scalini della camera mortuaria dove un gruppo di giovani psicologhe si è messo a disposizione per l’assistenza ai famigliari. Non piange, Tamara. Parla e, a tratti, tira lunghi sospiri: «Sono a Bari in vacanza, come ogni estate. Sarà deformazione professionale ma dopo aver chiamato tutti gli ospedali ho cercato di mantenere la calma e sono venuta qui, tra poco arriverà anche il padre di Pasqua. Suo marito invece no, si è precipitato sul luogo dell’incidente ed è rimasto là, vorrebbe scavare tra i rottami. Ci vorranno ancora alcune ore per il riconoscimento, dicono che quattro o cinque corpi sono ridotti molto male, a noi che siamo fuori chiedono segni particolari, cicatrici, tatuaggi, il colore e il tipo degli abiti indossati». L’obitorio del Policlinico è una sorta di non luogo. C’è un ragazzo di 25 anni che cerca la fidanzata del fratello e poi la trova e vorrebbe non averla trovata e si accascia e singhiozza come un bambino. C’è una signora bionda che si appoggia a corpo morto a un uomo dai capelli bianchi, il fratello di suo padre che, ripete, gli assomiglia come una goccia d’acqua. Non hanno voglia di raccontare, ma parlano a voce alta, piangono, imprecano: «Gli piaceva sedersi davanti, sempre davanti, anche in aereo. In treno cercava sempre il posto nel primo vagone. Quando ho realizzato che papà era su quel convoglio ho preso la macchina e ho guidato come un automa fino là, mi sono gettata tra quelli dei soccorsi, mi tenevano in dieci, urlavo che dovevo salvare mio padre». Cala la sera e le anime perse sono ancora qui. Qualcuno cita la storia della mamma trovata abbracciata alla figlia, morte entrambe, un unico inscindibile corpo. «Meglio non sopravvivere», mormora una ragazza accasciandosi sugli scalini: è stata qui tutto il giorno e solo alla fine l’hanno fatta entrare a guardare tra le salme.
Quelle due Italie allo specchio, scrive Massimo Gramellini il 13/07/2016 su “La Stampa”. Quale sarà la vera Italia? L’Italia che nel secolo dell’alta velocità boccheggia ancora sopra un binario unico, oppure quella che di slancio si mette in coda nelle corsie d’ospedale per donare il proprio sangue ai feriti? Il guaio è che sono vere tutte e due. Lo sono sempre state, in guerra e in pace, tra le scintille della tragedia e nella prosa della quotidianità. La prima Italia, così ripetitiva e immutabile nei suoi vizi, ogni volta ci sgomenta al punto da farci dimenticare l’esistenza dell’altra, sentimentale o semplicemente viva, che invece sopravvive intatta tra le pieghe del cinismo disseminato a piene mani spesso dai ceti più colti. Ieri in Puglia l’egoismo ha conosciuto la sua giornata nera. Subito dopo che l’incidente ferroviario aveva depositato sul terreno uno strascico di dolore, è bastato che i medici lanciassero la richiesta urgente di sangue del gruppo “0” positivo perché una comunità intera interrompesse qualsiasi attività e si mettesse in movimento. Da Andria a Molfetta, da Trani al Policlinico di Bari, non esiste nosocomio della zona che non sia stato letteralmente travolto dagli aspiranti donatori. Una fiumana di operai, professionisti, ma soprattutto studenti. A Bari i laureandi in medicina sono usciti dall’aula in cui avevano appena sostenuto gli esami per correre in massa al pronto soccorso: erano talmente numerosi che hanno dovuto prendere il numeretto come alle poste. Chi era arrivato a stomaco pieno cedeva il suo e si metteva in fondo alla coda, così da digerire in tempo utile per sottoporsi alla trasfusione. E i «social», che tanto spesso assomigliano a un binario unico che veicola soltanto odio, almeno per un giorno si sono trasformati in un trampolino di appelli e informazioni vitali. Dai giorni lontani dell’alluvione di Firenze e degli «angeli del fango» che accorsero a metterne in salvo i capolavori, il richiamo emotivo dell’emergenza agisce sui giovani come una molla. E ci ricorda sostanzialmente due cose. Che i ragazzi, in mezzo a mille difetti, hanno riserve pressoché inesauribili di entusiasmo ed energia. E che una società capace soltanto di umiliarli e di deprimerli, affogando i loro sogni esistenziali dentro «stage» infiniti e lavori sottopagati, sta commettendo l’unico delitto che potrebbe distruggerla: quello di lesa speranza.
Il giornalista Antonio Loconte: "II selfie notturni col bambino in braccio di chi chiama noi giornalisti sciacalli". E su Facebook insulti alle vittime, scrive su "ilquotidianoitaliano.com" il 13/07/2016. “No, non siamo parenti, siamo solo venuti a vedere la scena per fare qualche foto da avere sul telefonino. Un fatto così quando ricapita più”. A scrivere è Antonio Loconte, un giornalista di Qi-Il Quotidiano italiano Bari, che sta facendo il suo lavoro di cronista dal luogo dell'incidente. Scrive sul suo giornale: La storia è sempre quella: i giornalisti sono sciacalli, ma non si può fare a meno della loro faccia tosta per portare alla luce storie e fatti altrimenti sepolti, in questo caso dalle lamiere accartocciate dei due convogli pieni di pendolari: studenti, pensionati, operai. Gente comune pronta a un’altra levataccia, mentre quelli con la pancia piena un treno come quello non sanno neppure com’è fatto. Dopo dodici ore sul luogo del disastro, al palazzetto dello sport e all’ospedale di Andria, dove altra gente comune prestava soccorso ai feriti, vedendo morire i più gravi, intorno alle 23 ho assistito a una scena altrettanto difficile da dimenticare. Il suo racconto continua. Mentre cercavano la macchina di un collega, ecco che vedono due autovetture. Sono parenti, amici di qualche disperso? È a quel punto che inizia il dialogo di un tempo che non appartiene neppure a noi “sciacalli”. Siete parenti? mi dispiace profondamente per quanto è successo, spero riusciate ad avere presto buone notizie. L’approccio è quello di chi non aveva visto altro che morti e feriti, lacrime e disperazione. L’uomo, con un sorriso beffardo, risponde come se stesse andando a vedere al cinema un film su un incidente ferroviario: “No, non siamo parenti, siamo solo venuti a vedere la scena per fare qualche foto da avere sul telefonino. Un fatto così quando ricapita più”. Avrei voluto dargli un pugno in faccia, invece, non ho avuto neppure la forza di rispondere. Mi sono consolato con l’immagine della mamma trovata abbracciata alla figlia nell’ultimo tentativo di strapparla alla morte. Non ce l’hanno fatta entrambe, insieme ad un’altra trentina di persone. Sarò anche uno sciacallo, ma dopo aver fatto il mio lavoro, dopo aver cercato di raccontare il disastro in maniera rispettosa e appassionata, le foto dal mio telefonino le ho cancellate. Ma su Facebook c'è anche chi insulta le vittime: "Venti terroni deceduti, 35 feriti gravi. E' questa la grande notizia che ho appena sentito Venti non sono tanti ma sono pur sempre meglio di niente". E' il post choc apparso su Facebook sotto l'account di Giorgio Cutrera e contro il quale le volontarie del Ser di Corato, le prime a prestare soccorso sul luogo del disastro ferroviario, si scagliano furibonde mentre prendono parte ai soccorsi. "Non sono morti venti terroni, sono morti venti italiani come te.
Vergognati. Sei tu che non meriti di essere vivo", si indigna Enza, commentando il messaggio arrivato via web.
Lo scontro dei treni: "Sì, ho alzato la paletta, ma sono anch'io vittima di questo dramma". Il capostazione di Andria chiuso nella sua casa insieme alla moglie: “Lo so, adesso tutti ci odieranno”. Ma i colleghi lo difendono, scrive Giuliano Foschini il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. "In questa storia anche noi siamo delle vittime. Siamo disperati ma un solo errore non può aver causato tutto questo". Al primo piano di una palazzina nella zona dello stadio di Corato, il capo stazione di Andria Vito Piccarreta e sua moglie sono barricati nel dolore. Lia è appena tornata da Medjugorje dove era andata con don Vito, il prete della parrocchia del Sacro Cuore che la famiglia frequenta da sempre. Sua figlia non è andata al lavoro, un negozio di telefonini in centro che gestisce nel centro della città. "È gente per bene, saranno distrutti", dicono al panificio di fronte. E hanno ragione. Sono distrutti: "Stiamo soffrendo, quelle immagini sono inaccettabili, tutto quel dolore, quello che è accaduto è incredibile. Ma non è pensabile dare la colpa di quello che è successo soltanto a un errore umano. Non è così", dice la signora. E probabilmente ha ragione: non può essere soltanto un errore umano. Lo ha detto chiaramente il procuratore aggiunto Francesco Giannella: "Non ci fermeremo assolutamente alle prime responsabilità. L'errore umano è soltanto il punto di partenza di questa storia". Spiega un investigatore: "Il problema non è il binario unico perché in Italia la maggior parte dei treni viaggiano sul binario unico. Il problema è il sistema di controllo che ovunque è automatizzato tranne che qui". Qui fanno tutto i capistazione e i macchinisti. E se sbagliano tocca soltanto a loro rimediare. Gli intoppi sono sempre accaduti. Ma prima era molto più facile rimediare perché su questa linea viaggiavano pochi treni. Da qualche anno, da quando le Ferrovie del Nord Barese sono state rilanciate, e ancora di più negli ultimi mesi con l'introduzione del metro per l'aeroporto di Bari, le corse sono aumentate. E c'è stata grandissima attenzione ai ritardi: treni supplementari, corse eccetera. Questo ha portato un carico di lavoro maggiore pur lasciando inalterate però le obsolete tecnologie di sicurezza. Risultato: lo scontro. Piccarreta d'altronde non fa un mistero di quello che ha accaduto: "È vero quel treno non doveva partire. E quella paletta l'ho alzata io: non sapevo che da Corato stesse arrivando un altro treno per questo ho dato il via libera", spiega oggi, così come ha confermato ai funzionari che stanno conducendo l'inchiesta interna. A loro ha provato a spiegare che quella era stata una giornata complicata, i treni che portavano ritardo, c'era stata l'aggiunta di un treno supplementare e dunque in quel lasso di orario era previsto l'arrivo di tre treni e non dei soliti due, i macchinisti che assemblavano nuove vetture per sopperire il ritardo. "È stata una giornata molto particolare", dice. "Ma quello che è successo è troppo". Troppo. "So che ora se la prenderanno tutti quanti con noi", dice la signora Lia, a casa. "Mio marito è il capro espiatorio perfetto. Ma non è giusto: perché è un lavoratore serio, in questi anni ha fatto sempre e soltanto il suo dovere. Questa è una tragedia troppo grande per noi. È un lutto, abbiate rispetto del nostro dolore". Ecco perché questo capostazione di Andria non è Schettino. Non c'era alcuna ragazza che ballava nella sua stanzetta dello scalo di Andria. Non ha abbandonato nessuna nave. Ha commesso un errore, un gravissimo errore ma ha perso un amico. Un caro amico: Pasquale Abbasciano, uno dei macchinisti morti nello scontro era come uno di famiglia. Stessa città, stesso lavoro, tutti i giorni l'incrocio su quel binario. Uno a bordo del treno, l'altro alla guida delle vetture. "Era uno di noi", racconta fuori dalla chiesa Cataldo Angione, uno dei colleghi. "Vito è persona seria e scrupolosa. Grandissima esperienza. Ma sotto pressione, come sono i nostri colleghi negli ultimi tempi, è più facile sbagliare". Dicono gli amici e colleghi alla stazione di Andria, dove l'azienda ha dato loro la consegna del silenzio: "Non dovete chiedere a Vito perché ha alzato quella paletta ma a qualcun altro perché non è in grado di controllare il nostro lavoro. Noi guidiamo treni. Non siamo piloti di aereo". Nel pomeriggio le finestre di casa Piccarreta sono chiuse. In serata un lungo fiume di persone è per strada. Sono qualche centinaio, portano candele in mano e hanno la faccia rigata dal pianto. Corato è una città segnata dal dolore, molte delle vittime, a partire proprio dai colleghi di Vito, vivevano in questo paese. La città è a lutto, le saracinesche sono abbassate, questa marea di ragazzi è partita da piazza Cesare Battisti e si dirige in silenzio verso la stazione. In testa c'è un prete e un fascio di fiori bianchi. Lia dice: "Ci odieranno" e invece qui in mezzo in molti conoscono Vito, ne parlano con calore misto anche ad affetto. "Uno come lui, seppur con la sua fede, non potrà reggere un dolore così grande" dice Luca Fiore, un ragazzo che frequentava la stessa parrocchia. Il corteo si spinge fino alla stazione, le candele si poggiano per terra. Qualcuno abbozza un applauso, si piange, i ferrovieri si abbracciano. Da poche ore è arrivata la notizia che Vito è stato sospeso. Una ragazza inserisce i soldi in una biglietteria automatica. In lontananza, nessun rumore di rotaie.
Non abbandoniamo quell'uomo schiacciato dal suo sbaglio. Il capostazione che ha dato il via libera è distrutto: va aiutato a sopravvivere al rimorso. Che può durare per tutta la vita, scrive Alessandro Meluzzi, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". La tragica vicenda del tratto ferroviario tra Andria e Corato, in cui hanno perso la vita 27 persone, ripropone nuovi drammi e vecchi quesiti. I drammi sono quelli di sempre. Il quesito è se vi sia una colpa in cui hanno contribuito il taglio della spesa pubblica, il declino civico o l'abbandono amministrativo. Insomma, tutti elementi che possono diventare fatali per l'irrompere di un'apocalissi para-tecnologica, perché il treno e la ferrovia non sono sicuramente al livello della modernità di un'astronave, ciò nonostante anche rispetto alla tecnica matura come quella del treno il dibattito avvampa intorno alla presenza di linee che si aprono con una telefonata o scambi meccanici a mano, smentendo l'idea dell'onnipresenza rassicurante che l'unione tra scienza e tecnica sembravano dover garantire. È in questo mix tra umano e meccanico, tra tecnico e civile, che il dibattito si posa su una questione umanissima. Quanta colpa ha il ferroviere, quel capostazione archetipo del tempo passato, rispetto ad una tragedia in cui viene chiamato in causa? Il procuratore di Trani, Francesco Giannella, non vuole considerare la tragedia come un puro errore umano, lo considera riduttivo. Persino, Cantone ha attribuito al Molok della corruzione attraverso le tangenti la colpa ultima di ciò che è avvenuto. È vero che molti si dibattono sul perché quella linea non fosse stata raddoppiata con i fondi europei disponibili. Per ora si sa che nel registro degli indagati per disastro ferroviario e per omicidio colposo plurimo sono stati inseriti i due capistazione Vito Piccarreta e Alessio Porcelli. Ma nonostante queste attenuanti di natura ambientale la causa ultima è quella paletta che viene alzata dalla mano di un uomo, gettando la persona in un dramma tragico. È vero che i colleghi hanno detto che non lo lasceranno solo ma quando il capostazione non si è reso conto che i treni erano tre e non due e che il treno a cui dava il via era il secondo e non il terzo rappresentava l'interruttore di un evento tragico. Le foto circolano sui media come il dibattito. Quanto più la tecnologia cresce tanto più la responsabilità umana si attenua e definire la causa principale di un errore umano è una scorciatoia. Tutto ciò contribuirà a razionalizzare la colpa dell'uomo. Probabilmente nessuno ha parlato di lui come ha fatto con Schettino. Ma sapere che dopo quel fischio e quell'alzata di paletta un treno si proiettava contro la morte non potrà non turbare i sogni di quest'umo pacifico nella Murgia pugliese. Questo pensiero, però, riflette su di noi una morale al di là della consolazione e del rimorso che agita il cuore di quest'uomo ed è una lezione controcorrente e non inutile. Pensare che anche nell'epoca delle tecnologie mirabolanti, della robotica dei sistemi esperti che si auto-governano da soli, tutto torni all'uomo non è una lezione inutile. Una macchina intelligente può decidere di suicidare il proprio padrone dopo un calcolo utilitaristico ma quanti di noi si affiderebbero ad una tecnologia così? Gli accertamenti svolti fino a questo punto non hanno ancora consentito di ricostruire con esattezza la dinamica dell'incidente ma esistono, secondo gli inquirenti e la procura, alcuni punti fermi: il convoglio si è messo in movimento quando non doveva spostarsi con l'assenso del capostazione e con il semaforo verde del semaforo. A questo proposito il capostazione di Andria, Vito Piccarreta, si assume la colpa di aver dato il via libera, anche se non sapeva che da Corato stesse arrivando un altro treno. Quanto detto prima sulla difficoltà del ipotetico responsabile di prendere sonno si avvera nelle sue parole. Piccarreta dice di considerarsi anche lui una vittima, dice di essere disperato ed è convinto che un solo errore, il suo, non può aver causato tutti quei morti. Che cosa avrebbe dovuto fare il capostazione di Andria? Avrebbe dovuto consentire la partenza del treno solo nel momento in cui gli altri due treni, provenienti da Corato, fossero arrivati in stazione. L'uomo diventa importante quando il caso incontra la necessità, quando non si deve trovare un capro espiatorio ma un passaggio di un evento.
"Il botto mi ha scagliato sui sedili poi ho visto l'orrore di quei corpi". Roberta Saudella, sopravvissuta alla strage in Puglia, ha preso il treno per caso per finire nell'incubo, scrive Massimo Malpica, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". «Quell'uomo, il capotreno, era per terra, insanguinato, rantolava. Un attimo prima mi aveva controllato il biglietto e poi eccolo lì, gli occhi fissi, incapace di parlare». Chi può farlo, chi può parlare, invece, per raccontare che cosa è successo martedì mattina a bordo di quel treno partito dalla stazione di Andria sul binario unico già occupato da un convoglio in direzione opposta, correndo verso una tragedia a quel punto inevitabile è lei, Roberta Saudella. Barese, madre di due bimbi, Roberta insegna in una scuola di Andria, e le ferrovie del Nord Barese sono il suo consueto mezzo di trasporto.
Come mai a scuole chiuse si è trovata su quel treno?
«Ero ad Andria per il recupero del debito formativo di un alunno. Ho finito presto e sono arrivata in stazione. Quel treno era il primo utile. Era un po' in ritardo, sono salita a bordo sulla terza carrozza, semivuota, e mi sono seduta. Eravamo partiti da pochissimo, ho preso il cellulare dalla borsa e ho sentito un gran botto. Un secondo dopo sono stata scaraventata sui sedili di fronte a me, per fortuna vuoti: ricordo solo un gran dolore e lo stridio dell'acciaio finché ci siamo fermati».
Come è scesa dal treno?
«Sono riuscita a rialzarmi, acciaccata, con la nuca dolorante per la botta alla testa, ma viva. Ho visto subito il capotreno per terra, era ridotto male, privo di sensi, l'ho riconosciuto dai baffi. Era in piedi nel momento dello schianto ed è finito sulla porta che separa i vagoni. Ho subito chiamato il 118, erano le 11.08, poi ho avvisato mio marito. Qualcuno ha aperto la porta con la leva di emergenza e siamo scesi saltando sulla massicciata. Io, come gli altri che sono riusciti a scendere sulle nostre gambe, ci siamo trovati di fronte uno spettacolo irreale. Dai vagoni squarciati arrivavano urla e lamenti, c'era gente con gravi ferite che si affacciava dai finestrini rotti e dalle porte ma non era in grado di tenersi in piedi. Ho cominciato a camminare verso il punto dell'impatto, ma...».
Che cosa è successo?
«Ho visto un uomo per terra, inanimato, penso non ce l'abbia fatta. Poi un ragazzo steso vicino ai rottami, sbalzato fuori nell'impatto, con terribili ferite. Mi sono paralizzata, non ho avuto il coraggio di proseguire, sono tornata verso la mia carrozza. Lì con due ragazze praticamente incolumi abbiamo cercato di aiutare il capotreno, che aveva ripreso conoscenza ma era sotto choc. Si era messo seduto, ma era confuso, rantolava, gli parlavamo per tenerlo vigile ma non ci rispondeva. E il 118 per telefono ci diceva di non fare nulla prima dell'arrivo dei soccorsi».
Sono arrivati subito?
«Penso di sì, ma io continuavo a chiamarli anche perché i telefoni non prendevano bene ed era difficile per i soccorsi trovare la strada per raggiungere il luogo dell'incidente».
Lei è una passeggera abituale, ha mai temuto qualcosa del genere?
«Sono ottimi treni, la questione del binario unico era nota, ma pensavo ci fossero sistemi di sicurezza tecnologici. Non sapevo, e non avrei mai pensato, che nel 2016 fosse tutto affidato a telefonate tra capistazione».
La figlia vigila sul capotreno sopravvissuto. (Articolo di Vincenzo Chiumarulo, ANSA, pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 luglio 2016). Lo sguardo pieno d’amore della sua giovane figlia, che lo osserva con gli occhi di chi è consapevole che ha rischiato di non vederlo mai più, vigila sul capotreno Nicola Lorizzo, sopravvissuto all’incidente ferroviario in cui hanno perso la vita 23 persone. Nicola è ricoverato nel reparto di Neurochirurgia del Policlinico di Bari. E’ in prognosi riservata e il suo volto tradisce i segni di chi è scampato a una tragedia: provato sì, ma non in pericolo di vita. Nel pomeriggio è uno dei feriti che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, saluta e conforta. Una vita, quella di Lorizzo che ora sembra quasi più preziosa di quanto già fosse prima di scampare all’impatto tremendo sulla curva di quel binario unico che taglia le campagne tra Andria e Corato, e su cui due convogli si sono scontrati frontalmente. Nicola, che era sul treno con il macchinista Pasquale Abbasciano, morto a un anno dalla pensione, potrebbe essere uno dei testimoni chiave per capire le cause della tragedia. Infatti il capotreno, che su quei convogli svolgerebbe anche la funzione di aiuto macchinista, è una delle persone che ha dialogato con il capostazione ora sotto inchiesta e che forse ha dato il segnale sbagliato per la partenza del treno proveniente da Barletta. Sarà anche per questo motivo, oltre che per ovvie ragioni di riservatezza, che l’accesso ai cronisti nell’ala del reparto in cui è ricoverato, è severamente vietato. C'è però chi riesce ad avvicinarsi alla sua stanza: sua figlia sembra serena, sorride, si raccoglie i capelli e con una infermiera aiuta Nicola a cambiare posizione nel letto. Lorizzo si copre con una coperta: fuori fa molto caldo, ma a Neurochirurgia l’aria condizionata è forte. Con discrezione un giornalista si avvicina, prova a chiedere all’infermiera che subito lo raggiunge se la figlia di Nicola abbia voglia di parlare delle condizioni del padre. L'infermiera però chiude la porta, sbattendola, e urla al cronista di allontanarsi. Al primo giornalista se ne aggiunge un altro. E’ a questo punto che l’infermiera chiude a chiave l'ingresso dell’intero reparto, annunciando di aver chiamato la polizia.
Scontro fra treni, il cielo in una stanza nella cabina. "L'eterna solitudine di noi macchinisti". Ore alla guida, stipendi bassi, e un'aspettativa di vita di 64 anni. "Ma la Fornero ci manda in pensione a 67...", scrive Francesco Merlo il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. "Lei mi chiede cosa ha visto, cosa ha capito e cosa ha fatto il mio amico Albino in quella cabina che per noi macchinisti, mi creda, è il cielo in una stanza ".
Glielo chiedo perché, per me, la locomotiva che "corre, sempre più forte / e corre verso la morte" è ancora quella di Guccini, "il mostro strano / che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano". Dunque, ingenuamente, immagino che il suo amico sia morto come aveva vissuto. "Lei se lo immagina che, nel suo ultimo momento, cerca il freno, preme bottoni, inventa soluzioni ". E invece ha gridato e si è messo le mani nei capelli?
"Quello sicuramente no, perché Albino i capelli non li aveva".
E però Albino ha visto il treno che gli volava addosso.
"Sì, ma mentre capiva non era più tra i vivi".
Com'era Albino De Nicolo?
"Era piccolo e calvo ma aveva gli occhi sporgenti, occhi di ferroviere, occhi che non si spaventano mai. E poi Albino rideva sempre. Quando gli altri gridano, lui rideva".
Come Mangiafuoco che invece di piangere starnutiva?
"Forse perché era di Terlizzi, un paese allegro".
Il paese di Vendola. Albino aveva figli?
"Sì. Uno è stato assunto in azienda: capotreno pure lui".
Vi frequentavate solo sul treno?
"No. Andavamo con le famiglie a mangiare in campagna. Lui era più vecchio di me".
Angelo Cirone, che ora di Albino di sente orfano, si presenta così: "Macchinista, figlio di macchinista. Purtroppo però da un po' di tempo mi hanno trasferito in ufficio perché mi sono ammalato. Ma il treno mi manca. Io sono orgoglioso di essere nato e di essere diventato grande sotto lo sguardo di quegli occhi di ferroviere ". Cirone racconta il ferroviere come l'eroe di Vittorini, come il duro di Piero Germi. E lavora appunto per la Ferrotramviaria, l'azienda del crash dell'altro ieri, quella della contessa Pasquini: "Un'impresa magnifica, e una signora simpatica, una dirigente attenta, mi creda ".
Però il sistema di sicurezza era antiquato.
"Ma legale. E stavano per appaltare l'ammodernamento anche di quel maledetto tratto".
Conosce i due capistazione che si sono telefonati?
"Certo che li conosco. Ma preferirei non parlare di loro. Sono stati sospesi, c'è l'inchiesta giudiziaria".
Non si sono capiti?
"Evidentemente no".
Pivelli?
"Ma no. Hanno trenta, trentacinque anni di servizio sulle spalle. Di sicuro, la telefonata, breve, è stata fatta per avvisare che un treno era partito e che bisognava fermare l'altro treno nella stazione".
E invece...: sarà facile scoprire chi dei due ha sbagliato?
"Non lo so. Sono inchieste complicate. Mi auguro che tutto avvenga con rigore e prudenza. In metafora anche le indagini sono potenti e delicate come un treno".
La responsabilità è tremenda: con il sistema delle Ferrovie dello Stato l'incidente non sarebbe accaduto.
"No. Perché i treni si sarebbero entrambi bloccati. E i via libera non arrivano con una telefonata da una stazione all'altra".
Lo stereotipo dice che la stazione non è mai troppo amata dai macchinisti, dai ferrovieri, forse perché il treno è futurista (De Pero) e metafisico (De Chirico) mentre la stazione è un mito romantico, quella di Claude Monet, la gare inspiratrice dove Proust andava "a cercare il treno di Balbec" e gli parevano "immensi cieli del Mantegna o del Veronese" quelle volte di vetro, quei tetti dove, passo dopo passo, costruisce il suo sentiero di bambino mitologico l'Hugo Cabret di Scorsese nella straordinaria scenografia del nostro Dante Ferretti. Dunque mi sposto. E di stazione vado a parlare adesso con un altro macchinista, questa volta delle Ferrovie dello Stato. Anche lui pugliese. La stazione "per noi macchinisti", spiega Antonino Vito che conduce treni merci in partenza da Bari, "è perdita di tempo, la parte più sgradevole del nostro lavoro. Io ci mangio, piuttosto male, alla mensa. Dormo nei ferro-hotel che sono i vecchi dormitori, con il nome cambiato, modernizzato. Personalmente non amo tanto neppure i passeggeri che considero, mi passi il termine, scassacz ...". A Vito piace solo il treno, "non ho mai messo piede in un dopolavoro ".
I dopolavoro sono le associazioni che gestiscono i lidi balneari per voi ferrovieri?
"Ne ho visto uno in provincia di Foggia, a Marina di Chieuti".
Bello?
"Immagino di sì, ma non mi interessa ".
Perché le piace guidare il treno?
"Perché decido tutto io. Mi piace entrare nei paesaggi, amo il buio delle gallerie, ogni tanto scendo e vado a controllare il sistema di frenata, porto macchine di 1500 tonnellate. E stasera per esempio partirò per Ancona".
Quanto guadagna?
"Dipende, perché c'è il notturno. Diciamo 2.400 euro al mese".
Figli?
"Due. Devono ancora completare gli studi".
È vero che voi macchinisti siete tutti di sinistra?
"Storicamente sì. Non la prenda solo come una battuta: io penso che il treno, la macchina-treno, sia di sinistra".
Beh, di sicuro ha fatto la storia della sinistra italiana.
"Appunto: il treno che accorcia le distanze e arriva nei luoghi di produzione, trasporta le merci, scarica la gente nelle città sottraendola al mondo angusto del paesello e del villaggio".
Per esempio il treno che porta a Milano Rocco e i suoi fratelli?
"Pensi al ferro, all'industria pesante, al treno che portava lo zolfo dalla Sicilia sino a Marsiglia, alle miniere e all'industria tessile. Mi piace sentirmi figlio di quei macchinisti, silenziosi e sporchi che portavano il treno in stazione nonostante il governo fosse ladro, la borghesia feroce o ridicola, la tecnologia inesistente, il rischio personale enorme e la paga bassissima".
Lei per chi ha votato?
"Il mio primo voto l'ho dato a Mario Capanna. Poi ho preso la tessera del Pci. Quindi sono a passato a Rifondazione comunista. Non mi piacevano i Ds, mi pareva l'abbreviazione di Destra-Sinistra".
E oggi?
"Sto con il Pd, nonostante tutti i suoi difetti".
Renzi?
"È un macchinista come noi. Bisogna lasciarlo guidare".
Sul binario unico?
"Guardi che il binario per il macchinista è sempre unico".
Il regno del binario unico è la Sicilia dove l'89 per cento della linea ferroviaria ha appunto un solo binario. Giuseppe Terranova è capotreno a Palermo: "Capotreno e macchinista sono sempre fratelli, la cabina è la nostra casa-famiglia: oltre che uno spazio reale è un luogo etico, come le cabine degli aerei, come il timone delle navi". Terranova sorride amaro: "In Italia c'è stato il periodo degli esperti di Islam, quello dei rifiuti termovalorizzati, quello dei costituzionalisti..., e ora tutti sono diventati esperti di treni, scambi, binari, elettrificazione, infrastrutture. Ebbene, la magistratura accerterà cosa è accaduto, ma il binario unico c'entra poco. Il binario unico infatti fa perdere moltissimo tempo, rallenta tutto, assimila i treni alla vecchie corriere, ma non diminuisce la sicurezza. Se i sistemi sono adeguati da quel punto di vista non cambia nulla". Terranova ha lavorato ad Aosta, poi ha fatto il manovratore a Messina. Adesso parte da Palermo: "Nella vita del macchinista italiano non accade nulla di pericoloso sul treno. Ogni tanto cade un albero, io ricordo di aver dovuto fermare il convoglio perché c'era una mucca. Una volta ho salvato un ragazzo che per evitare il sottopassaggio aveva attraversato i binari ed era scivolato. Il momento peggiore per noi è quando mettiamo sotto i suicidi. Ma se sul lavoro il ferroviere ha per divinità l'orario, il tic tac dell'orologio è il nostro respiro, il miracolo della puntualità è la nostra forza, nella vita invece trionfa il disordine, i nostri turni ordinari sono di dieci ore al giorno (per un massimo sindacale di 38 la settimana). E noi mangiamo quando gli altrui digeriscono, dormiamo quando le nostre mogli si alzano. Il ferroviere italiano, che una volta si adattava a tutto per senso del dovere, adesso si è stufato: è finita l'epoca dei giuramenti, dei treni carichi di bandiere...".
Anche lei è di sinistra?
"Guardi che negli anni venti persino i monarchici organizzarono l'antifascismo sui treni creando il movimento del "soldino" dal nome della piccola moneta che i ferrovieri portavano stampata sui fazzoletti perché aveva come effige la faccia del re".
E oggi?
"Io mi taglierei la mano prima di votare a destra. Ma è diventato tutto così difficile".
Tuttavia anche Terranova crede ancora "all'Italia delle piccole vittorie e dei grandi sentimenti: l'Italia dei treni che per essere normali dovevano sempre diventare un po' speciali. Ma è una vita di sacrificio che lo Stato non ci riconosce. Pensi che l'Istat ci assegna un'aspettativa di vita di 64 anni ma, con la legge Fornero, ci manda in pensione a 67. Andrò in pensione tre anni dopo la mia morte".
“Macchinista, figlio di macchinisti”. Come si diventa Macchinista di treni? Requisiti e lavoro. Tra i lavori più richiesti da chi è in cerca di lavoro c’è sicuramente il macchinista dei treni. Si tratta di un lavoro di responsabilità e di capacità che può offrire guadagni molti interessanti, nonostante ritmi di lavoro non sempre leggeri. Come si diventa quindi macchinista ferroviario? Per intraprendere la carriera di macchinista ferroviario sono richiesti alcuni requisiti fondamentali:
18 anni d’età (20 anni per legge della comunità europea per la circolazione in UE);
Diploma Scuola Media Superiore;
Idoneità psico-fisica accertata da medici competenti;
Superamento test attitudinali, motivazionali e tecnico professionali;
Formazione professionale acquisita tramite corsi di specializzazione.
Lavorare come Macchinista nelle Ferrovie dello Stato. Un tempo per lavorare come macchinista ferroviario venivano indetti appositi concorsi, da anni ormai invece le selezioni sono simili alle assunzioni nelle grandi aziende. E’ il caso ad esempio di Trenitalia che tramite la sezione “lavora con noi” del sito aziendale valuta i curriculum ricevuti e si occupa della formazione del propri macchinisti.
Per il ruolo di Macchinista di treni le Ferrovie dello Stato richiedono i seguenti requisiti:
Altezza di almeno 1.55 m;
Acutezza visiva: 10/10 complessivi con non meno di 5/10 nell’occhio peggiore raggiungibile con lenti di valore diottrico +5/-8;
Campo visivo completo: visione binoculare efficace, sensibilità al contrasto buona, resistenza all’abbagliamento buona;
Senso cromatico nella norma;
Senso stereoscopico nella norma;
Udito nella norma per tenere una conversazione telefonica. I valori di eventuale deficit uditivo non devono essere superiori a 40 dB a 500 e 1000 Hz ed a 45 dB a 2000 Hz per l’orecchio peggiore.
Come candidarsi ad un posto da macchinista in Trenitalia. Gli interessati che ritengono di possiede i requisiti fisici richiesti dall’azienda per il ruolo di macchinista possono inviare il proprio curriculum vitae tramite l’apposita sezione “Invia il tuo Cv”: se l’azienda vi contatterà dovrete affrontare i test attitudinali, motivazioni e tecnico professionali; se supererete questa fase sarete inizialmente assunti come apprendisti (150 ore annue retribuite) dopo apposito percorso di formazione erogato dall’azienda stessa. Il lavoro inizierà in affiancamento a personale esperto per poi continuare in base ai turni definiti dall’azienda.
Comunque, o a concorso pubblico italiano (truccato) o a chiamata diretta, il destino del macchinista è segnato.
“Macchinista, figlio di macchinista”. Che bello essere comunisti e sindacalizzati per poter entrare nelle aziende ferrotranviarie. Un esempio per tutti.
Parentopoli FAL: ecco i parenti e gli amici piazzati nelle “Ferrovie di famiglia”, scrive Antonio Loconte il 4 Aprile 2015 su “Il Quotidiano Italiano”. Vogliamo subito precisare che la nostra non è una caccia alle streghe. Stiamo cercando di dare il nostro contributo affinché spariscano certe brutte abitudini, come quella assai diffusa di trasformare le aziende pubbliche in giganteschi uffici di collocamento per pochi eletti, come nel caso delle FAL. Nei prossimi capitoli della nostra inchiesta vi racconteremo anche gli escamotage utilizzati per dare una parvenza di regolarità soprattutto alle assunzioni, con stage di dubbia fattura e riqualificazioni interne tenute sotto banco fino all’ultimo istante. In un momento così delicato per molte famiglie pugliesi, in cui il lavoro manca e non si sa come arrivare a fine mese, è necessario che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Magari non succederà niente, anche se riteniamo che le autorità competenti dovrebbero approfondire quello che denunciamo da giorni. I tanti messaggi e le email che continuiamo a ricevere da alcuni dipendenti su certe dinamiche aziendali confermano molti dei nostri dubbi. Il pesce, si sa, puzza dalla testa. Nelle Fal lavora Michele Corvino (ufficio paghe), figlio dell’ex dirigente poi diventato capo del personale Aldo Corvino (per moltissimo tempo CGIL). Ce n’è per tutti. Sempre nell’ufficio paghe e sempre sotto il controllo di Corvino sr. lavora Giovanna, la figlia di Antongiulio Velon (UIL) che, a 67 anni, coordina i turni degli autisti. Di Giuseppe De Manna abbiamo già parlato. Ex CGIL, ora CONFAIL, molto amico di Corvino sr., è riuscito a piazzare il figlio Raffaele, che ha recentemente superato la riqualificazione da operaio, piazzandosi primo in graduatoria. Ex UGL ora CONFAIL è Marco Veneziani. Non Siamo riusciti a sapere molto della sua mansione. Suo figlio Francesco è impiegato. Uomo della CGIL è Nicola Liso. Suo figlio Pasquale è entrato in azienda come manovratore, poi è diventato autista. Adesso è capotreno. Della UIL è il capotreno Antonio Ciliberti. Il figlio Giuseppe è entrato con uno di quegli stage di cui vi diremo in seguito. È diventando un operaio. Il macchinista (ORSA) Ferrante Domenico ha sistemato suo figlio Leonardo, anche lui come il rampollo di De Manna è diventato manovratore con una recente riqualificazione interna. Appartiene alla CGIL Michele Patano, impiegato. Il figlio Maurizio è entrato come guarda barriera e ora fa l’operaio. Particolarmente interessante è proprio il concorso da guarda barriere. Entrambi operai sono Vincenzo De Benedictis (UIL) e sua figlia Valentina. Il macchinista Vincenzo Gimigliano (CGIL) ha sistemato suo figlio Vittorio, che adesso fa l’operaio. Sergio Pinto (UIL) è un macchinista. Il figlio Paolo è capotreno. Come sanno anche le pietre Cosimo Andrulli (CGIL), grande amico di Corvino, ha tramandato il suo sapere da macchinista e non solo quello al figlio Giuseppe. Avevamo già parlato di Pasquale Malatesta, l’ex sindacalista FAISA-CISNAL ha lavorato per tanto tempo insieme alla figlia Annamaria e anche il nipote Rocco, un avvocato che non è riuscito a scalare le posizioni aziendali. Ci sono delle altre situazioni sulle quali i disoccupati pugliesi e i giovani costretti a emigrare per avere la possibilità di fare quello per cui hanno studiato, vorrebbero dei chiarimenti. Uno dei capitoli è quello dei compagni di vita e lavoro. Pietro Passaquindici, responsabile unità amministrativa complessa, è marito di Clorinda Drago, la segretaria del presidente Colamussi. A Potenza, Francesco Costa, uomo di Corvino sr. e responsabile dell’Ufficio paghe, è sposato con Graziella Cersosimo, responsabile della disciplina. Ricoprono entrambi ruoli apicali. Gianni Vincenzo, stando ad alcune indiscrezioni creditore dalle FAL dei fitti dei locali baresi in corso Italia, è unito a Maria Portoghese (sono nello stesso ufficio e tutti e due CGIL), ricoprendo ruoli apicali. Della CGIL e ben vista da Corvino sr., è Annamaria Caradonna, moglie di Giuseppe Luongo, assunto a Potenza e poi trasferito alla corte dello Corvino. Lavorano nello stesso ufficio. Ci sono, poi, alcune figure il cui ingresso in azienda ha suscitato non pochi mal di pancia, tutt’altro che guariti. Leonardo De Bellis, autista personale del presidente, per esempio. Massimiliano Natile, uomo di Colamussi (come il presidente è di Forza Italia) è il responsabile degli investimenti. Un’assurdità se si considera che a Potenza – per fare un esempio – ci sono due ingegneri che guidano i treni e per i quali nessun sindacato si è mai speso, nonostante vorrebbero fare ciò per cui hanno studiato. A quanto pare, il capo del personale non permetterebbe loro di scendere dai treni tirando in causa il un assurdo regolamento interno, approvato da lui e sindacati anni fa. Un regolamento che non premia il merito. In sostanza, se appartieni al personale viaggiante, con parametro basso, non hai diritto nemmeno a fare concorsi interni per parametri più alti anche se hai sei lauree. Uno dei casi più discussi, però, è quello legato all’assunzione di Viviana Fox, nelle elezioni del 2008 segretaria di Antonio Distaso (Forza Italia). Sul suo conto se ne dicono tante, ma non le riferiamo per non cadere nel gossip. Sarebbe stata assunta senza un concorso subito dopo le elezioni e, dopo solo tre anni in azienda, è al massimo del livello apicale. È responsabile di tutti gli affidamenti agli studi legali, consulenze e transazioni. Un’altra anomalia è proprio quella dell’affidamento di incarichi esterni, nonostante l’azienda abbia all’interno un nutrito gruppi di professionisti validi, ma sistemati in posti sbagliati, frustrati e richiamati costantemente al minimo dissenso, alla minima contestazione. Non si tratta solo di beghe interne. Ciò che spesso si dimentica è che le Ferrovie Apulo Lucane sono un’azienda pubblica, non un feudo Medievale. Il danno – indipendentemente da quello che dicono i bilanci – è fatto a tutta la comunità, non solo ai poveri disgraziati che non fanno parte del cerchio magico. L’elenco è lunghissimo e include, per esempio, anche le aziende esterne alle quali vengono affidati incarichi diretti. Aziende nelle quali lavora gente imparentata con pezzi più o meno grossi delle Ferrovie Apulo Lucane. Iniziamo dalla Mafer, fornitore esclusivo per le FAL da 30 anni di materiale ferroviario (ricambi di vario genere). In regime di assoluto monopoli, può permettersi di applicare i prezzi che vuole. Le FAL azienda pubblica, lo ricordiamo – non hanno mai sentito la necessità di chiedere preventivi alla concorrenza. Nando Bucarella è il titolare. È cresciuto proprio nelle FAL (essendo stato anche fornitore delle Ferrovie Sud Est mediante il padre che ci lavorava). Nando Bucarella è intimo amico di Pietro Passaquandici. Pierpaolo, il figlio di Passaquindici, lavora da anni per la Mafer. La ditta Bellizzi, da 30 anni fornitrice esclusiva di materiale e lavorazioni sul materiale ferroviario, di riparazione di pompe diesel, negli ultimi anni si è specializzata anche sul parco automobilistico. Pure Bellizzi è tra le ditte storiche che hanno per moltissimi anni operato senza gare. Il titolare, Alberto Bellizzi, e prima di lui Italo, sono amici personali di Passaquindici. Da Bellizzi lavora da molti anni ormai la figlia di Passaquindici, Valentina eil figlio del capo tecnico dell’Officina motori, Guseppe Maiullari. La cosa che fa riflettere è il fatto che sono proprio Maiullari e Passaquindici a richiedere le lavorazioni o gli acquisti di materiale. Attraverso loro, poi, vengono decise le congruità dei prezzi, si stabiliscono le quantità degli acquisti e si procede al pagamento. Le Ferrovie Apulo Lucane sono un carrozzone che premia qualcuno e danneggia la maggior parte dei lavoratori. Una situazione emblematica di come funziona il mondo del lavoro in Italia. Nel corso degli anni qualcuno di questi nomi era già venuto fuori, per la verità erano emersi anche altri che non abbiamo scritto. Ci sono state denunce e interrogazioni argomentatissime. Adesso, però, la misura è colma e bisognerebbe ripristinare la regolarità più volte sacrificata sull’altare della raccomandazione. Abbiamo deciso di non tirarci indietro. Qualcuno potrebbe essere passato da un sindacato a un altro o qualche nome di battesimo potrebbe essere inesatto. Qualcun altro potrebbe aver lasciato l’azienda e i rapporti di amicizia – documentabili in mille modi – saranno certamente contestati. Facciamo un appello ai politici che in questi giorni ci stanno chiedendo carte e testimonianze. Dimostrate di tenere al vostro territorio e a tutti i cittadini in egual misura. Al netto di qualche imprecisione, resta assolutamente in piedi tutto l’impianto di una gestione familiare e clientelare.
Parentopoli sui binari, il virus FAL colpisce la CIRCUMETNEA: ecco i nomi dei parenti, continua ancora Antonio Loconte il 5 Maggio 2015. Il virus delle Ferrovie Appulo Lucane, che ha portato parenti e amici della politica a entrare in azienda in maniera a dir poco sospetta, purtroppo, ha colpito anche la città di Catania e la provincia. La cosa più preoccupante è che nella FCE, la Circumetnea, l’epidemia è più diffusa. In Puglia come in Sicilia sono in corso battaglie legali e indagini della Procura. Il virus, però, appartiene al ceppo italico della consuetudine. Per molti ricercatori il più difficile da estirpare, avendo radici solidissime ancorate alla tutela di figli, mogli, generi e persino figliocci (categoria molto diffusa al Sud). Ieri – dopo aver chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato – la FCE ha permesso l’avanzamento di carriera a 10 dei 13 vincitori di altrettanti concorsi interni. Per gli altri 3 di area tecnica – essendo stato presentato un tribolato ricorso specifico al Tar – il verdetto dovrebbe arrivare il 13 maggio. Quesa situazione particolarmente controversa ci ha spinto a fare un approfondimento sulle decine e decine di concorsi banditi dalla FCE per la ricerca del personale. Graduatorie dalle quali si continua ad attingere nonostante i concorsi (anche del 2012), prevedessero un determinato numero di assunzioni. I 5 autisti sono diventati per esempio 25; i 2 operatori di manovra sono diventati 9 e così via. Sugli amici della politica e gli ammanicati non possiamo esprimerci perché i loro rapporti, pur essendo noti anche alle pietre, non hanno una validità scientifica. Ciò che è stato più facile individuare in queste graduatorie è stato il grado di parentela o comparizio (testimoni di nozze, padrini e madrine di battesime e cresime). Tradizione, quest’ultima, particolarmente diffusa tanto in Puglia quanto in Sicilia. Date, graduatorie e protocolli sono facilmente reperibili sul sito internet dell’azienda circumetnea.it (sezione concorsi). Mettetevi comodi perché l’elenco è lungo e articolato. Partiamo dal concorso probabilmente più controverso, secondo alcuni costruito ad arte per far entrare in azienda persone alle quali è stato già preparato un altro posto: due posizioni per operatore di manovra. Per partecipare non servono requisiti specifici, basta la licenza media. Secondo i malpensanti un modo per far entrare i figli di sindacalisti e dipendenti rimasti fuori dagli altri concorsi. Luca Mortellaro, Giulio Antonio Bonaccorsi, primo e secondo, si dimettono per andare a fare gli operatori di esercizio, altro concorso a cui hanno partecipato. Curioso il caso del terzo: Ignazio Biuso. Lavorava come geometra nella FCE prima di fare il concorso per operatore di manovra, ma nonostante tutto – non avendo più la qualifica – continua a frequentare l’Ufficio tecnico, entrando e uscendo a piacimento con un proprio badge. Luigi Maugeri, il quarto, è fratello di Fulvio, RSA della CGIL. Aldo Ronsivalle, il quinto, a detta dei bookmakers andrà presto a fare il capotreno, liberando un altro posto. Ronsivalle è figlio del capotreno Vincenzo e uomo fidato di Lorena (UIL). C’è, poi, appunto Lorena Federica, un bravo avvocato. Tanto bravo che, sempre secondo i bookmakers, potrebbe accomodarsi presto come collaboratrice nell’ufficio legale della FCE. Una figura professionale finora non prevista, aggiunta recentemente in pianta organica, rimodulata tre volte in un anno. La Lorena non è solo molto brava. È anche figlia di Alberto Lorena, ex capo ufficio, neo funzionario alla direzione amministrativa nell’Ufficio paghe, ex RSA UIL, ora dirigente UIL. Riccardo Calì e Alfio Ferri, invece, avrebbero lasciato le Ferrovie dello Stato, piazzandosi settimo e ottavo tra i manovratori FCE. Massimo Spina, è il figlio di Giovanni, ormai in pensione. Massimo, dicono i bookmakers, sarebbe destinato a indossare i panni del capotreno come Ronsivalle. La graduatoria è quasi tutta un inno alla parentela fino al 22mo posto di Luigi Pezzillo, marito di Federica Lorena. I più arditi stanno scommettendo sul fatto che si possa scorrere la graduatoria fino a queste latitudini. Noi, però, non siamo così spregiudicati perché prima di arrivare al 22mo posto di Pezzillo ci sono da sistemare Costantino Coppola, figlio di Raffaele, capo ufficio movimento e dirigente CISL; Giovanni Riciputo, figlio del macchinista e dirigente FAISA Antonio; Furnari Carmelo, figlio dell’ex dipendente Salvatore; Gianluca Galati, figlio dell’ex dipendente Salvatore. Un’altra cosa curiosa di questo concorso sono le domande fatte durante la selezione, non sul regolamento della Ferrovia Circumetnea, ma su quello delle Ferrovie dello Stato. Perché se i segnali, per esempio, non sono gli stessi? Perché se quello che in un regolamento vuol dire una cosa, nell’altro ha un significato diverso? Un’idea ce la siamo fatta, ma siamo nel campo delle ipotesi e avrete capito che noi non azzardiamo. Noi. Nei corridoi delle FCE qualcuno scherza sul fatto che l’azienda sia diventata una succursale dell’Ikea, in considerazione dell’alto numero di falegnami di cui c’è bisogno pur non essendo più nel 1800. Un posto utile, ma alla fine ne sono entrati quattro. Al concorso interno – come spesso succede alla CIRCUMETNEA – non partecipa nessuno e per questo si procede con una selezione pubblica. I vecchi falegnami intanto sono diventati capiufficio o capo operatori. Al quarto posto si piazza Damiano Caruso. Il padre Angelo è un RSA della UGL. Capitolo operatore di manutenzione. Primo arriva Giuseppe Merlo, figlio di un caposquadra di una ditta di armamento ferroviario. A seguire Vito Mario Farina, figlio di Mario, operatore di esercizio e nipote di Antonio, ex capotreno neo promosso coordinatore di movimento. Damiano Catania è figlio di Maurizio, neo capo operatore dello stesso settore in cui è stato assunto. Ai tempi Maurizio era operatore qualificato. Non solo. Damiano è anche nipote di Giancarlo, transitato dal personale stazione al personale uffici, grazie a un provvedimento giudicato ad personam. Giovanni Vinci, il quarto, è figlio di Antonio, operatore d’esercizio, e autista personale di Virginio Di Giambattista, il gestore della FCE e direttore generale del Trasporto Pubblico Locale (TPL) del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Su Di Giambattista torneremo a parlare in maniera specifica). Il quinto, Strano Salvatore, è figlio di Alfio, ex dipendente, ma ai tempi della selezione operatore tecnico di manutenzione. Settimo posto per Francesco Lo Schiavo, figlio di Giovanni, segretario provinciale della Fast Confsal e macchinista, il quale ha attraversato tutte le sigle politiche e sindacali di Catania, pare uno molto influente per le dinamiche aziendali. Nono è Calì Gioacchino Andrea, figlio del macchinista Salvatore e cugino del macchinista Alfredo e del capotreno Giovanni. Marco Mario Mannino, piazzatosi subito dietro, figlio di Giovanni, ex dipendente, della FAISA-CISAL. Giuseppe Zingali è undicesimo. È figlio e nipote dell’operatore di esercizio Alfio e dell’operatore di stazione Carmelo, pure loro UIL. Tra chi sta per entrare, scorrendo la graduatoria, ci sono anche Aldo Ronsivalle, che abbiamo trovato nell’enco dei manovratori. Alessio Azzara (quindicesimo), invece, è il figlioccio del capo operatore manutenzione Nunzio Pecorino, il cui figlio è arrivato, purtroppo, solo ventiquattresimo. Grazie alle nomine sbloccate ieri, a giorni entrerà nella Ferrovia Circumetnea anche Scarpignato, figlio di Franco, assistente coordinatore movimento, secondo quanto ci viene riferito particolarmente vicino al direttore d’esercizio Sebastiano Gentile. Uno dei due verniciatori è Cardullo, Santo come suo cugino, neo funzionario FCE al movimento. Antonino Scavuzzo, è figlio di Santo, ex operatore di esercizio ora in pensione. I quattro posti per elettromeccanici impianti tecnologici sono diventati sette. Tra questi ci sono Salvatore Rosario Alberti, nipote di Concetto Fortunato, già segretario RSA UGL e operatore generico FCE; ma anche, Marco Agatino Sciuto e Giuseppe Rosta figli di dipendenti o ex dipendenti della FCE. Un manipolo di figli della politica e dipendenti è riuscito a piazzarsi come operatore di esercizio, in altre parole autisti. I cinque posti sono diventati 25. Su tutti, il caso del secondo in graduatoria, Andrea Fiore, figlio dell’ex dipendente Salvatore (RSA UIL) e cugino di primo grado di Salvatore Fiore, il dirigente tecnico della FCE (Anche nel caso di Fiore ci sarà molto da dire nelle prossime settimane). Fiore non è l’unico tra i 25 ad avere rapporti di parentela con dipendenti ed ex dipendenti: Rizzeri Giuseppe, Fichera Angelo, Privitera rosario, Puglisi Severino, Persiano Alfio. Quest’ultimo, poi, era già operatore di esercizio a tempo determinato della FCE, autista personale del direttore generale Vincenzo Garozzo, poi assunto a tempo indeterminato dall’azienda Municipale del trasporto di Catania, da cui si licenzia per partecipare, risultando idoneo, al concorso di autista alla FCE. Tra i tre fabbri segnaliamo il secondo, Carmelo Santoro, figlio del capo squadra manutenzione Matteo. In poco tempo Carmelo s’è guadagnato un posto da capotreno. Al quarto posto, invece, con la possibilità di rientrare in gioco s’è piazzato Francesco Mario Sciacca, genero di Michelangelo Puglisi, capo del settore falegnameria delle FCE. Nella graduatoria degli otto motoristi spiccano il primo e l’ultimo, i fratelli Ottavio e Alfio Salamone. Il primo è consigliere comunale a Santa Maria di Licodia. In mezzo ci sono i figli dei dipendenti ed ex dipendenti: Alfio Privitera, Pasquale Spina, Giovanni Di Perna, Rosario Di Bella, Santo Giglio. Chiusura dedicata gli elettromeccanici. Cinque posti utili. Il primo della lista è Daniele Murgana, cognato (marito della sorella) dell’ex segretario RSA CGIL Antonio Gulisano (dimessosi dal sindacato appena in tempo), capo operatore impianti tecnologici della FCE. Secondo è Antonio Pafumi, figlio di Isidoro, ex dipendente. Il testimone di nozze di Antonio è il dirigente tecnico delle FCE Salvatore Fiore. Antonio Pafumi è uno dei tre di area tecnica il cui avanzamento di carriera è stato temporaneamente sospeso dal Tar e ratificato dal CGA. Pafumi sarebbe dovuto finire nello staff personale del compare di nozze. Ignazio Palumbo è figlio di Rosario, operatore qualificato (tornitore). Riccardo Gino Vasta, quarto, è figlio di Antonino, ex capo dell’Ufficio acquisti, oggi in pensione. Riccardo, entrato con parametro 140, in un anno, proprio ieri, è volato al parametro 193, a dispetto delle indicazioni del Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia che, per analogia rispetto ai tre bloccati dal Tar. Il quinto in graduatoria, Salvatore Finocchiaro, è figlio di Gaetano, ex RSA CISL. Il papà di Salvatore Puliafito è il macchinista Paolo. C’è poi una storia di dignità, assurda per molti versi in questo assurdo contesto, quella di Leonardo Privitera, ottavo, nella stessa graduatoria per elettromeccanici. Privitera – all’oscuro di questo articolo, ma siamo certi conscio della stima di una parte dei colleghi – è fratello di un dipendente delle FCE e figlio di un ex dipendente. Nonostante tutto, insieme allo zoccolo duro dei 106 precari fatti fuori pur avendo lavorato per almeno 4 anni in azienda, non solo ha sostenuto il concorso – arrivando ottavo – ma pur avendo diritto di rientrare è stato tenuto fuori per un lungo periodo. Senza ragioni, per il gusto di non far lavorare uno che ha deciso di non allinearsi. La graduatoria da elettromeccanico di impianti tecnologici, infatti, a differenza delle altre, è stata tenuta immobilizzata per due anni almeno pur essendoci posti liberi da riempire. La storia di Privitera è la prova di come le cose possano andare in un certo modo, pur essendo parenti o amici di politici, dipendenti o sindacalisti. A nessuno deve essere negato il lavoro, purché non si sbarri la strada a chi partecipa a gare e concorsi pubblici, certo dell’imparzialità.
Ovviamente ci scusiamo per aver dimenticato di citare altre persone o nel caso avessimo sbagliato i nomi di battesimo o le esatte qualifiche dei menzionati. Come dicevamo, l’elenco è lungo e siamo solo all’inizio di questa storia. Dal 2002 almeno il 60% delle persone vincitrici dei concorsi pubblici a tempo indeterminato a cui fa riferimento questo articolo, hanno un lungo trascorso aziendale. Sono transitati nella Ferrovia Circumetnea prima come lavoratori interinali, poi, grazie ai commissari che si sono succeduti negli anni, sono passati nel 2006 a tempo determinato direttamente con l’azienda attraverso altre selezioni pubbliche, per arrivare al 2008-2009 al rinnovo dei contratti a tempo determinato anche a seguito dell’applicazione del diritto di precedenza previsto dal Regio Decreto 148/31 e dalla legge numero 368/2001. In conclusione – La vicenda delle Ferrovie Appulo Lucane e delle Ferrovia Circumetnea hanno molto in comune e dovrebbero far riflettere su certe dinamiche. Storie, presunti abusi e raccomandazioni che contribuiscono a fare dell’Italia ciò che è, con la complicità di chi dovrebbe intervenire, ma per non infastidire nessuno, resta a guardare decomporsi il cadavere.
Strage Puglia, il pm: "Parlare di errore umano è corretto ma riduttivo". Strage Puglia, il procuratore facente funzioni di Trani, Francesco Giannella, osserva che "parlare di errore umano è corretto ma assolutamente riduttivo", scrive Raffaello Binelli, Giovedì 14/07/2016, su "Il Giornale". "Parlare di errore umano è corretto ma è assolutamente riduttivo. Per ora è un work in progress, noi ci impegneremo per fare sì che tutti coloro che hanno avuto un ruolo in questo terribile disastro, se lo hanno avuto, siano perseguiti dalla giustizia". Così il procuratore facente funzioni di Trani, Francesco Giannella, ha risposto ai cronisti facendo un punto sulle indagini per la tragedia ferroviaria tra Andria e Corato. "Tutti vogliono i veri colpevoli - ha aggiunto - e la richiesta di giustizia dei familiari delle vittime è legittima". Giannella non conferma il numero degli indagati - secondo alcune fonti giudiziarie sarebbero soltanto due i nomi iscritti nel registro, i due capostazione di Andria e Corato, ma non ci sono conferme. Ma rivela che per gli investigatori la dinamica di quel che è accaduto è chiara: "In linea di massima la dinamica è stata ricostruita ma dobbiamo avere certezze". Colpa di un cambio di treno? Moglie e figlia di una delle 23 vittime (Enrico Castellano) riferiscono la versione data da alcuni sopravvissuti: i passeggeri del treno partito da Andria sarebbero stati fatti scendere dal primo treno, fermo sul binario 1, per salire su un secondo convoglio, fermo sul binario 2, che sarebbe partito in ritardo. La causa dell'incidente potrebbe essere legata proprio al cambio di treno. "La comunicazione tra i capistazione per il via libera - si ipotizza - si sarebbe basata sul primo treno e sull'orario di partenza di questo, che però non è più partito. E non sul secondo convoglio che invece è partito in ritardo rispetto al primo". Dalla procura di Trani, però, al momento non ci sono conferme.
"La verità la sappiamo ma non la diciamo". La parola d’ordine dell’azienda è non parlare con i giornalisti. Il personale: «Basterà ascoltare le registrazioni», scrive Michele De Feudis il 24 luglio 2016 su “Il Tempo”. «Ferrovia sgarrupata, sistemi di comunicazione antiquati, vagoni arcaici? Tutte falsità. Questa azienda è un gioiello. La versione dell’incidente? Abbiamo una idea, ma la teniamo per noi». Nelle stazioni della Ferrotranviaria di Corato e Andria, dopo lo scontro tra treni che ha causato la morte di ventitré tra passeggeri, macchinisti e un capotreno (una cinquantina i feriti, di cui quattro gravi), l’ordine dell’azienda è «non parlare con i giornalisti». Le dichiarazioni del personale però sgorgano come un fiume in piena quando è messa in discussione la professionalità dei lavoratori (i due capistazione sono indagati e sospesi dal servizio). «Seguiamo duri corsi di formazione - spiega un capotreno che vuole rimanere anonimo - e abbiamo connaturato al nostro ruolo un forte senso di responsabilità. Le cause dello scontro? Verranno appurate con le registrazioni telefoniche e i fonogrammi».
Binario Unico? Una “Balla”! In Puglia sono morti per questo, scrive Franco Bechis il 14 luglio 2016 su "Libero Quotidiano". Un approfondimento giornalistico sul tragico incidente ferroviario pugliese. Una “lezione” di giornalismo esemplare, di Franco Bechis vicedirettore del quotidiano LIBERO. Era un giorno da segnare in agenda per tutti, quel 19 luglio 2013. Lo si è ben visto all’aeroporto di Bari, dove sono apparsi all’improvviso i big della politica pugliese. Davanti a tutti, con bel paio di forbicione in mano per la cerimonia del taglio del nastro l’allora presidente della Regione, Nichi Vendola. Alle sue spalle, un po’ ingrugnito per la scena rubata dall’altro, Michele Emiliano che in quel momento era sindaco di Bari. E poi primi cittadini di tutti i capoluoghi e i comuni, tra cui Pasquale Cascella, allora sindaco di Barletta ed ex portavoce al Quirinale di Giorgio Napolitano. C’era perfino un monsignore, Alberto D’Urso a rappresentare l’arcidiocesi di Bari-Bitonto con in mano l’aspersorio per la benedizione di rito. E poi una sfilza di manager e dirigenti pubblici e privati. Davanti a tutti naturalmente il presidente e amministratore delegato di Ferrotramviaria, Enrico Maria Pasquini, perché ad essere inaugurata e benedetta quel giorno era l’ultimo tratto della linea ferroviaria che oggi si direbbe maledetta: quella in cui si sono scontrati e accartocciati due treni, portando via 23 vite e ferendo decine di passeggeri. L’ultimo tratto di quella linea era quello che la portava all’aeroporto Karol Wojtyla di Bari, la ragione per cui sulle carrozze maledette qualcuno viaggiava l’altro ieri. Grande evento dunque, e parolone sparse con generosità da Vendola ed Emiliano: grazie a quella ferrovia – dissero- la Puglia era entrata definitivamente in Europa, e altre amenità simili con la roboante retorica del presidente della Regione Puglia. Fu l’occasione anche di un piccolo incontro pubblico, con i saluti ufficiali dei vari relatori che precedettero il taglio del nastro davanti ai gongolanti amministratori della Ferrotramviaria. Il direttore generale della compagnia, Massimo Nitti, strabordò, definendo quel prolungamento con passante nella città di Bari “un qualcosa che colpisce i sensi”. Ma si spinse oltre il rappresentante del ministero dei Trasporti, Alessandro De Paola, direttore dell’Ufficio speciali trasporti impianti fissi (Ustif) della Puglia, che lodò preso dall’entusiasmo “l’alto livello tecnologico della realizzazione innovativa soprattutto per la parte di segnalamento e sicurezza, che la pone fra le infrastrutture di alto livello tecnologico in Italia”. Mai complimenti furono concessi così frettolosamente e fuori posto, come tragicamente si è visto in queste ore. Quell’intervento dell’ingegnere però ci dice una cosa: l’Ustif Puglia, e quindi il ministero dei Trasporti, era il controllore di quella linea ferroviaria. E avrebbe dovuto conoscere perfettamente quel che è emerso in queste ore ed è la causa principale del terribile incidente ferroviario: l’assenza proprio di quel sistema di segnalamento e sicurezza di cui è dotata tutta la rete ferroviaria italiana su cui passano treni veloci e meno veloci di Ferrovie dello Stato. I dispositivi Sctm– sistemi di sicurezza per controllare la marcia dei treni non c’erano e non erano in funzione sull’intera tratta Bari-Ruvo di Puglia, e se ci fossero stati come nel resto di Italia quei due treni non si sarebbero scontrati perché sarebbero stati automaticamente fermati prima di trovarsi uno di fronte all’altro. Quell’assenza avrebbe dovuto essere nota al Ministero dei Trasporti che ancora oggi se ne lava le mani, e conosciuta pure da tutte le autorità istituzionali della Puglia. Che invece si spellavano le mani raccontando frottole e facendo pure i complimenti a chi non li meritava proprio. Tutta la stampa ieri se l’è presa con il binario unico, che c’entra poco o nulla con quel che è accaduto. La maggiore parte della rete ferroviaria italiana corre su binari unici, e così è anche negli altri paesi di Europa. Ma su quei binari ci sono sistemi automatici di sicurezza che fermerebbero i treni in caso di errore umano. Perché non c’è solo l’errore colposo fra le eventualità possibili: un macchinista potrebbe sentirsi male, magari essere colpito da infarto, e così chi da una stazione dovrebbe dare il via libera o meno al passaggio dei treni. I Scmt servono anche a a supplire ad eventualità simili. Poi certo, il doppio binario per cui era in corso una gara avrebbe ridotto i rischi, ed è vero che l’apertura delle buste è stata rinviata dal 6 al prossimo 26 di luglio. Ma sarebbe stata solo il primo passo di un lungo lavoro: si sarebbe aggiudicata la gara, e poi il secondo binario ci avrebbe messo mesi e forse anni prima di essere costruito, collaudato ed entrare in funzione. Sarebbe bastato assai meno invece acquistando i sistemi di segnalamento e sicurezza che su quella linea non esistevano. Lo sapevano tutti che quello era il rischio di Ferrotramviaria. Tanto è che la Regione Puglia nell’aprile 2014 ha finanziato l’acquisto con fondi europei tratti dal Po Fesr 2007-2013. Mica un investimento da restare in mutande: 4,8 milioni di euro per la tratta Bari-Bitonto e altri 8,78 milioni di euro per la tratta Bitonto-Ruvo di Puglia. Per la prima il contratto è stato firmato dopo una procedura negoziata con Alstom Ferroviaria spa nel gennaio 2015. Nell’ultimo bilancio approvato nel maggio scorso Ferrotramviaria spa scrive che “le attività sono ancora in corso, essendo state interferite da diverse altre attività e dall’intenso esercizio ferroviario”. Parole misteriose, perché che i treni corrano è evidente, ma quali diverse altre attività erano più urgenti di quella della sicurezza della linea, che tale non era? Per la tratta Bitonto-Ruvo sempre Alstom Ferroviaria aveva firmato un contratto nel marzo 2015 “e i lavori sono in corso di esecuzione. Si ritiene che detti sistemi Scmt sia sulla tratta Bari-Bitonto sia quelli sulla Bitonto-Ruvo potranno essere attivati entro settembre 2016”. Troppo tardi, purtroppo per i 23 che non ci sono più.
Perché hanno dimenticato il Sud. Questa tragedia ci parla di investimenti non fatti, di una totale assenza di visione e prospettiva che riguarda questo governo e i suoi precedenti, scrive Roberto Saviano il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. Piove, governo ladro. Se piove e tracimano le fogne, se piove e si sciolgono le strade come fossero di sale, se piove e rovinano i palazzi come castelli di sabbia, se piove e tutto questo accade, allora sì: piove, governo ladro. La tragedia ferroviaria sulla tratta Corato-Andria non è una tragedia casuale, parlare di responsabilità umane è una risposta parziale che alleggerisce le istituzioni. Istituzioni che in questo paese, e nel nostro Sud, sono terribilmente, drammaticamente inadeguate. Ci sono responsabilità tecniche, responsabilità politiche locali e responsabilità nazionali: non è sciacallaggio evidenziarle, ma irresponsabilità tacerle. Sciacallo è il silenzio che si appropria di un concetto semplice: è stata una sventura. Proprio per rispetto delle vittime è un dovere puntare il dito su un sistema inefficiente che spera - spera! - che la tragedia non avvenga, senza fare nulla per evitarla. Le parole che oggi si pronunciano saranno le sole a essere ascoltate: domani, sepolti i corpi delle povere vittime, la tragedia sarà presto dimenticata, fino a quando non ne arriverà un 'altra. Chi sa parli: racconti dell'esodo di ogni pendolare, dell'impossibilità di raggiungere località meravigliose, di ritardi infiniti, di treni vecchissimi che si fermano d'improvviso su binari sperduti di campagna. Racconti dei treni a gasolio che ancora girano per il Sud. Questa tragedia ci racconta il sud Italia esattamente come chi ci abita lo vive. Questa tragedia ci parla di investimenti non fatti, di una totale assenza di visione e prospettiva che riguarda questo governo e i suoi precedenti. Al Sud non si investe sui trasporti perché non porta vantaggio politico, perché si tratta di aree da cui l'emorragia di giovani è tale che lavorare sulle infrastrutture significherebbe fare una scommessa senza un immediato riscontro di consenso. Si è scelto di dare impulso al Nord, dove un tessuto imprenditoriale esiste, in sofferenza certo, ma esiste. Il Sud si deve accontentare di qualche comunicato a effetto, due parole sulle organizzazioni criminali, mali da debellare sì, ma di cui sarebbe meglio non parlare troppo per non creare un clima di sfiducia, null'altro. Al Sud si resta in superficie, si annunciano in pompa magna corsi di formazione che sono solo realtà virtuali, esistono solo sui siti internet. Ho vissuto a Napoli tanto a lungo da riconoscere un teatrino quando lo vedo. Ho vissuto altrove tanto a lungo da indignarmi quando il teatrino è orchestrato ai danni di terre che meritano investimenti veri e non elemosine. In Campania, in Calabria, in Puglia, in Basilicata, in Molise, in Sicilia investire su trasporti e infrastrutture significherebbe dare inizio allo sviluppo di quei territori. Non impulso, non una spintarella, no: sarebbe un vero e proprio inizio. La tragedia ferroviaria in Puglia ci racconta una parte di Paese che se ancora esiste è solo per la strenua volontà di chi ci vive. Se e dove le cose funzionano al Sud è perché ci sono persone che non ci stanno a lasciare andare in malora la terra in cui sono nati, cresciuti e dove, da eroi, hanno deciso di vivere. Ciò che va bene al Sud lo si deve alle individualità. Ma lo sforzo che si richiede a queste persone è sovrumano. "Ho visto il collega piangere, ma è troppo facile dire che la colpa è sua: l'unica responsabilità è di chi non doveva permettere che uno sbaglio, uno solo, potesse portare a questa tragedia". Ecco le parole di un macchinista di Andria. Parole come pietre. L'uomo che ha commesso l'errore umano pagherà a vita responsabilità che non sono sue, non soltanto sue. Omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario, una mattinata di ritardi e confusione nel gestire quei 17 chilometri che collegano Andria a Corato, in cui il binario è unico. Non è il solo caso in Italia di tratta a binario unico, ma è uno dei pochissimi in tutta Italia in cui non è attivo il sistema automatico di controllo e dove si richiedono ai macchinisti tempi di reazione da supereroe per evitare tragedie. Il sistema automatico di controllo è un servizio fondamentale che consente di ricevere la segnalazione che il binario è occupato da un'altra vettura ed evitare lo scontro. Sistema che sulle vetture era stato montato, ma che non poteva funzionare perché il binario è vecchio. Doveva essere messo a norma quel tratto di ferrovia, il binario raddoppiato, ma il termine del primo luglio fissato per le offerte relative alla gara d'appalto è stato da poco prorogato al 19 luglio. E così tra Corato e Andria, per gestire quel tratto a binario unico, la comunicazione avviene oggi come avveniva 50 anni fa: attraverso fonogrammi e una macchina che, come riferiscono testimoni, sembra obsoleta ed è collegata a una vecchia stampante. Allora non cerchiamo capri espiatori, ma capiamo soprattutto perché sulla Bari-Nord, una tratta che i pugliesi considerano il fiore all'occhiello dei trasporti regionali, la sicurezza di migliaia di viaggiatori, ogni giorno, era nelle mani di due macchinisti e due capistazione. Questo governo, come i precedenti, è in ritardo al Sud, non ha una visione né ha saputo provare a modificare la classe dirigente. Al Sud avrebbe potuto cambiare e non l'ha fatto, e proprio al Sud rischia di collassare. Ma il Mezzogiorno ha ormai da tempo smesso di mantenersi dentro i suoi confini meridionali (come non considerare Roma Mezzogiorno italiano?) e, come la linea della palma, si sta alzando. Ricordate la metafora di Sciascia? "A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma... degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma...".
La tragedia in Puglia e il disastro dei commentatori. Gramellini usa i luoghi comuni su vizi e virtù degli italiani, Annunziata parla di buchi neri, Saviano usa tutti gli stereotipi sul sud e Lagioia parla di treni che non esistono, scrive Luciano Capone il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". E’ inevitabile e anche naturale che quando accade una tragedia come un disastro ferroviario di queste dimensioni e con un così alto tributo di vite, si faccia in una certa misura ricorso alle armi della retorica. Ma nel caso dello scontro tra i due treni in Puglia, tra Andria e Corato, i commentatori si sono lanciati in esercizi di stile tra il manierista e il rococò, completamente sconnessi dai fatti. Sulla Stampa Massimo Gramellini parte con la stereotipata disamina di vizi e virtù degli italiani: “Quale sarà la vera Italia? L’Italia che nel secolo dell’alta velocità boccheggia ancora sopra un binario unico, oppure quella che di slancio si mette in coda nelle corsie d’ospedale per donare il proprio sangue ai feriti? Il guaio è che sono vere tutte e due. La prima Italia, così ripetitiva e immutabile nei suoi vizi, ogni volta ci sgomenta al punto da farci dimenticare l’esistenza dell’altra, sentimentale o semplicemente viva, che invece sopravvive intatta tra le pieghe del cinismo disseminato a piene mani spesso dai ceti più colti”. Il binario unico prende così il posto del Suv parcheggiato sul marciapiede o in doppia fila e diventa il simbolo dei mali del paese. E chissenefrega se il binario unico non c’entra, se la maggior parte delle ferrovie d’Europa sono a binario unico, dalla Germania alla Svizzera, e basta avere dei sistemi di sicurezza efficienti per evitare incidenti. Sembrerà strano, ma il doppio binario serve là dove c’è un elevato traffico, serve per fa viaggiare merci e persone e non per evitare collisioni. Perché gli incidenti ferroviari avvengono anche dove c’è il doppio binario se si verificano falle nei sistemi di sicurezza. Ma il discorso su vizi e virtù dell’Italia viene così bene che Gramellini raddoppierebbe seduta stante tutti i binari del paese per far viaggiare i buoni su uno e i cattivi sull’altro. Sull’Huffington post Lucia Annunziata invece dice che “Tutti siamo pendolari”: “C'è sempre, in Italia, il buco nero di un pozzo che ci si para davanti e su cui ci affacciamo per scoprire quanto fragile, incerta, non garantita sia la vita quotidiana di tutti noi in questo paese. Uno di quei pozzi si è aperto oggi in mezzo agli ulivi sulla linea ferroviaria fra Andria e Corato”. Non ci sono viziosi e virtuosi, siamo tutti nel pozzo nero. Roberto Saviano invece fa il meridionalista e denuncia lo stato di abbandono delle ferrovie al sud: “A Renzi spetterebbe il compito di rendere il servizio ferroviario dignitoso, un servizio che è abbandonato, trascurato, sottodimensionato. Muoversi in Puglia, in Calabria, in Campania, in Basilicata, in Sicilia è un’impresa da avventurieri”. Stessi commenti sul Sud dimenticato su Avvenire e sul Meridione abbandonato sul Manifesto. Non conta che i treni delle Ferrovie del Nord Barese che si sono scontrati, probabilmente per un errore umano, siano nuovi e moderni e a detta dei pendolari pugliesi abbiano sempre garantito un servizio puntuale ed efficiente, accessibile anche ai non avventurieri. L’immagine dell’arretratezza del sud e dei treni a carbone è talmente forte ed evocativa che non possiamo rinunciarci solo perché la realtà è diversa. Su Repubblica invece il premio Strega Nicola Lagioia scrive un commento che come stile, per il giusto mix di ars retorica e pathos, sta tra Marco Fabio Quintiliano e Concita De Gregorio: “I treni coinvolti nel terrificante impatto verificatosi tra Andria e Corato non erano convogli ad alta velocità. Erano i mezzi di trasporto su cui ogni giorno si muove il Paese reale. Pendolari. Studenti. Migranti”. Sui regionali non viaggiano quindi gli immigrati o gli stranieri, magari arrivati chissà quanti anni fa, che non hanno ancora diritto ad essere pendolari come gli altri. Viaggiano i migranti, che appunto migrano da Barletta a Corato o da Andria a Ruvo. Ma oltre ai migranti su quei treni viaggiano “camerieri, precari, professori di scuola media, disoccupati, baby sitter, anziani senza mezzi, imbianchini, badanti, interinali, domestici a ore, muratori” e così via. “E’ sufficiente scendere da un Frecciarossa, da un Frecciargento, da un Italo e salire su un regionale” per ritrovarsi “in un mondo molto distante da quello che viene fuori dal racconto ufficiale del paese”. Lagioia svela quindi al Paese immaginario che il Paese reale viaggia “a bassa velocità”: “Sono spesso i corpi e i volti di chi è stato lasciato indietro, di chi lotta con i denti per non essere sbattuto fuori dal consesso sociale”, dice lo scrittore, concludendo che “sono la testimonianza che Pier Paolo Pasolini aveva torto” perché “la pialla dello sviluppo, che avrebbe dovuto rendere tutti uguali, ha avuto il più imprevedibile (e per certi sensi disastroso) degli arresti. Se volete un bagno di realtà, veniteli a incontrare sui treni che viaggiano lenti”. Ma Lagioia l’ha mai preso un Frecciarossa, un Italo o un Frecciargento, magari non in prima classe? Perché in quei vagoni si vedono proprio le stesse “facce” dei regionali, quelle di persone comuni (al netto della affettata descrizione da diseredati e miserabili). Su Italo e sul Frecciarossa, che con le offerte garantiscono prezzi molto accessibili, viaggiano studenti, imbianchini, immigrati, pendolari, anziani, precari, magari quando devono andare da Torino a Milano, da Roma a Firenze, da Napoli a Bologna. Quando invece devono spostarsi da Corato a Barletta non prendono il Frecciarossa, non perché “sono i nuovi poveri” e con quelle “facce” non li fanno salire, ma perché la distanza è di 20 chilometri. L’alta velocità per la tratta Barletta-Bitonto non c’è perché non serve. Pasolini avrà pure torto, ma Lagioia da quanto tempo non prende un regionale?
Il binario unico del giornalismo italiano. A Bari la strage è originata da un errore umano e da un ritardo tecnologico figlio della burocrazia appaltante locale e nazionale, scrive Mario Sechi il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". I giornali hanno scoperto il binario unico. I titoli di oggi sulla tragedia di Bari sono in ciclostile. Corriere della Sera: “Morire sul binario unico”. La Stampa: “Apocalisse sul binario unico”. Repubblica: “La strage del binario unico”. Il Messaggero: “La strage del binario unico”. La Gazzetta del Mezzogiorno: “Il binario unico scatena l’inferno”. Poi c’è il classico “Binario morto” (il Giornale) e non può mancare “L’inferno fra gli ulivi” (l’Unità) e “L’inferno sui treni dei pendolari (Il Secolo XIX). A giudicare da questo colpo di fantasia collettivo, i 27 morti e 50 feriti sono stati causati dalla presenza aliena del binario unico. Non è così. Gran parte della rete ferroviaria italiana viaggia sul binario unico e il raddoppio della linea avviene in presenza di alti volumi di traffico. Chi fa binari unici senza passeggeri da trasportare, spreca il denaro del contribuente. A Bari la strage è originata non dalla presenza del binario unico, ma da un errore umano e da un ritardo tecnologico figlio della burocrazia appaltante locale e nazionale. Pare ci sia stato un “buco” nella telefonata tra capostazione, macchinista e capotreno. La tecnologia avrebbe ridotto drasticamente le possibilità di errore. I treni si scontrano quando non funzionano i controlli. I treni si scontrano anche su un binario doppio. I treni si scontrano se c’è un errore umano o un guasto tecnico. La situazione della rete italiana, questo straordinario “binario unico” pugliese che domina le prime pagine dei giornali, non è un’eccezione, è la regola della rete ferroviaria in Italia e in Europa. L’incidente, secondo tradizione italica viene commentato con un'altra serie di errori, frasi fatte e analfabetismo di andata e di ritorno. Dunque, a ruota libera, c’era il binario unico, siamo un paese del terzo mondo, il Sud è abbandonato, è colpa di Berlusconi, è colpa di Prodi, è colpa di Monti, è colpa del neoliberismo, è colpa di Renzi ma anche della Boschi e piove governo ladro. Sul binario tedesco (unico o doppio) muoiono più persone e così pure in quello francese. L’Italia deve fare investimenti sulla sicurezza, levare agli enti locali qualsiasi diritto di veto e competenza. Stazione d'arrivo: la realtà. Buona giornata.
Gli errori da non fare nel commentare il disastro dei treni in Puglia. Più di venti morti nello scontro di questa mattina tra Andria e Corato. “Ma prima di accusare la rete ferroviaria privata italiana è bene guardare i dati oggettivi”. Parla Andrea Giuricin, docente di Turismo e Trasporti all’Università di Milano Bicocca, scrive Enrico Cicchetti il 12 Luglio 2016 su "Il Foglio". Le prime carrozze si sono sbriciolate, accartocciate in un groviglio di rottami e vetri a pezzi. Sarebbero – al momento – venti i morti e più di trenta i feriti nel disastro ferroviario di questa mattina nella campagna pugliese, tra Andria e Corato. Lo scontro frontale, violentissimo, è avvenuto tra due treni di linea della Bari Nord, sul tratto ferroviario a binario unico gestita da Ferrotramviaria spa. La società privata, costituita nel 1937 dal conte Ugo Pasquini, è proprietaria dei treni e dell’infrastruttura ferroviaria. Convogli nuovi e un sistema computerizzato a dare il via libera. Ma qualcosa è andato storto. La brutalità dell’incidente scatena subito il bisogno di cercare cause, trovare spiegazioni, affibbiare responsabilità. Viene da chiedersi se il disastro sia stato provocato dal fatto che i treni viaggiavano su binario unico, se la causa sia che i treni erano di una società privata, se la colpa sia della Tav o delle datate infrastrutture del Mezzogiorno - errore umano o meno. “Dopo ogni incidente di questa gravità”, spiega al Foglio Andrea Giuricin, docente di Turismo e Trasporti della Facoltà di Economia all’Università di Milano Bicocca, “è normale e umano rimanere scioccati, ma bisogna riportare i dati per avere una panoramica oggettiva”. Il primo capro espiatorio è la rete ferroviaria privata: “La più grande balla che possa esistere”, assicura Giuricin. “Se si guardano le statistiche il settore ferroviario britannico, che è totalmente privato, da dieci anni a questa parte è il più sicuro in Europa. Molto più delle ferrovie francesi e italiane, ad esempio. Si può anche notare che dal 1987 ad oggi l’alta velocità giapponese, un altro sistema privato, non ha mai avuto un incidente”. I dati Eurostat sono chiarificatori: nel 2014 gli incidenti ferroviari in Gran Bretagna hanno provocato in totale 34 morti su 65miliardi di passeggeri per chilometro. In Italia i decessi salgono a 113 per 50miliardi di utenti, mentre in Germania i morti sono 300 per 89 miliardi di passeggeri per chilometro. “Solo il 12 per cento delle morti sulla rete ferroviaria”, spiega poi Giuricin “avviene per veri e propri incidenti, come quello di oggi. Significa che l’88 per cento dei casi sono persone o macchine che attraversano passaggi a livello o binari laddove non si può. E non bisogna neppure guardare solamente ai dati del singolo anno”, continua “perché un grave incidente come quello di Bari può far saltare il tavolo. Guardando ai dati di medio e lungo periodo, l’andamento è evidente. Il settore privato è scagionato”. Per quello che riguarda l’alta velocità poi, i dati sono ancora più stringenti: “L’unico incidente è avvenuto in Cina, dove l’infrastruttura è gestita dal settore pubblico”. La seconda accusa è stata rivolta al binario unico su cui viaggiavano i convogli. “Non è così: è solo questione di gestione, anche sul binario unico esistono i sistemi di sicurezza. Ancora non si sono chiarite le cause dell’incidente, capiremo cosa non ha funzionato. Nell’alta velocità esiste un impianto chiamato Ermts (European Rail Traffic Management System, Ndr). Si tratta di un sistema di gestione, controllo e protezione del traffico ferroviario e relativo segnalamento a bordo, progettato proprio per sostituire i diversi e, tra loro incompatibili, sistemi di circolazione e sicurezza europei. Sui treni di Ferrotramvia immagino ci fossero sistemi di altro tipo”. Allora hanno ragione quanti sostengono che la colpa è tutta della Tav, che come un’idrovora ha risucchiato tutti i fondi necessari a rimettere in sicurezza le linee secondarie? “Assolutamente no, ribatte Giuricin “perché l’Emts è molto costoso: impossibile da sostenere su 16mila chilometri di linea. Ma le ferrovie italiane hanno comunque sistemi di sicurezza elevatissimi: guardando ai dati il nostro sistema ferroviario è uno dei più sicuri d’Europa”. L’ultimo luogo comune prevede che la colpa sia del divario nord-sud. Non è un caso che il disastro sia avvenuto in Puglia. “Al sud c’è meno domanda. Questo implica che le linee siano meno potenziate. Non avrebbe senso fare l’alta velocità tra Palermo e Messina, ma ad esempio esiste tra Napoli e Roma e non tra Milano e Venezia”. Ma “il movente meridionalista” non funziona: “gli incidenti accadono anche in altri paesi: nella ricca Baviera, nel febbraio scorso, un tremendo incidente ha provocato 10 morti e decine di feriti. A Crevalcore, in Emilia, nel 2005 morirono 17 persone nello scontro fra un treno merci e un interregionale. Le statistiche non evidenziano questa differenza”.
Una tragedia che si poteva evitare, ma non per i motivi che vi hanno detto. Sul disastro ferroviario di martedì tra Andria e Corato sulla linea delle Ferrovie Nord Barese negli ultimi due giorni si sono sentite svariate analisi che hanno portato avanti posizioni alquanto assurde sulle cause di questo scontro tra i due treni. Breve guida ai luoghi comuni da non ripetere, scrive Andrea Giuricin il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". Il disastro ferroviario dello scorso martedì tra Andria e Corato sulla linea delle Ferrovie Nord Barese è stata una tragedia evitabile. Negli ultimi due giorni su diversi mezzi stampa e sui social network si sono sentite svariate analisi che hanno portato avanti posizioni alquanto assurde sulle cause di questo scontro tra i due treni. In primo luogo si è data la colpa del fatto che nella tratta dello scontro ci fosse il binario unico. E’ giusto precisare che la maggioranza delle ferrovie è ancora a binario unico, non solamente in Italia e tale scelta non riguarda questioni di sicurezza ma solo di economicità. Il ragionamento sbagliato che è stato sviluppato in diverse sedi è stato questo: siamo nel sud Italia, c’è sotto investimento, quindi c’era il binario unico. Conseguenza di tutto questo, l’incidente. Il binario unico invece è la norma, come dicevamo, e con adeguati sistemi di sicurezza, è sicuro tanto quanto il binario doppio. Il binario unico è stato utilizzato anche nella linea tra Madrid e la Galizia, nella nuovissima infrastruttura ad alta velocità spagnola per il semplice motivo che la domanda non era abbastanza alta per sostenere i costi. L’Italia è uno dei paesi più sicuri in Europa per il settore ferroviario, più della Germania ad esempio, come mostrano chiaramente le statistiche Eurostat. E il settore ferroviario è di gran lunga più sicuro del trasporto stradale. Un altro dato importante da ricordare è che l’88 per cento degli incidenti non avviene sui treni, ma per gli attraversamenti incauti delle persone. Per quanto riguarda la sicurezza è da ricordare che il settore alta velocità non ha mai avuto incidenti a livello globale dalla sua nascita, in oltre cinquanta anni di storia, ad eccezione di un caso tragico in Cina. Un altro punto di critica deriva dal fatto che la società che gestisce la linea è Ferrotramviaria S.p.A., una compagnia privata. Anche in questo caso, guardando i freddi numeri, non si può che notare che laddove il sistema è privato, il numero di incidenti è meno elevato. Le statistiche dimostrano come il paese più sicuro nell’ultimo decennio sia proprio la Gran Bretagna, che vede operare compagnie private sui binari. Perché allora la tragedia era evitabile? Il punto chiave è dunque un altro: il sistema di segnalamento. Il sistema di controllo della marcia dei treni è ormai generalizzato sulla rete nazionale RFI, da nord a sud. Il livello di sicurezza è molto elevato perché permette il blocco automatico del treno in caso di non rispetto del segnale. Non tutte le ferrovie regionali hanno invece questo livello di sicurezza, con il blocco automatico del treno e questa sembra essere la causa di quanto successo. Proprio l’ERA, l’Agenzia Ferroviaria Europea, aveva avvertito che diverse ferrovie regionali italiane non avevano questo sistema di sicurezza. Dalla dinamica dell’incidente, sembrerebbe che ci sia stato un non rispetto di un segnale (per errore umano o malfunzionamento del segnale stesso). Quel che sorprende nel dibattito italiano è che ci sia soffermati sul fatto che la burocrazia abbia bloccato l’investimento per il raddoppio della linea. In Italia questo non deve sorprendere, ma prima di pensare al raddoppio della linea, si poteva pensare di fare un investimento certamente inferiore in termini di denaro per migliorare il sistema di segnalamento. C’è un’ultima domanda che è lecito porsi: di chi era la responsabilità a vigilare? Nel contratto di servizio tra Regione Puglia e la Ferrotramviaria è così scritto: “Alla Regione Puglia compete per legge la funzione di programmare e amministrare il servizio di Trasporto Pubblico Locale e inoltre, quella di vigilare sulla regolarità, qualità e sicurezza dello stesso”. Essendo un servizio con un contratto di pubblico servizio, la responsabilità ricade proprio sull’Ente regionale. Ancora una volta in Italia il rumore di fondo serve a coprire le responsabilità e la caduta nella rete (di internet) del qualunquismo è ormai diventato il nuovo sport nazionale, purtroppo anche nelle tragedie.
In Puglia ha fallito la demagogia del regionalismo all'italiana, scrive Umberto Minopoli il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". Inutile girarci intorno imbarazzati: sul binario unico Bari-Barletta si è schiantato il modello demagogico italiano del federalismo e del regionalismo senza innovazione. Le reti ferroviarie minori in concessione sono un tributo della storia italiana, un retaggio della nostra particolare costruzione unitaria e dell'eredità del localismo pre-unitario? Vero. Ma solo in parte. L'eredità pre-unitaria riguardava 1.326 Km di rete affidate a imprese ferroviarie locali e private. Oggi si apprende che le reti locali assommano a 9.000 km di rete (su 16.000 km): più della metà della rete ferroviaria. Ma la gestione di questa rete "minore" non è affatto privata. Attenti ad agitare la nenia del liberismo e della privatizzazione. La rete ferroviaria italiana è, nei fatti, tutta pubblica. E' solo splittata tra due soggetti pubblici di proprietà e regolazione: Rete Ferroviaria Italiana, di proprietà delle Fs (che gestisce poco più che 7.000 Km di rete) e società che gestiscono la "rete minore" (ben 9.000 Km di rete) in base a contratti di servizio con le Regioni. Si apprende, inoltre, che solo la rete in gestione diretta Fs è realmente sottoposta ai vincoli e agli standard (europei e internazionali) dell'Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, nata nel 2007. La giurisdizione di questa Agenzia, infatti, si esercita solo sulla rete di proprietà di RFI. Sul resto delle linee, la maggioranza della rete, la politica di sicurezza è articolata tra Regioni, Ministero dei Trasporti, concessionari locali. Un'evidente distorsione. Che non ha niente a che vedere con la liberalizzazione. E ha molto a che vedere con una malintesa interpretazione del decentramento e del federalismo: in cui lo Stato, in nome del regionalismo, rinuncia ad esercitare la sua giurisdizione diretta, specie in termini di scelte per la sicurezza, sulla parte maggioritaria della rete ferroviaria italiana. La seconda ragione del disastro pugliese è tecnologica. L'assenza di un regolatore nazionale e unico, il localismo e il federalismo imperfetto, la limitatezza della risorse regionali hanno portato a una frammentazione dei piani di ammodernamento e di investimento delle reti locali. Con scelte discutibili. Ad esempio: apprendiamo che è stata data priorità al raddoppio delle linee locali e al superamento del binario unico (ne abbiamo ancora 9.161 Km). Non pare che questo sia il vero problema. Altri paesi europei hanno reti a binario unico anche più estese. Il vero problema non è il raddoppio. E' la tecnologia elettronica di separazione e controllo di sicurezza tra i treni. Questa è la chiave che minimizza gli incidenti: annulla l'errore umano (il vero obiettivo della sicurezza) e affida il mancato impatto tra i treni, esclusivamente, agli automatismi del fattore tecnologico. E' la vera frontiera della politica di sicurezza nei sistemi complessi in ogni campo: l'operatore deve limitarsi, sempre più, a controllare la macchina dotato del massimo di informazioni possibili; i sistemi di sicurezza (blocco del treno, gestione degli allarmi ecc.) devono attivarsi automaticamente ben prima della materializzazione del rischio. Se si annulla il fattore umano la probabilità incidentale si abbatte esponenzialmente. Le più importanti tecnologie si chiamano Ertms/Etcs per le linee ad Alta velocità e Scmt (Sistema controllo marcia treno) per le linee convenzionali. In pratica, se un macchinista non si adegua ai segnali che dalle rotaie vengono rimbalzati in cabina, il treno si ferma. Ad esse, ormai, si aggiunge l'uso esteso delle tecnologie satellitari (Ersat) per il distanziamento dei treni. Essa però ha ancora un'applicazione molto limitata. Ora il problema è che la scelta tecnologica, per ragioni di risorse limitate e di modello gestionale (decentramento localistico) è stata sacrificata. E solo meno della metà della rete italiana può dirsi oggi sicura e sottoposta a standard moderni. Su oltre metà della rete italiana, quella regionalizzata e data in concessione, si viaggia senza tecnologia e con soluzioni di sicurezza ancorate a metodologie dell'800. E' frutto della demagogia federalista. Qualche imbecille ambientalista se la prenderà con l'alta velocità. Dove l'applicazione delle tecnologie della sicurezza è al massimo. Per costoro nel medioevo doveva restare, invece, tutta la rete ferroviaria italiana. Invece è il contrario: nelle tecnologie di sicurezza e controllo tipici dell'alta velocità, sarebbe dovuta entrare l'intera rete ferroviaria italiana. Invece ha prevalso la demagogia del decentramento e del federalismo: affidare a regioni senza soldi e competenze (che gestiscono attraverso concessioni a società senza soldi e competenze) la sicurezza ferroviaria. E' l'aberrazione del regionalismo cretino italiano che ha sostituito moderne politiche di privatizzazione e liberalizzazione. Un modello che va superato. Pochi sanno ancora che questa aberrazione potrebbe essere superata se passa il Si al referendum di ottobre. Che tra i suoi quesiti contiene la riscrittura e della aree di competenza distinta di Stato e Regioni. Dico la verità: basterebbe questa revisione del regionalismo per votare, convintamente, si.
Altro che Governo ladro o minchiate alla pari…la verità è un’altra. La colpa, da qualunque verso la si prende, è sempre della Burocrazia che frena lo sviluppo. Burocrazia sindacalizzata, quindi politicizzata, ergo, intoccabile.
Il manager di Ferrotramviaria: "Tutta colpa della burocrazia". Il direttore generale di Ferrotramviaria sulla tragedia della Puglia: "Non è un problema di soldi. Quelli ci sono ma le gare restano ferme per anni", scrive Raffaello Binelli, Mercoledì 13/07/2016, su “Il Giornale”. È ancora forte il dolore per la morte di decine di persone, in Puglia, a seguito dello scontro frontale tra due treni. Massimo Nitti, direttore generale di Ferrotramviaria, l'azienda proprietaria dei due treni coinvolti nel tragico incidente, in un'intervista a Sky Tg24 assicura che verrà accertato chi ha sbagliato e che quei due treni lì non dovevano stare. "Ora bisogna capire le cause di quanto è successo", e difende l'azienda accusata per l'utilizzo del "blocco telefonico" per regolare la circolazione. "È un regime di circolazione previsto e riconosciuto, dipende dalla capacità di linea, che è a unico binario". Il manager spiega che il sistema del blocco telefonico "riguarda 300 km di linee regionali in Italia", è "una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata nelle ferrovie", anche se "è in via di eliminazione. Ieri qualche cosa nella catena di controllo non ha funzionato, ma la circolazione con il consenso telefonico ha tutti i crismi della sicurezza". Polemica sui lavori. Secondo Nitti la situazione della linea in cui è avvenuto l'incidente non è così disastrata: "In dieci anni è stato fatto non poco, direi tantissimo. Ma questa è l'Italia. Ci sono parecchi intoppi burocratici e tempi lunghi rispetto agli altri paesi europei. Dieci anni fa abbiamo cominciato con la regione Puglia un lavoro di ammodernamento infrastrutturale che ha portato a raddoppiare 37 km di linea, ha portato alla costruzione di altri 8 km e con i finanziamenti 2015-2020 è stata avviata la gara d'appalto per il raddoppio per la Corato-Andria. Entro il 2018 concluderemo i lavori di raddoppio, poi cominceranno i lavori di interramento". L'Huffington Post riporta anche una dichiarazione che Nitti ha fatto a TgNorba: "Non è assolutamente vero che non ci sono soldi. Non è assolutamente vero che ci sono i soldi e non si spendono. Abbiamo il problema che conosciamo noi italiani: i processi autorizzativi in questa nazionale sono il 60-80% più lunghi di qualunque altra nazione in Europa, per non parlare poi delle gare che si appaltano e che restano ferme per qualche anno in attesa di valutazioni del Tar e del Consiglio di Stato. Se ce ne dobbiamo ricordare soltanto quando succedono le tragedie, va bene, fa parte delle regole del gioco, ma non si dica che i soldi ci sono e non si spendono, almeno per quanto riguarda Ferrotramviaria". Tra pochi giorni scade il termine per presentare le offerte per la gara d'appalto per il raddoppio della linea Corato-Andria. Le buste saranno aperte il 26 luglio.
Massimo Nitti (Ferrotramviaria): "Soldi ci sono, ma gare ferme da anni. Questa è l'Italia". "Blocco telefonico ancora molto usato", scrive "L'Huffington Post" il 13/07/2016. "Accerteremo chi ha sbagliato e perché, ma quei due treni lì non ci dovevano stare". Lo afferma in un'intervista a Sky Tg24 Massimo Nitti, direttore generale di Ferrotramviaria, l'azienda proprietaria dei due treni coinvolti nel disastro ferroviario lungo la linea fra Andria e Corato. "Ora bisogna capire le cause di quanto è successo" ha dichiarato il manager, difendendo l'azienda dalle accuse per l'utilizzo del "blocco telefonico" per regolare la circolazione. "È un regime di circolazione previsto e riconosciuto, dipende dalla capacità di linea, che è a unico binario". Nitti ha spiegato che il blocco telefonico "riguarda 300 km di linee regionali in Italia", è "una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata nelle ferrovie", anche se "è in via di eliminazione. Ieri qualche cosa nella catena di controllo non ha funzionato, ma il regime di circolazione con consenso telefonico ha tutti i crismi della sicurezza". Nitti esclude particolari ritardi nei lavori di ammodernamento: "In dieci anni su questa linea è stato fatto non poco, direi tantissimo. Ma questa è l'Italia. Ci sono parecchi intoppi burocratici e tempi lunghi rispetto agli altri paesi europei. Dieci anni fa abbiamo cominciato con la regione Puglia un lavoro di ammodernamento infrastrutturale che ha portato a raddoppiare 37 km di linea, ha portato alla costruzione di altri 8 km e con i finanziamenti 2015-2020 è stata avviata la gara d'appalto per il raddoppio per la Corato-Andria. Entro il 2018 concluderemo i lavori di raddoppio, poi cominceranno i lavori di interramento". Nitti ha spiegato al TgNorba, infatti che "non è assolutamente vero che non ci sono soldi. Non è assolutamente vero che ci sono i soldi e non si spendono. Abbiamo il problema che conosciamo noi italiani: i processi autorizzativi in questa nazionale sono il 60-80% più lunghi di qualunque altra nazione in Europa, per non parlare poi delle gare che si appaltano e che restano ferme per qualche anno in attesa di valutazioni del Tar e del Consiglio di Stato. Se ce ne dobbiamo ricordare soltanto quando succedono le tragedie, va bene, fa parte delle regole del gioco, ma non si dica che i soldi ci sono e non si spendono, almeno per quanto riguarda Ferrotramviaria". A giorni scade il termine per la presentazione delle offerte per la gara d'appalto per la progettazione esecutiva e la realizzazione del raddoppio della Corato-Andria e che "per il 26 luglio è fissata l'apertura delle buste". I registratori degli eventi e delle comunicazione delle stazioni ferroviarie di Corato ed Andria sono stati prelevati da Ferrotramviaria e messi a disposizione della magistratura. "Ora vanno analizzate, esaminate con serenità e determinazione. Arriveremmo alle conclusioni" ha assicurato Nitti.
L'eredità di Vendola e quel piano ferroviario mai messo in pratica. Ferrotramviaria aveva ottenuto i fondi Ue che sono rimasti nel cassetto. Emiliano tace, scrive Gian Maria De Francesco, Giovedì 14/07/2016, su "Il Giornale”. «È urgente ricostruire una trama di comunità che sappia guardare il mondo senza le lenti deformanti dell'ideologia dominanti». Quante frasi come queste ha lasciato in eredità Nichi Vendola dopo aver abbandonato (almeno ufficialmente) la politica. Trascorsi dieci anni nell'incarico di governatore della Puglia, oggi si gode la famiglia in quel di Montreal e il vitalizio di 5.618 euro mensili della Regione. L'eredità politica di Vendola dovrebbe comprendere anche un Piano dei trasporti, ma il disastro ferroviario di martedì scorso fa capire che nessuno ha voglia di intestarsela. A partire dall'attuale governatore, l'ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. Eppure, in linea teorica i finanziamenti europei per il raddoppio della linea tra Andria e Corato avrebbero dovuto essere disponibili sin dal lontano 2007. Il piano operativo regionale Fesr 2007-2013, infatti, conteneva diversi «Grandi Progetti», (non è megalomania, in ambito Ue si chiamano così) uno dei quali riguardava proprio le Ferrovie del Nord Barese e il suo gestore Ferrotramviaria. Nell'ultima stesura del piano effettuata a inizio 2015 per salvare il salvabile, invece, di «Grandi Progetti» non c'era più traccia anche se Ferrotramviaria risultava tra i beneficiari dei fondi, ad esempio per il raddoppio dei binari tra Ruvo e Corato (circa 12 milioni ricevuti). Che cosa non ha funzionato nella narrazione vendoliana? Perché la poesia non si è tradotta in fatti, come recitava un suo fortunato slogan? Perché Michele Emiliano oggi si vanta di aver inserito nel piano dei fondi europei 2014-2020 i 153 milioni per le Ferrovie Bari Nord? In primo luogo, a far difetto è stata la programmazione. Per quanto la Regione Puglia non sia certo la peggiore tra quelle meridionali, è abbastanza in ritardo nella definizione dei programmi. A fine 2015 (anno gestito per metà da Vendola) meno di un terzo dei piani di rafforzamento amministrativo, che definiscono gli interventi da realizzare, era stato completato. A questo problema gestionale si aggiunge quello finanziario. I Fondi europei si spendono solo c'è la compartecipazione al 50% dello Stato e della Regione. E proprio Vendola, due anni fa, bloccò l'erogazione dei contributi regionali avendo la necessità di destinare risorse al capitolo sanità. In una Regione ad alta spesa corrente come la Puglia (che non differisce molto dallo Stato) le risorse per gli investimenti finiscono presto. Che cosa si fa allora per non perdere i fondi europei? Li si indirizza verso progetti già finanziati oppure verso opere a basso costo. Non a caso l'ex governatore si è beccato la reprimenda della Corte dei Conti Ue e Bruxelles ha sospeso erogazioni per oltre 500 milioni di euro a causa della scarsa trasparenza. Con quei soldi si sarebbero potuti realizzare più di tre raddoppi dell'Andria-Corato, ma tant'è. La burocrazia italiana, con la sua lentezza, fa il resto. Eppure Vendola, come il suo ex compagno di partito Walter Veltroni, ha spesso raccontato di una politica capace di «spegnere i rancori e accendere le passioni». I rancori non si sono sopiti, ma in compenso l'inventore di Sel e i suoi sodali politici hanno «spento» la Puglia trasformandola in un deserto. Niente più acciaio a Taranto, British Gas costretta ad abbandonare il progetto di rigassificatore a Brindisi, i fondi per il potenziamento del trasporto ferroviario dispersi nei corridoi del palazzo della Regione così il potenziamento dei sistemi di segnalazione. Su cui da Bari Vendola avrebbe anche potuto spendere qualche parola.
Scontro fra treni, Nichi Vendola all'HuffPost rifiuta accusa di immobilismo: "L'odore della morte attira gli sciacalli", scrive Alessandro De Angelis il 13/07/2016 su "L'Huffington Post".
Nichi Vendola, certamente lei non è colpevole di quanto accaduto, ma si sente in qualche modo responsabile della tragedia, ovvero dei ritardi istituzionali che hanno impedito che si realizzasse il raddoppio del binario?
«Lo so: la cosa più semplice, la più scontata dinanzi alla tragedia pugliese è tornare a sgranare il rosario di luoghi comuni sul Sud che non funziona, che si avvita nella propria indolenza, nei propri ritardi, nelle proprie mafie. La morte, tutte quelle povere vite tranciate dallo schianto di due treni, diviene occasione per far rivivere un repertorio di banalità, di analisi surreali, persino di speculazioni indecenti: perché sempre l’odore della morte attira gli sciacalli. Per fortuna dinanzi alla strage vi è stata una grande prova della nostra protezione civile e una straordinaria gara di solidarietà dei pugliesi».
Quando parla di sciacallaggio si riferisce anche alle dichiarazioni del sottosegretario Luca Lotti che ha parlato di una tragedia “frutto dell’immobilismo della politica”?
«Molti, troppi, in questi giorni, hanno parlato a sproposito. Per me invece è difficile parlarne e doloroso, perché conoscevo alcune di quelle vittime, perché quello è stato il treno su cui ho viaggiato per anni, perché questa sciagura incide con violenza inaudita nella carne viva della mia comunità».
Avverto, nella sua voce una tensione autentica che da cronista mi pare giusto registrare. Vorrei però approfondire il punto più delicato e più discusso in queste ore. Nell’epoca in cui lei era presidente i soldi furono stanziati, ma i cantieri non partirono.
«La verità è ben documentata. Come lei sa, noi il binario unico lo combattiamo da sempre, sia quando si tratti di ferrovie dello Stato - basti ricordare la battaglia per il raddoppio della Termoli-Lesina, 30 km che strozzano la linea adriatica - sia quando si tratti di ferrovie concesse di carattere regionale. L’ammodernamento della Bari Nord con i suoi 83 km di rete, con il raddoppio del binario, al servizio di 700 mila abitanti, la mia amministrazione l’ha progettato come "opera strategica" nella programmazione dei fondi comunitari del settennio 2007-2013. Con un investimento di circa 180 milioni di euro».
I famosi fondi europei.
«Ecco, noi abbiamo usato le risorse comunitarie per supplire anche alla assoluta scarsità di finanziamenti dei governi nazionali. Durante gli anni del mio mandato abbiamo investito risorse ingenti proprio nel trasporto ferroviario. Ricordo ancora la sorpresa dei miei assessori ai trasporti quando i tecnici relazionavano sullo stato disastroso dei binari nel Salento o sui troppi attraversamenti dei binari con le croci di Sant'Andrea senza nemmeno i passaggi a livello. Per rimettere in sesto quello che altrove ha fatto lo Stato, noi impegnammo risorse europee. Noi, cioè la Regione Puglia: che, lo ricordo agli smemorati, è un ente di programmazione, non una stazione appaltante».
Però in altre tratte partono lavori di raddoppio e di potenziamento delle stazioni, come tra Ruvo e Corato.
«Appunto. La Commissione europea ha validato quell'intervento, garantendo le risorse, nel 2012. Solo i marziani o gli ipocriti possono stupirsi del fatto che in Italia un'opera finanziata nel 2012 nel luglio 2016 non sia stata completata del tutto».
Però nel programma di questa "opera strategica" si indicava la conclusione dei lavori entro il 2015. E lo stesso dichiarava la Ferrotranviaria Spa, la società che avrebbe dovuto realizzare l’opera. I ritardi sono imputabili alla regione o alla società ferrotranviaria Spa?
«Ripeto, la Regione non è il soggetto attuatore. Forse occorre ricordare che un'opera come questa, che collega grandi centri urbani, richiede progetti ingegneristici complessi, una serie infinita di autorizzazioni e pareri, di varianti urbanistiche, e si realizza grazie a centinaia di espropri. E la stragrande parte di queste procedure non dipende dall'ente finanziatore ma da Comuni, Province, Sovrintendenze, e da tante disparate articolazioni pubbliche».
Sta dicendo: colpa della burocrazia?
«L’ho denunciato mille volte l’appesantimento burocratico, consegnando il problema dello snellimento procedurale all'unico in grado di regolarlo: lo Stato. Ricordo poi che il soggetto attuatore dell’opera è Ferrotramviaria, che è la concessionaria della ferrovia. E Se Ferrotramviaria scrive all’ente di programmazione che è in ritardo per incompletezza delle autorizzazioni, la Regione ha l’obbligo di rimodulare gli interventi per evitare di perdere i soldi europei».
Insomma, se su quella tratta i lavori non sono partiti, non è responsabilità della Regione.
«Guardi, la Regione non è stata con le mani in mano. Abbiamo finanziato il rinnovamento di tanta parte del parco treni, facendo viaggiare vagoni tra i più moderni d’Europa, abbiamo portato il treno fin dentro l'aeroporto di Bari Palese, fornendo un servizio tra i più efficienti ed evoluti d’Italia. E in queste azioni di ammodernamento tutti sapevano che la Bari-Nord era considerate un fiore all’occhiello della Puglia. Tutt’altro dal degrado di quelle ferrovie Sud-Est, che sono proprietà del Ministero dei trasporti e che rappresentano uno scandalo infinito, dalla Regione Puglia denunciato molte volte, ma nella disattenzione generale».
Lei rivendica che la sua esperienza di governo è stata un’esperienza di innovazione sul tema dei trasporti e delle infrastrutture?
«È vero: l’Italia è un paese che ha puntato sulla gomma piuttosto che sulle rotaie, sul trasporto privato piuttosto che sul trasporto pubblico. È fu proprio questa filosofia che io e la mia amministrazione abbiamo cercato di capovolgere. A coloro che ricordano che a due passi dalla tragedia c’è un’azienda leader al mondo nelle tecnologie della sicurezza ferroviaria ricordo che quell’azienda e stata costantemente sorretta anche dai finanziamenti della Regione Puglia».
Se ho capito il senso del suo ragionamento, lei dice: io quando sono arrivato ho trovato una situazione drammatica. E ho innovato: guardate come ho trovato la Puglia e guardate come l’ho lasciata. Per questo rifiuto le accuse generiche che sanno di sciacallaggio. Però dice che c’è una burocrazia indomabile. Le chiedo: sulla tratta Andria Corato, il Sistema è stato più forte di lei?
«Metà dell'opera è stata realizzata, l'altra metà è in corso di appalto. Dobbiamo intenderci quando parliamo di burocrazia: ci sono gli eccessi barocchi, ma c'è dentro anche la tutela ambientale e le complessità tecniche. Non siamo a "uno contro tutti". Siamo dentro processi di cambiamento che chiamano in causa una folla di attori istituzionali e sociali. Per il resto vale l'opera, speriamo rapida e puntuale, della magistratura: che dovrà dirci come è potuta accadere questa immane sciagura e chi ne porta la responsabilità».
Soldi, espropri e ritardi della giunta Vendola: tre motivi per una strage. Dal 2008 la Regione convoglia 180 milioni per le Ferrovie Bari Nord. I lavori? Mai iniziati, scrive Gian Maria De Francesco, Venerdì 15/07/2016, su “Il Giornale”. L’obiettivo ora è spostato al 2020. La tratta tra Corato e Andria potrebbe finalmente avere il doppio binario tra quattro anni. Decisamente troppi se si considera, come riportato dal Giornale, che già dal 2008 la Regione Puglia aveva convogliato ben 180 milioni di euro del Fondo europeo di sviluppo regionale sul «Grande Progetto» relativo all’ammodernamento delle Ferrovie Bari Nord. Se non vi fosse stata la sciagura, si potrebbe anche dire che i pugliesi sono solleciti. Un’infrastruttura come la Variante di Valico, seppur maggiormente complessa, ha richiesto una trentina d’anni sebbene la lunghezza sia comparabile. Cerchiamo, allora, di tracciare una linea di confine tra la questione finanziaria e quella burocratico- amministrativa in modo tale da profilare quelle che potrebbero essere le responsabilità, politiche. Denaro e scartoffie sono due facce di una stessa medaglia. Il «Grande progetto» da 180 milioni, di cui 110 erano fondi regionali europei (dunque i restanti 70 milioni erano a carico dello Stato e della Regione), parte nel 2008 sulla carta, ma verso la fine del 2010 era stata solo decisa l’assoggettabilità a Valutazione di impatto ambientale (la temibile Via) il raddoppio della Corato-Andria, mentre erano nel frattempo partiti altri interventi come la linea da 7,7 chilometri per collegare l’aeroporto di Palese alla Ferrovia Bari Nord. Il progetto definitivo poteva essere approvato dall’Unione Europea solo dopo un quadro chiaro degli espropri che, però, nel 2012 non c’era. Solo nel 2013 (e dunque ben 6 anni dopo l’avvio) l’iter avrebbe potuto dirsi avviato alla conclusione. Ma il 2013 era anche l’ultimo anno di vigenza della programmazione dei fondi europei. Per utilizzarli immediatamente la Regione Puglia avrebbe dovuto cofinanziare subito i lavori ed è altamente improbabile che l’ente locale disponesse immediatamente dello stanziamento vista l’inderogabilità di alcune spese correnti come quella sanitaria. Ma la telenovela non finisce qui. Il 10 luglio 2014 la giunta Vendola riprogramma l’intervento Corato-Andria suddividendolo in due lotti perché il gestore Ferrotramviaria ha denunciato «un allungamento imprevisto della fase istruttoria». Insomma, amministrazioni locali ed espropri vanno per le lunghe: il ciclo dei fondi sta per finire e dunque, come fanno quasi tutte le Regioni in questi frangenti, si riprogramma. Ecco perché la gara si chiuderà il 19 luglio prossimo. «I lavori non sono stati completati a causa dei ritardi sul terreno, per le difficoltà a ottenere i permessi legati agli espropri dei terreni», hanno spiegato ieri a Bruxelles e così nel dicembre dell’anno scorso la Commissione Ue ha approvato la riprogrammazione pugliese. «La gestione del finanziamento spetta alle autorità nazionali», ha spiegato la portavoce della Commissione Ue per i Trasporti. Allo stesso modo, si sarebbe potuto ammodernare il sistema di segnalamento automatizzandolo e dotando i treni del sistema automatico di blocco in caso di pericolo. Nello scorso dicembre è stata recepita una direttiva europea che impone la modernizzazione degli standard sulle reti ferroviarie interconnesse come la Bari Nord, anche se manca ancora il decreto attuativo. Ferrotramviaria ha già avviato gli adeguamenti tecnologici, forte anche del servizio in concessione. Ieri la Commissione Ue ha spiegato che gli adeguamenti sono obbligatori sulle nuove reti o su quelle che vengono ammodernate. E Andria-Corato è una vecchia tratta. Il risultato? L’ex governatore Vendola può dire di aver fatto tutto il possibile, il nuovo governatore Emiliano sottolineare di aver fatto partire i lavori e i ministri delle Infrastrutture degli ultimi quattro anni dire di aver vigilato. In Italia, purtroppo, funziona così.
"Il Piano anticorruzione? E' rimasto un pezzo di carta". La denuncia di Raffaele Cantone. Sconfortante la relazione del presidente Anac: le anomalie gravi negli appalti su sanità e rifiuti, le grandi opere arenate o mai cominciate. Anche nel disastro in Puglia c'entra la corruzione: "Problema atavico nel fare infrastrutture", scrive Susanna Turco il 14 luglio 2016 su “L’Espresso”. Piani anticorruzione rimasti sostanzialmente dei "pezzi di carta”, "anomalie” e "disfunzioni” anche gravi negli appalti dei servizi – in particolare sanità e rifiuti – criticità nella progettazione delle grandi opere, che spesso sono "arenate”, soprattutto al Sud. E’ dolente e a tratti drammatica la relazione del presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone: e non risparmia nulla. Fa esercizio di ottimismo spiegando che "si iniziano a intravvedere le prime tracce degli anticorpi” per la lotta alla corruzione, visto che le segnalazioni all’Anac sono più che raddoppiate quest’anno. Ma non fa sconti: chiarisce peraltro Cantone, che a suo avviso c’è un "oggettivo collegamento” tra il disastro ferroviario in Puglia e la "corruzione” nel nostro Paese: "Scontiamo un problema atavico nel fare le infrastrutture”. Il quadro, del resto, è coerente. E’ rimasto sostanzialmente sulle carta, per esempio, il piano anticorruzione. L’Anac ha esaminato 1.900 piani e aperto 929 procedimenti istruttori. Risultato: "La qualità appare modesta”. Una "attuazione insoddisfacente” che, secondo Cantone, è da ricondurre a varie motivazioni (difficoltà organizzative, pochi soldi) tra cui una da brivido: viene considerato una formalità, non importa a nessuno. "Vi è un diffuso atteggiamento di mero adempimento formale, limitato ad evitare le responsabilità in caso di mancata adozione del Piano”, spiega Cantone. Chi se ne deve occupare, cioè per legge il "Responsabile della prevenzione della corruzione, resta "isolato”, cioè da solo, "nel sostanziale disinteresse degli organi di indirizzo politico”. Che ratificano, ma non sostengono. Non va certo meglio per quel che riguarda le grandi Opere. Per le quali Cantone rileva "carenze nella progettazione”, "numerose varianti e riserve”, "lunghi e complessi contenziosi” a causa dei quali non hanno visto la luce. Ecco alcuni esempi: l’anello ferroviario di Palermo, di cui a nove anni dal bando è stato realizzato il 3 per cento dell’importo dei lavori; il caso della metro C a Roma, il cui "progetto posto a base di gara era carente di adeguate indagini preventive per una parte molto estesa del tracciato”, al punto da rendere opportuno riconsiderare il prosieguo dell’opera; la vicenda della diga sul Fiume Melito, che inserita nei programmi della ex Cassa del Mezzogiorno, con progetto approvato nel 1982, ad oggi "non solo non ha ancora visto la luce, ma è addirittura in fase di rivisitazione lo stesso intervento”. Per quel che riguarda gli appalti per servizi e forniture, dove si riscontrano "criticità anche gravi” , è da rilevare la sindrome della proroga, riscontrata soprattutto nel settore della sanità. Si proroga l’appalto per il doppio, il triplo, del tempo originario, a volte ancor prima che sia cominciato l’affidamento del servizio: "Un'indagine su un campione di stazioni appaltanti ha rivelato un utilizzo eccessivo e illegittimo delle proroghe, in molti casi attivate senza che la procedura per l'affidamento del servizio avesse avuto alcun inizio, con opzioni giunte anche a tre volte la durata contrattuale originaria (e in un caso pari addirittura a 13 volte), evidenziando complessivamente 5.694 mesi di proroga, ben il 203% delle durate originarie”, spiega la relazione.
Sui siti di tutto il mondo civile, dove i treni arrivano in orario, rimbalzano le foto della "tragedia immane", come l'ha definita il ministro dell'Infrastrutture Graziano Delrio. Aggiungiamone un'altra, di foto, per spiegare la solita Italia, in cui dietro "l'immane tragedia" c'è sempre una responsabilità anche della politica, con i suoi immani ritardi sull'ammodernamento delle infrastrutture. È la foto in bianco e nero dell'allora presidente del Consiglio Aldo Moro che il 30 settembre del 1965, oltre 50 anni fa, inaugura le ferrovie del Nord barese, momento storico per la Puglia del miracolo economico. «Da allora la tratta della tragedia odierna, da Corato ad Andria, non è mai stata raddoppiata. Ed è evidente che, al netto di un errore tecnico o di un errore umano nell'incidente, la prima anomalia - anzi: si può usare il termine "scandalo" senza essere accusati di scandalismo? - è che quella tratta che unisce zone ricche e popolose del Mezzogiorno sia a su un unico binario, come nell'Italia degli anni Sessanta, e non doppio. Fondi stanziati, gare in ritardo, lavori non iniziati. La politica meridionale celebra freneticamente i suoi riti per acchiappare i voti col vizio atavico, una volta presi, di custodire l'immobilismo infrastrutturale. Addirittura sul grande progetto del raddoppio la Regione Puglia ha dovuto riprogrammare i finanziamenti europei già stanziati e mai utilizzati. Nella delibera di Giunta numero 1450 del 2014 l'opera viene "spostata" dalla Programmazione dei Fondi Europei 2007-2013 alla nuova programmazione 2014-2020. Per capire meglio, occorre andare indietro nel tempo a circa un decennio fa, quando vengono stanziati i fondi per il raddoppio della tratta Corato Andria: 25 milioni per quella tratta, mai spesi per ritardi di gare e progettazioni, nell'ambito di un progetto ambizioso di Adeguamento ferroviario dell'Area Metropolitana Nord Barese, presentato dalla Ferrotramviaria SpA. L'obiettivo è creare una sorta di metropolitana di superficie di 70 km da Bari ai centri ricchi e popolosi del nord barese: Corato, Andria, Barletta, centri ricchi a nord di bari direttamente fino all'aeroporto. Città da 80 centomila abitanti. Il progetto prevede una serie di interventi - parcheggi, riorganizzazione della viabilità - tra cui il "raddoppio per uno sviluppo complessivo di 11 km" e "interramento della linea ad Andria". Alcuni lavori sono iniziati, quelli della tratta della tragedia non sono mai partiti. Un anno fa i parlamentari dell'M5S di Andria avevano messo nero su bianco la loro denuncia: "La nostra grande opera approvata con Decisione (CE) n. C/2007/5726 del 20 novembre 2007, dovrebbe essere ormai al taglio del nastro rosso ed invece è ancora sul binario morto. Il grande progetto di ammodernamento delle ferrovie del nord barese, denominato Adeguamento ferroviario dell'Area Metropolitana Nord Barese, non verrà realizzato nei tempi previsti". Ora il ministro Graziano Delrio chiede una "commissione di indagine". E un'intera classe politica, che ha avuto nella regione le leve del governo evita di spiegare come mai i due treni si sono scontrati sulla tratta inaugurata da Moro 50 anni fa.
Scontro treni, M5S aveva presentato interrogazione su binario unico: “Governo non rispose”. Spunta un'interrogazione parlamentare alla quale nessuno dei ministri, Lupi prima, Delrio poi, ha mai risposto. I soldi per ammodernare il tratto, fondi europei, non sono mai stati utilizzati, scrive Gaia Bozza il 12 luglio 2016 su “Fan Page”. Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-00836 presentato da D'AMBROSIO Giuseppe testo di Mercoledì 12 giugno 2013, seduta n. 32. D'AMBROSIO. — Al Ministro per gli affari europei, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che: il grande progetto delle Ferrovie del nord barese è una infrastruttura che permetterà la prima interconnessione delle reti ferroviarie e che inciderà in modo strategico sul sistema della mobilità della regione Puglia. L'importo del finanziamento è di 180 milioni di euro del programma operativo F.E. S.R. Puglia 2007-2013, il soggetto attuatore è la Ferrotramviaria spa; oggetto dell'intervento sono: il raddoppio per 13 chilometri del binario sulla tratta Corato-Barletta; l'interramento della ferrovia nell'abitato di Andria per 2,9 chilometri, di cui una zona di circa 460 metri in galleria, con tre nuove fermate; la realizzazione di parcheggi di scambio intermodali dislocati in prossimità di 11 stazioni-fermate ferroviarie che offriranno circa 2.000 posti auto; l'eliminazione di 13 passaggi a livello sono l'interconnessione con la Rete ferroviaria italiana nelle stazioni di Bari centrale e Barletta. Sette i comuni interessati direttamente dall'intervento: Barletta, Andria, Corato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto e Bari; il nodo di scambio di Barletta fra Ferrotramviaria ed Rfi darà accesso, non solo ai residenti nei, comuni serviti dalle Ferrovie del Nord ma anche a tutta l'area della Capitanata, al collegamento ferroviario con l'aeroporto di Bari. Sono previste ricadute importanti anche sul capoluogo regionale attraverso la realizzazione della prima interoperabilità funzionale nel nodo ferroviario di Bari della linea adriatica con le linee regionali. I treni della Ferrotramviaria provenienti dall'aeroporto arriveranno, infatti, direttamente al quinto binario del piazzale ovest della stazione delle Ferrovie dello Stato; dal punto di vista amministrativo, dopo l'approvazione del Consiglio regionale dei lavori pubblici e degli uffici dell'assessorato all'ambiente per la valutazione di impatto ambientale, e dopo i restanti adempimenti presso la Commissione europea per gli ultimi aspetti di valenza economica, potranno partire le procedure di appalto. La cantierizzazione dei lavori dovrà essere attuata quanto prima, poiché il collaudo, per problematiche connesse al finanziamento, dovrà essere effettuato entro il 2015–: se si intenda verificare che non vi siano motivi ostativi, anche in sede europea, alla cantierizzazione dei lavori; se si intenda porre in essere ogni opportuna iniziativa, per quanto di competenza per agevolare la realizzazione di questa strategica infrastruttura ferroviaria non solo per il nord-barese, ma anche per la regione Puglia. (4-00836)
Mentre l'Italia piange decine di morti per lo scontro tra treni sul binario unico tra Andria e Corato, spunta un'interrogazione parlamentare alla quale nessuno dei ministri – governo Letta e governo Renzi – ha mai risposto. Argomento? Proprio il binario unico e i lavori di ammodernamento della ferrovia. "Ormai nel 2013, in un'interrogazione parlamentare, chiedevamo all'allora ministro Lupi, quali fossero le sorti di 180 milioni di euro di fondi europei stanziati per ammodernare la tratta del nord Barese che va da Bari a Barletta, passando proprio per il tratto interessato dalla tragedia di oggi". A spiegarlo a Fanpage.it è Giuseppe D'Ambrosio, deputato del Movimento 5 Stelle, che con rabbia ricorda quell'interrogazione seguita da un silenzio di tre anni e da un terribile schianto sui binari. Le prime ipotesi intorno all'incidente vertono sull'errore umano, ma "intanto io lì ci ho vissuto e conosco benissimo i pericoli della Bari Nord, per questo avevo presentato questa interrogazione parlamentare – continua – Intanto, quei soldi sono stati già persi una volta e rischiamo di perderli di nuovo". Non usa mezzi termini il deputato Cinquestelle che nel 2013 chiedeva conto di questi fondi e del fatto che quel tratto di ferrovia, a binario unico, dovesse essere interessato da lavori di raddoppio e di messa in sicurezza, con "addirittura l'interramento della parte più pericolosa che passa all'interno della città di Andria. Questo avveniva quando ancora vi erano due anni ancora per cantierizzare i lavori ma tutto è rimasto così" – sbotta – Oggi ci troviamo queste tante vittime inconsapevoli. Gli amministratori hanno delle enormi responsabilità. Si parla da oltre trent'anni di lavori su quel tratto di ferrovia ma non si è mai fatto nulla". E i soldi, che fine hanno fatto? Sono stati già traslati una volta sulla nuova programmazione "perché i lavori non sono mai partiti ed entro questo fine mese i soldi rischiano di essere di nuovo persi – spiega D'Ambrosio – Adesso pubblicheremo degli atti della Regione Puglia che accusano pesantemente gli amministratori locali che non partivano e gli amministratori centrali che non hanno mai fatto nulla, da Lupi a Delrio nessuno ha risposto". Per il Cinquestelle, errore umano o no, le responsabilità politiche dell'incidente sono precise e vanno ricercate nei "politici che sono andati oggi lì" che "devono vergognarsi. Mentre accade questa tragedia in Puglia, ci sono decine di luoghi in quella situazione e noi ci ostiniamo a finanziare porcherie come il TAV".
Insicurezza a bordo, incoscienza al potere, scrive Giuseppe De Tomaso il 13 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il problema non è l’errore umano, ammesso che si sia trattato di errore umano. Il problema è che simili disastri e tragedie sono inammissibili, dal momento che la tecnologia ha ridotto assai, anzi ha pressoché annullato, sui binari, il rischio di incidenti causati da una distrazione umana. E questi progressi, la tecnologia, li ha realizzati proprio in Puglia, nella regione della Mermec di Vito Pertosa, azienda leader, a livello mondiale, nel campo della sicurezza ferroviaria. Il meccanismo anti-errore si chiama Sistema Controllo Marcia Treno (funziona su terra e sui convogli): ha il compito di mantenere sotto vigilanza elettronica il comportamento del personale di macchina dei treni in base all’aspetto dei segnali ferroviari, alla velocità massima consentita, al grado di frenatura della linea eccetera. Ecco. Il Sistema Controllo Marcia Treno è in funzione sui binari nazionali da parecchi anni, ma è un illustre sconosciuto su molte linee ferroviarie locali (è attivo, invece, in Lombardia, in parte della Campania e in brevissime tratte pugliesi). Per impedire o ridurre al massimo il pericolo di stragi come quella di ieri tra Andria e Corato, è indispensabile che gli standard di sicurezza della Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) siano introdotti anche sulle reti regionali e locali. Perché finora questi standard di sicurezza hanno marciato a due velocità? Perché nessuno ha pensato bene di imporre alle ferrovie in concessione il ricorso agli standard di sicurezza in vigore sui binari della Rete nazionale. Non ci ha pensato il governo centrale, non ci ha pensato la Regione, non lo hanno chiesto i sindacati. Troppi intrecci clientelari, troppe rendite elettorali, troppe mangiatoie pseudo-manageriali, come ha testimoniato, a proposito dello scandalo Ferrovie Sud Est, il libro denuncia dei colleghi della Gazzetta Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini. Eppure una direttiva ministeriale obbliga le aziende del settore e le stesse Regioni a installare il Sistema Controllo Marcia Treno su ogni tratta. Perché non è stato fatto? Perché la stessa Agenzia Nazionale della Sicurezza delle Ferrovie è una scatola vuota che non fa controlli? La magistratura farebbe bene ad approfondire. Se c’era un punto in cui il Sistema Controllo Marcia Treno era fondamentale, questo era proprio il binario unico su cui ieri è successo il finimondo. Invece, sembra che l’apparato di controllo fosse rimasto in lista d’attesa perché un’azienda del ramo aspettava il raddoppio del binario. Do ut des da brivido, con molti colpi di sonno (!) da parte di chi doveva controllare. La sicurezza sulle linee locali è un optional. Il che, paradossalmente, non si traduce in un risparmio economico, ma in un salasso finanziario per Stato e Regione. Sigle di potentati locali che hanno tesaurizzato i vantaggi del capitalismo tariffario privo di rischi. Aziende ferroviarie che si sono trasformate in fabbriche di potere e voti per gli amici degli amici. Insomma, le ferrovie locali sono il bancomat privilegiato per larghi settori della classe politica, una sorta di bicamerale degli affari in cui tutti hanno di che saziarsi. La tragedia di ieri è anche figlia di questo atteggiamento indifferente di politici e tecnocrati sui sistemi di sicurezza delle reti locali. Sistemi che possono essere garantiti o dall’immediata introduzione del Sistema Controllo Marcia Treno fino all’ultima linea ferroviaria locale o, meglio ancora, dal passaggio delle ferrovie locali sotto il controllo della Rete statale, l’unica che può assicurare i meccanismi di sicurezza. Provvederà, successivamente, una gara pubblica tra gli operatori, anche privati, ad affidare in concessione la gestione del servizio per i passeggeri. Finora, i trasporti ferroviari si sono rivelati il festival dello spreco. Fondi europei persi. Fondi pubblici sprecati a go-go per incarichi e consulenze da nababbi. Una Casta trasversale che ha programmato carriere e patrimoni. Ora non ci sono più alibi. Lo Stato centrale non può restare a guardare mentre la condizione dei trasporti ferroviari nel Sud evoca scenari di qualche secolo fa. La Regione Puglia e il suo Presidente si concentrino sui temi clou della Puglia: trasporti, sanità e rifiuti in primis. È inammissibile che il tratto Termoli-Lesina sia ancora a binario unico, nonostante i mille tavoli di questi anni e l’incessante campagna di questo giornale a sostegno della linea ferroviaria adriatica. È assurdo che la stessa sicurezza dei convogli penalizzi la Puglia e il Sud, per non dire delle carrozze antiquate e degli orari incredibili. Ma la tragedia di ieri ha acceso un faro innanzitutto sulle responsabilità, sulle complicità, sui grovigli tra classe politica locale e classe imprenditoriale rapace e parassitaria. Assunzioni e favori. Intrallazzi e mercimoni. Chi se ne importa se l’intero sistema ferroviario locale possa finire sotto il controllo di Trenitalia. Meglio, se serve a ridurre i rischi di gravissime tragedie umane. Meglio, se serve a ridimensionare i costi. Meglio, se serve a fare pulizia nel sottobosco della politica e dell’affarismo più spregiudicato. Meglio se evita arricchimenti stabiliti dalla politica, sempre smaniosa di scegliere i vincenti e premiare i perdenti, in tutti i settori. È la storia di una tragedia annunciata. Sembra una frase fatta, retorica. Ma è la verità. Se una regione è priva, per la sicurezza dei suoi viaggiatori, delle più elementari premesse di sicurezza - che nulla hanno a vedere con l’errore umano - c’è poco da sofisticare o filosofare: prima o poi si verificherà l’inferno. Finiamola con l’orgia di concessioni ad aziende del settore che vivacchiano grazie agli apparati della politica distributiva e acquisitiva. Spesso queste concessioni sono più scandalose di mille camarille tangentizie. Affrontiamo a viso aperto il tema della modernizzazione e della sicurezza dei trasporti. E smettiamola di fare passerella ovunque ci sia una telecamera pronta a riprendere anche la più inutile dichiarazione.
l principale responsabile del disastro sulla Andria-Corato è un Paese che non funziona. Gli investimenti inesistenti al Sud, lo spreco dei fondi europei, la burocrazia che blocca tutto, le eccellenze globali dimenticate dal territorio: ecco quali sono le quattro tragiche lezioni del disastro sulla Andria-Corato, scrive Francesco Cancellato il 13 Luglio 2016 su “L’Inkiesta”. È una tragedia che parla, quella della collisione dei treni sulla linea Andria - Corato, nella campagna pugliese. Che racconta molto, al di là degli errori e del caso, di quel che non funziona in Italia e nel Sud. Ad esempio, non funziona che 8 euro su 10 per l’ammodernamento ferroviario siano spesi da Roma in su, sovente per progetti di dubbia utilità come la Tav Torino - Lione. Non ha senso che una linea pendolare congestionata come la Bari-Barletta - quella che passata Andria e Corato - sia a binario unico e per 33 maledetti chilometri senza controlli automatici. Non ha senso nemmeno che a Matera - capitale europea della cultura - non arrivino treni perché mancano 20 km di binari che dovevano essere pronti nel 1986. E non ha senso che gli investimenti ferroviari al Sud siano scesi del 20% in più rispetto alla media nazionale, già in contrazione del 34%, peraltro, come giustamente scrive Gianfranco Viesti sul Mattino. Tre esempi a caso figli di terre in cui la spesa pubblica è ipertrofica solamente per assunzioni di massa, enti inutili, clientele assortite. Per gli investimenti, citofonare altrove. In Europa, ad esempio. La brutta, cattiva, sovietica matrigna di Bruxelles, l’unica che da qualche decennio a questa parte sgancia quattrini per lo sviluppo del meridione d’Italia. Soldi che troppo spesso vengono sprecati o addirittura rispediti al mittente per assenza di idee, di competenze, di volontà politica. Il caso del raddoppio della linea Corato-Andria - e più in generale il grande progetto di ammodernamento delle ferrovie pugliesi - sono un caso scuola per spiegare agli euroscettici a cosa serva l’Europa. Se quei soldi non fossero finiti congelati per quattro anni, persi negli iter autorizzativi e nella schizofrenia procedurale della nostra bizantina burocrazia oggi la linea Corato-Andria sarebbe stata un caso scuola, non il teatro di una tragedia. La storia più paradossale di tutta questa tragedia è che i più moderni sistemi di controllo per i treni superveloci e per le metropolitane del mondo siano ideati, progettati, prodotti a pochi chilometri dal luogo della tragedia, dagli spin off del Politecnico di Bari, vera e propria eccellenza del territorio. Fulcro, ovunque altrove, dello sviluppo di un territorio sulla frontiera dell’eccellenza. Gigantesco, tragico rimpianto, nella terra delle occasioni sprecate. La burocrazia, per l’appunto. C’è chi, sui giornali, ha scritto che le ventisette vittime della tragedia sono morte di lentezza. La lentezza di un Paese che anche quando ha idee, progetti, soldi si perde nel proceduralismo. Che non è, si badi bene, la rigida applicazione delle regole, bensì la sua aberrazione. Che con la scusa di combattere la discrezionalità, i conflitti d’interesse, la corruzione, la malagestio finisce per castrare ogni velleità d’investimento e ogni decisione, investendo chi presidia tali processi, per contrappasso, di un potere immenso e di un’immensa discrezionalità. In grado di impedire che un opera finanziata venga costruita. Ma non che un operatore privato si doti di sistemi di sicurezza automatica che invece sono regola nelle ferrovie gestite dal pubblico. Qualunque riforma della pubblica amministrazione, del codice degli appalti, degli sblocca-qualcosa, dovrebbe partire da qua. Due righe, infine, sulla storia più paradossale di tutta questa tragedia. Che i più moderni sistemi di controllo per i treni superveloci e per le metropolitane del mondo siano ideati, progettati, prodotti a pochi chilometri dal luogo della tragedia, dagli spin off del Politecnico di Bari, vera e propria eccellenza del territorio. Fulcro, ovunque altrove, dello sviluppo sulla frontiera dell’eccellenza. Gigantesco, tragico rimpianto, nella terra delle occasioni sprecate.
I furbetti nascosti dietro un cartone e il cavillo della tragedia del binario. Le due facce della burocrazia criminale. Le due notizie sono arrivate lo stesso giorno: una è la strage del treno Andria-Corato, l'altra è l’ennesima catena di arresti di "furbetti del cartellino", scrive Giovanni Maria Bellu il 13 luglio 2016 su “Tiscali”. Le due notizie sono arrivate lo stesso giorno, quasi in contemporanea. Una tragica, l’altra tragicomica. Può suonare quasi blasfemo metterle assieme, eppure sono notizie che parlano l’una all’altra. La prima è su tutte le prime pagine dei giornali e nelle aperture di tutti i siti, la strage del treno Andria-Corato, ventisette morti fino a ora accertati, più di cinquanta feriti. Anche l’altra notizia è su tutti i giornali, ma in posizione più defilata, nelle pagine interne. In effetti non è una notizia particolarmente nuova: l’ennesima catena di denunce e di arresti di “furbetti del cartellino”. Questa volta si tratta di una trentina di dipendenti di Boscotrecase, un comune del napoletano. Gli uni timbravano al posto degli altri, chi andava a fare la spesa, chi a lavorare per l’azienda di famiglia. Storie già sentite. La novità è la tecnica: forse memore di precedenti indagini (e del fotogramma ormai diventato un’icona nazionale del vigile in mutande di Imperia) uno di loro timbrava il cartellino con la testa nascosta dentro un cartone. Le cronache della tragedia ferroviaria pugliese ci dicono che i finanziamenti per la costruzione del secondo binario – quello che se ci fosse stato la tragedia non si sarebbe verificata – erano stati stanziati già da tre anni. Finanziamenti certi, provenienti dall’Unione europea. “Ma la burocrazia – come sottolinea Alessandro De Nicola su Repubblica – aveva bloccato tutto”. Le cronache ci dicono che gli espropri dei terreni, indispensabili per l’ampliamento, erano stati effettuati fin dal 2013, ma la gara d’appalto non era stata mai indetta. La scadenza per la presentazione delle domande era stata inizialmente fissata per il primo luglio, ma poi era stata rinviata ancora: al prossimo 19 luglio. La catastrofe è avvenuta una settimana prima. Le cronache ci dicono che su quel tratto di ferrovia – a pochi chilometri di distanza dal punto in cui si è verificato il devastante impatto – c’è una grande azienda che occupa di indagini diagnostiche sui binari ed esporta il suo know how in tutto il mondo (Antonio Dacaro, sindaco di Bari, al Corriere della Sera). Ma che sul binario unico dov’è avvenuto lo scontro si viaggiava ancora col sistema del “blocco telefonico”, quello che era operativo nel 1965, quando l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro inaugurò la nuova linea elettrificata da Bari a Barletta. E ci dicono anche che questo sistema (che risale all’Ottocento, con la sola differenza che all’epoca il blocco era “telegrafico” anziché “telefonico”) è ancora legittimo e operativo perché i gestori delle tratte ferroviarie minori, come quella di cui stiamo parlando, non hanno l’obbligo di installare i nuovi (costosi) sistemi di sicurezza. Parliamo di sistemi che danno garanzie pressoché assolute ed escludono la possibilità dell’errore umano. Quello che – stando ai primi elementi – pare essere la causa più probabile della sciagura. Il premier Matteo Renzi ha detto che l’Italia saprà “fare chiarezza” su questa tragedia che il presidente Mattarella ha definito “inammissibile”. Già, ma cosa intendiamo per “chiarezza”? L’individuazione del capo stazione che si è confuso, ha fatto partire uno dei due treni quando invece avrebbe dovuto tenerlo fermo? O la “chiarezza” riguarda questo intricatissimo insieme di ritardi, omissioni, rinvii che ha portato a non realizzare un’opera già finanziata? La prima ipotesi è quella largamente più probabile. In questi casi, infatti, di solito si scopre che ciascuno dei comportamenti dei vari controllori è stato formalmente legittimo. Ognuno ha fatto la sua parte, con scrupolo e pignoleria. Se poi il risultato finale è un disastro, non lo si può attribuire a persone determinate, ma è colpa del “sistema”. Ed ecco perché la notizia della catastrofe “parla” a quella degli ultimi furbetti del cartellino. Quel tale che si è coperto la testa col cartone sapeva perfettamente che le telecamere l’avrebbero individuato come uno dei dipendenti del Comune. O comunque come persona incaricata da uno dei dipendenti. L’occultamento del viso poteva solo nascondere la sua persona, non la truffa. Se, in una partita di calcio, un difensore si mettesse una maschera prima di compiere un fallo da espulsione, sarebbe giudicato come un pazzo irresponsabile da tutta la squadra. Nell’amministrazione pubblica non succede. Il sistema serve a coprire le manchevolezza dei singoli. A volte lo strumento è un cavillo, un codicillo. Altro volte è una scatola di cartone. Un “cartone animato” per adulti irresponsabili.
Invece per le istituzioni c’è altro di molto importate e fondamentale che queste tragedie.
Clandestini e islam, la Rai diventa Teleboldrini: paghi per vedere queste robe, scrive di Enrico Paoli il 13 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Paolo Messa, consigliere di amministrazione della Rai, in una recente intervista a Libero chiedeva esplicitamente alla tv pubblica di aprirsi al mondo dedicando a turisti e residenti stranieri almeno un notiziario, se non addirittura un programma, in lingua inglese. Dalle buone intenzioni ai fatti c’è stato il solito silenzio. In tutte le lingue del mondo. Ma se la sollecitazione arriva dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, cambia tutto. Soprattutto se il tema sono l’integrazione e l’Islam. Con una solerzia quanto meno sospetta l’amministratore delegato, Antonio Campo Dall’Orto, accompagnato dalla presidente del consiglio di amministrazione del board di viale Mazzini, Monica Maggioni, ha squadernato una serie di appuntamenti da far invidia alle migliori tv arabe. Le quali, per contrasto, ironizzano su ciò che noi prendiamo maledettamente sul serio. Sul canale Saudita Mbc, per esempio, va in onda una serie tv di humour nero: si intitola «Selfie» e gioca a ironizzare sulle abitudini religiose dei Sauditi. Imam e sapientoni religiosi vengono presi in giro senza difficoltà. Così, tanto per scherzare. Noi, invece, facciamo i seriosi. Citando Pasolini e Calvino il dg Campo Dall’Orto, intervenendo in commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio istituita dalla Camera con il compito di condurre attività di studio e ricerca su tali temi, ha sottolineato la necessità di sconfiggere l’ignoranza. Nel documento che il numero uno di viale Mazzini ha consegnato alla commissione presieduta dalla Boldrini è tracciato il primo percorso della programmazione Rai su questi temi. Rai Uno si concentrerà sul contrasto delle intolleranze, da quella razziale a quella religiosa e sessuale, con finestre nei programmi più importanti. La fiction, però, sarà il punto di forza. A settembre va in onda «Lampedusa», miniserie che racconta la quotidianità degli uomini e delle donne che operano in prima linea, laddove i volontari prestano i primi soccorsi ai clandestini sbarcati dai gommoni degli scafisti. Poi «Chiedilo al mare», miniserie interpretata da Giuseppe Fiorello che affronta il contrastato tema degli sbarchi illegali attraverso la drammatizzazione di un evento che può essere considerato la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Su Rai3 c’è «Radici «che racconterà l’altra faccia dell’immigrazione, quella degli immigrati regolari. Da segnalare «Fuocoammare» che andrà in onda in prima serata il 3 ottobre (anniversario dell’affondamento al largo di Lampedusa di un barcone con a bordo centinaia di migranti). A seguire la serie «Islam», in onda dal 13 novembre, dedicata al mondo islamico e dove attraverso la chiave narrativa del reportage sul campo si racconterà la vita di donne e uomini musulmani, imam, madri di jihadisti, portavoci delle comunità immigrate e volontari dell’accoglienza. Il punto di forza sarà il nuovo programma di Gad Lerner Islam-Italia. E ancora «Io ci sono», in onda per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne a novembre e tratto dal libro autobiografico di Lucia Annibali. Dalla violenza sulle donne all’affido famigliare, dalla donazione degli organi all’emergenza lavoro e all’omofobia. Un bouquet di 16 programmi in cui nessuna declinazione del politicamente corretto non troverà spazio. Buona visione.
E poi c’è l’esempio dell’ipocrisia a sinistra.
Il pupillo di Beppe Sala? Vuole "bruciare i terroni" e insulta le "scimmie", scrive di Marianna Baroli il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Insulti razzisti, omofobi e chi più ne ha più ne metta. Non ha risparmiato nessuno Daniele Mascolo, il fotografo di Expo 2015 pupillo di Giuseppe Sala e sua ombra durante le lunghe giornate all’interno dell’Esposizione Universale e, poi, della campagna elettorale. Il trentatreenne era una delle punte di diamante del team di Sala, affiancato in Expo dove in quattro anni ha incassato circa 131mila euro. Mascolo era poi diventato il fotografo ufficiale del candidato Pd durante la sua campagna elettorale. Il sindaco, si vocifera da Palazzo Marino, stava pensando a lui come fotografo ufficiale del Comune. Ipotesi tramontata dopo le polemiche di ieri (Sala si avvarrà di due fotografi interni già presenti a Palazzo Marino). Dalla bacheca di Facebook di Daniele Mascolo emerge una fotografia del giovane che delinea un ragazzo non certo affine alla sinistra. Nel 2011, si legge chiaramente sulla sua bacheca: «Avanti Lega, indietro i clandestini». O ancora: «Cacciare gli extracomunitari a calci nel culo! Senza se e senza ma». E che dire dell’ex sindaco Giuliano Pisapia con cui Mascolo si è ritrovato più e più volte a contatto durante la campagna elettorale di Beppe Sala? La vittoria arancione, nel 2011, veniva salutata da Mascolo con un pesante «il vento che cambia puzza sempre più di merda». Nessuna pietà nemmeno per i «froci» e i «finocchi» con cui Mascolo fino a qualche settimana fa sfilava durante il gay pride, o le «scimmie» e i «terroni» che, secondo il giovane fotografo «dovevano essere lavati con il fuoco del Vesuvio». Ora, cliccando sul profilo di Daniele Mascolo sul social network, la pagina che compare riporta un messaggio unico: «Scusateci, il contenuto che cercate non è disponibile». La pagina è stata disattivata ma, per Mascolo, ormai è troppo tardi tanto che, i compagni del Pd, hanno già iniziato a prendere le distanze dal fotografo. Rosaria Iardino, ex consigliera Pd, ha chiesto pubblicamente su Twitter che Sala prenda «le distanze» da Mascolo e «manda a casa questo cretino». «Certe cose - per Iardino - non si dicono nè per gioco o goliardia». Duro anche Daniele Nahum del Pd. «Sono convinto che Sala non sapesse nulla delle dichiarazioni di questo tizio» commenta Nahum «ora che ne siamo venuti tutti a conoscenza, nessuno si azzardi di dargli un incarico comunale. Perché se scrivi quelle cose te ne assumi le responsabilità. Anche se fai il fotografo». A non risparmiarsi anche Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia che chiede che «Sala dica qual è la sua posizione in proposito». «Ci manca che adesso i milanesi paghino anche uno stipendio a questo ragazzo» ha dichiarato De Corato «o Sala prende collaboratori seguendo non si sa quale meritocrazia e ignorando tutto delle persone che paga o non ha ritenuto gravi i comportamenti di Mascolo».
Sapete perché esiste la Kyenge? La spietata verità sull'ex ministro, scrive di Marco Gorra il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Tra gli effetti collaterali meno gradevoli della - già brutta di per sé - storia dell’immigrato ucciso a Fermo va annoverato il ritorno in grande stile dell’ex ministro Cécile Kyenge. La quale Kyenge da qualche giorno si è ripresa il proscenio politico come nemmeno ai tempi del governo. Dichiarazioni appariscenti («Emanuel è morto per l’odio alimentato da politici»), polemiche coi media (per l’esattezza contro questo giornale, reo di avere messo in dubbio la vulgata dell’Italia patria del razzismo), passerelle in favore di telecamera (in prima fila al funerale della vittima con tanto di lettera per la vedova consegnata prima alle agenzie che alla destinataria), iniziative ad effetto («Mi costituirò parte civile nel processo perché è una questione di dignità della persona»). Un fuoco di fila impressionante. Perfettamente prevedibile e perfettamente in linea col personaggio. Che è venuto ad esistenza in quanto incarnazione dell’idea stessa di antirazzismo militante e che continua a tenere ammirevole fede alla propria ragione sociale. Perché se alla vicenda politica della Kyenge va trovato un filo conduttore, ebbene non è possibile non trovarlo nel suo essere quanto di più vicino si possa trovare quaggiù alla figura che gli anglosassoni indicano col termine token black. Di difficile traduzione letterale (si potrebbe azzardare una cosa del tipo “nero simbolico”), l’espressione sta ad indicare quel personaggio di colore (o appartenente ad altra minoranza) che viene incluso in qualcosa - che sia il cast di un telefilm o un governo cambia poco - unicamente in nome del proprio essere minoranza. Il tutto, si capisce, a maggior gloria dell’inclusione e soprattutto dell’allontamento da sé di ogni possibile accusa di discriminazione e di razzismo. E la carriera della Kyenge è un vero e proprio inno al tokenism. Nata in Congo, arriva in Italia con un visto da studente e qui si laurea in Medicina. Parallelamente agli studi, intraprende la via della militanza politica attivandosi nel campo immigrazione e problemi connessi (e dove sennò). La scalata della dottoressa Kyenge inizia a metà anni Zero: eletta in circoscrizione a Modena coi Ds, eletta in consiglio provinciale col Pd, cooptata dal partito onde diventare responsabile regionale delle politiche dell’immigrazione (e di cosa sennò). Con le Politiche del 2013 arriva il grande salto: eletta alla Camera. Nemmeno il tempo di insediarsi e già produce la prima proposta di legge per introdurre nel nostro ordinamento la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati (e a chi sennò). Naufragato Bersani, a formare il governo deve pensarci Enrico Letta. Il quale, vistosi scoperto alla voce rinnovamento e società civile, decide di cooptarla nell’esecutivo, affidandole la delega all’Integrazione (e a cosa sennò) e consentendole di infrangere il tabù del primo ministro nero nella storia repubblicana (e quale sennò). Complici la effimera durata del governo Letta e la natura non esattamente incisiva del dicastero affidatole, quanto a politica spicciola della signora non restano grandi tracce. Poco male, però. Quello che è deficitario in termini amministrativi, però, viene compensato da quello che eccede sul piano mediatico. Dove la nostra è naturalmente diventata figura di primissimo piano e dove si consuma il meglio della sua parabola pubblica. Merito suo, certamente, ma anche dell’entusiastico contributo che arriva dall’opposizione. Segnatamente, dalla Lega Nord. Agli occhi del cui personale la Kyenge rappresenta l’Arcinemico e come tale viene affrontata. Testa d’ariete dell’offensiva padana risulta il vulcanico senatore Roberto Calderoli, che con la signora ingaggia un duello destinato ad entrare nella leggenda. Comincia in tono minore: qualche insulto (memorabile l’«orango» che lui ad un certo punto le scaglierà contro), qualche baruffa, qualche minaccia di carte bollate. Poi, all’improvviso, irrompe il soprannaturale: «Il padre della Kyenge mi ha fatto una macumba», comunica un giorno Calderoli. Il pubblico viene così a conoscenza di Kyenge senior, che di nome fa Clement Kikoko, ha quattro mogli e trentotto figli e - soprattutto - vanta rapporti privilegiati con gli spiriti degli avi incaricati di rendere giustizia alla figlia vilipesa dall’incauto collega. E che efficacia: «Sei volte in sala operatoria, due rianimazione, una in terapia intensiva, è morta mia mamma e nell’ultimo incidente mi sono rotto due vertebre e due dita. E adesso un serpente di due metri in cucina», elenca minuziosamente il senatore. Da cui il «messaggio distensivo» inviato a Kyenge senior unitamente alla richiesta di «revoca del rituale». Il lieto fine è fortunatamente dietro l’angolo: poco tempo dopo, sarà lo stesso Clement Kikoko a dare notizia della avvenuta contromacumba. Che placa sì gli spiriti ma presenta un inatteso effetto collaterale: in forza del nuovo rituale, fanno sapere infatti dal Congo, Calderoli e la Kyenge sono diventati ufficialmente fratelli. Nel frattempo, però, intorno alla signora si è aperto un altro caso: quello del marito Domenico Grispino. Costui - placido ingegnere sessantenne modenese - ha la ventura di concedere un’intervista a Libero nella quale rivela che il Pd ha fatto firmare alla moglie (e si suppone al resto dei candidati) un impegno a versare al partito 34mila euro in caso di elezione a titolo di rimborso elettorale. «Ma la campagna l’avevo pagata tutta io». Il problema è che il Grispino di lavoro fa il direttore del Consorzio attività produttive, aree e servizi della Provincia di Modena. Consorzio il cui presidente è l’assessore comunale competente (casualmente del Pd) e consorzio dal quale il marito del ministro viene fatto fuori senza troppe cerimonie (e nonostante gli ottimi risultati conseguiti) poco dopo l’uscita dell’intervista di cui sopra. Ma sono gli ultimi fuochi. Il ciclone renziano è già arrivato e Letta ha già iniziato a stare sereno. A defenestrazione avvenuta, Renzi non conferma la Kyenge al governo e la dirotta al Parlamento europeo. Trionfalmente eletta, la ormai ex ministra si trasferisce dunque a Strasburgo dove diventa, tra le altre cose, relatrice del rapporto di iniziativa sulla situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio olistico al fenomeno migratorio (e su cosa, sennò) e co-presidente dell’Intergruppo “Anti-Racism and Diversity” (e di cosa, sennò). Il resto è storia dei giorni nostri. Un comunicato sulle elezioni in Burkina Faso, una dichiarazione in occasione di qualche tragedia dell’immigrazione, una visita istituzionale da qualche parte in Africa, un tour de force in Italia perché è stato ucciso un immigrato e c’è da lanciare alto e forte l’allarme contro il ritorno del razzismo E contro che cosa, sennò.
Detto ciò è ipocrita che un paese razzista intrinsecamente si scandalizzi di un fatto marginale e monti un evento mediatico ed istituzionale per sugellare ed incentivare l’invasione islamica.
Il governo inventa l'Italia razzista. Le signore snob Boldrini e Boschi dicono che siamo degli sporchi razzisti. Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Si chiede Alessandro Sallusti, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Ce la stanno mettendo tutta, ma per quanto ci riguarda non ce la faranno a farci sentire in colpa, a farci sentire responsabili di tragedie private e collettive nei confronti delle quali il Paese Italia e gli italiani non hanno alcuna responsabilità. L'immancabile Boldrini e l'onnipresente ministra Boschi ieri hanno fatto passerella ai funerali di Emmanuel, il profugo nigeriano morto a Fermo aggredito da un balordo violento. Non discuto l'opportunità che lo Stato e il governo testimonino solidarietà dove meglio credono, mi inquieta il tentativo di trasformare un grave fatto di cronaca nera in un fatto politicamente rilevante. Siamo addolorati per Emmanuel, come lo siamo ogni volta che un uomo uccide un suo simile, come ogni volta che una tragedia miete vittime innocenti. Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati? I nostri marinai ne salvano da morte certa a migliaia ogni mese, i nostri centri di assistenza ne sfamano e curano altrettanti, il nostro governo per occuparsi di loro stanzia un miliardo di euro all'anno, tanti soldi sottratti a bisogni primari di molti cittadini italiani. Nelle nostre città spesso veniamo lasciati soli a gestire il degrado causato da flussi di immigrati eccessivi e fuori controllo. Le nostre carceri sono diventate ancora più invivibili per una criminalità di importazione senza legami con la società civile e, quindi, senza scrupoli e remore morali, purtroppo quasi impossibile da redimere. E non abbiamo neppure colpe politiche perché l'Italia, con i governi Berlusconi, è stata l'unico Paese occidentale ad opporsi ai due errori che hanno provocato queste invasioni e la nascita dell'Isis: la guerra all'Irak di Saddam e quella alla Libia di Gheddafi. Sopportiamo, e paghiamo, tutto questo per sentirci dire dalla Boldrini e dalla Boschi che siamo degli sporchi razzisti? Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Sono anni che non li frequentano, chiuse nei loro palazzi, ben protette dai disagi e dalle paure che ogni cittadino deve affrontare quotidianamente. Io non ci sto a farmi insultare da queste signore snob. E con umiltà lo dico anche al Santo Padre, Papa Francesco, che ieri, forse non a caso, ha detto che «Dio è nel migrante che vogliamo cacciare». Giusto, direi ovvio: Dio è ovunque, quindi anche negli italiani che non ce la fanno più a convivere con un fenomeno che, a prescindere da colore e razza dei protagonisti, sta rompendo il patto sociale di una civile convivenza. Che Dio faccia Dio, senza priorità, ma Cesare, cioè lo Stato, deve fare Cesare e deve dare ordine alle cose, come disse Gesù ai farisei, casta ipocrita di saggi tutta forma e niente sostanza, i Boldrini dell'epoca.
L'Italia non è razzista, ma razzisti ci sono, scrive Paolo Lambruschi l'8 luglio 2016 su “Avvenire”. La vera Italia non è razzista. Lo pensiamo anche noi, perché lo abbiamo verificato tante volte e continuiamo ad averne conferme. Non ci fa cambiare idea neanche il pestaggio mortale di Emmanuel, nostro fratello nato in Nigeria. Non ci fa mutare avviso neanche il gesto orribile di un ultrà della locale squadra di calcio, fermato per «omicidio preterintenzionale con l’aggravante della finalità razziale» e, a quanto pare, non nuovo a intemperanze e violenze. Non è razzista l’Italia, né lo è la popolazione marchigiana e crediamo sia sincero chi oggi si commuove ed è addolorato per quello che è accaduto. L’Italia accogliente di Lampedusa e di Ventimiglia ha molto in comune con le Marche solidali. Questa profonda convinzione non consente, comunque, di abbassare la guardia, perché i segnali di allarme sono numerosi. E i cinici e i razzisti purtroppo ci sono. Per anni li abbiamo visti sistematicamente sottovalutati. Infatti, accanto ai grandi gesti di solidarietà e accoglienza compiuti dalla parte sana del Paese in tante emergenze gestite in modo altalenante dalla pubblica amministrazione, cattivi maestri hanno potuto imperversare diffondendo impunemente in tv, per radio, attraverso giornali compiacenti e sul web fior di menzogne pur di parlare alla “pancia” della gente e guadagnare consensi, popolarità, voti. Come non ricordare, per esempio, chi in Senato ha dato dell’«orango» ad avversari politici nati in Africa, portando l’insulto da osteria nella sede più alta della rappresentanza popolare? E soprattutto come dimenticare chi ha continuato a gridare su tutti i mass media all’«invasione» dei migranti– incurante di ogni smentita dei numeri – ad alimentare sentimenti xenofobi e a predire la «violenza nelle strade»? Questi cinici 'profeti di sventura' l’hanno azzeccata. Alcuni si preoccupano di offrire pubblica solidarietà alla fidanzata della persona uccisa. Non è mai troppo tardi, ma non basta. Troppi veleni e troppo male sono stati messi in circolo. Davvero troppi, per non farci altrettanto pubblicamente i conti. È importante, adesso, non sottovalutare più alcun segnale d’allarme. A cominciare, ad esempio, dagli attentati alle chiese di Fermo compiuti nei mesi scorsi, come ha ricordato più volte don Vinicio Albanesi, e dalle continue intimidazioni ai danni di diverse Caritas diocesane che praticano l’accoglienza (in Romagna non è stato risparmiato neppure un convento di clausura). Gesti compiuti da estremisti di destra. Comunque sia andata l’aggressione mortale (sarà l’autopsia a stabilirlo) anche l’uomo che ha ucciso Emmanuel ha fama di essere di quella brutta scuola e di quegli oscuri manipoli. L’opinione pubblica italiana – che, insistiamo, non è razzista – ha un grosso problema che si potrà risolvere soltanto nel lungo periodo: è il Paese più «ignorante» dell’area Ocse in materia di immigrazione. E la colpa è soprattutto dei giornalisti e dei politici che disinformano o distorcono la realtà dei fatti per mediocri tornaconti. Per di più, storie come quella del giovane nigeriano pestato a sangue, e stavolta a morte, per aver difeso la propria donna, la propria madre, la propria sorella da chi la oltraggia o la chiama «scimmia africana» sono sconosciute ai più, anche se sono purtroppo dannatamente comuni. Raccontiamola di nuovo, in breve. Emmanuel, 36enne richiedente asilo, era un profugo dalla Nigeria, un cristiano che in un assalto compiuto dai terroristi jihadisti di Boko Haram contro la sua chiesa aveva perso i genitori e una figlioletta. Con la sua promessa sposa Chinyery aveva raggiunto la Libia e anche lì i due erano stati aggrediti e picchiati da trafficanti, lei aveva anche subito un aborto durante la traversata. Da settembre la coppia viveva nel seminario vescovile di Fermo, che accoglie profughi e migranti in attesa di documenti, avevano di recente celebrato il rito della benedizione degli anelli. Un fidanzamento davanti a Dio e alla comunità. È la storia semplice di un amore profondo, di due persone che avevano deciso di condividere la vita e che hanno avuto il torto di nascere e amarsi in una terra dalla quale i cristiani sono costretti a fuggire per sopravvivere. Emmanuel aveva chiesto asilo, Chinyery l’ha ottenuto ieri mentre cantava straziata il dolore per l’amato ucciso. Non si torna indietro, ma se si vuole avere davvero rispetto di quest’uomo e di questa donna e della loro speranza infranta, questa volta non possiamo dimenticare nulla, non possiamo farci riprendere dall’indifferenza. La vera malattia da cui dobbiamo difenderci per non lasciare che i professionisti della paura e della menzogna narcotizzino le nostre coscienze e preparino altre tragedie.
Dopo il massacro del nigeriano a Fermo, nuova vergognosa aggressione ai danni di un immigrato", scrive “Leggo” il 7 luglio 2016. È l'accusa mossa e pubblicata sul proprio profilo facebook da "Cronaca Vera" che ha anche postato il video di una lite in spiaggia tra un venditore ambulante e un uomo italiano in Calabria. "La scena vergognosa - prosegue nel post - si è svolta sulle coste calabresi dove un giovane del posto si è rifiutato di pagare un venditore ambulante, ed alle rimostranze dello straniero lo ha colpito in modo brutale". Le immagini sono evidenti e mostrano il venditore chiedere i soldi al "cliente" per un tatuaggio minacciando anche di chiamare i Carabinieri. L'uomo, sdraiato sul suo asciugamano, non ne vuole sapere e dopo le insistenze reagisce sferrandogli un due calci in testa.
Ed Ancora. Palermo. Non pagano il tatuaggio a un immigrato, un amico lo picchia, scrive il 7 settembre 2009 “Blitz Quotidiano”. Un extracomunitario di 26 anni originario del Bangladesh è stato malmenato a Palermo da un diciassettenne intervenuto a difesa di alcune ragazze che si erano rifiutate di pagare l’immigrato per i tatuaggi che aveva loro praticato sulla spiaggia di Mondello. Lo straniero si era lamentato per il mancato pagamento del prezzo pattuito, 15 euro, e nell’allontanarsi aveva minacciato di contattare la polizia. Il diciassettenne lo ha raggiunto poi in un bar e lo ha colpito con un pugno. È intervenuta la polizia che ha identificato il diciassettenne, tranquillamente tornato intanto in spiaggia con le sue amiche, e lo ha denunciato per lesioni personali.
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano, scrive Igiaba Scego, scrittrice, su "Internazionale" il 7 luglio 2016. Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto. Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato. Davvero è successo? Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia? Davvero l’Italia è peggio di Boko haram? Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia. Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo. “Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura. Dopo l’omicidio di Jerry Maslo, nel 1989, l’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb. Non è la prima volta che succede. Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama. Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia. Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore. Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere. Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985. L’Italia dell’apartheid. In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava. Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri. L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi simili ai nostri. A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound. E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma? Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso. Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre. Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere. Gli omicidi a sfondo razziale non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo mai sradicato. L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”. In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”. Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini…. La macchina del razzismo. Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”. Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata. Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”. Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Emmanuel, l'Italia e l'escalation razzista. Per l'Unar nel 2015 le aggressioni xenofobe nel nostro Paese sono state 57. Ma la stima è al ribasso, perché in molti non denunciano. Ecco come si propaga l'odio, scrive Francesca Buonfiglioli il 7 Luglio 2016 su “Lettera 43”. La tragedia di Emmanuel Chidi Namdi, massacrato da un coetaneo fermano di estrema destra per aver reagito alle offese e rivolte alla compagna, è un colpo allo stomaco. Buona parte dell'opinione pubblica ora si indigna accorgendosi che esiste anche nella profonda provincia italiana il germe dell'odio razziale. Eppure i casi di aggressioni e violenze a fondo xenofobo aumentano di anno in anno. Ma in Italia non esistono statistiche complete, né una banca dati di tutti gli gli episodi nonostante sul tema lavorino diversi enti, a partire dall'Unar. UNAR: NEL 2015, 57 AGGRESSIONI. Secondo l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio non si può parlare di vera e propria escalation: nel 2015 le segnalazioni di aggressioni fisiche di stampo razzista, dicono a Lettera43.it, sono state 57; 78 se si comprendono anche quelle verbali. Contro le 56 del 2014. In Germania, per fare un confronto, secondo le statistiche del Bundeskriminalamt (Bka), l'ufficio criminale federale, e del Bundesamt für Verfassungsschutz, il controspionaggio, gli episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri sono stati 198 nel 2014 e 817 nel 2015. I dati Unar sono però raccolti nel contact center e dall'osservatorio media dell'Ufficio e dall'Oscad, il centro interforze del ministero dell'Interno. Va da sé che non rappresentano la totalità degli episodi che si stimano essere molto di più. LA DENUNCIA EUROPEA. A parlare chiaro, invece, è la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che nell'ultimo rapporto 2016 ha sottolineato come le autorità italiane non siano ancora in grado di raccogliere dati «in modo sistematico e coerente». «Le fonti principali dei dati sui reati legati al discorso dell’odio», si legge nel report, «sono l'Unar, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), la banca dati del sistema di indagine della Polizia giudiziaria (Sdi), il ministero della Giustizia e l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Tali sistemi non utilizzano tuttavia le stesse categorie e non fanno sempre una distinzione tra il discorso dell’odio e altri reati riconducibili al razzismo e alla discriminazione razziale». La tragedia di Fermo, con il suo carico emotivo, ha riacceso i riflettori sulla piaga della xenofobia. L'opinione pubblica si è commossa per la storia della coppia. Scampati all'orrore di Boko Haram che ne ha decimato le famiglie, i due ragazzi hanno affrontato le violenze in Libia, attraversato il Mediterraneo, perso due figli. Sembrava che la loro vita potesse ricominciare in Italia. E invece così non è stato. Non erano nemmeno sposati ufficialmente, perché al loro arrivo Emmanuel e Chimiary non avevano documenti. E lei, in assenza di altri famigliari, non ha potuto dare il consenso per l'espianto degli organi. La verità, però, è che di Emmanuel e Chimiary ne sbarcano a decine ogni giorno sulle nostre coste. Fuggono tutti dalla violenza jihadista, dalla guerra e dalla fame. Solo che non hanno nome e finiscono triturati in numeri e statistiche. Bollati indistintamente come «clandestini», spiega a Lettera43.it don Giancarlo Perego direttore di Migrantes, associazione che aiuta i profughi a integrarsi in Italia. Per questo la tragedia di Fermo ora può cambiare qualcosa. E aprire gli occhi. «Hanno ammazzato Emmanuel, Emmanuel è vivo», dice don Perego parafrasando Pablo di De Gregori. «Emmanuel è vivo, nella sua famiglia, in sua moglie e nella sua figlia morta in grembo, negli altri giovani richiedenti asilo accolti nel seminario vescovile di Fermo, nei tanti giovani che sono arrivati o stanno arrivando in Italia e in fuga soprattutto dall’Africa violentata e offesa da terrorismo, guerre, sfruttamento», continua, «tocca a noi ora responsabilmente aiutare a guardare a questi volti e a queste storie con occhi diversi, con parole diverse, con una cura diversa». La speranza è che questa assurda morte «aiuti le vite degli altri migranti». Quelle aggressioni relegate alle cronache locali. Quello di Fermo non è un caso isolato. Ma si tratta di storie che per lo più restano impigliate nelle pagine delle cronache locali. Come quella di un maliano che a Parma, nemmeno un mese fa, è stato minacciato con un accendino da un autista di un bus di linea: «Ora ti do fuoco», gli ha gridato in faccia. La sua colpa? Essere salito sul mezzo con un carrellino. Il primo giugno, invece, un giovane di colore stava cercando come ogni giorno di vendere la sua merce ai tavolini di un bar a Livorno. Un cliente lo ha sbattuto a terra prendendolo a calci. L'unico presente a prendere le sue difese è stato un consigliere comunale della lista civica Buongiorno Livorno. Infine a gennaio di quest'anno 13 estremisti di destra (tra cui uno di Forza Nuova) sono stati indagati a Roma per aver compiuto raid tra Tor Pignattara, Casilino, Pigneto e Prenestino contro negozianti del Bangladesh, «perfetti per le spedizioni punitive» commentavano i neofascisti, «perché non reagiscono e non denunciano». L'intolleranza nei confronti del diverso, dell'immigrato cresce, è palpabile. Ed è alimentata «da certi talk show, dall'hate speech sui social, da una informazione che falsifica i dati e da una certa politica», mette in chiaro don Perego. «Secondo le statistiche dell’Unar», conferma la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, «le segnalazioni relative a discorsi di incitamento all’odio nei media (compreso internet) rappresentano il 34,2% dell’insieme delle denunce ricevute nel 2013, rispetto al 19,6% nel 2012». E certo non solo nelle Marche, una delle tre regioni insieme con il Veneto e l'Umbria dove il numero di migranti è diminuito. Nonostante ciò, sottolinea il presidente di Migrantes, «si continua a parlare di ‘invasione inarrestabile’ in riferimento a 130 mila richiedenti asilo e rifugiati accolti. Falsificazioni che impediscono ancora una adeguata politica dell’immigrazione». La morte di Emmanuel è stata così «preparata da questo clima sociale e politico che si nasconde dietro la mano omicida». Sono evidenti le responsabilità di una politica che «non ha governato il fenomeno migratorio», continua il direttore di Migrantes. «Basta pensare agli effetti della Bossi-Fini. L'immigrazione è sempre stata considerata esclusivamente dal punto di vista della sicurezza, e non quello dell'inclusione e dell'incontro». Questi giovani, prosegue il sacerdote, tra l'altro «portano forza lavoro, voglia di vivere, capacità, carica vitale». La strada da fare, insomma, è lunga. E passa da una rivoluzione culturale e sociale. «Prendiamo la legge sulla cittadinanza», fa notare, «è ancora ferma in Senato. Mentre il diritto di voto amministrativo per gli immigrati è di là da venire». Senza parlare del pantano burocratico per il diritto d'asilo. Emmanuel, un «clandestino» fino a ieri e oggi un «uomo, un marito che voleva ricostruirsi una vita in Italia», aveva reagito ad Amedeo Mancini, 38enne titolare di una grossa azienda zootecnica e volto noto della tifoseria della Fermana, che per strada aveva strattonato e dato della «scimmia» alla sua compagna. Tre anni fa, però, a definire «scimmia» un ministro della Repubblica di colore non era stato un ultrà di estrema destra e già raggiunto da Daspo ma un senatore: il leghista Roberto Calderoli. Il parlamentare però nel settembre dal 2015 è stato salvato dal Senato. Per lui autorizzazione a procedere solo per diffamazione nei confronti di Cécile Kyenge, non per istigazione all'odio razziale. E che dire dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scomparso recentemente, che definì i rom «feccia della società». Parole d'odio che in qualche misura contribuiscono a «legittimare» la violenza, sottolineano da Lunaria. Come è evidenziato anche nel report della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che ricorda come «un certo numero di episodi di discorsi dell’odio da parte di rappresentanti politici» abbiano avuto «come bersaglio immigrati, rom, musulmani e persone Lgbt». La discriminazione, alimentata dalla paura, così si insinua, e sconfina in ambienti estranei a quelli di Radio Padania. Il 29 giugno su Radio Tre è stata data la notizia del recupero del peschereccio Ivory che nell'aprile 2015 naufragò nel canale di Sicilia, al largo delle coste libiche, portando con sé, sul fondo del mare, 700 vite. I commenti degli ascoltatori alla rassegna stampa parlano da soli: «Chi lo ha autorizzato, e quanto costa?»; «il recupero è offensivo nei riguardi degli italiani in difficoltà, le sepolture vanno fatte da sempre in mare»; «non ci sono soldi per la sanità, per le pensioni, per la manutenzione delle strade, ma poi ci beiamo di aver recuperato il relitto di un barcone naufragato». Dal Not in my name siamo così passati al Not in my backyard, non nel mio cortile. Al grido del salviniano «Prima gli italiani».
“Dire che l’Italia è un Paese razzista non aiuta”. Il direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali: «Il 2015 è stato un anno nero: 1.800 segnalazioni». Nel giorno dello sgomento per l'omicidio di Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo è una bestia. Ma non bisogna lasciargli spazio», scrive Luca Sappino il 7 luglio 2016 su “L’Espresso”. «Il 2015 è stato un anno nero per le segnalazioni riguardanti ogni forma di discriminazione: sono state 1.800 rispetto alle 1.300 del 2014». I dati li dà Francesco Spano, direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, ufficio di palazzo Chigi, che conta così le segnalazioni ricevute dal suo osservatorio, segnalazioni che vanno dall'insulto all'utilizzo di stereotipi fino all'aggressione fisica. Nel giorno dello sgomento per la storia di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo», dice Spano, «è una bestia che non si deve mai dare per definitivamente debellata». Una bestia che però non va neanche mitizzata.
È allora una storia di un’Italia razzista quella di Fermo?
«In molti mi chiedono se questo sia una Paese razzista e io a tutti, anche quando vado nelle scuole e la domanda me la pone un bambino, dico che il razzismo non si può mai considerare sconfitto. Perché ogni volta che lo si sottovaluta arriva un caso come questo ci dà una brutta sveglia. Però parlare di un’Italia razzista è certamente un errore».
Le 57 aggressioni con movente razziale di cui 37 compiute in gruppo che voi stessi avete censito, sono però un dato allarmante.
«E sono un dato parziale. Ma se sbagliamo a non censurare chi strumentalizza storie e dati, come accade spesso sull'immigrazione, e chi fomenta l’odio razziale, sbagliamo anche a dipingere un Paese a tinte fosche. Non è così, ci sono centinaia di persone che costruiscono e lavorano per una società diversa, inclusiva e quindi democratica».
Ce ne sono molte che però soffiano sulla rabbia e la paura. Bufale sui social, politici spesso sopra le righe quando non direttamente razzisti. Quando l’Unaar suggerì a Giorgia Meloni di lasciar perdere le pericolose semplificazioni in tema di migranti, lei gridò alla libertà violata, si imbavagliò sotto palazzo Chigi. Avete gli strumenti necessari per intervenire?
«Io penso che il compito dell’Unar non sia intervenire su specifiche situazioni ma puntare sull’educazione, sugli interventi sulla grande massa, sui giovani. Non è certo il dibattito tra le forze politiche, infatti, che fa scaturire aggressioni come quella di Fermo, particolarmente violenta. C’è un elemento di responsabilità sociale che dobbiamo segnalare, questo sì, e lo facciamo».
Michela Murgia commentando Fermo, alla ricerca di responsabilità politiche, dice che non dovrebbero sentirsi tranquilli neanche i senatori che hanno evitato che Calderoli rispondesse dell’insulto a Kyenge.
«Che le parole siano importanti è sicuramente vero, soprattutto in una società che vive di parole, troppo spesso rapide, dette o scritte sull’istinto, di pancia. Chi esercita una funzione pubblica dovrebbe quindi porre maggior attenzione nel far precedere un pensiero alla parola».
Non avviene spesso. È un continuo di frasi così, nell’Italia che non è razzista ma lo è almeno ad ondate, ogni volta con un nemico diverso. Dopo l’attentato di Dacca, ci sono stati titoli sui bengalesi in Italia, per esempio: Libero in prima ha scritto «Paghiamo chi ci uccide». Succede sempre, senza che poi accada nulla, che si possa contrastare...
«Ci sono strumenti, ci sono codici di autodisciplina e sanzioni che possono e devono esser attivate: non bisogna abbassare la guardia. In ogni campo, compreso quello dei giornalisti, si può arrivare fino a individuare illeciti, civili e penali. A volte si fa, ma non sempre».
Don Albanesi, il presidente della comunità di Capodarco che conosceva Emmanuel Chidi Namdi e la moglie Chimiary, li aveva uniti in matrimonio a gennaio nella chiesa di San Marco alle Paludi, collega la morte di Namdi con i quattro ordigni piazzati nei pressi di altrettante chiese a Fermo negli ultimi mesi. Per lui erano manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi accoglie i migranti. È così?
«Ho parlato con il garante per i diritti della regione Marche, ma non so dire se quella che abbiamo visto è stata un escalation o no. Perché costantemente verifichiamo ipotesi di tensione sociale che non sfocia in aggressioni e a volte invece abbiamo invece l’episodio cruento che proprio non ti spieghi. Sicuramente però, la vicenda, ci ricorda che certi sentori vanno presi per tempo e molto sul serio, che non bisogna sottovalutare i segnali. Ma soprattutto che dobbiamo fare di più».
Come?
«Anche fornendo una contro narrazione, come le dicevo. Dobbiamo raccontare l’inclusione, la collaborazione, le cose buone che porta la convivenza, a noi e ai migranti. Perché non raccontare che c’è un altro Paese, e lasciare la scena tutta a quello della violenza e della diffidenza è come aggiungere una voce al coro di chi insulta».
Beau Salomon e Emmanuel Namdi due stranieri morti ammazzati da italiani, ma con diseguale trattamento per fini ideologici della sinistra. Se la sinistra parteggia per gli immigrati per giustificare l'invasione e declama il razzismo italico, solo il Papa ha reso omaggio all'americano, incontrando i suoi genitori.
Beau Salomon e Emmanuel Namdi, morti che pesano come montagne, scrive Rita Di Giovacchino il 7 luglio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Non ci sono morti che pesano come piume, ma certamente i due ragazzi stranieri uccisi nella nostra civile Italia in questi giorni, pesano più di una montagna. Beau Salomon ed Emmanuel Namdi, l’americano e il nigeriano, vittime lontane anni luce per razza, religione, continente, estrazione sociale, hanno trovato identico destino nella triste guerra che da tempo insanguina e imbarbarisce il nostro paese. Nella settimana della strage di Dacca questi due omicidi, maturati in circostanze assurde, hanno scosso le nostre atrofizzate coscienze anche perché a ucciderli sono stati altri giovani, non extracomunitari, clandestini o zingari ma italiani, italianissimi. Anche loro infinitamente diversi per ambiente, scelte di vita e ideologia, e ugualmente uniti dall’assenza di umanità e dal degrado culturale che li circonda. Secondo l’accusa, Beau Salomon, lo studente americano di 20 anni, appena sbarcato a Roma per uno stage-vacanza presso la Cabot, prestigiosa università americana, è stato spinto nel Tevere da tal Massimo Galioto, “punkbestia”, tossico, domiciliato sul lungofiume all’altezza di Ponte Garibaldi, nel cuore di Trastevere, la zona più turistica della città che in questo periodo ospita quanto resta dell’estate romana: bancarelle, bar, ristoranti esotici. Luci, chiasso, puzza di frittelle infastidivano la privacy del Galioto che da tempo aveva recintato la propria esistenza attorno a una tenda e a un barbecue, disposto a ospitare soltanto i suoi cani e la fidanzata, l’ineffabile Alessia che dai microfoni dei Tg lo accusa del delitto ma intanto lo magnifica come idealista. “Che sarà mai successo”, lamenta la punk. Un tafferuglio, qualcuno aveva rapinato l’americano che se l’è presa con Max e lui l’ha buttato in acqua. “Poi hanno dato l’allarme e noi sciamo andati a dormire”. Problema risolto. Beau è morto annegato, senza quella spintarella sarebbe ancora vivo, poteva ancora godersi la sua bella vacanza romana e sarebbe tornato nel Wisconsin dai genitori oggi straziati. Da bambino aveva sconfitto un cancro raro e devastante, ma un uomo dalla coscienza oscurata dall’alcol e dalla droga gli ha impedito di diventare adulto. E forse non era la prima volta che il “punkbestia” risolveva in questo modo i suoi problemi di vicinato. Il17 luglio 2015 un artista di strada, Federico Carnicci, è morto affogato nel Tevere proprio all’altezza di Ponte Garibaldi. Sono gli amici di Alessia e Max, su Facebook, a riaprire il caso attraverso tablet e smartphone, che tra bracieri e tende pullulano sul lungo fiume. “Ma che la droga v’ha bevuto er cervello!”, scrivono. Ancora più crudele l’omicidio a colpi di cartello stradale di Emmanuel Namdi, il profugo nigeriano sfuggito alla violenza di Boko Haram, sopravvissuto alla traversata del deserto libico e a quella del Mediterraneo durante la quale la giovane moglie Chinyery ha perso il bambino per le percosse ricevute dai trafficanti. Grazie alla Caritas Emmanuel aveva finalmente trovato rifugio a Fermo, nelle Marche, l’ “isola felice”. Al momento dell’aggressione stava passeggiando con Chinyery verso Piazza del Popolo quando un energumeno, tal Amedeo Mancini, ultra della locale Fermana calcio li ha circondati, insultando e aggredendo la donna. “Scimmia africana”, l’ha appellata mentre la colpiva con pugni e calci. Alla reazione di Emmanuel si è scagliato contro di lui e dopo aver divelto il palo di ferro di un cartello stradale lo ha massacrato riducendolo in fin di vita. Emmanuel è morto dopo 24ore di agonia, Mancini è stato fermato. Siamo di fronte a un omicidio frutto di odio razziale come nei periodi più bui della nostra storia. La tragica fine di Emmanuel, che ci saluta felice e sorridente dalla foto del suo matrimonio, il suo unico giorno felice, va oltre l’accusa alle classi dirigenti per lo stato di degrado che ha devastato la Capitale, chiama direttamente in causa l’ultima velenosa campagna elettorale nella quale politici senza scrupoli hanno sperato di trarre consenso pescando nel mal di pancia della gente, incitando all’odio contro gli immigrati senza neppure fare distinzione tra clandestini e profughi. Potremmo prendercela con il tronfio e panciuto Salvini che ci siamo sorbiti a colazione, pranzo e cena, mentre lui saltellava da un canale all’altro, e che ora è sprofondato in un tombale silenzio per via di una sconfitta elettorale che ci aveva fatto sperare nel buon senso degli italiani. Ma i cattivi semi che in molti, non soltanto Matteo due, hanno seminato stanno dando frutti avvelenati. Che fare contro il buio della ragione? Forse pure noi, come gli amici di Max e Alessia, potremmo prendere i nostri smartphone e scrivere: “Ma vi sieti bevuti il cervello”.
Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 7 luglio 2016 e il nigeriano ammazzato a Fermo: "L'Italia non è razzista, lo prova questo numero". "L'Italia non è un paese razzista. Si sta sottovalutando il problema? Francamente credo lo si stia sopravvalutando, invece". Vittorio Feltri, ospite di una movimentata puntata di In Onda su La7 (dopo un acceso diverbio con il dem Gennaro Migliore, il direttore si alza e se ne va), commenta l'omicidio di Fermo, e va controcorrente. "Non possiamo dare giudizi definitivi, per ora sento solo slogan e mi oppongo", ha attaccato Feltri. Il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi è morto dopo una colluttazione con l'italiano Amedeo Mancini. Una tragedia di cui la dinamica non è ancora chiara. "Certo, c'è un elemento razzista", spiega Feltri in riferimento alla provocazione di Mancini, che avrebbe chiamato la moglie del nigeriano "scimmia africana" portando alla reazione violenta della vittima. Come poi siano andate le cose per gli inquirenti è ancora un mistero: Mancini, accusato di omicidio preterintenzionale, ha colpito con un pugno poi rivelatosi fatale dopo essere stato aggredito da Emmanuel (come sostengono alcuni testimoni) oppure ha infierito sul nigeriano dopo averlo fatto cadere? Feltri parla di Mancini come di un "balordo". C'è un problema di razzismo in Italia? "Non credo si stia sottovalutando il problema, anzi lo si sta sopravvalutando - ribatte Feltri -. Sono stati 54 i fenomeni di razzismo in un anno, è imprudente sostenere che l'Italia sia un paese razzista o avviato a diventare tale. L'integrazione continua, non stanno avvenendo casi frequenti di violenza. Bisogna essere sempre vigili, certo, avere attenzione ma senza drammatizzare".
"Italia razzista? Allora la Kyenge è...": Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 9 luglio 2016 svela la "grande balla". I soliti campioni della sinistra, profittando di uno squallido episodio di cronaca (un italiano che ha stecchito con un pugno un nero durante una rissa) hanno dato fuoco alla miccia di una vecchia polemica stolta e priva di fondamento: gli italiani stanno diventando o sono già diventati razzisti. Il che, pur essendo falso, viene spacciato per verità allo scopo di far sentire in colpa tutti noi, costringendoci moralmente ad accettare di buon grado le incessanti invasioni barbariche, che hanno ridotto parecchie nostre città ad accampamenti di stranieri più o meno sbandati. Non vedo per quale altro motivo si tenda ad accusare senza lo straccio di una prova il popolo di xenofobia e intolleranza. È vero che stando alle statistiche ogni anno si registrano una cinquantina di aggressioni ad opera di nostri connazionali nei confronti di poveracci immigrati, ma è altrettanto vero che si tratta di una cifra trascurabile se si considera che gli abitanti della penisola sono oltre 60 milioni. Non solo. I reati compiuti dagli extracomunitari dalle nostre parti sono numericamente impressionanti, tanto che un terzo e oltre della popolazione nelle patrie galere è costituita da extracomunitari. Significa che se gli italiani sono razzisti perché (per fortuna raramente) picchiano e uccidono i profughi, sono ancora più razzisti gli stessi profughi che commettono a nostro danno reati d'ogni tipo: stupri, omicidi, rapine, furti e quant’altro. Volendo discettare sul piano statistico, per ogni delinquente di casa nostra ce ne sono almeno tre di importazione. Questi scarni e approssimativi dati dovrebbero bastare a zittire coloro che ci diffamano dandoci dei razzisti. Evidentemente non sanno fare di conto o parlano a vanvera ispirati da una sorta di ideologia buonista che in realtà è soltanto cialtroneria. La vicenda di Fermo è paradigmatica in questo senso. Un imbecille dà della scimmia alla moglie di un nero. Questi perde il lume degli occhi e reagisce menando le mani di brutto, cioè massacrando a legnate colui che ne ha oltraggiato la consorte. Nel bel mezzo della zuffa - stando alle testimonianze - il cafone italiano, ormai sopraffatto, ha sferrato un cazzotto terrificante al nero, abbattendolo. Morto. Non è di sicuro una storia edificante e non tale da giustificare l'assassino. Ci mancherebbe. Ma non si può nemmeno affermare che l’omicida vada condannato subito, ancor prima che sia stato accertato come si siano svolti i fatti. Né si può altresì concludere che il delitto in questione, per quanto esecrabile, sia il frutto marcio di un clima di assoluta ostilità italiana verso il “diverso” ossia il nero. Prima di cianciare di razzismo strisciante serve attendere i risultati dell’inchiesta giudiziaria che, invece, non è neppure iniziata. Giovedì sera, quando ancora poco o nulla si sapeva di come si fosse svolta la tragica lite, sono stato ospite di In onda, programma televisivo de La7, condotto da Parenzo e Labate, insieme con Gennaro Migliore (ex Sel e ora Pd) e Montanari che non avevo il piacere di conoscere. Tema della conversazione, il razzismo. Migliore ha improvvisato una arringa contro gli italiani xenofobi, tra i quali ha inserito anche noi di Libero, rei di aver definito Bastardi islamici gli stragisti del Bataclan. E come dovevamo chiamarli? Boy-scout? Egli ha aggiunto nella sua filippica che i giornali fomentano l’odio con un linguaggio scriteriato. E ha citato un esempio ancora riguardante Libero, che in occasione di un femminicidio a Roma scrisse che la ragazza era stata arrostita. Come dire che se la fanciulla è morta bruciata la colpa non è dell'assassino, ma nostra che abbiamo usato un vocabolo sgradevole a giudizio di Migliore. Il problema, insomma non è che una signorina sia stata ammazzata col fuoco, ma la parola da noi usata per stigmatizzare l'atrocità del fatto. Ecco come ragionano le briscole della sinistra: non si interessano dei concetti, ma processano il lessico con cui vengono espressi, e va da sé che il dibattito seguente è stato penoso ancorché istruttivo. Io tentavo di argomentare e lui, Migliore (smentendo il luogo comune: nomen omen) anziché ascoltarmi onde replicare con cognizione di causa, sovrapponeva la propria voce alla mia, secondo una forma di maleducazione assai diffusa non solamente fra i progressisti. Niente di grave, ma me ne sono andato via perché discutere con un villano comporta un rischio: quello di assomigliargli. In questo mi vanto di essere razzista. Una tantum. di Vittorio Feltri.
Fermo, governo ai funerali. E le vittime di Dacca? Boschi e Boldrini parteciperanno ai funerali del nigeriano ucciso a Fermo. Il ministro rappresenterà il governo, scrive Claudio Torre, Sabato 9/07/2016 su “Il Giornale”. Domani alle 18 l'addio a Emmanel Chidi, il 36enne nigeriano richiedente asilo ucciso martedì scorso in centro a Fermo in seguito a insulti razzisti alla moglie e successiva colluttazione con un ultrà della Fermana. I funerali dell'uomo si terranno in Duomo alla presenza, anche, del ministro Maria Elena Boschi e della presidente della Camera Laura Boldrini. Alle esequie, celebrate dall'arcivescovo Luigi Conti, con don Vinicio Albanesi, ci sarà anche il presidente del Consiglio regionale delle Marche Antonio Mastrovincenzo, di altre autorità e di rappresentanti di movimenti e associazioni laiche e religiose. Spicca tra le presenze al funerale quella della Presidente della Camera e quella del Ministro Boschi che in una nota del Pd sottolinea come "la sua presenza sia in qualità di rappresentante del Governo italiano". Rappresentanza che però, come qualcuno comincia a chiedersi, non c'è stata ai funerali delle nove vittime del massacro di Dacca. Ieri infatti si sono tenuti i funerali di 7 dei nove morti trucidati in Bangladesh dai jihadisti. Ai funerali di Claudia D'Antona, Claudio Cappelli, Cristian Rossi, Maria Riboli, Simona Monti, Nadia Benedetti e di Vincenzo D'Allestro hanno partcepitato, va detto, sindaci, governatori e prefetti. Ma nessun ministro del governo. Stessa sorte è toccata a Marco Tondat e ad Adele Puglisi. Alle loro esequie i rappresentanti delle istituzioni locali, ma nessuno è arrivato da Roma.
Nigeriano ucciso a Fermo, minacce e insulti alla testimone. Chiamò lei il 118. "Mi danno della razzista, vivo in un incubo", scrive Fabio Castori il 9 luglio 2016 su “Il Resto del Carlino”. Non vive più Pisana Bachetti, la donna che ha assistito alla rissa tra Amedeo Mancini, Emmanuel Chidi Namdi e la moglie. La sua vita, tra insulti, minacce e accuse di mitomania, è diventata un inferno. Eppure la testimone, che è stata persino cancellata da Facebook, appartiene a una famiglia notoriamente di sinistra e antirazzista.
Signora Bachetti, cosa è accaduto dopo la sua testimonianza alla polizia e il racconto fatto su Facebook?
«La mia vita è diventata un inferno. E questo solo per aver fatto quello che ogni cittadino nella mia situazione avrebbe dovuto fare: chiamare la polizia perché c’era un rissa in corso».
Cosa ha visto quel maledetto pomeriggio?
«Purtroppo ho assistito alla scena e ho visto che il giovane fermano, prima di sferrare un pugno, è stato letteralmente assalito dalla vittima e da sua moglie. Lo hanno picchiato per quattro o cinque minuti e lo hanno colpito anche con un segnale stradale trovato nei pressi. Quando ho assistito a quella scena, ho chiamato la polizia perché temevo per l’incolumità del 39enne fermano, che ha reagito con un colpo, purtroppo per la vittima, ben assestato. Qualcuno ha cercato di intervenire, ma è stato preso a scarpate dalla moglie del giovane di colore».
È vero che dopo la sua testimonianza le giungono minacce e insulti da tutte le parti d’Italia?
«Si è vero. Ricevo chiamate da tutta Italia. Appena dieci minuti fa mi è stato inviato l’ultimo messaggio in cui mi davano della nazista. Ed è solo uno dei tanti che mi giungono. Ora mi dovete lasciare in pace. Tutti. Non voglio più essere disturbata, basta, lasciatemi in pace, non voglio dire più niente né parlare con nessuno. Sono stata sbattuta in prima pagina prima del nome del presunto assassino solo per aver detto la verità».
Che tipo di insulti ha ricevuto?
«L’elenco è lungo: xenofoba, e tanto altro ancora. Sto vivendo un incubo. Sono solo una cittadina fermana, mai stata razzista, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in quel luogo e di assistere alla rissa che ha portato alla morte di quel povero ragazzo. Ho fatto solo il mio dovere da cittadina e ora mi trovo all’inferno. Non mi resta altro da fare che aspettare la fine di questo incubo. Mi hanno cancellato il profilo Facebook, non c’è più niente, hanno cancellato i miei amici, tutte le mie foto, tutti i miei ricordi. Basta ora, lasciatemi in pace».
Fermo, altra supertestimone. "Nigeriano colpì per primo". Il pm la considera attendibile. La tragica zuffa dopo le frasi razziste, scrive Fabio Castori l'11 luglio 2016 su “Il Giorno”. Sono due ora i supertestimoni che confermano l’aggressione ad Amedeo Mancini con un segnale stradale da parte di Emmanuel Chidi Namdi, il rifugiato politico nigeriano morto tragicamente dopo la zuffa scaturita dagli insulti razzisti dello stesso Mancini alla moglie di Emmanuel. C’è un’altra donna, ritenuta attendibile dal sostituto procuratore di Fermo, Francesca Perlini, che ha assistito alla rissa e che parla chiaramente dei colpi sferrati con il paletto metallico che hanno abbattuto l’ultrà fermano, prima della sua reazione fatale. La sua testimonianza risulta nei verbali degli inquirenti che sono inequivocabili. "Dopo essere scesa dall’autobus – si legge nel documento – la donna ha udito delle urla provenire dalla via sottostante dove notava parlare animatamente due persone di colore e Mancini. Riferiva che il ragazzo di colore iniziava a spintonare Mancini e, dopo aver preso un segnale stradale mobile, ivi presente, lo colpiva con il medesimo alle gambe, facendolo cadere a terra. Dopo ciò il ragazzo di colore si allontanava, ma veniva raggiunto da Amedeo Mancini e tra i due iniziava una scazzottata a seguito della quale l’uomo di colore rovinava a terra. Aggiungeva inoltre di aver sentito dire dal ragazzo, che si trovava in compagnia di Mancini, le seguenti parole rivolte all’amico: ‘Lascia perdere, c’è una donna, non reagire, c’è una donna’". Una versione che collima con quella dell’altra testimone, anche questa presente nei verbali della Procura della Repubblica. "Veniva sentita anche(omissis), testimone presente ai fatti, la quale dichiarava di aver visto l’intera scena i cui vi erano tre soggetti, due di colore e uno di carnagione bianca, che litigavano animatamente e si scambiavano dei colpi. In particolare descriveva che l’uomo di colore sferrava dei colpi tipo mosse di karate verso l’uomo di carnagione chiara e la donna colpiva quest’ultimo con le proprie scarpe, urlando verso di lui: “chi scimmia, chi scimmia?”. Dopodiché notava l’uomo di colore prendere un segnale stradale munito di pedana e zavorra e, dopo averlo sollevato, spingerlo contro l’uomo di carnagione chiara, colpendolo ad una spalla e facendolo cadere a terra. Infine notava che l’uomo di carnagione bianca, colpiva con un pugno quello di colore, facendolo rovinare a terra". Le due testimonianze sono tenute nella massima considerazione dal sostituto procuratore Perlini che scrive nel provvedimento di fermo emesso: "Le dichiarazioni circostanziate rese dalle signore (omissis) sono da ritenersi di sicura credibilità, in quanto persone estranee ai fatti in quanto distanti in termini di parentela e conoscenza sia dalla persona offesa sia dall’indagato". Testimonianze che dovranno essere esaminate dal gip del tribunale di Fermo, Marcello Caporale, durante l’interrogatorio di garanzia che si terrà oggi. Intanto Mancini resta rinchiuso nel carcere di Marino del Tronto dove, dice il suo avvocato, distrutto dal dolore, piange spesso. Il legale lo descrive come una persona disperata, che sembra non capacitarsi di quello che è accaduto. Agli investigatori ha confessato che la parola scimmia faceva parte del suo vocabolario perché da piccolo lui stesso era soprannominato così: «Gli amici mi chiamavano scimmia, ma non l’ho mai considerato un insulto grave".
Il medico legale gela il Governo: "Amedeo Mancini aggredito, bastonato e morso dal nigeriano…", scrive Alessandro Pecora il 10 luglio 2016 su “Sostenitori.info”. Amedeo Mancini, l’estremista di destra legato all’ambiente ultrà accusato dell’omicidio preterintenzionale del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, avvenuto a Fermo, avrebbe sul corpo chiari segni di aggressione e in particolare è stato riscontrato un ematoma diffuso al costato che evidenzierebbe il fatto che sia stato colpito con un palo della segnaletica stradale. Trovati anche i segni di un morso ed altri lividi concentrati soprattutto sulle braccia, compatibili con un tentativo di difesa. Lo ha riferito l’avvocato dell’uomo, Francesco De Minicis. Le ferite sarebbero emerse nell’ispezione medico legale effettuata nel primo pomeriggio nel carcere di Marino del Tronto, dove Amedeo Mancini si trova rinchiuso. La perizia è stata disposta dalla Procura della Repubblica per stabilire la veridicità di quanto affermato dall’indagato, oltre che dalla supertestimone che sostiene di aver visto il nigeriano poi ucciso aggredire per diversi minuti Amedeo Mancini, il quale – rialzatosi poi da terra – avrebbe inferto un pugno, ben assestato alla vittima e lo avrebbe ucciso. L’ispezione è stata eseguita dallo stesso staff che sta effettuando l’autopsia, guidato dalla dottoressa Alice Romanelli. Sono diverse le versioni contrastanti in questa vicenda: oltre a quella dell’aggressione prolungata da parte del nigeriano, c’è chi parla di un secondo uomo che avrebbe spalleggiato Amedeo Mancini, che peraltro viene dipinto da alcuni quotidiani locali come “un folle travestito da ultrà”. Controverse anche le versioni sulla sua militanza a destra: in un fotogramma successivo al momento dell’aggressione si vede infatti il 39enne indossare una t-shirt degli ZetaZeroAlfa, il cui leader è Gianluca Iannone, fondatore di CasaPound. “Non viene da una tradizione di destra”.
Passerella di Stato ai funerali: è la finta emergenza razzismo. La sinistra strumentalizza la tragedia del nigeriano ucciso a Fermo dall'ultrà per fare campagna elettorale, scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". È un'afosa, caldissima domenica di luglio. Quanto basta per limitare al minimo sindacale la passerella dei politici nel Duomo di Fermo, dove si svolgono le rumorosissime esequie del profugo nigeriano Emmanuel Chidi Namdi. Adagiata in terra su un tappeto, davanti all'altare, la bara di legno chiaro con la salma di Emmanuel. Sopra al feretro, un cuscino di rose rosse e la foto del giovane migrante, sorridente nel giorno in cui don Vinicio Albanesi l'aveva simbolicamente unito in matrimonio con la compagna. In prima fila, l'una accanto all'altra, la presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e la ministra per le riforme Maria Elena Boschi. La Boldrini tiene a ribadire il concetto: «Ora qualcuno dirà che questa presenza delle istituzioni è una semplice passerella. Figuriamoci. Non venire sarebbe stato peggio e comunque queste considerazioni non ci intimidiscono». Boldrini, che alla vedova Chinyery ha assicurato la vicinanza delle istituzioni «nei modi più appropriati». Nel frattempo la povera donna, vittima di un paio di svenimenti nel corso della cerimonia, è stata medicata dagli uomini del 118 prima di rientrare in chiesa. Chissà se gli saranno state di conforto le parole della rediviva Cecile Kyenge che, in una lettera, la invita a restare in Italia e realizzare qui il sogno di diventare medico. «Anche io sono arrivata in Italia con una grande valigia azzurra, vuota - fa sapere l'ex ministra per l'integrazione -, ma piena del mio sogno di diventare un giorno medico. Come te, se avessi potuto realizzarlo lì, in Congo, sarei rimasta nel mio Paese d'origine. Tu hai diritto a essere felice qui in Italia, ti aiuteremo». Presente in chiesa anche il vicepresidente del Parlamento Europeo David Sassoli: «Oggi siamo qui perché un uomo è stato ucciso per il colore della sua pelle, perché una donna ci ha straziato il cuore, per stare vicino a chi ci ricorda di essere migliori. Siamo qui perché vogliamo ricordare che le crisi che attraversiamo, anche quella dell'Europa, non potranno essere superate se non mettendo al centro il valore dell'essere umano. È inconcepibile che le persone vengano umiliate così in Europa e in Italia nel 2016». Anche se assente alla cerimonia, l'azzurro Maurizio Gasparri ha voluto dire la sua accusando la Presidente della Camera di avere il paraocchi: «Bene ha fatto il presidente della Camera a recarsi a Fermo. Avrebbe fatto ancora meglio se avesse partecipato ai funerali di una delle vittime italiane uccisa dai terroristi islamici a Dacca. Ottimo sarebbe stato se poi avesse espresso analoghi sentimenti quando l'italiano David Raggi venne ucciso a Terni da alcuni extracomunitari. Il razzismo va combattuto sempre. A Fermo, a Terni, a Dacca. Augurandomi che non ci siano più episodi di violenza, sono comunque certo che la Boldrini dimostrerà la sua sensibilità sempre e non solo in alcune occasioni». Una cerimonia pubblica, celebrata da monsignor Luigi Conti e costantemente interrotta (italica consuetudine) dagli applausi. Nel corso dell'omelia l'arcivescovo ha tenuto a ribadire che Fermo è una città «ospitale». «Qui non abita il razzismo - ha aggiunto -. Ma il dolore chiede con forza un supplemento di vicinanza, di fraternità e di dialogo. Alimenta la speranza di chi approda tra di noi. Noi fermani siamo ospitali». Aggiunge monsignor Vinicio Albanesi, capo della comunità di Capodarco, dove era ospitato Emmanuel: «Anche l'aggressore di Emmanuel è una vittima e se qualcuno lo avesse aiutato a controllare la sua istintività, la sua aggressività avrebbe fatto bene». Per volontà dei familiari la salma di Immanuel sarà portata appena possibile in Nigeria. Intanto, questa mattina presso il Tribunale di Fermo, ci sarà l'udienza di convalida per Amedeo Mancini. È accusato di omicidio preterintenzionale, ipotesi avvalorata dall'autopsia.
E poi, mai dire aggressione fascista…per poter santificare la vittima.
Fermo, fermato l’ultrà con il vizio delle risse. Il fratello: “L’insulto? Era solo una battuta”. Disoccupato con precedenti, è accusato di omicidio con aggravante razziale, scrive Paolo Crecchi l'08/07/2016 su “La Stampa”. Scimmia, sì, pare proprio che gliel’abbia sibilato l’insulto infamante, ma che esagerata è stata Chimiary a risentirsi e suo marito Emmanuel a venire alle mani. Di solito Amedeo Mancini «tira le noccioline, quando vede un negro, ma lo fa per scherzare perché è un allegrone, ha avuto una vita difficile e a 39 anni non può neppure andare allo stadio: è diffidato». Da ieri Amedeo Mancini è in stato di fermo, e per lui si profila un processo per omicidio preterintenzionale. Il fratello Simone lo difende. Vive con lui in un abituro, in mezzo ai campi di girasole, e giura che «diventa violento solo se lo vai a cercare». E l’insulto alla signora? «Boh, quei due potevano starsene. Mica li abbiamo chiamati noi in Italia». L’offesa dunque pare assodata. Potrebbe averla pronunciata Andrea Fiorenza, l’amico che era con Amedeo, come lui disoccupato e davanti all’ennesimo pomeriggio da buttare via: «L’avvocato mi ha detto che non posso parlare». La parrucchiera Pisana Bacchetti arriva che la rissa è già cominciata, «ero in macchina e non so dire chi abbia cominciato. C’era il nigeriano con un palo della segnaletica stradale in mano, blu con la freccia bianca. Ha colpito Amedeo allo stomaco, e poi glielo ha tirato addosso quando è caduto. Anche la ragazza picchiava. Mordeva. L’altro giovane cercava di separarli ma non c’è riuscito. Amedeo si è rialzato e ha colpito il nigeriano con un pugno. Quello è caduto. Ha sbattuto la testa sul marciapiede. Ho chiamato io la polizia». Chimiary sostiene l’opposto, dice che il palo era in mano all’italiano. L’autopsia dovrebbe chiarire chi mente, ma la procura tende ad avvalorare la testimonianza della parrucchiera. Resta la provocazione. Restano i precedenti di Amedeo, tafferugli da stadio e violenze assortite. Dice Simone Mancini: «Lo hanno già condannato, e allora chissà se fosse capitato a me che sono stato in galera per spaccio di droga. La verità è che ci facciamo un mazzo quadrato per tirare avanti, io a stampare suole di scarpe in fabbrica e lui a lavorare a giornata in campagna: raccoglie cipolle, taglia la legna». L’amico d’infanzia Sandro Rossi giura che è stato un equivoco. «Probabilmente voleva scherzare. Amedeo non è razzista, ha anche un amico del cuore maghrebino. E con me è stato generosissimo: se non mi sono ammazzato dieci anni fa, quando la ragazza mi ha mollato, lo devo a lui». Sono questi i giovani che inneggiano alla razza ariana dei quali parla monsignor Vinicio Albanese, presidente della Fondazione Caritas che ha accolto la coppia in fuga da Boko Haram? Il prete sostiene che «a Fermo si respira un bruttissimo clima di violenza», e tira in ballo misteriosi attentati dinamitardi a ben quattro chiese della zona. «Ma quali bombe! - replica il fratello dell’assassino - Quello ci ha fatto i soldi, con gli immigrati: per forza li difende». Adele Dari, mamma di Andrea Fiorenza: «Pensasse a difendere i cristiani, prima». Fermo è una città particolare. Antica roccaforte papalina, ancora oggi è governata da un potere ecclesiastico che si appoggia a Comunione e Liberazione e ai Neocatecumenali. I bene informati sostengono che Cl spadroneggi nella sanità, nel pubblico impiego e nell’istruzione pubblica, mentre gli oltranzisti che a suo tempo riuscirono a ottenere la visita in città di Giovanni Paolo II rappresentano una formidabile lobby trasversale. Contro di loro sono state fatte esplodere le bombe d’avvertimento? Don Vinicio Albanesi: «Lo escluderei». La procura non si esprime e studia i possibili collegamenti tra i balordi locali e più temibili criminali, magari forestieri. Di certo gli ultras della Fermana appartengono alla prima categoria, e a parlare con Simone, Sandro, Andrea non si coglie una particolare brillantezza delinquenziale. Disgraziati, piuttosto. Amedeo Mancini «è sempre stato comunista: come fa a essere razzista?», lo difende il fratello, azzardando un’equazione insensata come la sua analisi politico-sociale: «Gli immigrati rubano. Non è giusto che le leggi italiane li difendano. Noi dovremmo venire prima», e almeno non facessero i permalosi: «Una battuta, via…».
Il Sindaco di Fermo: «La mia città è ferita, ripartiamo dai bambini». Il giorno dopo l’omicidio Chidi, la città si divide sulla ricostruzione del fatto. Il Sindaco: «Qui duecento profughi sono la normalità. Voglio portare i rifugiati nelle scuole, per immunizzare i bambini dal razzismo», scrive Francesco Cancellato l'8 Luglio 2016 su “L’Inkiesta”. La realtà è sempre diversa da come si immagina. L’angolo tra via Vittorio Veneto e via Venti Settembre, ad esempio, quello in cui Amedeo Mancini ha ucciso Emmanuel Chidi, è un affaccio da cartolina che si apre sulla val d’Ete, tra colline e girasoli: «Troppo bello per essere un luogo del delitto», commenta un ragazzo, tra i tanti che si fermano di fronte ai fiori e ai cartelli in ricordo del trentaseienne nigeriano. Alcuni scattano delle foto, altri si guardano intorno per provare a immaginare la dinamica di quanto è accaduto. Più che della visita del ministro degli interni Angelino Alfano, a Fermo si parla delle diverse ricostruzioni dei fatti. Soprattutto, della ricostruzione fornita da Pisana Bachetti, la “supertestimone” intercettata dal Resto del Carlino, secondo cui «quel povero ragazzo nigeriano, prima di cadere a terra per un pugno subìto, si è reso protagonista di un vero e proprio pestaggio del 39enne fermano», che a suo dire «per quattro o cinque minuti è stato attaccato simultaneamente dal giovane di colore e da sua moglie». È stata lei a chiamare la polizia sul posto, amara ironia della sorte, «perché temeva per l’incolumità» di Amedeo Mancini, ora in galera per omicidio con aggravante razzista. Soprattutto, perché «erano arrivati una quindicina di nigeriani pronti ad entrare in azione». Vero? Falso? I fermani fanno spallucce, vallo a capire: «Stanno trasformando l’aggressore in una vittima. Io non ce lo vedo un energumeno come Amedeo a farsi pestare per cinque minuti», dice qualcuno. «Lo difende l’avvocato dei Della Valle…», sussurra a mezza bocca qualcun altro, lasciando intendere chissà cosa. È la festa del mercatino d’inizio estate, a Fermo, il secondo grande rito collettivo del più piccolo - neo e già ex - capoluogo di provincia marchigiano, dopo il palio dell’Assunta di agosto. La città si è riversata in massa nelle vie del centro storico. Ci sono tutti, tranne il sindaco Paolo Calcinaro. La luce del suo ufficio, al terzo piano del palazzo comunale che ci affaccia su piazza del popolo è l’unica accesa. È solo, nel palazzo vuoto, costantemente al telefono: «Sono distrutto - ammette lasciandosi cadere sulla sedia - ieri dal dolore, oggi nel trovare Fermo sulle prime pagine dei giornali, come fosse un luogo d’intolleranza. Non ce lo meritiamo». Racconta, Calcinaro, della festa di fine ramadan cui è stato invitato solo due giorni prima, coi membri della comunità islamica che lo chiamavano Paolo, non “Signor sindaco”. Soprattutto, racconta i suoi sensi di colpa: «Ho paura di essere stato superficiale - spiega - di non avere intuito quel che stava accadendo, di non aver saputo riconoscere l’humus da cui è generata questa follia». Conosceva bene Amedeo Mancini, il sindaco, come tutti a Fermo. Lo aveva anche difeso, da avvocato, quando gli avevano comminato il divieto ad assistere a manifestazioni sportive: «È l’ignorantone del Paese, un bullo, - racconta - Ultimamente aveva preso questa piega intollerante». C’è chi dice di chiamarlo col suo nome, di dire che era fascista. Al sindaco scappa un mezzo sorriso: «Qualche anno fa diceva di essere comunista, sempre con quell’atteggiamento prevaricatore - racconta -. Mancini non sa nemmeno cosa sia, il fascismo. E di sicuro non c’entra nulla con le bombe davanti alle chiese. Non è una persona capace di arrivare a quel livello». Dalla finestra si sente l’organizzatore del mercatino chiamare il minuto di silenzio in onore di Emmanuel. La gente più che ammutolirsi, applaude, in realtà: «Questa è una città colpita nel suo orgoglio - spiega il sindaco - Da noi duecento profughi sono la normalità. Siamo pieni di comunità di accoglienza e recupero da queste parti, grazie a don Vinicio ma non solo. Di rifugiati a Fermo ce ne sono sempre stati. Uno di loro, durante la veglia funebre di Emmanuel, ha ringraziato la città per come è stato accolto». Eppure anche qui, in un luogo all’apparenza immune, si è incistato il germe dell’intolleranza: «La retorica populista trova terreno fertile in territori dove le cose non vanno bene - riflette -. Forse la disperazione sociale portata dalla crisi fa salire a galla questo senso strisciante di conflitto. E alcuni si sentono giustificati, da questo stato di cose, in diritto di poter dire e fare qualunque cosa». Sulla facciata del palazzo comunale, fanno bella mostra i simboli delle contrade della città: «A me spaventano soprattutto le conseguenze che un evento come questo può generare - spiega il sindaco -. Temo ci divideremo nelle solite fazioni. Sobillati ad arte da chi vuole fare di in un fatto tragico come quello che è accaduto un’arma per raccogliere consenso». Lui, invece, vuole ripartire dai bambini: «Con don Vinicio vogliamo portare i rifugiati nelle scuole - racconta -, fargli raccontare in classe le loro storie. Far capire cosa c’è dietro quelle facce, che storie terrificanti li hanno portati qua. Solo così possiamo immunizzare i ragazzi dalla follia razzista». Scuote la testa, come stupito delle parole che ha appena pronunciato. La realtà è sempre diversa da come la si immagina.
Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.
Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.
Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»
Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.
Nigeriano ucciso, valanga-Cacciari: "Ma quale fascismo? È colpa di...", scrive "Libero Quotidiano" il 12 luglio 2016. "Macché fascismo! Non diciamo stupidaggini. Quello che è successo a Fermo è l'atto di un disadattato. Ma la colpa è di chi non sa governare i fenomeni migratori. E così anche gli stupidi si fanno impressionare". Massimo Cacciari non ha dubbi sull'omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi ucciso durante una rissa da Amedeo Mancini: "È stato chiaramente un episodio legato al razzismo", dice in una intervista a Il Giorno, "ma una rissa del genere cosa c'entra con il fascismo?". "Figurarsi se Fermo è una città pericolosa e fascista! Si tratta di fatti dolorosi, a Venezia mi sarà successo due o tre volte. Le botte a un egiziano per strada o un attacco contro un ristorante magrebino: atti di razzismo sempre per colpa di ignoranti poveracci. E un sindaco cosa vuole che faccia in questi casi? Non può fare altro che portare la sua solidarietà alle vittime e stigmatizzare la violenza senza se e senza ma. Purtroppo sono cose che possono sempre succedere e succederanno". E il motivo è semplice: "La gente sta sempre peggio. C'è un clima di caccia all'altro, al diverso. E persone deboli e sprovvedute, disadattate, possono farsi impressionare facilmente. Parlavamo di fascismo? Ma va', anche il tizio di Fermo, l'ultrà che ha ucciso il ragazzo nigeriano, era solo un ignorante all'ultimo stadio. Di sicuro una persona con difficoltà e disagio sociale". Ma "se ci fosse una politica europea forte sull'immigrazione, probabilmente non succederebbero episodi così".
"Mio marito ucciso da 4 clandestini. Per lo Stato io vedova di serie B". Federica Raccagni ha deciso di realizzare un video per denunciare la disparità di trattamento tra le vittime italiane e le vittime straniere: "Bene la solidarietà ad Emmanuel, ma io non ho ricevuto attenzioni", scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Buonismo di Stato. Passerella. Opportunismo politico. Strumentalizzazione. Chiamatela come volete la corsa delle alte cariche dello Stato verso la prima fila ai funerali di Emmanuel, il nigeriano morto a Fermo dopo una lite con un ultrà locale. C'erano tutti: Laura Boldrini, Maria Elena Boschi, Cecile Kyenge e altri ancora. Angelino Alfano è andato il giorno dopo la tragedia, quando ancora si sapeva poco o nulla della dinamica. Matteo Renzi ha detto che l'Italia non lascerà sola Chinyery. Giusto. Giustissimo: ogni tragedia merita rispetto. O forse no. Venerdì, infatti, non era un giorno qualsiasi: nella notte dell'8 luglo di due anni fa, quattro albanesi entrarono nella casa di Pietro e Federica Raccagni, colpirono con una bottiglia il macellaio di Pontoglio e lo uccisero. Erano clandestini e facevano parte di una banda che aveva messo a soqquadro la zona. Federica ricorda ancora con dolore quel giorno. La morte del marito, i funerali e l'assenza dello Stato. Sì, assenza. Perché né il ministro dell'Interno, né Renzi, né l'allora Presidente della Repubblica andarono ai funerali di Pietro. Non c'era Maria Elena Boschi. Non c'era Cecile Kyenge a dichiarare che la clandestinità può portare alla malavita e la malavita distrugge la vita degli italiani. Non c'era Laura Boldrini al fianco di Federica, a rincuorarla, a dirle che lo Stato è con lei. Per questo la processione al funerale di Emmanuel, la vedova Raccagni la chiama diversamente: discriminazione. "Io sono vicina a Emmanuel e alla moglie - dice in un video - perché conosco il dolore e cosa vuol dire un atto di violenza. Ma quello che mi ha colpito più di tutto è stata la solidarietà del governo nei confronti della vedova. Una solidarietà che io non ho ricevuto. Per lei si è mosso Alfano, il Presidente della Repubblica ha speso belle parole nei suoi confronti. Renzi ha detto di non abbandonarla. Ecco: volevo denunciare che io tutte queste attenzioni non le ho avute". Federica è come se non esistesse agli occhi dello Stato. Nessuna pacca sulla spalla. Anzi: solo quella fitta quotidiana di sapere gli assassini condannati ad appena 10 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. "Si parla di discriminazione razziale - attacca Federica -: penso di averla ricevuta io la discriminazione. Perché ci sono vedove di serie A e vedove di serie B. Ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Mio marito era una persona onesta, un marito esemplare, un padre esemplare, un cittadino onesto che ha sempre pagato le tasse. Era un uomo giusto e non ha ricevuto tutte queste considerazioni dallo Stato. Nonostante i miei richiami, nonostante io abbia fatto di tutto in questi due anni per sensibilizzare il governo". I familiari e gli amici di Pietro dovettero addirittura scrivere una lettera a Renzi per farsi ascoltare. "Non sono stata tutelata prima e non sono stata tutelata dopo - conclude Federica - Che l'esecutivo si sia mosso per la vedova di Emmanuel va benissimo. Ma deve muoversi per tutti. Perché io in questi due anni ho conosciuto moltissimi italiani che hanno subito aggressioni e nessuno si è interessato di loro. E questo non è giusto. Io voglio attenzioni. Io voglio che il governo ci tuteli. Si devono rendere conto che ci siamo anche noi italiani".
Degli zingari non sappiamo niente. Sì, abitano in luoghi sporchi. Lavorano poco. Spesso delinquono. Ma dietro tutto questo, c’è un popolo con dei valori straordinari. Sincretisti, cosmopoliti, umanisti. Un fotografo e uno scrittore ce li raccontano, scrive Aldo Nove il 13 aprile 2016 su "L'Espresso". Foto che valgono un mondo. Un mondo che spesso ci fa paura. Ci fa paura ciò che non conosciamo. Ci fa paura ciò che è diverso. La somma di queste due paure ci mette di fronte a noi stessi. Chiudendo il cerchio, abbiamo paura di noi stessi, di quanto ci nascondiamo o esorcizziamo, deformando lo specchio che ci inchioda a ciò che non vogliamo vedere. Costruiamo case e realtà che sono dispositivi di negazione del mondo che certo non si limita alla protezione delle nostre fragili sicurezze, né può proibirne il crollo costante. Ci attacchiamo a fragili amori e ai relativi contratti che spesso inutilmente li regolano, consegniamo il nostro futuro in forma di soldi sottratti al presente versandoli a istituti delegati a conservarceli, anzi ad incrementarli, salvo poi in molti, troppi casi, perdere proprio grazie a quegli istituti tutto. Il “nostro” mondo, serrato da una globalizzazione che alza muri e barricate ovunque, si rivela nella sua vastità ed è allora che scattano meccanismi di difesa estremi. E come dicevo, non dal mondo ci difendiamo, ma da ciò che non conosciamo, da ciò che è diverso e da noi stessi. Dalla nostra parte oscura o, meglio, dalla parte di noi stessi che crediamo oscura. I Rom ci sbattono in faccia tutto questo. Vivono con noi, tra noi. Ma esprimono altro dal mondo in cui ci siamo asserragliati salvo scoprire, spesso, che la minaccia più grossa è proprio l’asserragliamento, la nostra chiusura. Ma vediamo qualche dato. I rom, o sinti, o zingari, costituiscono lo 0,26 per cento della popolazione italiana. Sono, complessivamente, tra i 150-180 mila. Vivono quasi sempre in luoghi indecenti che si chiamano “campi nomadi”. Pochi sanno che i campi nomadi sono stati progettati da Comuni e Regioni tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. È in questo modo che gruppi differenti per lingua, tradizioni, competenze professionali, religioni e stile di vita, vengono forzatamente accomunati in una marginalità massimalista e indifferenziata su cui, per un discutibile principio amministrativo, abbiamo costruito una marginalità a cui abbiamo poi attribuito lo stigma del negativo. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a ricorrenti “emergenze nomadi”, in un lampeggiare di ostilità che riemerge quando chi cerca consensi facili non ha altro a cui appellarsi. Degli zingari non sappiamo niente. Neanche come chiamarli. Non sappiamo delle loro peregrinazioni secolari di terra in terra, e di come la Storia ottusa e inconsapevole di sé si ripeta. Non sappiamo e non vogliamo sapere che sono persone con una cultura meticcia, ricchissima e ibrida perché sempre contaminata (ma non annientata) dai differenti Paesi in cui vengono a trovarsi. Gli zingari non riconoscono l’idea di Stato ed è proprio con la formazione degli Stati nazionali che, in Europa, si è formato l’ostracismo nei loro confronti, perennemente costretti ai margini di società che hanno sempre richiesto la loro totale “integrazione” che significa poi la loro perdita d’identità. Compagni d’orrore, nei lager nazisti, di ebrei e omosessuali, non hanno mai cercato né voluto né ottenuto una “terra promessa” (come nel caso degli ebrei) e non hanno vissuto il progressivo per quanto lento processo d’accettazione di una diversità sessuale che dà fastidio a chi considera legittima solo la propria. Gli zingari sono stati i primi “europeisti”, non percependo i confini tra gli Stati. Così come il forte spirito comunitario che lega le loro famiglie è la negazione del nostro riunirci per progetti di lavoro. Quanto per noi valgono azienda e fatturato, per i Rom valgono l’amicizia, l’incontro, la festa. Ancora, i Rom non concepiscono l’ottica del risparmio. I soldi servono a essere spesi. La vita è vissuta giorno per giorno. E non è vero che non lavorano. Lavorano quanto basta per soddisfare le necessità del presente. Quel presente che noi, noi “gagè” (così ci chiamano “loro”) non viviamo più perché dilaniati da una nostalgia (spesso edulcorata) del passato e da una paura (spesso esasperata) del futuro. Come succede in tutte le realtà marginali, i rom sono in parte “integrati”, in parte delinquono, in parte sono disoccupati o vivono di espedienti. La realtà è quasi sempre molto più semplice di come ce la costruiamo. Sono generalmente animati da un forte sentimento religioso “sincretista” (potremmo dire anche “ecumenico”) in cui antiche tradizioni pagane, cristianesimo e Islam si fondono senza soluzione di continuità, in modo estremamente fluido. È difficile trovare informazioni su di loro. La bibliografia reperibile è minima. Attualmente è in libreria “Tra noi e i rom” di Giuseppe Burgio (Franco Angeli editore) che, pur incentrandosi sulla questione della “pedagogia culturale” tra popoli diversi, è un primo utile viatico per scoprire un mondo sospeso tra mito e realtà, di cui conosciamo e alimentiamo i miti e di fronte a una realtà che c’è ignota. Come esempio di (nostra) mitologia mitica potremmo prendere quello delle zingare che “rubano” i bambini. Bene, non risulta un caso sicuro di questo fatto. Non è mai successo. Come esempio della realtà valgono le bellissime fotografie di Paolo Pellegrin. Secca e potente la descrizione del suo lavoro, che riporto per intero: «Entro in un cortile a pochi passi da ponte Marconi. Ci vivono Sevla, Vejsil, Jordan, Carlos, Leon, Romeo, Romina, Shelly, Erma e gli altri membri di una piccola comunità Rom di origine bosniaca. Una grande famiglia, romana di adozione e per scelta, che mi accoglie con naturalezza e generosità. Riconosco in loro dei valori precisi: l’ospitalità, il rispetto, una grande educazione. E percepisco il loro “senso di casa” anche se vivono in una ex rimessa, con una scassata roulotte per dépendance. Mi sembra di aver trovato un rifugio, lontano da tutto, dalla gente e dalle cose, dentro la città. Incontro Priscilla, l’ultima figlia, la nona, venuta al mondo con la sindrome di Down. Intelligente e sensibile. Antica, come l’etimo del suo nome, come i valori di questa famiglia. Antica come Roma: nata multietnica, accogliente, aperta alle diversità». Le foto di Paolo sono pura poesia. La stessa poesia con cui Fellini ha saputo raccontare la melanconia del popolo povero e orgoglioso del circo. O con cui Pasolini ha descritto certe realtà periferiche sulle quali però incombeva una disfatta identitaria che qua non c’è. Anzi. Diceva Edoardo Sanguineti che «la poesia non è mai poetica». È il caso di queste foto. Spesso crude, essenziali, e proprio per questo profondamente poetiche. Si respira, guardandole, un clima sorprendente e triste. Una tristezza riscattata dalla capacità di inventarsi un mondo con gli scarti (per citare Papa Francesco) di un mondo che non li riconosce e che loro trasformano in cruda fiaba. L’empatia è immediata. L’occhio (e il cuore) di Pellegrin frugano negli anfratti di uno spazio altro. Trapelano storie d’amore, cose misere per lo sguardo di chi si ferma alla superficie. La povertà come cifra di un’altra dignità. Ancestrale. Oserei dire più solida della nostra, sospesa ormai ai capricci di una finanza spietata di cui siamo fantocci, molto più ladra del più ladro degli zingari. Pellegrin ci mostra un popolo orgoglioso di ciò che è e non di ciò che ha. Storie di solidarietà e di smarrimento, di divertimento e melanconia. Una finestra che si apre su un mondo che spesso denigriamo perché “sporco” quando a essere sporchi, sporchissimi, sono i nostri occhiali. Pellegrin guarda a occhio nudo, ci accompagna generosamente nel campo in cui ha vissuto, ci rende ospiti silenti, lascia che qualcosa di simile alla consapevolezza trapeli. Nessuna “emergenza nomadi”. Solo umanità. Solo amore.
"Gli stupri di Colonia come le porcate dei maschi siciliani". Siciliani Liberi, il movimento fondato dal professor Massimo Costa, in una nota, "intima alla Rai, e in particolare al conduttore di Uno Mattina Tiberio Timperi, di scusarsi pubblicamente con tutti i siciliani", scrive Rachele Nenzi, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Siciliani Liberi, il movimento fondato dal professor Massimo Costa, in una nota, "intima alla Rai, e in particolare al conduttore di Uno Mattina Tiberio Timperi, di scusarsi pubblicamente con tutti i siciliani per non aver fermato il "delirio razzista" di Carlo Panella che ha affermato che gli stupri di massa di Colonia sarebbero come le "porcate che facevano i maschi siciliani" e che "forse fanno ancora". "Siciliani Liberi- dichiara Massimo Costa- chiede l'allontanamento perpetuo del suddetto Panella dai teleschermi della Rai, e - come si è detto - scuse pubbliche della RAI nella stessa fascia oraria in cui è stato pronunciato l'insulto a milioni di cittadini siciliani non colpevoli di altro se non di essere nati e vivere e lavorare in Sicilia. La Sicilia è già oggetto da tempo di una continua serie di aggressioni verbali e mediatiche che stanno alimentando un clima di odio razziale ormai insostenibile. Queste affermazioni, semplicemente incommentabili, devono cessare immediatamente".
Umberto Bossi, intervista verità a Libero: "Quando ho evitato la secessione violenta. Ora lista col Cav e Zaia premier", scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” l’1 febbraio 2016. Umberto Bossi dà appuntamento a Libero in un bar a un passo da Montecitorio. Sul tavolino il caffè e un posacenere. In bocca il solito sigaro.
Bossi, iniziamo da Renzi. Che ne pensa?
«Per ora ha il potere in mano, ma deve risolvere due problemi: il primo è che il Nord sta pagando troppe tasse, ci sono 100 miliardi di residuo fiscale di cui 60 solo dalla Lombardia. L'altro problema è il mancato sviluppo industriale del Sud, causato anche dalla sinistra ai tempi del consociativismo».
Dalla sinistra?
«Certo! Ha provato a imporre un modello americano o russo, cioè ha spostato al Sud la grande industria. Ma senza indotto produttivo è stato un fallimento su tutta la linea».
Fatto sta che si parla della questione meridionale da decenni, e anche voi che siete stati al governo non l'avete risolta...
«Ora, per la prima volta, il Nord è favorevole allo sviluppo industriale del Sud perché in questo modo anche il Sud avrebbe i soldi per pagare le tasse, che altrimenti sono tutte a carico del Nord. Ma vanno sviluppate le piccole e medie imprese».
Parla come se avesse archiviato per sempre la secessione. O no?
«Dico che il Nord deve decidere se scappare o se investire nello sviluppo industriale nel Sud. E poi...».
E poi cosa?
«Oggi, per l'ennesima volta, stanno pagando i lavoratori del Nord. La riforma Fornero ha cambiato la previdenza, con l'Inps che ha assorbito l'Inpdap degli ex statali. Peccato che proprio lo Stato non abbia versato i contributi, e ora l'Inps è costretto a pagare quelle pensioni con i soldi degli altri lavoratori. Vergogna, lo Stato è il primo a non applicare le leggi».
Quindi serve la secessione?
«Gliel'ho detto, o si scappa oppure bisogna creare lo sviluppo del Mezzogiorno, incentivando gli artigiani».
Salvini sta battendo la seconda strada. Non parla di secessione e vuole sbarcare a Sud.
«Salvini ha il problema di tutti i leader: quando ci si presenta agli elettori, loro ti chiedono cosa gli dai in cambio. Cosa può offrire al Sud? Mi pare che Salvini non si sia ancora pronunciato. O scappiamo con l'indipendenza, o il Nord si guadagna il paradiso cercando per l'ennesima volta di far sviluppare il Sud. Ma temo sia difficile, soprattutto con la sinistra al governo».
Anche il centrodestra non è riuscito a combinare granché...
«In tanti anni la sinistra non ha mai parlato ai piccoli e medi imprenditori, preferendo le grandi industrie perché gli stabilimenti hanno i lavoratori che sono proletari. Ora il Nord deve respirare, il Sud è una palla al piede. Chieda al povero Maroni: la Lombardia regala a Roma circa 60 miliardi l'anno...».
Maroni ha lanciato il referendum per chiedere l'autonomia della sua Regione.
«Se passa quello, Roma non può più far finta di niente».
Be', ma il referendum non garantirà automaticamente più soldi e federalismo alla Lombardia.
«Non si può governare avendo contro Lombardia, e poi a ruota Veneto e Piemonte. Noi siamo impegnati a ottenere dei risultati democraticamente, ma ci rendiamo conto che non si può dialogare con chi non è democratico o se ne frega della democrazia».
Ripetiamo: anche voi non avete cambiato le cose.
«Eh no, il federalismo fiscale era passato alla Camera e al Senato, ma poi Napolitano e Monti hanno bloccato tutto! Sono stati brutti segnali per il Paese, perché ora fatica a rialzarsi. E il Nord fa bene a pensare alla secessione».
La secessione non è arrivata per gli errori della Lega o per la freddezza dei cittadini del Nord?
«Diciamo che la gente si aspettava un miracolo, senza intervenire direttamente. Ma chi vuole la rivoluzione deve intervenire».
Ora il tema della secessione è scomparso dal dibattito.
«A Bergamo si dice sóta la sènder brasca, sotto la cenere c'è la brace. Il problema dell'oppressione del Nord c'è sempre».
C'è stato un momento in cui ha creduto davvero di poter dividere l'Italia?
«Sì, all'inizio credevo di farcela. Nel 1996, quando andammo sul Po, c'era la volontà di rompere gli indugi e andare subito a bersaglio. Ma poi il sistema è intervenuto, è riuscito a crearci degli indugi».
A cosa si riferisce?
«Per esempio agli attacchi contro di me, che si sono rivelati falsi. Guardi anche la faccenda dei soldi alla mia famiglia. Tutto falso. Hanno fatto un processo senza indagini. Non si spiegano queste cose, se non con la volontà di colpirmi e fermarci».
Nel 1998 ci fu un'altra mobilitazione leghista particolarmente calda, davanti al carcere di Modena per chiedere la liberazione dei Serenissimi che avevano occupato il campanile di San Marco. Ricorda?
«Certo! La gente spingeva ai cancelli, volevano prendere per il collo i guardiani».
Ma lei fermò la folla. Alcuni indipendentisti non gliela perdonano, dicono che lì poteva davvero scattare la rivoluzione.
«Ammetto che mi preoccupai, fermai la folla, pensai: qui dobbiamo cambiare democraticamente. Forse quella sera avremmo cominciato la rivoluzione, ma resto convinto che la via democratica resti la migliore. Anche se...».
Anche se?
«Forse, per svegliarsi, la gente aveva bisogno di un martire. Forse, se mi avessero arrestato perché chiedevo la libertà del Nord, la storia sarebbe cambiata».
Dicevamo dello scandalo dei soldi della Lega. La contabile, Nadia Dagrada, ha detto in tribunale che lei non ne sapeva nulla.
«Sono incazzato nero!».
Spieghi.
«Sapevo quello che avrebbe detto in tribunale, perché affrontai subito Nadia e le dissi: "ma è vero che abbiamo pagato la macchina a mio figlio?". Io ho sempre pagato tutto! Lei mi disse che mi avevano tenuto all' oscuro delle manovre di Belsito perché non volevano farmi soffrire, ovviamente l'ho mandata a quel paese».
Ma è vera 'sta storia dei soldi?
«Fosse stato vero, avrei dato dei calci in culo. Ma è stato tutto montato ad arte. Pure i lavori in casa mia... Ho pagato tutto io!».
Fatto sta che negli ultimi tempi si sta prendendo delle soddisfazioni in tribunale. La Dagrada la scagiona, e nella sua Varese trasferiscono il pm Abate che fu tra i primissimi a farle causa.
«Quella di Abate è una storia vecchia, ormai ho dimenticato».
Non è arrabbiato coi giudici?
«Certo che non tutti i giudici lavorano bene e ci sono processi che non finiscono mai. Però, nonostante la magistratura abbia colpito anche me, penso che di fronte all' evidenza dei fatti si convincono anche i magistrati. Non ci sono solo pecore nere ma anche pecore bianche».
Chi sarà il candidato premier del centrodestra?
«Berlusconi vuole farlo ancora».
Però si dice che Berlusconi apprezzi pure Zaia, e che a Palazzo Chigi vedrebbe meglio il governatore veneto piuttosto che Salvini.
«Zaia è equilibrato, a volte è forse un po' lento ma alla fine riesce a stare in equilibrio. Sarebbe un ottimo premier. Ma Berlusconi...».
Ma Berlusconi non molla. Non dovrebbe dimenticarsi di Palazzo Chigi una volta per tutte?
«Lo dica a lui».
Lei lo sente?
«È da un po' che non lo sento. Posso dirle una cosa? Per certi versi l'uomo è migliorato, è meglio di come l' hanno dipinto i giornali e certa politica. È un generoso, ha una sensibilità rara. Ha raggiunto un equilibrio e in lui ho visto anche cose positive. In quei posti, quando si raggiungono certi ruoli, si fanno avanti molti che vogliono primeggiare.
Non è facile gestire le situazioni. Ne so qualcosa...».
A cosa si riferisce?
«Contro di me non avevano e non hanno prove, ma mi sono dimesso per salvaguardare la Lega. Massacrando me avrebbero massacrato la Lega e un politico deve sapere quando farsi da parte. Tanto il tempo mi darà ragione».
Si è sentito tradito da qualcuno, per esempio da Maroni?
«Non voglio parlare di queste cose, è il sistema che voleva far fuori me. Certo, qualcuno dei nostri mi ha accoltellato. Sa come si dice? Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io».
E che ne dice di Salvini? Può fare il premier?
«Prima, farebbe bene a imparare e a fare esperienza. Lui ha davanti una vita, non deve avere fretta».
Quindi Salvini dovrebbe candidarsi sindaco di Milano?
«So che si sta facendo avanti Sgarbi, un uomo di cultura per una città capitale della cultura».
Sgarbi sarebbe il suo candidato ideale?
«Non mi faccia dire cose che non ho detto. So che si è fatto avanti».
Beppe Grillo, invece, anziché fare un passo in avanti ne vuole fare uno laterale. S' è già stufato?
«Non lo so, quando metti in piedi un movimento così poi non puoi più fare le cose di prima ma non credo voglia uscire di scena».
Che voto dà a Renzi, da 1 a 10?
«6».
Motivo?
«La qualità migliore, e che a un certo punto ha convinto Berlusconi ad appiccicarsi a lui, è che ha svecchiato la sinistra rendendola quasi europea. Ma la sinistra non è capace di sistemare il Paese, ci deve pensare il centrodestra con una riforma per abbassare le tasse e garantire lo sviluppo del Sud».
Voto a Maria Elena Boschi.
«6, ma alle volte merita 5. Vediamo come esce dai problemi di queste settimane: pure lei deve capire quando conviene staccarsi dalla poltrona».
Voto a Berlusconi e Salvini.
«Meritano 7 e anche 8, ma un voto così alto glielo do solo se riescono a fare il programma elettorale con le cose che ho detto. Meno tasse e sviluppo del Sud».
Quindi lei non ha dubbi: l'alleanza va ricostruita.
«È l'unico modo per vincere».
Ma se non cambia l'Italicum, sarà necessario creare un listone unico di centrodestra.
«Subiamo le scelte di Renzi che vuole uccidere gli avversari».
Per i leghisti sarà uno choc non vedere il simbolo sulla scheda.
«Combatteremo con le armi che abbiamo».
Tra quanto si va a votare?
«Ancora un anno, non di più. Renzi sa benissimo che più resta e più si rovina».
I politicanti contro l'economia del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno protesta contro il Governo: No alle importazioni agricole. Nelle piazze del Sud Italia, migliaia di persone scese in piazza contro gli accordi euro-mediterranei nel settore agricolo. Agevolano i prodotti extracomunitari e mettono in ginocchio gli agricoltori italiani, scrive Emanuela Carucci, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". "Se muore l'agricoltura muore la Sicilia, muoiono le nostre città”. Forti le parole del sindaco di Pachino, Roberto Bruno, in occasione della manifestazione per il comparto agricolo in quaranta Comuni del Sud. Il grido forte della terra, come in un racconto di Verga. Migliaia le persone scese in piazza. L’immagine evoca le pagine di della scrittura verista. Il Mezzogiorno d’Italia chiede ancora una volta di lasciar vivere la propria agricoltura. Già, perché molti comuni tra Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna (le regioni aderenti alla manifestazione) hanno ancora nella terra e nei suoi frutti pezzi importanti della propria economia. Lontano dalla grande industria, lontani dalle frenesie dei mercati che decidono per tutti. La protesta più viva a Ragusa con sei mila persone in piazza. “Non ho mai visto uno schieramento così compatto – ha dichiarato Sandro Gambuzza, presidente di Confagricoltura Ragusa e della federazione nazionale orticola di Confagricoltura – oggi erano unite tutte le associazioni di categoria e i Comuni.” A rendere il fronte così forte e critico verso il governo “il calo delle quotazioni che va dal 30 al 70 per cento.” Ma non solo, a creare i malumori nel Mezzogiorno, secondo Gambuzza, anche “gli accordi euro mediterranei e di libero scambio con il Marocco e la Tunisia e quello dell’olio con le importazioni senza dazi di 70 mila tonnellate”. Una protesta che cade proprio nel giorno in cui al Consiglio d'Europa dei ministri dell'Agricoltura il ministro Maurizio Martina ha chiesto l'attivazione delle clausole di salvaguardia previste nel trattato Euro Mediterraneo (UE-Marocco). Da un capo all’altro d’Europa, si chiedeva aiuto per un Sud Italia sempre più solo a fronteggiare la concorrenza aggressiva dei paesi del Mediterraneo. Perché, come ha specificato ancora Gambuzza “La maggior parte dei comuni del Mezzogiorno ha una vocazione agricola ed oggi soffre un problema sociale”. Dal testo redatto dai sindaci dei comuni che hanno aderito alla protesta si evince una lunga lista di richieste che riguardano: “il riconoscimento dello stato di crisi e la moratoria per i crediti contratti dalle aziende nei confronti di banche o istituzioni, società di riscossione, indebitamenti e passività Inps; l’attivazione di misure anticrisi immediate e di medio termine attraverso una preventiva e forte contrattazione con l’UE; norme di salvaguardia e la revisione degli accordi euro-mediterranei, la perequazione del costo del lavoro e di produzione con adeguamento a quelli dei paesi esteri concorrenti; uniformità degli standard fitosanitari ai parametri europei dei prodotti provenienti dai paesi terzi, controlli lungo la filiera agroalimentare sulla tracciabilità dei prodotti e sull’etichettatura, interventi per un riequilibrio del meccanismo di domanda e offerta nella Gdo; una moratoria dell’importazione dei prodotti agricoli extracomunitari in attesa di una rivisitazione degli attuali accordi con i Paesi extraeuropei per tutelare le nostre coltivazioni e allevamenti in attuale crisi di prezzi di vendita all’ingrosso.” Ora che il Mezzogiorno fa sentire la sua voce, ora che dalla crisi agricola alla crisi sociale il passo è breve e i rischi elevati, l’Unione Europea e il Governo faranno ancora - è il caso di dire - orecchie da mercante?
Pomodori dal Marocco? Cambiamo gli accordi. L’intesa commerciale sui pomodori tra Unione Europea e Marocco crea molti malumori nel settore agricolo, scrive Emanuela Carucci, Lunedì 14/03/2016, su "Il Giornale". “Vanno rivisti gli accordi bilaterali” esordisce con enfasi, Marco Nicastro, presidente nazionale federazione di prodotto pomodoro da industria. L'accordo commerciale tra Unione Europea e Marocco per l’importazione di pomodori dal paese nordafricano ha, infatti, provocato molti malumori tra i produttori italiani. La prima a lanciare l’allarme è stata Coldiretti che ha parlato di "invasione di pomodori": "una crisi senza precedenti della produzione nazionale, che si concentra in Puglia e Sicilia, dove si coltiva il pregiato pomodoro Pachino". "Questa volta Confagricoltura e Coldiretti sono fortemente dalla stessa parte perché ora stanno toccando le mani degli agricoltori italiani e vendere e produrre sottocosto non ha colore sindacale" continua Nicastro. E se da un lato Coldiretti rivendica il simbolo della dieta mediterranea Made in Italy per le "agevolazioni accordate dall’Unione Europea per l’importazione di prodotti che fanno concorrenza sleale a quelle nazionali", Confagricoltura attraverso Nicastro dice: “questi sono accordi risalenti a 50 anni fa, ora lo scenario è cambiato e il Marocco è molto competitivo sui nostri mercati. Pertanto vanno riguardati gli accordi e chiediamo di moderare, secondo le clausole di salvaguardia, questa importazione in questo periodo". Infatti se da un lato in Nord Africa "si produce bene, senza attenersi ai disciplinari dell’Unione Europea e utilizzando manodopera sottocosto", in Italia, “grazie al clima mite, c’è una sovrapproduzione” che, quindi, andrebbe invenduta proprio a causa delle importazioni. "È cresciuto peraltro il rischio di frodi con il pomodoro marocchino venduto come italiano. Il risultato - evidenzia la Coldiretti - è che le quotazioni al produttore agricolo sono praticamente dimezzate rispetto allo scorso anno su valori inferiori ai costi di produzione che sono insostenibili e mettono il futuro della coltivazione in Italia". "L'Italia - conclude la Coldiretti - produce oltre un milione di tonnellate di pomodoro da mensa in pieno campo ed in serra, con la Sicilia leader di settore, ma la superfice coltivata si è ridotta del 13% negli ultimi 15 anni, da oltre 30.000 ettari del 2000 a circa 26.000 nel 2015". Dove sono da ricercare le cause? Intanto l’Unione Europea ed il ministro Mogherini (politiche agricole europee) sembrano essersi dimenticati di una parte di Europa la cui terra fertile ancora pulsa sotto il sole.
Protesta Coldiretti per grano di importazione, solidarietà del Vicepresidente Longo, scrive Pino Oro il 24 febbraio 2016 su “A Modugno”. “Tutta la solidarietà agli agricoltori della Coldiretti che quest’oggi hanno presidiato il porto di Bari per protesta contro l’importazione di ingenti quantitativi di grano arrivato da Canada, Turchia, Argentina, Singapore, Hong Kong, Marocco, Olanda, Antigua, Sierra Leone, Cipro e spesso triangolato da porti inglesi, francesi, da Malta e da Gibilterra. Una beffa per l’agricoltura pugliese e del Sud Italia in generale, cui si aggiunge il danno per i consumatori se troveranno conferma le notizie del ritrovamento di sostanze altamente tossiche. Dopo l’importazione di tonnellate di olio di oliva dal Nord Africa, nel nome di una dubbia azione solidale, continua l’attacco indiscriminato ai nostri prodotti di eccellenza, in sfregio a qualsiasi regola dell’equa e corretta concorrenza e a danno quasi esclusivamente dei Paesi della fascia mediterranea europea. Il problema è l’apertura incondizionata delle barriere dal punto di vista agricolo, senza una valutazione dell’impatto reale sui nostri sistemi, senza una pretesa di reciprocità, sacrificando ancora una volta i territori più poveri dell’Unione europea. In 7 mesi, nel periodo tra luglio 2015 e febbraio 2016, secondo i dati diffusi dall’associazione agricola è stato scaricato nello scalo marittimo barese 1 milione di tonnellate di grano, con il vero granaio d’Italia, la nostra Puglia, messo in ginocchio da una drastica riduzione del 25% del costo, passato in 7 mesi da 34 euro a 25 euro al quintale. Ancora più grave perché ci troviamo di fronte a prodotti sulla cui qualità e tracciabilità ci sono montagne di dubbi, senza contare le gravi ripercussioni tanto in termini economici che occupazionali. Ai colleghi del Consiglio regionale pugliese, ai rappresentanti della Giunta, al presidente Michele Emiliano e a tutti i nostri parlamentari ed europarlamentari, al governo italiano, chiedo un intervento fermo, deciso e preciso”.
OLIO TUNISINO: IL PD VOTA L'INVASIONE, si legge Lunedì 25 Gennaio 2016 sul blog di "Beppe Grillo". Oggi muore il Made in Italy. Con i voti favorevoli di Alessia Mosca (Pd), Goffredo Bettini (Pd) e dei gruppi Ppe, S&D e Alde la Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo ha approvato l'importazione senza dazi di una quota annua di 35.000 tonnellate di olio d'oliva dalla Tunisia. Questa ulteriore quota si aggiunge alle 56.700 tonnellate annue già previste dall'accordo di associazione UE-Tunisia e sarà in vigore per due anni. Un aumento del 40% di importazione di olio distruggerà la produzione olivicola pugliese, siciliana e non solo. È uno schema suicida per l'economia del Sud Europa, così come dimostrato dai precedenti accordi con il Marocco, che hanno contribuito a distruggere la produzione di arance nel Sud Italia e causato indirettamente tensioni sociali, come quelle vissute a Rosarno. Dietro l'invasione dell'olio tunisino ci sono precisi interessi economici in gioco: l'obiettivo è quello di affossare i piccoli e medi produttori del Sud Italia, mentre ai grandi viene data la possibilità di comprare a prezzo stracciato l'olio extraeuropeo per poi spacciarlo Made in Italy, come in passato già dimostrato dalle inchieste della magistratura. L'agricoltura italiana, ancora una volta, viene usata come merce di scambio per la politica internazionale. La Mogherini, che ha ideato il piano, conosce le conseguenze economico-sociali di questa politica iper-liberista? L'Europa sta già facendo molto per il popolo tunisino. Nel 2011 anni ha stanziato nel programma di macro assistenza finanziaria ben 800 milioni di euro. Nel 2015 sono stati erogati 100 milioni di euro, una prima tranche di un prestito complessivo di 300 milioni. Perché adesso questa ulteriore apertura? Alcuni sospetti nascono dagli interessi economici dell'attuale primo ministro tunisino. Habib Essid è, infatti, uno dei maggiori produttori di olio del Paese e dal 2004 al 2010 è stato persino direttore esecutivo del Consiglio oleicolo internazionale. Con questa importazione senza dazi si vuole aiutare il popolo tunisino o gli affari dei suoi governanti? Il MoVimento 5 Stelle si opporrà e difenderà con tutti i mezzi la produzione e l'eccellenza italiana, già a partire dalla prossima plenaria quando il testo verrà votato per l'approvazione definitiva. Il Pd può dire lo stesso?
Ci sono nomi molto noti tra i 15 europarlamentari italiani che non si sono opposti all’accordo che prevede l’importazione in Europa di una quota annuale aggiuntiva di 35 mila tonnellate di olio tunisino senza alcun dazio. Secondo i dati pubblicati sul sito Vote Watch Europe, l’organizzazione no profit che si occupa della raccolta di dati sulle votazioni del Parlamento europeo, 12 italiani hanno votato favorevolmente mentre 3 hanno deciso di astenersi. Ecco tutti i nomi, scrive Salvatore Frequente il 13 marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”.
Mercedes Bresso, Europarlamentare del Partito Democratico, già presidente della Regione Piemonte e presidente della Provincia di Torino.
Sergio Cofferati, eletto nel 2009 al Parlamento Europeo con il Partito Democratico, ha lasciato il partito dopo le primarie in Liguria e oggi è indipendente. È al suo secondo mandato da europarlamentare. È stato sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 e precedentemente segretario generale della Cgil dal 1994 al 2002.
Andrea Cozzolino, napoletano, del Partito Democratico, è alla sua seconda legislatura. Nel 2011 vince le primarie del centrosinistra per il candidato a sindaco di Napoli. Ma viene presentato un ricorso e le primarie verranno annullate e come candidato sindaco del Pd viene scelto il prefetto e commissario Mario Morcone.
Roberto Gualtieri, romano, dal 2009 è deputato europeo del Partito Democratico. Nel luglio 2014, è stato eletto Presidente della Commissione per i problemi economici e monetari al Parlamento Europeo.
Cécile Kyenge, già ministro per l’integrazione nel Governo di Enrico Letta. Nel febbraio 2014, si candida alle Elezioni europee con il Partito Democratico e viene eletta nella circoscrizione del Nord-Est.
Antonio Panzeri è all’Europarlamento dal 2004 prima con Uniti nell’Ulivo poi con il Partito Democratico. È stato segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Milano (dal 1995 al 2003), responsabile delle politiche per l’Europa (2003-2004) e membro della direzione nazionale dei Democratici di Sinistra.
Massimo Paolucci, napoletano, del Partito democratico. Alle elezioni politiche del 2013 viene eletto alla Camera dei Deputati. L’anno successivo si candida alle Elezioni europee e approda a Bruxelles.
Gianni Pittella, Partito Democratico. È europarlamentare dal 1999 alla sua quarta legislatura (il Pd fece appositamente una deroga per consentirgli la candidatura). Dal 2 luglio 2014 è capogruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) al Parlamento Europeo. Dal 1996 al 1999 svolse il ruolo di deputato nazionale.
David Sassoli, Partito Democratico. È stato vice direttore del TG1 dal 2006 al 2009. Eletto parlamentare europeo per il Pd nella legislatura 2009-2014, è stato scelto come capo della delegazione del partito all’interno dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Riconfermato alle Europee 2014, è attualmente vicepresidente del Parlamento europeo.
Renato Soru, sardo, Partito democratico. Imprenditore, fondatore di Tiscali, ed ex presidente della Regione Sardegna, carica che ha ricoperto dal 2004 al 2008 quando rassegna le dimissioni. Si ricandida, per la stessa carica, con il centrosinistra il 15 ed il 16 febbraio 2009, ma vincerà Ugo Cappellacci. Viene eletto al Parlamento Europeo nel 2014 nella circoscrizione Italia insulare.
Patrizia Toia è al suo secondo mandato all’Europarlamento. È stata ministro per i rapporti con il Parlamento dall’aprile 2000 al giugno 2001 con il presidente Giuliano Amato e poi ministro per le Politiche comunitarie dal dicembre del 1999 all’aprile del 2000 con il governo di Massimo D’Alema. Tra il 1995 e il 1996 è stata deputato alla Camera per il Partito Popolare Italiano mentre dal 1996 al 2006 ha ricoperto il ruolo di senatore della Repubblica.
Flavio Zanonato, Partito democratico, al suo primo mandato a Bruxelles. È stato Ministro dello Sviluppo Economico nel Governo Letta dal 2013 al 2014. Precedentemente è stato per due mandati sindaco di Padova dal 2004 al 2013.
Curzio Maltese - Astenuto - è un giornalista, scrittore, politico e autore televisivo italiano, dal 2014 europarlamentare per la lista L’Altra Europa con Tsipras.
Elly Schlein - Astenuta - eletta nel 2014 nelle fila del Partito Democratico nella circoscrizione nord-est. Nel maggio del 2015 annuncia l’abbandono del Pd in dissenso con la linea dal Segretario Matteo Renzi. Aderisce a Possibile, il partito fondato da Giuseppe Civati.
Barbara Spinelli - Astenuta - è al suo primo mandato ed è stata eletta nella lista L’Altra Europa con Tsipras, partito che ha abbandonato nel maggio 2015 rimanendo come indipendente all’interno del gruppo Gue/Ngl.
E per la serie come ci prendono per il culo….La memoria corta dell’olio (tunisino), scrive Maicol Engel il 30 Gennaio 2016. I giornali stanno facendo girare moltissimo questa storia. L’Ue ci impone l’olio tunisino: lo schiaffo ai nostri agricoltori. Via libera a 35mila tonnellate di olio d’oliva tunisino a dazio zero. Anche il Pd vota a favore. Salvini: “Che schifo!” E io già leggendo i titoli mi trovo a pensare che la storia possa non essere proprio come ce la raccontano. Non parliamo poi di quando mi fate vedere le immagini che circolano sui social. Vediamo di fare una piccola ricerca insieme. Questo è uno dei comunicati stampa che presentavano la mozione: The European Parliament’s Trade Committee has backed a proposed emergency measure to import 77,160 tons of olive oil from Tunisia duty-free, to help boost the struggling Tunisian economy. Members of the European Parliament (MEPs) supported the European Commission’s proposed exceptional measure by 31 votes to seven, with one abstention. If the full Parliament endorses the measure, a two-year temporary zero-duty tariff quota of 38,580 tons per year for European Union (EU) olive oil imports from Tunisia would be available from January 1, 2016, to December 31, 2017. The committee also called for a mid-term assessment, which would require the Commission to review the impact on the EU olive oil market after one year and take any corrective measures required. There would be no increase in the overall volume of imports from Tunisia, and the EU would discount duties from the olive oil Tunisia is already exporting to the EU. Olive oil is Tunisia’s main agricultural export and the sector accounts for one-fifth of agricultural jobs. Parliamentary rapporteur Marielle de Sarnez said: “At a time when Tunisia is facing very serious problems, our vote gives the right signal: that the EU stands alongside Tunisians and that we intend to exercise solidarity in a tangible way. I know that for some countries, the question of olive oil is a sensitive one. I want to reassure them that the amendment we adopted provides that, if after a year we realize that there is indeed a problem, the Commission may then take steps to rectify the imbalance.“ Non sto a tradurvi tutto, credo di aver già ripetuto più volte come l’inglese sia necessario se si vuole imparare a scavare un po’ più a fondo nelle notizie. In parole povere, l’Unione Europea ha soltanto approvato con un primo voto l’abolizione dei dazi doganali su oli che vengono già importati dalla Tunisia. Quindi non aumenterà il quantitativo d’olio che viene importato nei paesi dell’Unione, costerà solo meno esportarlo ai produttori tunisini. È una misura d’aiuto che dovrebbe durare solo due anni e se causerà problemi, sarà prevista una modifica subito dopo il primo anno. Questo è quanto spiega il rapporto della parlamentare Marielle de Sarnez. I voti con cui è stata votata la proposta il 25 gennaio sono 31 a favore, 7 contrari, un astenuto. Tutto questo oltretutto rientra nell’ottica di aiuti votata già a maggio 2015, anche in Italia. Con una risoluzione che porta le firme dei rappresentanti di tanti schieramenti.
Vediamoli insieme:
Primo firmatario: CICCHITTO FABRIZIO, Gruppo: AREA POPOLARE (NCD-UDC), Data firma: 05/05/2015
Elenco dei co-firmatari dell’atto:
QUARTAPELLE PROCOPIO LIA - PARTITO DEMOCRATICO
AMENDOLA VINCENZO - PARTITO DEMOCRATICO
VALENTINI VALENTINO FORZA ITALIA – IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – BERLUSCONI PRESIDENTE
PALAZZOTTO ERASMO - SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’
CIRIELLI EDMONDO - FRATELLI D’ITALIA-ALLEANZA NAZIONALE
LOCATELLI PIA ELDA - MISTO-PARTITO SOCIALISTA ITALIANO (PSI) – LIBERALI PER L’ITALIA (PLI)
MARAZZITI MARIO - PER L’ITALIA – CENTRO DEMOCRATICO
Mancano il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, ma per il resto il parterre politico italiano mi pare ci sia quasi tutto, mi sbaglio? Trasversalmente. Questa parte del testo della risoluzione: l’Italia ha un interesse vitale nella stabilizzazione democratica e nel consolidamento istituzionale della Tunisia, in quanto modello virtuoso di evoluzione pacifica dalla dittatura verso la democrazia e alternativo per le migliaia di giovani di tutti i Paesi della regione nordafricana e mediorientale rispetto all’opzione rappresentata dal fondamentalismo estremista; il sostegno alla giovane democrazia tunisina e alla sua economia rafforzerebbe la posizione dell’Italia in Europa e nel Mediterraneo, in linea con le premesse dettate dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a partire dalla sua visita in Tunisia come primo impegno ufficiale all’estero, e confermate dalle successive missioni del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, nonché dalle iniziative di diplomazia parlamentare assunte dalla Commissione affari esteri della Camera dei deputati nei mesi di gennaio e marzo 2015, da ultimo a seguito degli attentati perpetrati al Museo del Bardo;
considerato che l’Italia è il secondo partner economico della Tunisia, Tunisi resta un interlocutore privilegiato per gli investitori e le imprese italiane e ciò malgrado le perdite registrate nel settore del turismo dopo gli attentati del Bardo e alla luce dell’iniziativa assunta dal Ministro Gentiloni sul taglio di 25 milioni di euro del debito tunisino, unitamente alla proposta di un «piano Marshall» per la Tunisia derivante dalla destinazione verso Tunisi di una parte significativa dei finanziamenti provenienti dal piano Junker per contribuire ad una crescita sostenibile, in considerazione delle gravi diseguaglianze esistenti tra il nord e il sud del Paese, e alla creazione di opportunità di lavoro soprattutto con riferimento alle fasce giovanili della popolazione;
La risoluzione chiede di: promuovere, di concerto con gli altri Paesi europei, una conferenza internazionale per gli investimenti in Tunisia, con l’obiettivo di rafforzare l’impegno nella lotta contro il terrorismo e per il consolidamento delle istituzioni e dell’economia tunisine; a promuovere l’attribuzione alla Tunisia dello «status avanzato» nel quadro della nuova Politica europea di vicinato, e dello status di Paese partner per la democrazia in sede di Consiglio d’Europa.
Quindi mi sembra di poter dire che sì, è vero, in Italia arriverà olio dalla Tunisia a costo inferiore rispetto a quanto era precedentemente, ma non aumenteranno le importazioni di 35mila tonnellate. Saranno le stesse che costeranno un po’ di meno. Ragionamento dell’uomo della strada: non si venderà meno olio italiano, ma chi già comperava olio tunisino lo pagherà un po’ meno. Forse, perché alla fine può anche essere che chi lo venda se ne infischi dei dazi e tenga il prezzo in linea con l’anno prima, tanto la convenienza non dev’essere sulla vendita finale, ma sull’esportazione. Per aggiungere un tassello al puzzle, l’Italia produce circa 440mila tonnellate d’olio all’anno, non credo che le 35mila che andranno spalmate [ah, non versate? ndr] sui 28 paesi europei possano farle temere alcunché. Una minuscola considerazione. Il Giornale fino a poco tempo fa (che io sappia) teneva alto il nome di Silvio Berlusconi. Oggi, pur essendo Forza Italia tra i firmatari della risoluzione che chiedeva aiuti alla Tunisia, il Giornale decide di seguire la linea di Lega Nord e Cinque Stelle. Buffo, non trovate? La memoria dei giornalisti è davvero di breve durata. Chissà se sono stato sufficientemente chiaro.
L'insulto di De Rossi: altre polemiche, ma niente squalifica. In meno di una settimana la serie A ha dato il peggio di sé con tanti cattivi maestri (incluso Spalletti). Ma la giustizia sportiva continua a glissare..., scrive il 25 gennaio 2016 Giovanni Capuano su "Panorama". In meno di una settimana il calcio italiano ha offerto il peggio di sé. E non i tanto criticati ultras, o nemmeno per le solite questioni di arretratezza strutturale. No. Il calcio italiano ha mostrato la faccia brutta e a finire dietro la lavagna sono stati quelli che dovrebbero avere maggior autocontrollo e senso del limite. Brutti, maleducati, razzisti (almeno un po') e, in larga parte, impuniti: quello siamo oggi ed è difficile sostenere il contrario. Anche se la frase non porterà ad alcuna squalifica perché la procura federale della Figc non ha inviato al giudice sportivo la segnalazione delle immagini perché trattasi di insulto (come tale di competenza dell'arbitro) e non di condotta violenta, il labiale di De Rossi impegnato a dare dello "zingaro di merda" a Mandzukic non è nemmeno commentabile. Ma lo è invece il fatto che in meno di una settimana la Giustizia sportiva si è inventata un cavillo per salvare il tecnico del Napoli e il capitano della Roma (e fino a prova contraria giocatore della nazionale di Conte): una resa totale che impone la preghiera di non riproporre mai più ai media i buoni propositi sull'opera di ripulitura del calcio dai razzisti. Ancora peggio, però, nella scala dei cattivi maestri ha fatto Luciano Spalletti e con lui tutti quelli che per giorni hanno ribadito la necessità di lasciare in campo le schifezze che accadono in campo. Anche l'incredibile giustificazione data dal tecnico davanti alle immagini dell'insulto di De Rossi si iscrivono in questa tipologia di omertà da stadio: "Mandzukic ci ha preso per il culo per dieci minuti, vorrà dire che insegneremo a Daniele a mettersi le mani davanti alla bocca". Come dire a un bullo che il punto non è non menare il compagno di scuola, ma farlo stando ben attento a non lasciare i segni. Detto da un allenatore appena rientrato dall'estero dove - si favoleggia - i nostri non vanno solo a caccia di contratti milionari, ma anche di ambienti più respirabili. Inqualificabile lui, De Rossi e tutti i commentatori che si sono affrettati a sminuire l'evento (si è sentito anche un "se vorrà chiedere scuse lo farà, altrimenti no"). E inqualificabili quelli che giustificavano Sarri e ora si indignano per i soliti cori da vomito anti-napoletani sui quali non si può far altro che ripetere la necessità della tolleranza zero nel senso di svuotamento delle curve e progressiva sostituzione con gente normale. Ma nel miasma del nostro calcio i cattivi maestri sono così numerosi che si fa fatica a capire chi possa cominciare l'opera di moralizzazione. E allora avanti così. O, meglio, indietro tutta con un tuffo nel Medioevo della civiltà.
Gli insulti razzisti ai napoletani, e l'insulto razzista di De Rossi a Mandzukic. Brevi spiegazioni sul calcio di oggi nel Villaggio Globale. Con De Rossi possiamo indignarci, ma se lo si squalifica, il prossimo passo sarà squalificare il pensiero..., scrive Fabrizio Bocca il 25 gennaio 2016 su “la Repubblica”.
Cori razzisti, insulti in campo e i contraccolpi del caso Sarri-Mancini. Due veloci considerazioni su alcuni fatti dell'ultima giornata di campionato, tenendo sullo sfondo la nota vicenda Sarri e gli insulti a Mancini (pubblicizzata dai maestrini moralisti di sinistra e ormai comunque chiusa e archiviata). Voglio solo spiegare la genesi, e anche la strumentalizzazione, di certi meccanismi di giudizio.
1) Gli insulti razzisti ai napoletani a Genova.
Molti chiedono perché non ci si indigni per gli insulti razzisti subiti da Napoli e dai napoletani a Genova. E' giusto l'indignazione per questo tipo di fatti non può essere a intermittenza. Gli insulti dovranno essere puniti giustamente e correttamente secondo regolamento, anche se bisogna ricordare che purtroppo le sanzioni sono state annacquate negli ultimi due anni proprio per non disturbare e danneggiare troppo i club. I quali preferiscono sentire e subire gli insulti, piuttosto che pagare pesanti multe e vedersi chiuse curve e interi settori.
Perché fatti dal genere hanno meno risalto di altri, ugualmente gravi?
Perché quasi mai c'è una constatazione diretta, la tv non sempre li riporta, le tribune stampa non sempre sono in grado di recepire distintamente i cori offensivi. (Logico: se le tv e i giornalisti, spesso, non sono, meridionali e quindi non hanno alcun interesse a constatare, ndr) Insomma bisogna giudicare su cronache e soprattutto su opinioni degli altri. Tutti siamo stati testimoni in diretta invece di quanto è successo tra Sarri e Mancini: prima il litigio, poi l'espulsione, le frasi di Mancini alla tv, la replica subito dopo di Sarri. Insomma avevamo molti più elementi per giudicare e per farci un'opinione nostra. Anche se spesso assai differenti e addirittura contrapposte. Non mi piace e anzi considero misero usare il fatto per metterlo in relazione a quanto avvenuto prima sul noto caso Sarri-Mancini. Per arrivare a una conclusione assurda, falsa e vittimistica: "ce l'avete con Napoli e con i napoletani". Ma quando mai.
2) L'insulto di De Rossi a Mandzukic "Zingaro di m..."
De Rossi: molti ne chiedono la squalifica e trattamento al pari di Sarri. Io non discuto la necessità di una sanzione - al di là dei tecnicismi che potrebbero escluderla nell'immediato ma magari ipotizzarla nelle prossime settimane dopo un procedimento sportivo ad hoc - e già ho detto più volte che giocatori e allenatori devono avere un comportamento responsabile e consono al ruolo che rivestono oggi. Ben sapendo che sono costantemente osservati dalle telecamere del Grande Fratello del pallone. Detto questo, la vicenda mi appare assai diversa da quella di Sarri. Nel caso dell'allenatore napoletano siamo davanti a insulti rabbiosi, gravemente offensivi e spregevoli, diretti in faccia alla persona e in presenza addirittura di tutti quelli che partecipano alla partita. Quarto arbitro compreso. Nel caso di De Rossi, siamo davanti a un labiale di un giocatore che prima dice all'altro, di stare zitto e poi si volta e pronuncia l'insulto. Mi sembra che Mandzukic non se ne sia nemmeno reso conto sul momento, ma immagino che gli abbiano riportato il tutto, dopo.
Detto che la maniera di stare in campo di De Rossi la trovo molto discutibile proprio per questa sua esuberanza fisica e verbale che lo ha portato troppe volte a mal comportarsi, qui si viaggia su un discrimine infido e pericoloso.
Si può squalificare un giocatore per un insulto grave, sia pure a sfondo razzista, colto attraverso un labiale catturato al ralenty in tv?
Qui entriamo in un campo assai rischioso, e dovrebbe essere Marshall McLuhan - il grande sociologo della comunicazione moderna e teorico del Villaggio Globale - a dirci fino a dove ci possiamo spingere. L'insulto di De Rossi per quanto convinto e rivolto chiaramente a Mandzukic era espresso verso il vuoto. Il passo successivo sarebbe quello di squalificare per una lettura del pensiero. La penso lo stesso anche per le bestemmie non plateali, pronunciate tra sé e sé, colte solo dall'intrusione dei potentissimi obbiettivi della tv. Dunque, pur sapendo che così facendo mi prenderò la bordata di chi dice che ce l'ho solo con Sarri (non è vero), io dico che con De Rossi possiamo indignarci, ma non possiamo squalificarlo.
Ho provato a spiegare che – disinnescate squalifiche e multe – l’unica soluzione possibile, oramai, è quella di trascurarli, di non farci più caso: ma dopo ogni cantata offensiva, dopo ogni sinfonia di insulti, migliaia di persone pretendono giustamente che se ne riparli e si sottolinei la volgarità di certi cori, scrive Ivan Zazzaroni il 25 gennaio 2016. Capita a tutti, ovviamente, anche a Beppe Severgnini, interista: “E questi cori allora? Ne scriverete sul Corriere? O vi limitate a condannare le parole di Sarri e a segnalare gli eccessi del San Paolo”, il contenuto dei messaggi che l’editorialista ha ricevuto sui social. I cori offensivi li ho trattati numerose volte, la prima tre anni fa – me lo ha ricordato un lettore. Per questo recupero la risposta molto intelligente che ha dato Severgnini proprio oggi: “Ecco qui, lo scriviamo. Non è solo orribile quel che si urla negli stadi italiani: è tristemente antico. La società si muove, cambia. Intorno a un campo di calcio, invece, tutto rimane uguale. Ogni tifoseria è pronta ad offendersi per quanto subisce, ma giustifica tutto ciò che fa. Lo so: è inutile ragionare di questi temi. Saltano fuori “la fede”, l’elogio astuto dell’irrazionale…”. “Nessuno pretende che gli stadi siano dei concerti, nessuno chiede silenzi attenti e commenti forbiti. Ma quello che accade negli stadi d’Italia – quasi tutti – è strabiliante: s’è fermato il tempo…. Sostenere la propria squadra non significa disprezzare o umiliare gli ospiti. Uno stadio che fischia ogni possesso di palla avversario dimostra insicurezza, non forza”. Severgnini invita tutti a tifare col cuore. Io suggerisco di lasciare a casa il fegato e riattivare il cervello.
Il contentino di Severgnini: "Molti messaggi dei napoletani: non scrivete dei cori razzisti? Ecco qui, lo scriviamo". Ecco quanto si legge sul Corriere della Sera, Si era inserito nella polemica tra Sarri-Mancini sottolineando come il San Paolo osa fischiare sistematicamente gli avversari. Oggi sulle colonne del Corriere della Sera Beppe Severgnini prova ad aggiustare il tiro. Ecco quanto si legge: Ieri a Marassi i soliti cori anti-napoletani: viva il colera, Vesuvio lavali col fuoco e vergogne del genere. Durante e dopo la partita, molti messaggi di tifosi napoletani: e questi allora? Ne scriverete sul Corriere? O vi limitate a condannare le parole di Sarri e a segnalare gli eccessi del San Paolo? Ecco qui, lo scriviamo. Non è solo orribile quel che si urla negli stadi italiani: è tristemente antico. La società si muove, cambia. Intorno a un campo di calcio, invece, tutto rimane uguale. Ogni tifoseria è pronta ad offendersi per quanto subisce, ma giustifica tutto ciò che fa. Lo so: è inutile ragionare di questi temi. Saltano fuori «la fede», «il cuore», l’elogio astuto dell’irrazionale. Ma proviamoci comunque. Nessuno pretende che gli stadi siano sale da concerti. In campo si gioca a calcio, si scontrano ragazzi, sogni e memorie; nessuno chiede silenzi attenti e commenti forbiti. Ma quello che accade negli stadi d’Italia — quasi tutti — è strabiliante: s’è fermato il tempo. Ecco perché Sarri è stato indotto a urlare quelle frasi a Mancini. Credeva che il campo fosse rimasto una zona franca dove nulla si riferisce, tutto si dimentica. Questo abbiamo scritto sul Corriere, giorni fa, parlando del Napoli. Aggiungendo che la squadra migliore del campionato e la tifoseria più appassionata non hanno bisogno di subissare di fischi gli avversari appena toccano palla. Sono arrivate centinaia di commenti: metà giustificano questa pratica, metà ricordano gli insulti che il Napoli riceve sugli altri campi. Ebbene: degli insulti abbiamo detto all’inizio (vergognosi). Ma i fischi sistematici — di cui il San Paolo ha il primato, certo non l’esclusiva — non ci piacciono. Sostenere la propria squadra non significa disprezzare o umiliare gli ospiti. Uno stadio che fischia ogni possesso di palla avversario dimostra insicurezza, non forza. Proviamo a tifare col cuore e a ragionare con la testa, per una volta: si può fare.
Dal Ferraris a San Siro, ancora cori razzisti contro Napoli ed i napoletani. E’ palese quanto negli ultimi anni molti stadi d’Italia abbiano bersagliato gli azzurri con cori discriminanti contro Napoli ed i cittadini partenopei. Non una novità, ma una triste notizia che si ripete: poco fa, sono stati intonati a San Siro cori razzisti, in primis “Napoli colera”. Stesso spettacolo al Ferraris, dove, durante Sampdoria – Napoli, la curva blucerchiata ha iniziato a cantare: “Vesuvio lavali col fuoco”. Si attendono seri provvedimenti nei confronti delle tifoserie.
«Io, tifoso napoletano cacciato dallo stadio a Genova per aver reagito ai cori razzisti. Incredibile come la realtà possa essere distorta», scrive Ilaria Puglia su “Il Napolista” il 25 gennaio 2016. Una cosa tipo “cornuto e mazziato”, come si dice a Napoli. Potrebbe essere questa la migliore definizione per l’avventura vissuta ieri da Armando Rusciano allo stadio Luigi Ferraris. Il tifoso azzurro, invitato da amici a Genova per assistere alla partita contro la Sampdoria, ha dovuto subire (come tanti altri) più di un’ora di cori razzisti e poi, per aver mostrato la sciarpa del Napoli dopo il gol di Mertens, come a volersi pulire di dosso tutta quella bruttura, è stato allontanato dallo stadio come se fosse un delinquente anche se conosciamo quali sono le regole. Ecco, attraverso le sue parole, l’esperienza vissuta ieri.
In quale settore hai visto la partita, ieri?
«Ero in compagnia di amici di Genova in Tribuna Centrale, sotto la Tribuna d’Onore. Un settore che dovrebbe essere molto lontano dagli atteggiamenti beceri che a volte caratterizzano il tifo delle curve e invece, già prima che iniziasse la partita, hanno iniziato ad insultarci. Quindi non si è trattato di un surriscaldamento degli animi così come, per capirci, è successo nella vicenda Sarri-Mancini».
Che atmosfera c’era allo stadio?
«Brutta. I cori razzisti contro i napoletani sono iniziati già da prima della partita e sono continuati fino alla fine. Non erano solo cori: si è trattato di un’intimidazione continua che dalla televisione non si poteva sentire».
In che senso “intimidazione continua”? Che dicevano?
«Cose del tipo: “Non ci dovete venire qua”, “napoletani di m....”. Roba così. Quasi sussurrati all'orecchio, rendo l'idea? Alla fine del primo tempo una persona molto distinta che frequenta la tribuna anche a Napoli ha iniziato ad avere paura perché era con il figlio sedicenne. L’ho rassicurato dicendogli che, trovandosi in Tribuna, era protetto dalla tanta polizia presente. Bastava solo non reagire agli insulti».
E poi cos’è successo?
«Al goal di Mertens non ce l’ho fatta più. Mi sono girato, gli ho fatto il gesto che fa Toni quando segna, quello con le mani dietro le orecchie, e gli ho mostrato la mia sciarpetta. Per tutta risposta, steward, celerini, poliziotti, fra un po’ veniva pure l’esercito, mi hanno prelevato e cacciato dallo stadio. Sembrava che la polizia non aspettasse altro che cacciare qualche napoletano per usarlo come capro espiatorio. Dopo tutto quello che avevamo subito, alla prima reazione, ti giuro, in due secondi mi hanno prelevato e portato via. Tutti i disordini erano diventati all’improvviso colpa mia».
Hai provato a giustificarti spiegando loro cosa avevi dovuto subire fino ad allora?
«C'è poco da giustificarti o difenderti quando sai che la parte che dovrebbe difenderti e tutelarti è in malafede. Tutto è successo esattamente all'ottantesimo minuto, al goal di Mertens. Il mio ero uno sfottò, volevo dire “insultateci pure, tanto non vi sento, siamo troppo forti per voi”. Forse era fuori luogo per la tensione accumulata, ma ti assicuro che era solo uno sfottò rispetto a tutto quello che avevamo subito e invece sono diventato un hooligan. Noi i “cattivi napoletani” e loro i “civili genovesi”. È assurdo quanto la realtà possa essere distorta».
La polizia ti ha accompagnato personalmente fuori dallo stadio?
«Sì, hanno preso le mie generalità e mi hanno portato fuori. Tra l’altro sono rimasto da solo, fuori, perché ero a piedi e dovevo aspettare i miei amici che uscivano. Mi guardavo intorno anche un po’ impaurito. È stato un brutto quarto d’ora».
I tuoi amici come hanno commentato l’accaduto?
«Erano imbarazzati. Fortunatamente non tutti i genovesi sono così. Ho fatto un anno di università a via Balbi, a Genova, e ti assicuro che è una città assolutamente civile, splendida da tutti i punti di vista. Si tratta di una parte della popolazione che è incancrenita da questo odio nei nostri confronti, inspiegabile. È gente frustrata. Ho notato che negli ultimi anni questa cosa è peggiorata, forse per la crisi economica, la gente che già di per sé è cattiva quando è esasperata tira fuori il peggio di sé. Noi comunque alle offese reagiamo sempre con gli sfottò. Sono più divertenti, più civili e ho notato che loro vanno pure più “in freva”...».
Tornerai a Genova per vedere una partita del Napoli?
«Spero di sì, magari in un clima meno esasperato. Per adesso vado a prendere il treno per Napoli. Me ne torno a casa mia…».
PARLIAMO DELLA BASILICATA.
…DI POTENZA. I Casalesi nelle carceri lucane pensano al post-Basilischi. La 'ndrangheta» e l'ex isola felice. La «Famiglia» di Basilicata in uno studio dell'Università di Essex. «Dalle celle i boss potrebbero riorganizzare il clan», scrive Silvia Bortoletto l'11 settembre 2016 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, dà il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology. La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti? «A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona «holding» del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di «outsourcing», di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata «commissionata» a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati «concessi» dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel «collante narcisistico» tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La «creazione» dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della «Lucania Felix», di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80». La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo «succube» o comunque legata alle attività criminali e agli intenti «manageriali» di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni? «Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma così come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Inoltre, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità «madre». Nel momento in cui i capi si sono pentiti noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto». Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi...«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90». Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra? «È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario». Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente? «Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania». Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire? «I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che hanno deciso di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi, fino a quando è rimasto aperto, è risultato particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro «esperimento mafioso», questa volta targato Camorra».
Elisa Claps, 23 anni di mistero su cui ha osato Amendolara. Ne parliamo col cronista che indagò sul caso, risultando scomodo anche alla Procura. Aveva solo 16 anni quando, il 12 settembre del 1993, scomparve nella sua Potenza. Il suo corpo fu ritrovato 17 anni dopo, nel 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, nel capoluogo lucano. Per la sua scomparsa e la sua morte è stato riconosciuto colpevole l'amico Danilo Restivo, scrive Leonardo Pisani su “Il Mattino di Foggia” il 12 settembre 2016. Le indagini non hanno mai convinto del tutto Fabio Amendolara che dalle pagine de "La Gazzetta del Mezzogiorno" si spinse talmente oltre le nebbie di quel mistero da suscitare la pesante reazione degli inquirenti che lo accusarono di aver rivelato informazioni riservate (la stessa accusa prefigurata dall'art. 326 del Codice Penale per la violazione dei segreti di Stato) e disposero nel 2012 la perquisizione della redazione del giornale e della casa del cronista, sottoponendolo ad un interrogatorio in Questura durato sei ore. Nel ricordare la tragica fine di Elisa, la disponibilità di Fabio ci offre anche l'opportunità di approfondire l'importanza del giornalismo investigativo che lo impegna a scandagliare, sulle pagine di "Libero", tanti altri misteri di cronaca italiana; per ultimo il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce, in Ciociaria, a cui ha dedicato il suo recente libro "L'ultimo giorno con gli Alamari".
Amendolara, il 12 settembre 1993 scompare Elisa Claps. Una data che è una ferita a Potenza ma non solo ed è una ferita ancora aperta.
«È una ferita aperta perché la giustizia non ha saputo dare risposte logiche e convincenti. Non basta consegnare alla piazza il mostro Danilo Restivo per dire il caso è chiuso, rassegnatevi, metteteci una pietra sopra. Finché non verrà fatta luce su chi ha coperto Restivo, permettendo che i resti di Elisa rimanessero per 17 anni nel sottotetto della chiesa della Trinità, la ferita non potrà rimarginarsi».
Ti sei occupato del caso e Elisa è ritornata poi in altre indagini che hai svolto: notizie false, depistaggi, poi il ritrovamento nella Chiesa della Trinità. Questo pone due domande: per prima cosa, come mai tante verità negate e, seconda cosa poi, il giornalismo investigativo ha ancora senso in Italia? Spesso si assiste alla spettacolarizzazione delle tragedie ma non alla ricerca della verità.
«La spettacolarizzazione fa male alle inchieste giudiziarie tanto quanto a quelle giornalistiche. Il giornalismo investigativo, quello vero, quello che scova nuovi testimoni, che segnala errori e omissioni nelle indagini, che impedisce agli investigatori di girarsi dall'altra parte e di chiudere gli occhi, ha ancora senso e va riscoperto. Ecco, se ci sono tante verità negate dipende anche dal fatto che la stampa molla i casi troppo presto. Senza pressione mediatica gli investigatori si sentono liberi di non agire».
Quanti casi ancora irrisolti e cito solo la nostra Basilicata: la piccola Ottavia De Luise di Montemurro e Nicola Bevilacqua di Lauria. Ma esiste una giustizia di serie A e una giustizia di serie B?
«Purtroppo esiste. Era così ai tempi della piccola Ottavia ed è così ancora oggi».
Allo stesso tempo: esiste una copertura mediatica di serie A per alcuni casi e l’indifferenza per altri?
«Le Procure e gli investigatori dettano la scaletta. Grazie alle fughe di notizie si tengono buoni i giornalisti che, così, ottenuta in pasto la classica velina, non cercheranno notizie scomode. L'informazione è facile da orientare».
Però, Fabio, domanda brutale: trovi difficoltà nelle tue inchieste?
«Le difficoltà che trovano tutti i giornalisti che non si accontentano delle verità preconfezionate. Nel caso di Elisa Claps ad esempio avevo dimostrato che la Procura di Salerno aveva temporeggiato troppo nel chiedere l'arresto di Restivo ma anche che aveva fatto scadere i termini delle indagini preliminari tenendo fermo il fascicolo. La reazione è stata dura: una perquisizione in redazione, nella mia auto e nella mia abitazione. Risultato: mi hanno messo fuori gioco per un po'. Tutte le mie fonti erano scomparse, per paura di essere scoperte».
Penso al tuo ultimo libro: «L’ultimo giorno con gli Alamari: il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce in Ciociaria”. Anche quando lo hai presentato in Basilicata o in Puglia ha attirato attenzione; quindi alla fine il lettore o il pubblico è sensibile a queste tematiche di giustizia negata o, addirittura, di mancanza di vere indagini ufficiali?
«I cittadini non si accontentano mai di false verità o di ricostruzioni illogiche e contraddittorie. Finché non si fornisce loro una ricostruzione credibile - sia essa giudiziaria o anche giornalistica - continueranno a porsi domande su come sono andate davvero le cose. Il caso Claps ne è un esempio lampante. A sei anni dal ritrovamento ci sono ancora manifestazioni pubbliche per chiedere verità e giustizia. E ci saranno finché la storia non verrà raccontata in tutti i suoi particolari».
Il Caso Donato Cefola, scritto da Fabio Amendolara l'11 agosto 2016. Barile, 1997, 11 novembre. Un uomo con il volto coperto fa salire su un furgone un ragazzino di 16 anni, lo uccide con un colpo di pistola alla nuca e butta il corpo in un dirupo a quattro chilometri dal paese. Poi chiede il riscatto al padre. Sono passati quasi 20 anni. A Donato Cefola hanno intitolato uno stadio e un premio letterario. Ma la Basilicata l’ha dimenticato. Ogni volta che c’è un incontro pubblico sulla legalità saltano fuori i nomi dei casi che hanno ferito al cuore questa regione. Tutti. Tranne quello di Donato. E a dire il vero è l’intera stagione dei sequestri ad essere stata cancellata dalla storia. In quanti ricordano il rapimento di Paul Getti Junior? E quello dell’imprenditore di Massafra Cataldo Albanese ritrovato poi a Metaponto? E quello dell’industriale di Legnano Vittorio Colombo? Hanno tutti a che fare in qualche modo con la Basilicata. Come il “rapimento” del gioielliere siciliano Claudio Fiorentino, il cui riscatto viene recuperato a Maratea nel serbatoio di un’auto guidata da un diplomatico maltese (intrigo ancora tutto da esplorare). Nulla in comune con il caso del piccolo Donato, rapito invece da balordi con l’aiuto di un commerciante in disgrazia che era anche un vicino di casa. Era coinvolta anche una “telefonista”, una donna che – stando alla ricostruzione fatta all’epoca dagli investigatori – avrebbe attirato Donato nella trappola. Uno dei sequestratori improvvisati uccide Donato, “involontariamente”, disse durante il suo interrogatorio. Poi cercò di giustificarsi dicendo che i mandanti erano criminali di Cerignola. Nei fascicoli di quell’inchiesta non c’è traccia di criminalità organizzata. C’è la prova invece della follia di chi voleva rapire Donato per chiedere un riscatto e invece l’ha ucciso. A Barile si precipitano gli inviati dei grandi quotidiani nazionali. Le cronache sono di Fulvio Bufi sul Corriere della Sera e di Pantaleone Sergi su Repubblica (uniche tracce online di quanto accadde 19 anni fa). Donato raggiunge Venosa, dove frequenta il secondo anno di ragioneria, insieme al papà (che lavora lì in banca). Lì entra in scena “l’uomo del Fiorino”. L’amico, al bar Prago, gli parla forse di una donna, una donna che da 15 giorni “insegue” per telefono Donato. Lo studente cade nella rete. Sale sul Fiorino e va incontro alla morte. Sul tragitto spunta l’uomo con passamontagna e pistola. Donato viene legato e imbavagliato. Poi viene buttato nel vano di carico. Riconosce anche l’uomo col passamontagna, tenta di liberarsi, minaccia, tanto che il rapitore ha paura – è la ricostruzione del quotidiano la Repubblica – e lo uccide con un colpo alla nuca a sangue freddo? Oppure, come raccontano i due fermati, il colpo parte accidentalmente? Sta di fatto che i due portano il cadavere in località Catavatta di Barile. Senza però demordere tentano di ottenere un riscatto. Uno dei due, nel primo pomeriggio, mette un foglietto sotto il tergicristalli della Panda del papà di Donato: “Prepara quattrocento milioni o venderemo tuo figlio ai trafficanti di organi umani”. Tre stili di scrittura, tre penne di colore diverso, verde rosso e blu. Scatta l’allarme. Il vicino di casa di Donato viene bloccato. Stretto al muro delle contestazioni ammette. Crolla anche il complice e si arriva al cadavere. Donato è stato ucciso da balordi. Il caso è chiuso. Per sempre.
Breve storia della procura di Potenza. Quella famosa per Henry John Woodcock, il controverso magistrato che per anni ne è stato il simbolo, e che secondo Renzi «non arriva mai a sentenza», scrive “Il Post” il 6 aprile 2016. Nel corso dell’ultima direzione nazionale del PD, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha fatto un commento molto duro sulla procura di Potenza, quella che sta conducendo le indagini sulle infrastrutture petrolifere della Basilicata che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. «Le indagini sul petrolio in Basilicata si fanno ogni quattro anni», ha detto Renzi: «E non vanno mai a sentenza». Proprio mentre parlava, i giudici del tribunale di Potenza erano in riunione da oltre tre ore. Poco dopo le 16 hanno annunciato la sentenza di un’inchiesta sugli appalti legati al petrolio iniziata nel 2008. Sono state condannate nove persone: ex dirigenti della società petrolifera Total, imprenditori e politici locali. Altre 18 sono state assolte. Poco dopo Renzi ha precisato che intendeva dire che le sentenze partite da Potenza non vanno mai a “sentenza definitiva”. Dopo otto anni dall’inizio delle indagini il processo è arrivato soltanto al primo grado e buona parte delle condanne saranno probabilmente prescritte. Il tribunale di Potenza, infatti, è uno dei più lenti d’Italia, ma anche uno di quelli più sotto organico. Con il 62,7 per cento di processi penali che durano più di due anni, Potenza è al 131° posto sui 133 tribunali che hanno risposto al censimento della giustizia penale realizzato nel 2014 dal ministero della Giustizia. Ma Potenza è anche uno dei tribunali con la percentuale più alta di incarichi scoperti. A novembre del 2014 mancavano a Potenza otto magistrati: il 24 per cento della pianta organica prevista: la media nazionale è al 14 per cento. Potenza è il 110° tribunale con più posti vacanti su 139. A Potenza, inoltre, parecchie indagini finiscono con l’archiviazione ancora prima di arrivare al processo: i giudici per le indagini preliminari (GIP) archiviano il 74,3 per cento delle indagini. In questa classifica, Potenza è in “buona compagnia” insieme a tribunali molto più prestigiosi: i GIP del tribunale di Roma, per esempio, archiviano più o meno la stessa percentuale di procedimenti e quelli del tribunale di Torino una percentuale addirittura superiore. La situazione di Potenza è simile a quella di molti altri piccoli tribunali del sud. Secondo Leo Amato, giornalista del Quotidiano della Basilicata che segue la cronaca giudiziaria, in Basilicata c’è un problema in più: il petrolio. «C’è un grosso divario tra le forze di cui dispone il tribunale di Potenza e la dimensione delle risorse che circolano nella regione». L’estrazione petrolifera e la presenza di grandi società internazionali portano grossi afflussi di denaro e spesso, nel clima clientelare della politica locale, si è sospettato che questi soldi fossero stati usati in maniera illecita. Le indagini su questi temi però sono complicate e i processi lo sono ancora di più: «A Potenza non ci sono le risorse per affrontare un maxi-processo come per esempio quello dell’ILVA di Taranto. È giusto chiedere che si arrivi a una sentenza in fretta, ma allora bisogna organizzarsi per tempo e far sì che a Potenza ci sia un collegio giudicante con le risorse per poter fare udienza ogni due settimane». Ma la procura di Potenza non è diventata famosa per la lunghezza dei suoi processi: la sua fama è legata a quella di Henry John Woodcock, un magistrato che, arrivato 17 anni fa, trasformò una piccola città della provincia meridionale in uno dei principali capoluoghi della cronaca giudiziaria italiana. Henry John Woodcock ha 49 anni ed è nato a Taunton, nell’Inghilterra occidentale. Figlio di un professore di inglese e di una donna italiana, è cresciuto a Napoli dove ha iniziato la sua carriera nella giustizia. Nel 1999 fu nominato al suo primo incarico: sostituto procuratore presso la procura della Repubblica del tribunale di Potenza. Quello della Basilicata è un distretto giudiziario piccolo e apparentemente poco movimentato: in tutta la regione ci sono una media di 4-5 omicidi l’anno. Con 67 mila abitanti, un’unica linea ferroviaria a binario unico, nessuna autostrada e l’aeroporto più vicino a cento chilometri di distanza, Potenza è una città isolata e sonnolenta, dove esistono ancora dinamiche che sembrano arcaiche in gran parte del resto del paese. «Qui il magistrato ha ancora un ruolo sociale importante», racconta Fabio Amendolara, collaboratore del quotidiano Libero che da 16 anni segue il tribunale della città. «Appena insediati, c’è la corsa a portarli in giro come in una processione della statua della Madonna». A Potenza, come in molti altri luoghi del sud, politica e imprenditoria locali intrecciano spesso relazioni clientelari. Dal dopoguerra fino ad anni molto recenti, la regione è stata governata dalla stessa classe dirigente, espressione di poche famiglie locali. Anche la magistratura a volte finisce con il far parte di queste reti di potere. «Spesso in queste relazioni non c’è nulla di penalmente rilevante», spiega Amendolara, anche se per due volte la procura di Catanzaro, competente per indagare sui giudici di Potenza, ha ritenuto che si fossero verificati dei reati. La prima inchiesta – “Toghe Lucane”, portata avanti da Luigi de Magistris, oggi sindaco di Napoli – si è risolta in un nulla di fatto. La seconda, “Toghe Lucane-bis”, è diventata un processo che è in corso ancora oggi. Quando arrivò a Potenza, «Woodcock era scollegato da questi sistemi: tutto quello che trovava lo iscriveva nel registro degli indagati», racconta Amendolara. Nei dieci anni che trascorse alla procura di Potenza, Woodcock indagò comandanti provinciali della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, persino un capo divisione del SISDE, il servizio segreto civile. Indagò magistrati, avvocati e politici locali. Nel 2006 il giornalista delCorriere della Sera Marco Imarisio lo descrisse così: «Uno che lavora dalle 7 del mattino alle 22, e raggiunge l’ufficio in sella alla sua Harley Davidson, pioggia o neve non importa, deciso ad applicare il suo metodo. Da una scintilla lucana, l’immane incendio. Woodcock parte da reati commessi in loco e poi allarga, allarga a tutta la Penisola». Furono proprio le inchieste di portata nazionale a renderlo un personaggio noto in tutto il paese. La più famosa è quella che i media ribattezzarono “Vallettopoli”, iniziata nel 2006 in seguito alle indagini sulla gestione di alcune slot machines: arrivò a coinvolgere decine di personaggi pubblici come Salvo Sottile, portavoce dell’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il manager televisivo Lele Mora, il fotografo Fabrizio Corona e Vittorio Emanuele di Savoia. Le accuse erano disparate: dall’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione nella gestione di casinò e slot machines, allo sfruttamento della prostituzione, fino al peculato per aver utilizzato auto pubbliche per trasportare showgirl. Buona parte dell’inchiesta, costituita da migliaia e migliaia di pagine disordinate, dove atti e intercettazioni si accumulavano alla rinfusa, finì stralciata o archiviata. Diversi filoni furono sottratti alla procura di Potenza per incompetenza territoriale. Vittorio Emanuele fu prosciolto dal tribunale di Como e assolto da quello di Roma, insieme a numerosi altri imputati. Altri, come Sottile, furono condannati. Molte sue altre inchieste seguirono un percorso simile, come le cosiddette “Vallettopoli 2″, “Vipgate” e “Somaliagate”. Le ordinanze con cui chiedeva gli arresti erano quasi sempre lunghe e disordinate. Le sue inchieste, a pochi mesi dall’inizio, arrivavano a coinvolgere decine di persone con accuse di reati disparate. A differenza di altri magistrati molto noti all’epoca, come lo stesso De Magistris, gran parte delle inchieste di Woodcock sono arrivate a processo: cioè sono state ritenute “solide” da almeno un giudice terzo, ma quasi altrettanto spesso i suoi imputati sono stati assolti o prescritti oppure le inchieste sono state spostate in altre procure per ragioni di competenza territoriale. «Errori ne faceva tanti», racconta Amendolara, «si innamorava di molte tesi, arrivava all’arresto e poi si perdeva. In alcune cose ci aveva visto giusto. Come nel caso “Tempa Rossa” di questi giorni, dove sono coinvolte persone che lui era stato il primo a indagare». Altri commentatori sono meno teneri nei suoi confronti. Per molti la sua abitudine di allargare continuamente il raggio delle indagini, invece che concentrarsi su un aspetto e cercare di arrivare a una condanna, era un segno di narcisismo e di amore per l’attenzione mediatica che gli procuravano. Sul sito Cinquantamila, il giornalista Giorgio dell’Arti ha raccolto alcune delle critiche più dure che sono state rivolte a Woodcock. Nel 2007 il giornalista Filippo Facci scrisse sul Giornale: «Le sue inchieste più note sono state una collezione di incompetenze territoriali, nomi altisonanti assolti, ministri prosciolti, valanghe di richieste d’arresto ingiustificate». Mattia Feltri, che oggi lavora alla Stampa, scrisse: «Si potrebbe dire che Woodcock ha fra le mani la stessa indagine da sempre. Insomma, ne comincia una e da questa ne scaturisce un’altra e così via». Di certo c’è che Woodcock iniziò molte più indagini di quante avrebbe mai potuto portare a compimento. Quando fu trasferito alla DDA di Napoli, nel 2009, a Potenza lasciò decine di fascicoli aperti; i magistrati rimasti a Potenza, raccontano i giornalisti che seguono la cronaca giudiziaria locale, “tremavano” all’idea di dover mettere mano alle migliaia di pagine confuse che aveva lasciato dietro di sé. «C’è un’era prima e un’era dopo Woodcock», dice Amendolara. Oggi in molti pensano che la stagione di Woodcock, con i suoi lati positivi e quelli negativi, sia terminata. Tra gli altri lo pensa il senatore Salvatore Margiotta, indagato da Woodcock nel 2008, quando il magistrato chiese alla Camera l’autorizzazione ad arrestarlo per corruzione. Il suo processo è durato otto anni e lo scorso 26 febbraio, Margiotta, oggi senatore del PD, che dichiara di essere favorevole allo sfruttamento del petrolio in Basilicata, è stato assolto per insussistenza del fatto. In un’intervista al Corriere della Sera, Margiotta ha detto: «Ho stima degli attuali magistrati della procura di Potenza e penso che dietro l’inchiesta Tempa Rossa non ci sia la volontà di alzare un polverone politico».
Corruzione in atti giudiziari, 8 indagati a Salerno. Anche Pagano, ex direttivo Anm. Perquisizione in tribunale su ordine della procura di Napoli. L'inchiesta nata da un'indagine per usura nell'agro nocerino sarnese. Dalle intercettazioni sarebbero emersi possibili raccomandazioni e favori a imprenditori amici. Il giudice coinvolto, in servizio a Potenza, sostituì il sottosegretario Ferri nel comitato direttivo del sindacato delle toghe. Consigliere Fi chiede apertura pratica al Csm, scrive Vincenzo Iurillo il 18 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". C’è un giudice di Potenza sotto indagine a Napoli per fatti commessi a Salerno. Si chiama Mario Pagano ed è il nome di punta del decreto di perquisizione eseguito stamane dalla Squadra Mobile di Napoli, diretta da Fausto Lamparelli, e da militari della Guardia di Finanza. Le forze dell’ordine sono entrate in azione al Tribunale di Salerno (nella foto), e nelle case e negli uffici di cancellieri, imprenditori e di quattro avvocati salernitani. La Procura di Napoli, sezione pubblica amministrazione – pm Celeste Carrano, procuratore aggiunto Alfonso D’Avino – competente per i reati attribuiti a magistrati in servizio a Salerno, ha indagato otto persone in tutto. Gli inquirenti ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico. Un gruppo capace di intervenire su provvedimenti del tribunale civile di Salerno e della tributaria per favorire alcuni imprenditori amici. Pagano presiede una sezione civile del Tribunale di Potenza, ma è indagato per vicende accadute nel periodo in cui era giudice a Salerno. Nei suoi confronti l’accusa è di corruzione in atti giudiziari. L’inchiesta, a quanto si apprende, è nata come stralcio di una attività d’indagine della Dda di Salerno su vicende di usura nell’agro nocerino sarnese. Dall’intercettazione del cellulare di uno degli indagati gli investigatori sarebbero poi risaliti alle parole del giudice, ascoltato dagli investigatori mentre discuteva di presunti interventi su provvedimenti giudiziari, di presunti favori, di raccomandazioni. Parole che potrebbero anche essere prive di rilievo penale: le perquisizioni sono state disposte appunto alla ricerca di riscontri di un’eventuale attività criminosa, ancora da dimostrare. La Squadra Mobile e la Finanza hanno acquisito alcuni documenti ora al vaglio del pm e stanno effettuando accertamenti bancari e patrimoniali. Mario Pagano è un giudice noto e stimato, da tempo impegnato nelle attività associazionistiche della magistratura. E’ segretario distrettuale di Magistratura Indipendente a Potenza. Per un periodo Pagano ha fatto parte del comitato direttivo centrale dell’Anm: nel giugno 2013 è subentrato come primo dei non eletti a Cosimo Ferri, quando questi venne nominato sottosegretario alla Giustizia del governo Letta. Sul caso del giudice Pagano potrebbe presto intervenire il Csm. Il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha infatti chiesto al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica in Prima Commissione per “valutare se sussistano profili di incompatibilità ambientale o funzionale sotto il profilo dell’appannamento dell’immagine di terzietà e imparzialità” per il magistrato coinvolto nell’indagine. Se il vertice di Palazzo dei marescialli darà il via libera alla richiesta la Commissione incaricata dovrà accertare se vi sono i presupposti per un trasferimento d’ufficio del giudice sotto inchiesta.
Comitato d'affari in Tribunale, nei guai il giudice Pagano. Il magistrato di Roccapiemonte, attualmente in servizio a Potenza, è indagato dalla Procura di Napoli, insieme ad avvocati, cancellieri e ad un funzionario della Provincia di Salerno. Contestati anche i reati di associazione per delinquere alla corruzione in atti giudiziari, abuso di ufficio, scrive il 18 aprile 2016 “La città di Salerno”. Un comitato di affari che operava all'interno del Palazzo di Giustizia di Salerno. Una storia di interferenze, raccomandazioni, processi pilotati e computer violati per accedere a informazioni riservate. È lo scenario investigativo disegnato dall' inchiesta che ha portato all'esecuzione di dieci perquisizioni, nei confronti, in particolare, di un giudice, nonché di avvocati, cancellieri e di un funzionario della Provincia, per una serie di reati che vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione in atti giudiziari, abuso di ufficio, traffico di influenze, millantato credito, rivelazione di segreto di ufficio e accesso abusivo in un sistema informatico. Un ruolo centrale sarebbe stato rivestito, secondo l'ipotesi accusatoria al vaglio della procura di Napoli, dal giudice Mario Pagano, 56 anni, che è stato in servizio nella sezione civile del Tribunale di Salerno prima di trasferirsi al Tribunale di Potenza. In particolare, Pagano avrebbe raccolto informazioni sulle cause che gli venivano «segnalate» da esponenti del presunto sodalizio allo scopo di pilotare i fascicoli ed assegnarli a giudici «compiacenti» o da contattare per «condizionarne la decisione». Cause soprattutto civili e controversie tributarie (Pagano ha fatto anche parte della commissione tributaria di Salerno). L'inchiesta è stata avviata dai pm Celeste Carrano e Ida Frongillo della procura di Napoli - competente ad indagare sui magistrati del distretto di Salerno - coordinati dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino. Per verificare la fondatezza di una serie di elementi acquisiti da intercettazioni telefoniche, i pm hanno incaricato la squadra mobile di Napoli di eseguire una serie di perquisizioni. Tutto nasce da una telefonata tra un avvocato, Roberto Lambiase, e un suo amico, ascoltata dagli inquirenti della procura di Nocera Inferiore. Lambiase (indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso con il magistrato) sosteneva di aver corrotto, consegnandogli un orologio Rolex, il giudice Pagano per ottenere lo spostamento di una udienza riguardante una causa di fallimento, e perché venisse respinto un ricorso della controparte. L'avvocato, nel corso della stessa conversazione, avrebbe affermato che Pagano era solito «vendere» le sentenze. Verità o millanterie? È il nodo che stanno tentando di sciogliere gli inquirenti della procura partenopea che nel frattempo hanno acquisito una serie di elementi tali da far ipotizzare l'esistenza di un «comitato di affari». Di cui farebbero parte, oltre a Pagano indicato come promotore, anche gli avvocati Augusta Villani (che è anche Got, giudice onorario a Salerno), Nicola Montone, funzionario presso l'ufficio recupero crediti del Gip del Tribunale di Salerno e cognato del giudice, Michele Livrieri, assistente giudiziario addetto alla cancelleria degli Affari civili, gli avvocati Giovanni Pagano e Gerarda Torino, il tributarista Michele Torino, e Renato Coppola, dipendente della Provincia di Salerno e considerato il «factotum» di Pagano. Indagato per concorso in rivelazione di segreto e accesso in sistema informatico anche un imprenditore, Giacomo Sessa, che avrebbe ottenuto informazioni riservate su una causa in cui era coinvolto.
Tenente Giuseppe Di Bello. A Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. Tenente della polizia provinciale di Potenza. A Potenza viene sospeso e condannato. Servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016.
FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!”. Scrive “Potenza News” il 5 aprile 2016. Il tempo ha dato ragione al Tenente di Polizia Provinciale, Giuseppe Di Bello, il primo a denunciare l’inquinamento presso l’invaso del Pertusillo (Potenza). A seguito dei risultati delle analisi sull’inquinamento delle acque, effettuate da Di Bello nel 2010 (durante il tempo libero ed a proprie spese) attestanti l’enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi, decise di denunciare tutto alla magistratura. Affidò a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, le analisi al fine di divulgarle. Alla magistratura si rivolse anche l’allora assessore regionale all’Ambiente, Vincenzo Santochirico, che denunciò il Tenente per procurato allarme. E così oltre al danno anche la beffa, Di Bello fu denunciato per violazione del segreto d’ufficio, immediatamente sospeso dall’incarico e dallo stipendio per due mesi. Da sei anni, in attesa del processo, Di Bello ha accettato di prestare servizio presso il Museo Provinciale come addetto alla sicurezza del museo. La Cassazione annulla la condanna a 2 mesi e 20 giorni (anche se con rinvio) e Di Bello torna più forte di prima e forma una squadra invincibile, per le ricerche volontarie, formata da una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale. Ecco cosa racconta di aver trovato, Di Bello e la sua squadra, sul letto dell’invaso del Pertusillo: «Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. È evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perchè sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata».
“Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio con Il Fatto Quotidiano lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «Mi chiamo Giuseppe Di Bello, sono tenente della polizia provinciale ma attualmente faccio il custode del Museo di Potenza. Da sei anni sono stato messo alla guardia dei muri, trasferito per punizione perché ho disonorato la divisa che porto. L’ho disonorata nel gennaio del 2010 quando mi accorgo che la ghiaia dell’invaso del Pertusillo si tinge di un colore opaco. Da bianca che era la ritrovo marrone. Affiora qualche pesciolino morto. L’invaso disseta la Puglia e irriga i campi della Lucania. Decido, nel mio giorno di riposo dal lavoro, di procedere con le analisi chimiche. Evito di far fare i prelievi all’Arpab, l’azienda regionale che tutela la salute, perché non ho fiducia nel suo operato. Dichiara sempre che tutto è lindo, che i parametri sono rispettati e io so che non è così. L’Eni pompa petrolio nelle proprie tasche, e lascia a noi lucani i suoi veleni. Chiedo la consulenza di un centro che sia terzo e abbia tecnologia affidabile e validata. Pago con soldi miei. Infatti le analisi confermano i miei sospetti. C’è traccia robusta di bario, c’è una enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi. E’ in gioco la salute di tutti e scelgo di non attendere, temo che quei documenti in mano alla burocrazia vadano sotterrati, perduti, nascosti. Perciò le analisi le affido a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, affinchè le divulghi subito. Tutti devono sapere, e prima possibile! Decido di denunciare i fatti alla magistratura accludendo le analisi che ho fatto insieme a quelle precedenti e ufficiali dell’Arpab molto più ottimistiche e tranquillizzanti ma comunque anch’esse costrette a rilevare delle anomalie. Alla magistratura si rivolge anche l’assessore regionale all’Ambiente che mi denuncia per procurato allarme. Il presidente della Regione, l’attuale sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, dichiara pubblicamente che serve il pugno duro. Infatti così sarà. I giudici perquisiscono l’abitazione di Bolognetti alla ricerca delle analisi, che divengono corpo di reato. Io vengo denunciato per violazione del segreto d’ufficio, sospeso immediatamente dall’incarico e dallo stipendio (il prefetto mi revocherà per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza) mentre l’invaso del Pertusillo si colora improvvisamente di rosso, con una morìa di pesci impensabile e incredibile. Al termine dei due mesi di sospensione vengo obbligato a consumare le ferie. Parte il procedimento disciplinare, mi contestano la lesione dell’immagine dell’ente pubblico e mi pongono davanti a un’alternativa: andare a fare l’addetto alla sicurezza del museo o attendere a casa la conclusione del processo. E’ un decreto di umiliazione pubblica. Ma non mi conoscono e non sanno cosa farò. Infatti accetto l’imposizione, vado al museo a osservare il nulla, ma nel tempo libero continuo a fare quel che facevo prima. Costituisco un’associazione insieme a una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale e procedo nelle verifiche volontarie. Vado col canotto sotto al costone che ospita il pozzo naturale dove l’Eni inietta le acque di scarto delle estrazioni petrolifere. In linea d’aria sono cento metri di dislivello. Facciamo le analisi dei sedimenti, la radiografia di quel che giunge sul letto dell’invaso. Troviamo l’impossibile! Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. E’ evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. Anzi, a volerla dire tutta è un colabrodo! La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?”.
Intervista di V.Pic. per il “Corriere della Sera”.
Tenente Giuseppe Di Bello, il rischio di disastro ambientale lei lo denuncia da anni. Perché?
«Nel gennaio 2010 avevo visto cambiare il colore dell'invaso del Pertusillo, sotto il bivio di Montemurro. C'era una patina anomala. Ho fatto fare le analisi. C' erano metalli pesanti, idrocarburi alogenati e clorurati cancerogeni. Come ufficiale di polizia provinciale ho sporto denuncia. Ma sei mesi dopo, l'indagine è stata archiviata. Intanto sono stato sospeso dal servizio per rivelazione di segreti d' ufficio: quelle analisi, su cui però non hanno fatto controlli».
Ha fatto altre analisi?
«Sì, a spese mie, anche quando sono tornato in servizio in un museo. Nel 2011 con un canotto a remi ho prelevato i sedimenti sui fondali dell'invaso. Ho trovato 559 mg/kg di idrocarburi, e metalli pesanti in misure elevatissime. E dopo è andata anche peggio. Sotto il pozzo di reiniezione, Costa Molina 2, c' erano alifatici clorurati cancerogeni 7.000 volte oltre i limiti. Era la prova che il pozzo perdeva. Ora è stato sequestrato. Vicino al Tecnoparco in Val Basento (partecipato al 40 per cento dalla Regione), a Pisticci, nei pozzi dei contadini c' erano sostanze cancerogene anche 1.000 volte oltre i limiti. Mi hanno denunciato ancora, ma purtroppo avevo ragione».
Di chi è la colpa?
«Il procuratore Roberti ha parlato di mafia dei colletti bianchi. Truccano i codici dei rifiuti da pericolosi a non pericolosi. E inquinano la falda, da anni. Ma sono i pozzi vuoti il vero affare perché reiniettano ad oltre 300 atmosfere veleni nelle viscere della terra. Arpab non ha mai controllato, la Asl si è allineata e la Regione ha sminuito. Il peggio può ancora arrivare».
Cioè?
«Il rischio è che, grazie allo sblocca Italia, si sblocchino altri 18 permessi. In Val d' gri con un'autorizzazione sono stati fatti 50 pozzi, già in funzione. La Lucania fornisce acqua potabile a gran parte del Sud Italia. Se va così non ce ne sarà più».
LA PROVINCIA DI POTENZA, DOPO IL SERVIZIO DELLE IENE, SI PRONUNCIA SULLA QUESTIONE "DI BELLO". A seguito del servizio sul petrolio in Basilicata e l’intervista a Giuseppe Di Bello andato in onda Domenica 17 Aprile su Italia 1 realizzato dalla trasmissione televisiva “Le Iene” arriva la risposta dalla Provincia di Potenza, scrive “Potenza News” il 19 aprile 2106. Riportiamo integralmente la precisazione del Direttore Generale dell’Ente, dopo aver ascoltato il Comandante della Polizia provinciale: “La Provincia di Potenza non ha sospeso preventivamente il ten. Giuseppe Di Bello, ma a seguito del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, notificato all’interessato il 25 maggio 2010, ha provveduto, in data 27 maggio 2010, alla “sospensione cautelare dal servizio” dello stesso, per la durata di due mesi, ai sensi dell’art 5 del CCNL 11-04-2008 comparto Regioni ed Autonomie locali. L’Amministrazione ha applicato dunque una “misura cautelare interdittiva” (artt. 289 e ss. C.p.p.), la quale è stata richiesta dalla Procura della Repubblica e concessa con Ordinanza del Tribunale di Potenza (sez.G.I.P. n.24/10), ed ha avviato, quindi, il procedimento disciplinare ai sensi delle norme di legge. Trascorsi i due mesi, durante i quali il dipendente Di Bello ha comunque percepito quanto nel caso specifico è previsto dal CCNL (un’indennità pari al 50% della retribuzione base mensile, la retribuzione individuale di anzianità, ove acquisita, e gli assegni del nucleo familiare, con esclusione di ogni compenso accessorio) ed a seguito dell’ordinanza con cui il Gip dichiarava la perdita di efficacia della predetta misura cautelare, l’amministrazione ha riammesso tempestivamente il dipendente Di Bello in servizio, in data 26 luglio 2010, ripristinandogli l’intera retribuzione mensile. A tutela della posizione economica e lavorativa del dipendente, l’azione disciplinare – che avrebbe potuto comportare la sua sospensione dal servizio, senza stipendio – è stata interrotta in attesa della sentenza definitiva, nel rispetto del principio di presunzione di innocenza. Sempre per consentire il mantenimento in servizio del lavoratore con relativo stipendio, il procedimento disciplinare è rimasto sospeso anche dopo le condanne nei primi due gradi di giudizio e lo è tutt’ora nelle more della pronuncia definitiva dell’autorità giudiziaria. La sentenza della Corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza della Corte di appello di Potenza, ma non ha assolto Di Bello, rinviando la decisione finale alla Corte di Appello di Salerno. L’Ufficio per i procedimenti disciplinari della Provincia di Potenza, pertanto, non ha ancora assunto alcun provvedimento a carico del lavoratore. L’assegnazione temporanea di Di Bello presso il Museo provinciale è avvenuta in piena condivisione con l’interessato e con la rappresentanza sindacale unitaria (Rsu), di cui all’epoca faceva parte. Si è trattato di un percorso condiviso, teso a contemperare la garanzia stipendiale e la tutela del lavoratore assoggettato a procedimento penale con le esigenze dell’amministrazione, relative alla necessità di completare la riorganizzazione dei servizi museali, compreso quello di vigilanza. L’attuale compito cui egli è assegnato non costituisce affatto un “demansionamento”, dal momento che Di Bello assolve alle mansioni previste per il suo profilo professionale quale tenente del corpo della Polizia Provinciale ed ha percepito, e tutt’ora percepisce, le indennità previste dal ruolo e dalla funzione al pari di tutti gli altri agenti e sottoufficiali del servizio”. Dunque stando a queste dichiarazioni il tenente Di Bello per indossare nuovamente la divisa dovrà attendere l’iter burocratico della giustizia.
Basilicata, il Texas italiano tra petrolio, disastro ambientale e aumento dei tumori. Traffici di rifiuti pericolosi. Sversamenti e perdite nel lago che alimenta l’acquedotto pugliese. Campioni di acqua con metalli pesanti. Lo scandalo che ha portato alle dimissioni del ministro Federica Guidi ha svelato il lato oscuro della regione da cui si estraggono 85mila barili al giorno, scrive Michele Sasso l'11 aprile 2016 su "L'Espresso". Non ci sono solo veleni, dossier e tante telefonate imbarazzanti. Dietro il caso che ha portato alle dimissioni del ministro del governo Renzi Federica Guidi si gioca una partita più importante: l’ipotesi di disastro ambientale con epicentro la Basilicata. Tra il centro olio di Viaggiano, i pozzi di Tempa Rossa e la diga del Pertusillo c'è un triangolo di appena 40 chilometri quadrati. Tutto in Val D’Agri. Nel cuore della Provincia di Potenza, dove nel 1989 si scoprì l'oro nero del più grande giacimento terrestre made in Europa. Il Texas italiano, dove si pompa greggio a ritmo di 85mila barili al giorno, grazie a 39 pozzi e una rete di 100 chilometri di condotte sotterranee per il trasporto dell’olio estratto verso la raffineria Eni di Taranto. La piccola Basilicata copre l’8 per cento del fabbisogno nazionale, ma è fanalino di coda italiano per disoccupazione e sviluppo. Dietro affari da centinaia di milioni di euro per la procura di Potenza c’è un fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti nella rete dell'acqua potabile. Da inchiesta sul potere e la capacità di scrivere e cancellare presunti favori alla compagnia petrolifera Total, è diventato un problema di salute pubblica. Ci sono 60 indagati e sei arresti per il filone parallelo del centro olio Eni di Viggiano (dove viene trasformato il greggio estratto sotto terra) con l’accusa di aver gestito illecitamente i rifiuti, smaltendo come non pericolosi rifiuti invece “pericolosi” in modo tale da avere un vantaggio economico. Inoltre viene contestato di aver taroccato i dati sull'inquinamento delle emissioni. Ora sono i carabinieri del nucleo operativo ecologico che hanno messo sotto la lente migliaia di cartelle cliniche, acquisite negli ospedali lucani per verificare la presenza di tumori sulla popolazione. Ecco come la lunga serie di reati contestati agli arrestati potrebbe aver fatto male alla salute di uomini e ambiente. I rilievi si stanno allargando in tutta la regione, con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti. Epicentro il paese di Viaggiano, quartier generale di Eni, dove per “risparmio dei costi – si legge nell'ordinanza del gip – del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro olio” con rifiuti speciali pericolosi che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento, a pochi chilometri) con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”. Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe fino al 272 per cento e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2” (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l'attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. C’è poi il capitolo aria, con emissioni che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso, per “celare le inefficienze dell'impianto, i vertici del centro olio decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta”, grazie ad una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Centinaia di intercettazioni tra i dipendenti raccontano il malaffare: “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E la preoccupazione: “Mi sono cagato sotto”. Da anni queste foto compaiono sui quotidiani locali grazie al lavoro di denuncia dei volontari e delle onlus locali, come l'organizzazione lucana ambientalista. Immagini che raccontano il livello di inquinamento intorno al lago del Pertusillo e le 23 tra sorgenti, corsi medi e piccoli che assicurano l’approvvigionamento per l’acquedotto pugliese e più di 4 milioni di persone. Nel 2010 sono iniziate a morire le carpe che vivono nell'invaso artificiale costruito negli anni sessanta per convogliare 115 milioni di metri cubi d'acqua. I pozzi di petrolio sono a meno di un chilometro e pescano a 4-5 chilometri sotto la superficie, mentre la falda è più in alto. Con la moria dei pesci sono state fatte le analisi che hanno confermato il peggio: idrocarburi e metalli pesanti con alte concentrazioni oltre i limiti di legge. Analisi eseguite grazie all’autotassazione dei residenti e affidata ad Albina Colella, docente di geologia all’Università della Basilicata. «Non ci siamo fermati e studiando i sedimenti abbiamo fatto un’altra scoperta: su dieci campioni, sei hanno rivelato la presenza di idrocarburi e tossine cancerogene con concentrazioni altissime», conferma Colella a “l’Espresso”. Da dove vengono? Il sospetto è lo smaltimento illecito dei rifiuti o acque di scarto petrolifero convogliate in un pozzo e poi fuoriuscite a causa di una perdita. «La Val d’Agri non è un deserto», sottolinea Albina Colella: «Ma un territorio ricco di acqua e agricoltura, fragile e vulnerabile all’inquinamento. L’estrazione andava fatta con parametri della Norvegia e non in stile Nigeria. Invece siamo partiti pompando petrolio senza calcolare rischi e con studi insufficienti. Abbiamo certamente 7-8 pozzi dove non ci dovrebbero stare, perchè lì sotto si raccolgono le acque piovane che alimentano la falda». Un anno fa, a gennaio, un altro campionamento. Questa volta a ridosso degli scarichi industriali del pozzo petrolifero “Tempa rossa” al centro dello scandalo. E ancora numerosi metalli pesanti in valori enormemente superiori ai limiti previsti dalla normativa comunitaria. Le analisi fanno emergere un cortocircuito: i controlli effettuati dall’Arpab (l’agenzia regionale per il controllo sull’ambiente) garantivano che fosse tutto nei limiti di legge e in linea con i livelli di sicurezza, mentre quelle rilevate dall’Università hanno riscontrato un ampio superamento dei valori minimi. Parere opposto per Eni che ha la gran parte dei pozzi della zona: «Lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro olio di Viggiano è ottimo secondo gli standard normativi vigenti», facendo riferimento ai risultati emersi da «studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale». Un anno fa a portare fino al parlamento europeo di Bruxelles le paure e i rischi di un’intera regione ci pensò l’eurodeputato del M5s Piernicola Pedicini, medico del principale ospedale oncologico locale, a Rionero in Vulture. Presentò un’interrogazione mettendo in fila tutti i rischi per le falde acquifere e un’anomala distribuzione di tumori e malattie cardiorespiratorie nell’area. Questa la risposta del commissario Ue per l’ambiente Karmenu Vella: «In seguito a vari reclami sulle questioni riferite dall’onorevole deputato, la Commissione ha avviato una procedura d’indagine e sta valutando ora le risposte fornite dalle autorità italiane. Una volta terminata questa valutazione, sarà stabilito il seguito appropriato». «Stiamo ancora aspettando una risposta ufficiale dalla Commissione», annota Pedicini: «È gravissimo questo ritardo e ci auguriamo che grazie alle inchieste aperte dalla Magistratura anche l’Unione europea acceleri le sue indagini. Una cosa è però certa: abbiamo un drammatico incremento dei tumori e di altre malattie che, in particolare negli ultimi anni, stanno colpendo la salute dei lucani. Tutti denunciavano da anni, ma soprattutto la Regione minimizzava le proteste. Ora le risposte devono arrivare». Perché nonostante i dati rassicuranti del registro dei tumori regionale, che certifica l’incidenza delle patologie tumorali sarebbero in linea con i dati nazionali, altri numeri sono preoccupanti. L’associazione “Medici per l'ambiente” e i report Istat raccontano un quadro della salute capovolto: tra il 2011 e il 2014 il tasso di mortalità è cresciuto del 2 per cento, nello stesso periodo a Corleto Perticara (meno di 3mila abitanti e a due passi dal centro Tempa Rossa) è aumentato del 23 per cento. Secondo l’Istat, fra il 2006 e il 2013 il tasso di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio è salito del 14 per cento in tutto il Paese, schizzando invece al 29 nelle due province lucane, pur avendo una produzione industriale minima. Un ultimo dato racconta una regione incontaminata, ma pericolosa: nella provincia di Potenza il tasso di ospedalizzazione per tumore maligno nei maschi (tra 0 a 14 anni) è cresciuto del 48 per cento fra il 2011 e il 2014.
L'esposto. Il magistrato Petrucci: «Io, vittima di ordinaria ingiustizia». L’ex Procuratore della Repubblica si rivolge al Csm, scrive “Taranto Buona Sera” il 22 aprile 2016. “Una storia di ordinaria ingiustizia”: così l’ex Procuratore della Repubblica di Taranto, Aldo Petrucci, ha voluto intitolare l’esposto inviato al Consiglio Superiore della Magistratura, al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Potenza e al Presidente della Corte d’Appello di Potenza. Otto pagine nelle quali sono condensati anni di indagini e processi a suo carico, un polverone giudiziario e mediatico che poi si è dissolto con l’assoluzione da ogni accusa. Resta però l’ombra di una giustizia che non ha funzionato, l’ombra di quella che lo stesso dottor Petrucci definisce «pesante e triste vicenda giudiziaria di cui sono stato vittima per la superficialità e l’insipienza professionale di alcuni magistrati del Distretto di Potenza». Il suo è un vero e proprio atto d’accusa. Ma quando e perché tutto ha avuto inizio? «Tutto ha avuto inizio - scrive il dottor Petrucci - nel 2006 quando ero Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, un ufficio impegnato a tempo pieno in indagini complesse in materia ambientale ed in materia di illecita gestione delle risorse finanziarie pubbliche, dall’Asl al Comune capoluogo». È in quel momento che accadde qualcosa di inaspettato: la Procura di Potenza avvia una indagine nei confronti del dottor Petrucci sulla base di interrogazioni parlamentari dell’onorevole Giuseppe Lezza fatte pervenire in copia per due volte a quell’Ufficio. La prima volta il procedimento viene archiviato. La seconda volta il procedimento viene assegnato al p.m. Ferdinando Esposito, «amico dell’on. Lezza» (scrive il dr. Petrucci nell’esposto) e poi finito alla ribalta delle cronache nazionali per le sue frequentazioni ad Arcore e per altre controverse vicende. «Sono stati tre anni di indagini condotte con metodi che non fanno onore né alla Magistratura italiana né all’Arma dei Carabinieri». Il dottor Petrucci parla di «testimoni intimiditi» e di «gravi violazioni di regole processuali». Nell’esposto dell’ex Procuratore sono riportate anche alcune confidenze, come quelle rese nel corso delle indagini da un carabiniere di Potenza a colleghi del Comando Provinciale di Taranto: “Sappiamo che il Procuratore sarà assolto, perché non c’è niente, ma egli deve andare a giudizio”. La storia via via si fa più pesante. Nel febbraio 2009 al dottor Petrucci viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini, ma dall’accusa di abuso di ufficio si passa a quella di corruzione in atti giudiziari. «Negli atti – racconta l’ex Procuratore di Taranto – non vi era uno straccio di prova delle accuse formulate, non un indizio, nulla. Contava solo aver determinato un ampio clamore mediatico diretto a fini extraprocessuali». Nel corso dell’udienza preliminare è il p.m. a chiederne il proscioglimento “non avendo trovato negli atti (testualmente) né un provvedimento né un comportamento che potessero sorreggere tale accusa”. Ancora più netta la sentenza del Gup, che liquida le accuse formulate a carico del dottor Petrucci come “congetture facilmente confutabili alla luce di semplici e banali constatazioni di ordine logico”. «In sintesi - spiega il dottor Petrucci - la Procura ha chiesto il mio rinvio a giudizio con grande e grave clamore mediatico, la Procura stessa ha chiesto il proscioglimento in udienza, essa non ha impugnato la sentenza che censurava radicalmente il suo operato, ma intanto quel Procuratore è stato promosso Procuratore della Repubblica di Napoli». Da qui gli interrogativi che oggi, a conclusione della sua vicenda, pone il dottor Aldo Petrucci: «Quali garanzie offre al cittadino una Magistratura siffatta? Chi paga per il danno d’immagine provocatomi ingiustamente? Chi risarcisce il costo delle risorse umane e finanziarie impegnate per i tre anni di indagini volte alla ricerca spasmodica di un fatto-reato? Perché una vicenda che doveva chiudersi con un decreto di archiviazione è stata portata fino all’udienza preliminare, pur sapendo che negli atti non vi era nulla che giustificasse le imputazioni formulate?». Tutto finito? No, perché a carico del dottor Petrucci restava l’accusa di peculato per l’uso improprio delle utenze telefoniche d’ufficio. «Una perizia disposta dal Tribunale ha accertato che il costo delle telefonate contestatemi è stato di 25 euro nell’arco dei 20 mesi esaminati, cioè poco più di un euro al mese. E per questi 25 euro è stato portato avanti un processo durato tre anni, con 15 udienze ed una perizia tecnica costata oltre mille euro». La vicenda è andata avanti fino a quando la Corte d’Appello di Potenza ha messo definitivamente la parola fine, scrivendo che la condotta contestata al dr. Petrucci “neppure astrattamente” (cioè neppure per ipotesi) poteva avere rilievo penale. Anche qui, altre domande: «Si può celebrare un processo per ben 15 udienze per un danno patrimoniale complessivo di 25 euro in 20 mesi? (pari al costo di un caffè al mese) È comparabile tale danno al costo del processo in termini economici e di sofferenza umana? È compatibile questo modo di amministrare giustizia con l’esigenza di rendere spediti i procedimenti?» «Ho fatto il Magistrato per 45 anni - conclude amaramente il dottor Petrucci - e la mia storia professionale è sempre stata assolutamente corretta, come è dimostrato dalle valutazioni altamente positive che ho sempre avuto, poi è arrivata l’aggressione morale dell’ex on.le Lezza, che si è fatto scudo dell’immunità parlamentare, sino alle scelte di qualche Ufficio giudiziario di Potenza che ha fatto scempio in mio danno delle regole poste a tutela della civiltà giuridica». Adesso l’ex Procuratore chiede che vengano assunte «le iniziative che l’ordinamento prevede per censurare le gravi ingiustizie che ho patito e per impedire che analoghi episodi di “malagiustizia” si verifichino ulteriormente».
Il giudice Giuseppe Tommasino fu accusato ingiustamente, scrive Lilly De Amicis il mercoledì 6 luglio 2011 sul Blog “Tutto il resto è noia”. Giornalista iscritta all'Ordine dal marzo 1986. Il 25 febbraio 2009 ripresa dal sito L'Occidentale, pubblicai questa notizia, da allora sono accadute molte cose di cui ne dà conto l'avv. Michele Imperio in un lungo articolo che pubblichiamo di seguito. C'è da dire che di questa vicenda se ne erano perse le tracce e grazie ad una lettera di un legale che mi invita a pubblicare quanto segue, torno su questo argomento e ognuno dei lettori ne trarrà le considerazioni che crede. Ecco il lungo articolo dello scorso 2 maggio e buona lettura. "In Puglia è in corso in questo momento un conflitto molto aspro fra partito trasversale degli onesti e sistema dalemiano di potere, cioè quel sistema che si è fatto conoscere attraverso le vicende dell’ex vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (P.D.), arrestato in carcere, dell'ex assessore alla Sanità ora senatore Alberto Tedesco (P.D.) in attesa di essere messo agli arresti domiciliari, se il Senato darà l'autorizzazione e dell’imprenditore faccendiere Giampaolo Tarantini (P.D. e U.D.C.), messo anche lui agli arresti domiciliari a vita, un sistema di intrecci fra affari-sanità-politica, che va dallo spaccio della droga al favoreggiamento della prostituzione, dalla gestione illegale degli appalti pubblici, alla gestione illegale delle nomine dei primari ospedalieri, il tutto con un ritorno economico e elettorale per alcuni esponenti politici del P.D. (corrente di D'Alema). Dico alcuni perché, per la verità, non tutto il P.D. pugliese è a favore di questo sistema di potere. Anzi ora che il sistema è emerso, una parte del partito, una volta succube, manifesta con più chiarezza la propria contrarietà. Si tratta di quella parte del Partito Democratico che guarda con simpatia e con speranza alle posizioni del sindaco di Bari Michele Emiliano. Il lettore di questo post può rendersi conto personalmente di questo conflitto leggendo la lettera che il sindaco Michele Emiliano ha scritto recentemente al segretario regionale del P.D. Sergio Blasi, a proposito del caso del consigliere regionale dello stesso P.D. Michele Mazzarano, chiamato in causa nello scandalo della Sanità pugliese da Giampaolo Tarantini e tuttavia restio a lasciare le proprie poltrone e i propri incarichi. Tra i Magistrati il partito di Emiliano registrerà adesioni? La storia che sto per raccontare dimostra come il sistema dalemiano di potere ha fatto breccia nei Magistrati pugliesi di M.D. perché esso prevede una scientifica tutela della loro eventuale compartecipazione al sistema stesso con l’innesto addirittura di un programma di protezione ogniqualvolta un altro magistrato o un avvocato o chiunque sia, attacchi le posizioni del sistema o comunque si sforzi di dare alla Giustizia un minimo di imparzialità, di serietà e di trasparenza. Premetto che il lettore meno informato deve sapere che in ogni Tribunale ci sono tre posti di comando: il Presidente del Tribunale, il Procuratore Capo della Repubblica e un po’ meno il presidente della sezione dei giudici delle indagini preliminari. Questo ultimo posto direttivo nell’anno di grazia 2005 nel Tribunale di Taranto era occupato dal Giudice Giuseppe Tommasino, un Magistrato originario della provincia (Manduria), persona molto per bene, discendente a sua volta di persone per bene, il padre uno stimato funzionario del ministero della P.I., la madre una professoressa, lui stesso un Magistrato benvoluto da tutti, apprezzato, gran lavoratore (sotto la sua guida l’Ufficio G.I.P. aveva azzerato tutto l’arretrato), estensore di sentenze in cui non si rinvengono nè assoluzioni facili nè impeti giustizialisti. Insomma un giudice giusto, che faceva processi giusti, precisazione questa che dovrebbe essere pleonastica, perché un processo non dovrebbe essere che un processo giusto. E che invece pleonastica non è, tant'è che lo stesso legislatore di Sinistra (proprio D’Alema!) si è dovuto affannare in passato per raffreddare i bollenti spiriti di alcuni Magistrati di M.D. e quindi garantire che il processo, se pure gestito da magistrati di M.D., sia comunque un processo giusto. Ora però il giudice Giuseppe Tommasino aveva un difetto: non aveva caratterizzazioni politiche. O meglio, non le aveva sul posto di lavoro dove per due volte aveva rinviato a giudizio il sindaco di Forza Italia del posto Rosanna Di Bello e anche esponenti politici di centro e di sinistra. Ma al di là e al di fuori del posto lavoro, Tommasino poteva considerarsi un moderato, era stato tanti anni prima candidato al Parlamento per il Patto Segni, una formazione moderata, suo fratello Paolo è attualmente sindaco per il PDL a Manduria, insomma si capisce che è un moderato. Il Tribunale di Taranto, come tanti uffici giudiziari, era, e forse è tuttora, avvilito dai problemi della fuga di notizie sui processi e, in particolare, dai problemi delle fughe di notizie sui mandati di cattura. Dal 1992 in poi, cioè dall’inizio dell’era giustizialista (prima se lo veniva a sapere il CSM erano dolori amari) più di qualche indagato, nell’intermezzo fra la richiesta del P.M. e la decisione del G.I.P. si vedeva arrivare questa telefonata: “Pronto? Ah! caro dottore! sono il maresciallo Tal dei Tali …………..scusi se la disturbo …sa…. ma volevo dirle che la Procura ha richiesto un mandato di cattura contro di lei ………… sa ……….per quella vicenda…………..se ne occupa il dottor Tizio o Caio …………….……….noi……se vuole….., dottore….., siamo a disposizione…………. ……………………… ………….” E dall’altra parte del filo: “ah, grazie, grazie maresciallo!………………si, si, incontriamoci!………….” Per tre volte Tommasino era venuto a conoscenza di questi fatti gravissimi, di questa fuga di notizia e per tre volte aveva sporto (ahimè;) regolare denuncia alla Procura della Repubblica, cosa che non aveva fatto di certo piacere a più di qualcuno. Perché queste denunce su queste fughe di notizie comportano varie conseguenze negative: prima di tutto il tentativo di “aggiustamento” del mandato di cattura fallisce o comunque viene disturbato. In secondo luogo la denuncia attiva un’istruttoria scomoda e imbarazzante. Perché il P.M. incaricato è costretto, per forza di cose, a sospettare di addetti ai lavori, di funzionari di polizia, di carabinieri, di militari della guardia di finanza e soprattutto di colleghi Magistrati. E quindi inevitabilmente l'indagine produce accuse, sospetti, veleni, fango su questi soggetti. Ora però – tutti pensano - per come funziona la Giustizia in Italia, che cosa può cambiare se qualche mandato di cattura viene "aggiustato"? Alla fin fine anche i Marescialli e i Magistrati devono campare! O no? ........Ma si, ma che si faccia i fatti suoi questo Tommasino! Ma che non rompa i c…………! .........Ma insomma!!!!!! Ma che cosa vuole!!!!! Tutto comunque fila liscio e senza danni per il giudice Tommasino, fino a quando, un giorno avviene che tra questi destinatari di mandati di cattura, messi preventivamente a conoscenza del provvedimento giudiziario, capita un certo Cosimo Tomaselli, un imprenditore di Fragagnano (quindi non di Manduria, come pure si è detto, che è il comune di residenza di Tommasino). Tomaselli è imparentato con un ex parlamentare del P.D., tale on.le Ugo Malagnino, uno che ha partecipato alla nota cena del ristorante "La Pignata" di Bari, una cena fatta di commensali che se un Magistrato li avesse arrestati tutti, sicuramente non avrebbe sbagliato. Tomaselli è quindi un “Dalema’s boy”, così li chiamano, ma - per carità! - non per questo (il lettore ci comprenda) aveva importanti commesse da alcuni Ospedali. Li aveva - ovviamente - per la sua professionalità. Il P.M. di Taranto A.C. ipotizza a carico di Tomaselli il solito reato di sanitopoli (vendeva, secondo l'originaria accusa, attrezzature sanitarie usate spacciandole per nuove, poi in Corte di Appello è stato assolto) e chiede al g.i.p. Michele Ancona (M.D.) l’emissione di un mandato di cattura nella forma più restrittiva, più severa e più invasiva che è il carcere. Quindi ricapitoliamo: Tommasino e Tomaselli non sono della stessa città, non sono della stessa area politica, non sono amici, nemmeno si conoscono. Eppure ad un certo punto Tommasino diviene, per la accusa rappresentata da magistrati di M.D., autore della soffiata. Le cose vanno così: Una mattina si presenta nell’ufficio del giudice Tommasino l’avvocato E.A., il difensore di Cosimo Tomaselli e chiede che lui, Magistrato presidente dei G.I.P., fissi una riunione col g.i.p. assegnatario della richiesta del mandato di cattura. Vuole che lo convinca a non emettere la misura detentiva a carico di Tomaselli, il quale è disperato e - naturalmente - innocente. Il giudice rimane basito e chiede: “ma come ha fatto Tomaselli a sapere in anticipo della richiesta di un mandato di cattura?” A questa domanda l’avvocato risponde: "la notizia gli è stata propalata da militari della Guardia di Finanza". Dunque un’altra fuga di notizie! Un altro clamoroso buco nella correttezza dell'azione giudiziaria! Tommasino vuole vederci chiaro, vuole accertarsi di come stiano realmente le cose. Lui che non è pratico di informatica e che è il Presidente dei G.I.P., quindi titolato per Legge a conoscere di tutte le richieste che pervengono all'Ufficio, chiede alla cancelliera di consultare il computer per accertarsi che ci sia effettivamente un procedimento e una richiesta di custodia cautelare a carico di Tomaselli. Dopo qualche giorno l’imprenditore Cosimo Tomaselli viene effettivamente arrestato però non più in carcere, bensì con le modalità degli arresti domiciliari. Anche questa volta la fuga di notizie – forse - ha parzialmente smorzato il progetto. Tommasino riferisce al Procuratore l’ennesima fuga di notizie di cui era venuto a conoscenza. Il Procuratore Capo della Repubblica apre un procedimento penale a carico della cancelliera del dott. Tommasino. E perchè il Procuratore Capo ha assunto questa iniziativa? Perché emerge dalle sue indagini che la cancelliera aveva effettuato gli accessi relativi al procedimento a carico di Tomaselli. Successivamente però la posizione della cancelliera viene archiviata perché Tommasino riferisce al Procuratore Capo di aver dato lui quella disposizione. Ma un altro G.I.P. pensa bene, allora, di rimettere alla valutazione della Procura della Repubblica di Potenza la posizione di Tommasino che, così, da accusatore diventa accusato! Assurdo! La vicenda assume col tempo contorni grotteschi: la pratica finisce nelle mani di un P.M. di M.D. di Potenza Cristina Correale (MD) e va soggetta allo stesso fenomeno della palla di neve che diventa valanga. Cristina Correale (M.D.) non solo continua a indagare il giudice Tommasino per la fuga di notizie, rimanendo insensibile a qualunque richiesta di approfondimento del Magistrato (il quale giunge persino ad indicare il nome e il cognome del maresciallo della G.d.F. che aveva informato Tomaselli), ma poiché alla attenzione di questo Magistrato era stata mandata anche una posizione del Procuratore Capo della Repubblica di Taranto A.P. (quello che aveva archiviato il processo a carico della cancelliera e che giustamente non aveva indagato Tommasino) pensa bene di collegare le due vicende. E quindi ecco il cervellotico teorema: Il Procuratore Capo non aveva indagato Tommasino (e perché lo avrebbe dovuto fare?) e Tommasino, a sua volta, lo avrebbe ricambiato, assolvendo il marito separato (un maresciallo di Marina) di una amica del Procuratore Capo e archiviando anche la posizione del sindaco di Martina, altro amico dello stesso Procuratore. Questo ultimo fatto però era avvenuto tre anni prima, sicchè Tommasino - secondo l'accusa - aveva poteri sovrannaturali che gli consentivano di prevedere, con tre anni di anticipo, che egli avrebbe avuto bisogno un giorno della pietà del Procuratore! Ma c’è di più! Il P.M. Cristina Correale dava per scontato che tra Tommasino e il Procuratore Capo A.P. c’erano buoni rapporti. Invece anche le pietre del palazzo sapevano che i rapporti fra i due, al di là delle necessarie interlocuzioni istituzionali, erano pessimi. Nessuno sapeva poi di questa relazione segreta del Procuratore Capo con la moglie separata di un maresciallo di Marina, per giunta imputato, perché - per ovvie ragioni che tutti possono immaginare - il Procuratore Capo la teneva gelosamente riservata. Ma che colpo di genio! Certo che occorre avere una fantasia fuori dal comune per ipotizzare accuse come queste! E quindi – ecco dove scatta il progetto di protezione - si muove una accusa infondata di corruzione giudiziaria al giudice Giuseppe Tommasino allo scopo di far allontanare per sempre dal Tribunale di Taranto questo Magistrato scomodo, non omologato, rompicoglioni, classificabile nell’area ostile del centro-destra, il quale - pensate un pò - con queste credenziali, si permetteva pure di fare denunce penali contro gli addetti del Palazzo !!!!!!!! Ma guarda tu !!!!!!!!!! Ricevuto l’avviso di garanzia e quindi messo per la prima volta a conoscenza delle accuse, Tommasino ovviamente va a verificare nel proprio computer la sentenza da lui emessa contro questo imputato a lui sconosciuto (il maresciallo di marina) e scopre che le sentenze a suo carico sono due, una effettivamente di proscioglimento, ma l’altra di condanna (!!!!) a distanza di due mesi l’una dall’altra. E quanto alla archiviazione del sindaco di Martina Franca, a parte che era di tre anni prima, si sa benissimo nell’ambiente giudiziario che, se non vi è sollecitazione della parte lesa, le centinaia di richieste di archiviazione dei P.M. che provengono ai G.I.P. si trasformano, nel 99% dei casi, in provvedimenti di archiviazione. Naturalmente i media tarantini e persino quelli nazionali, ai quali una sapiente regia comunica la notizia, impostano i loro articoli in modo completamente fuorviante e distorto gettando sul giudice Tommasino tonnellate di fango! Toghe sporche sullo Jonio!!!! titola a caratteri cubitali e a cinque colonne il quotidiano "Repubblica", l'immancabile in certe occasioni. A questo punto Tommasino pensa bene di trasformarsi da g.i.p. in detective e fa lui le vere indagini che nessuno ha voluto fare e come si sarebbero invece fatte nella Prima Repubblica. Contatta un dipendente dell’imprenditore Tomaselli e registra su un nastro la conversazione. Nel corso della conversazione il dipendente gli dice che sì, che Tomaselli effettivamente aveva saputo da militari della Guardia di Finanza di questo mandato di cattura, fa il nome e cognome del militare in questione, in un primo tempo si era preoccupato, ma poi - dopo - si era rasserenato perchè aveva trovato la strada giusta: la strada del fratello di un Magistrato, ma non un Magistrato asettico e di centro-destra come Tommasino, bensì un Magistrato di M.D. e per giunta protetto dagli alti livelli delle organizzazioni correntizie e associative della Magistratura. Pensate voi che queste prove offerte al giudice appulo-lucano Cristina Correale (M.D.) erano sufficienti per vedere almeno archiviare il caso del giudice Giuseppe Tommasino? Ma nemmeno per sogno! Anzi! Quelle ulteriori accuse erano una dimostrazione in più che Tommasino (il rompic.....) voleva infierire sugli addetti del palazzo e quindi una ragione altra per infierire ulteriormente su di lui !!!!!!!!!!!! Tommasino deve affrontare quindi l’udienza preliminare. Ma qui evidentemente - e per fortuna - l'influenza sui processi di M.D. cessa e quindi arriva finalmente la piena assoluzione. Assoluzione che vien data - attenzione! - su conforme richiesta del P.M. di udienza, un Magistrato serio, il quale sbianca in volto quando legge quel processo. Sui giornali e sui blog però non più titoli cubitali a cinque colonne ma solo due fredde righe di rettifica. Le accuse a carico del giudice Tommasino si sono dimostrate (sic!) completamente infondate, recita mestamente un blog della Rete. Ma c'è un Magistrato il quale è il vero responsabile della fuga di notizie. A lui però non è successo nulla perché lui si è dimostrato un soggetto disposto a partecipare a congiure e complotti, è iscritto alle corporazioni della Magistratura e per questo è un intoccabile, insomma è uno che potrebbe far parte, un domani, del “gioco grande”. Ricordate il "gioco grande" di Giovanni Falcone? Era quel gioco sporco, perverso e criminale che coinvolgeva alcuni uomini politici, alcuni funzionari dello Stato e soprattutto alcuni Magistrati (Francesco Di Maggio di M.D. tanto per non fare nomi, ma non solo lui). ..……..Speriamo che qualcuno non stia pensando di riattivarlo questo gioco grande….…………….il corvo è comparso di nuovo ............però non più a Palermo......ma a Bari .......contro un Magistrato che ha scoperchiato un certo sistema di potere, non più nascente ma nato e cresciuto............... Alla prossima".
«Io, magistrato ostaggio da 15 anni per aver denunciato pm e politici». La battaglia di Di Giorgio contro il sistema di potere in Puglia, scrive Cristina Bassi, Martedì 28/06/2016, su "Il Giornale". In quel di Taranto c'è una guerra che coinvolge politici, magistrati, forze dell'ordine. Nessun colpo è escluso. Dura da oltre 15 anni tra esposti anonimi, «corvi», intercettazioni più o meno lecite e registrazioni abusive, dossier avvelenati e testi pentiti. Oggi c'è un magistrato, il sostituto procuratore sospeso Matteo Di Giorgio, condannato a 15 anni in primo grado. Che sostiene il processo d'Appello e accusa: «I miei detrattori sono convinti di averla vinta, perché mi sono spinto a denunciare il pm di Potenza che mi ha perseguito e i carabinieri responsabili delle indagini. La condanna è arrivata dopo che 67 persone hanno testimoniato a mio favore, a mio sfavore solo le controparti. Un vero paradosso giudiziario rispetto al quale ho chiamato in causa la Procura di Catanzaro, competente per le indagini sull'operato dei magistrati potentini, e il ministero della Giustizia». Un passo indietro. Nel 2000 Di Giorgio mette nel mirino l'amministrazione di Castellaneta, nel Tarantino, guidata dal sindaco e allora senatore Ds Rocco Vito Loreto. L'indagine che coinvolge pezzi grossi del Comune e lo stesso primo cittadino, avrebbe danneggiato politicamente Loreto. «Per vendetta - spiega Di Giorgio - Loreto fa partire, direttamente o tramite amici, una serie di esposti contro di me». Le vicende sono diverse: tra le altre, presunti lavori di ristrutturazione non pagati nella villa della moglie del magistrato. Presunte pressioni su un consigliere comunale con la minaccia di arrestargli i familiari. E quelle sul proprietario di un villaggio turistico perché non facesse più lavorare un «sodale» di Loreto. «Preciso - dice Di Giorgio - che tutte le presunte parti lese mi hanno scagionato». In un caso John Woodcock decide di non procedere contro il collega di Taranto, ma indaga per calunnia Loreto che finisce ai domiciliari e non viene rieletto né nella sua cittadina né a Roma. In altri casi, siamo nel 2009, il pm Laura Triassi procede e dispone molte intercettazioni, «anche in base a un esposto anonimo - sottolinea Di Giorgio -, in violazione di legge». Il risultato è appunto, nel 2014, la pesante condanna al pm sospeso per concussione e corruzione. «Ho denunciato - continua il magistrato - una inaccettabile collusione tra organi inquirenti, carabinieri e testimoni dell'accusa. Dimostrata tra l'altro da gravi violazioni del segreto d'ufficio sulle indagini che mi riguardano». Nel frattempo Loreto viene condannato in primo grado per una presunta aggressione a Di Giorgio e al figlio, che era studente nel liceo di cui era preside. «Diversi testimoni - aggiunge la toga sospesa - hanno segnalato di aver ricevuto pressioni per accusarmi. Sono in possesso di registrazioni, fatte per suo conto da un coimputato, che lo dimostrano. Un teste chiave, Vito Pontassuglia, ha raccontato di aver ricevuto minacce dai carabinieri e dal pm perché dichiarasse il falso». Poi un amico di Loreto, Vito Putignano, si sarebbe ribellato al «sistema». «Mi ha contattato - spiega Di Giorgio - dicendo di aver custodito esposti anonimi contro di me scritti dall'ex senatore, di averne depositati altri scritti sempre da Loreto e da lui stesso solo firmati e di essere stato tranquillizzato sul processo perché i magistrati erano dalla loro parte. La cricca è persino riuscita a far dichiarare inattendibili un procuratore capo e un aggiunto che hanno testimoniato a mio favore».
L’altra campana.
«Il Pd mi ha scaricato nel tritacarne giustizia Non difendo più i pm», scrive Gian Marco Chiocci, Venerdì 05/04/2013, su "Il Giornale". Un comunista d'altri tempi, l'ex senatore Rocco Loreto. Da re delle preferenze bulgare in quel di Taranto a prima vittima vip del pm Henry John Woodcock. Oggi che si ritrova al centro di una vicenda giudiziaria allucinante, il preside eletto tre volte a Palazzo Madama maledice i tempi in cui parlava di un misero uno per cento di mele marce in magistratura.
«Posso tranquillamente affermare che la percentuale è molto più alta, anche se la stragrande maggioranza dei giudici è composta da persone perbene. Rispetto a quei tempi antichi, quando difendevo le toghe senza se e senza ma, dico che la politica, e soprattutto il partito dei Ds, oggi Pd, deve scrollarsi di dosso la subalternità ai pm. So di cosa parlo. Quello che certi magistrati hanno combinato sulla mia pelle ha dell'incredibile».
Quando cominciano i suoi guai?
«La mattina del 4 giugno del 2001, dopo tre legislature in Parlamento, non essendo stato rieletto vengo sbattuto in galera su richiesta dell'allora carneade pm potentino Woodcock. Ebbene sì, sono stato il suo primo arrestato eccellente, il primo di una lunghissima serie di vip indagati o trascinati nelle sue inchieste. Le manette scattano per calunnia e violenza privata nei confronti di un suo collega magistrato della procura di Taranto. E qui occorre fare un passo indietro, e andare all'allora ministro della Giustizia, Piero Fassino».
Prego.
«L'8 settembre (in tutti i sensi) del 2000 porto un dossier di 130 pagine al ministro Fassino su alcune situazioni gravissime riscontrate nella procura di Taranto, lo consegno all'allora capo della sua segreteria particolare Morri. La consegna seguiva un'esplicita richiesta a mettere per iscritto quanto avevo esposto loro a voce, e l'obiettivo era quello di inviare quanto prima gli ispettori. La notizia del dossier circola presto, e quattro giorni dopo, casualmente, il pm che avevo preso di mira nel report, arresta il mio vicesindaco, il capo dell'ufficio tecnico, il segretario comunale e un ex assessore, in un'indagine sull'amministrazione che guidavo a Castellaneta. Passarono le settimane e dal ministero non filtravano notizie, così parlai con Loris D'Ambrosio, allora consigliere giuridico del ministro, che a malincuore mi disse: Senatore, ho letto tutto. È una cosa molto grave ma col ministro abbiamo convenuto che non è il caso di mandare gli ispettori perché potrebbe sembrare un soccorso rosso. Ribattei stizzito: Non capisco ma mi adeguo. Però in quel dossier ho denunciato reati specifici.... Al che D'Ambrosio mi disse che lo avrebbe mandato al Csm, al pg della Cassazione, e a Potenza, competente a indagare sui giudici di Taranto».
A Potenza, vuol dire Woodcock?
«Esatto. Col tempo verrò a sapere che Woodcock aveva aperto ben tre procedimenti su questo pm tarantino che stando alle mie accuse, tra l'altro, non si era fatto pagare o si era fatto sottopagare, in forte ritardo, alcuni lavori nella sua villa in campagna da un imprenditore. Feci una memoria integrativa e riassuntiva alla quale allegai anche tre registrazioni audio-video dove l'imprenditore mi raccontava com'erano andate le cose, i lavori da 60 milioni non pagati, eccetera. A un certo punto Woodcock convoca contestualmente l'imprenditore e un poliziotto stretto collaboratore del pm da me accusato, che arrivano insieme a Potenza. Nell'interrogatorio l'imprenditore fa retromarcia, corregge, precisa, dice che qualche soldo l'ha preso ma poca roba perché la colpa era sua che aveva abbandonato i lavori. Woodcock allora gli mostra un video, poi gli altri due, gli dà tempo di riflettere, l'interrogatorio viene sospeso, e quando riprende, riferisce che c'era accordo nella videoregistrazione sostenendo che in un'altra stanza si mettevamo d'accordo e in quella con le telecamere recitavano. Giura che gli incontri erano stati tre (come le tre cassette allegate dal senatore), e che sempre s'era svolto quel teatrino. Non sapeva, il tapino, che di registrazioni ne avevo fatte otto, e che dall'integrale dei filmati (che avevo tagliato per non coinvolgere persone di passaggio) risultava che eravamo rimasti sempre a tu per in una sola stanza. Bene. Di fronte a una prova del genere, il processo si doveva chiudere lì. E invece sono stato rinviato a giudizio, e ho pure rinunciato alla prescrizione perché voglio giustizia piena: ma il bello deve ancora arrivare».
Che altro c'è?
«Quando scopre di esser stato registrato a sua insaputa, l'imprenditore condannato per estorsione in un'altra vicenda, mi minaccia. E così si apre un nuovo procedimento su mia querela, che finisce sempre a Woodcock che chiede e ottiene la condanna dello stesso imprenditore a cui aveva creduto quando mi ha arrestato, con la motivazione che lui, l'imprenditore, aveva accettato di essere videoregistrato con l'accordo, però, che mai avrei potuto utilizzare i video. Una follia. Non solo. Lo steso Woodcock sarà il pm che indagherà sul pm che io avevo attaccato in quel famoso dossier. Benevolmente, col senno di poi, posso dire che se avesse tenuto a bada la sua voglia di arrestare il primo vip per concentrarsi di più sul collega che oggi è sotto processo a Taranto, sarebbe stato meglio per tutti».
Il processo al suo nemico pm a che punto è?
«Se prima procedeva spedito al ritmo di una udienza a settimana, avendo sentito 26 testimoni e acquisiti 15 verbali, adesso con due giudici trasferiti ad altra sede rischia di ricominciare daccapo con un altissimo rischio di prescrizione. Ed è una vergogna perché dal processo sono emerse cose pazzesche in quella procura, intercettazioni agghiaccianti. Ma qui la stampa è narcotizzata, nessuno dà conto di quanto accade in aula».
La morale di questa storia?
«Tornassi indietro rifarei tutto, ogni battaglia da sindaco e ogni battaglia da parlamentare, a cominciare da quella sull'autonomia dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza che mi portò a scontrarmi nientemeno con Giorgio Napolitano, fermamente contrario all'idea che carabinieri e finanzieri dovessero avere un capo proveniente dal loro interno. Certa magistratura mi ha distrutto la vita, ma non mollo. La politica deve avere uno scatto d'orgoglio, e il partito a cui appartenevo, che mi ha subito mollato e a cui non sono più iscritto proprio per questa sua politica prona sui giudici, deve capire che bisogna guardare alla realtà delle cose, e lottare tutti insieme, da destra a sinistra, affinché le mele marce tornino a essere quell'un per cento di tanti anni fa».
Alla fine si è tutti vittime di questa giustizia. A sinistra, quanto tocca a loro fanno reprimenda e pentimento.
Penati: «Lo strapotere dei pm? Colpa della sinistra». Parla l'ex leader del Pd lombardo, scrive Errico Novi il 25 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Vasco Errani suo malgrado è già un simbolo: personifica il Pd che ha perso la sintonia con le Procure. L'ex governatore dell'Emilia, assolto definitivamente dopo 7 anni, non rappresenta un caso isolato. Rispetto alla sua vicenda giudiziaria, quella dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati si distingue solo perché l'assoluzione, nel caso di quest'ultimo, non è ancora definitiva. I pm dell'inchiesta sul presunto "sistema Sesto" non si sono rassegnati e hanno fatto appello.
Onorevole Penati, qualcosa è cambiato per sempre, tra il Pd e i pm?
«Non vedo cambi di passo, a dire la verità. Bisognerebbe mettere mano a una riforma complessiva del sistema giudiziario, ma non mi pare in vista. Le inchieste su alcune personalità politiche si sono risolte in assoluzioni, questo dovrebbe porre il tema del rapporto tra politica e Procure».
Tra le personalità in questione c'è anche lei.
«Non è un fatto personale, il problema è complessivo e va risolto innanzitutto con il superamento di una distorsione: quella che induce a confondere i pm con i giudici, la magistratura inquirente con la magistratura giudicante. Le indagini dei pubblici ministeri vengono prese per sentenze inappellabili: sono solo ipotesi che vanno provate nel processo».
Chi è che fa confusione?
«Tutti, anche la sinistra. Se non si è ancora trovato l'equilibrio tra la politica e le magistratura la maggiore responsabilità è della sinistra».
Spieghi perché.
«Perché non poteva essere certo Berlusconi a riformare il sistema, lui che era un super indagato e per questo il meno credibile di tutti. La condizione di Berlusconi non può però nascondere il fatto che il sistema vada riformato».
Dove si deve intervenire?
«Su tempi delle indagini e del processo, responsabilità dei magistrati, separazione delle carriere. Una riforma di questo tipo richiede una condizione precisa: deve essere chiaro che chi spera di lucrare sulle vicende giudiziarie altrui è solo un illuso. A turno tocca a tutti».
Anche ai cinquestelle?
«Anche a loro. E intanto la sinistra dovrebbe aver avuto sufficienti lezioni per aprire gli occhi. I Ds sembrava fossero i soli eredi legittimi del sistema crollato con la fine della Prima Repubblica, poi si è visto che le inchieste hanno riguardato tutto lo spettro delle forze in campo».
Lei dice: la giustizia deve avere tempi più rapidi.
«Pensi a Errani: la sua vicenda è iniziata del 2009, è finita nel 2016. La mia parte nel 2010, sono passati 6 anni e abbiamo fatto solo il primo grado».
I pm hanno impugnato la sua assoluzione?
«Certo. Nonostante la sentenza che mi ha riconosciuto innocente contenga un duro attacco al modo in cui sono state condotte le indagini. Nonostante quel giudizio severo, uno dei pm che hanno sostenuto l'accusa contro di me, Walter Macchi, è stato appena promosso dal Csm».
Procuratore della Repubblica di Bergamo.
«Tra i temi di una riforma dovrebbe esserci anche il criterio di valutazione delle performances dei giudici. Criterio che potrebbe essere più scientifico. Perché possiamo conoscere in tempo reale le statistiche sulla prestazione di un calciatore e non è possibile raccogliere con tutta calma quelle relative al lavoro dei magistrati?»
Di recente il guardasigilli Orlando ha ipotizzato una riforma del Csm che limiti le correnti: dal Csm è arrivato un parere che fa a pezzi la proposta.
«La politica è debole e c'è il dilagare incontrollato di uno strapotere giudiziario: ma io non credo che la questione si possa risolvere con l'azione di un governo risoluto: ci vuole un patto più largo che coinvolga tutte le forze politiche. Si deve consentire e favorire l'azione tempestiva dei magistrati contro la corruzione, ma la politica non deve restare prigioniera. Mettono in mezzo la Raggi per una consulenza da 5mila euro all'Asl: cos'altro ci vuole per aprire gli occhi?»
I magistrati fanno fronte comune, i partiti no.
«E con la magistratura diventano normali prassi inconcepibili: penso al fatto che per nominare un magistrato della competenza indiscutibile come Francesco Greco alla Procura di Milano, ci sia voluto un accordo tra le correnti. Ma scherziamo?»
Lei davvero esclude di tornare alla politica attiva?
«Due giorni fa, per la prima volta dopo tanto tempo, ho partecipato a un dibattito pubblico a Milano, con i radicali. Se ci saranno delle proposte le valuterò ma le lancette non si spostano indietro. Un ritorno a ruoli come quelli avuti in passato non sta nei miei progetti. E poi in questo momento sono politicamente un homeless».
Che intende?
«Il Pd mi ha espulso nel 2011, dopo che sono stato assolto nessuno si è preso il disturbo di chiamarmi e dire senti, ti andrebbe di rientrare? '. Non lo dico perché sicuramente sarei tornato a far politica ma perché una telefonata mi avrebbe fatto piacere, non posso negarlo».
Se resta fuori riconosce un potere enorme ai pm.
«Io ho subito una cura che poteva uccidere un cavallo, è già tanto che sono ancora in piedi».
“L'incredibile e strana persecuzione di due Magistrati pugliesi: Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis, scrive ancora Michele Imperio su "Ok Notizie Virgilio" il 9 luglio 2011. Nove mesi fa avevamo postato la notizia dell’arresto quasi contemporaneo di due magistrati pugliesi Giuseppe De Benedictis e Matteo Di Giorgio, entrambi classificabili come Magistrati dell’area di centro destra, tendenza beninteso manifestata al di fuori dell'esercizio delle funzioni nell'ambito delle quali i due magistrati erano assolutamente irreprensibili. Giuseppe De Benedictis aveva addirittura concesso l’arresto dell’on.le Raffaele Fitto (PDL). E dato il clamore di certa stampa avevamo lanciato l’allarme che poteva trattarsi di un odioso piano dei giudici di Magistratura Democratica, i quali stavano cominciando ad avviare una sorta di pulizia etnica oltre che di uomini politici anche di Magistrati di altra estrazione politica, utilizzando anche contro costoro (i colleghi Magistrati) lo strumento della incriminazione penale e della carcerazione preventiva. In questa perversa ottica si collocavano – secondo noi - le due quasi contemporanee carcerazioni dei magistrati pugliesi Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis arrestati a distanza di soli quattordici giorni l’uno dall’altro, un evento che non si era mai verificato in tutta la storia della Puglia. Anzi in passato il Magistrato veniva rispettato in quanto tale. I panni sporchi, se c'erano, si lavavano - come si dice - in famiglia, onde non generare disdoro per le Istituzioni. Ora invece anche i Magistrati, classificabili come vicini ad ambienti politici di centro-destra, possono essere destinatari di questa iniziativa plateale e clamorosa che è l'incriminazione penale e il mandato di cattura che - lo ricordo - non è "pane e fichi" ma è una misura particolarmente umiliante e estremamente invasiva che bisogna adottare - stando alla legge - solo in presenza di situazioni di particolare gravità. Il dott. Matteo Di Giorgio già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, insignito per meriti acquisiti sul campo dell’incarico di delegato della Procura distrettuale antimafia di Lecce presso il Tribunale di Taranto, è stato all'improvviso arrestato l’11 novembre 2010 con una serie di accuse per fatti vetusti, risalenti alcuni addirittura al 2001, alcuni dei quali già prima facie di scarsissima o nulla rilevanza penale (per esempio far mantenere aperto un bar dalla Amministrazione Comunale di Castellaneta anche se non era in regola con le licenze). Lo stesso mandato di cattura parlava di concussione ma escludeva in modo assoluto che il Dott. Matteo Di Giorgio avesse mai preteso denaro per se o per altri soggetti per queste operazioni ipotizzandosi a suo carico soltanto la volontà di perseguire "mire e utilità politiche". Infatti con riferimento alle elezioni amministrative del 2008 (e questa è la sua vera colpa) egli aveva tentato, senza riuscirci, di candidarsi presidente della Provincia di Taranto senza coordinarsi con la Massoneria e con le alte sfere della magistratura associata che, evidentemente, nei Tribunali di Potenza e Taranto godono di spazi particolari. Vedi per esempio caso Cannizzaro-Genovesi-Restivo-Claps. Ora anche i profani sanno che perchè si configuri invece il reato di concussione occorre che l’attività estorsiva del pubblico ufficiale sia finalizzata a conseguire denaro o altra utilità (ovviamente simile al denaro). Ed è molto discutibile allo stato attuale della giurisprudenza che tra queste "altre utilità" rientrino le “utilità politiche” perché allora bisognerebbe incriminare del reato di concussione almeno il 90% della classe politica di destra di centro e di sinistra. Il mandato di cattura a carico del dott. Matteo Di Giorgio già per questi motivi appariva quindi anche al profano un mandato di cattura esagerato dato che il Magistrato può disporre - per legge - la cattura di un individuo solo se è certo che il fatto determinerà una condanna a una pena detentiva che superi il limite della sospensione condizionale della pena (anni due di reclusione). Peraltro il Procuratore Capo della Repubblica di Potenza Giovanni Colangelo, insediatosi però a Potenza quando già l'indagine era stata avviata, quel mandato di cattura non lo ha voluto firmare. Evidentemente non era d'accordo. Peraltro "voci" riferiscono che a Potenza non ci vuole stare più. Vorrebbe trasferirsi a Napoli. Torno ora a parlare di questa vicenda perché proprio qualche giorno fa la Corte di Cassazione ha annullato ben due dei quattro capi di accusa mossi al dott. Matteo Di Giorgio e precisamente:
1. aver indotto la prima vittima tal Giuseppe Di Fonzo a non denunciare il suo presunto strozzino, parente del Magistrato, promettendogli il suo interessamento per l'iter di accesso al fondo antiusura;
2. aver indotto la seconda vittima tal Giovanni Coccioli a ritrattare le accuse a lui stesso mosse dal Coccioli nell'ambito di un'annosa diatriba con un senatore del posto Rocco Loreto, facendogli ottenere in cambio la gestione di un bar abusivo allo stadio di Castellaneta.
Il primo capo di accusa è stato annullato senza rinvio (cioè cancellato completamente) l'altro è stato annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Potenza per nuovo esame. Ora è raro che la Cassazione annulli i capi di accusa di un mandato di cattura senza rinvio. Se lo fa è perchè evidentemente si tratta proprio di una castroneria, nella specie confermata (ahimè;) dal Tribunale del riesame di Potenza.
Annullati questi due capi di accusa rimangono a carico del Magistrato Matteo Di Giorgio altre due imputazione:
1. aver esercitato presunte pressioni sul proprietario di un villaggio turistico "Città del Catalano" per far revocare il servizio di vigilanza a tal Vito Pentassuglia (esponente, secondo l'accusa, dello schieramento politico avversario al suo quello di Sinistra) e poi aver fatto altre pressioni sempre sul titolare di quel villaggio turistico per farsi concedere due mesi di vacanza "quasi" gratuiti in due appartamenti del residence medesimo;
2. aver costretto alle dimissioni un consigliere comunale di Sinistra tal Domenico Trovisi dietro la minaccia di far arrestare due suoi familiari.
Ora la Cassazione - come tutti sanno - non entra nel merito delle vicende processuali perchè si limita a valutare solo i profili di legittimità (ossia il rispetto della legge sostanziale e processuale da parte del Magistrato che ha emesso il provvedimento). Però appare strano che un Magistrato si esponga fino a quel punto solo per farsi "quasi" pagare (e perchè non per intero?) una vacanza in un villaggio turistico della sua stessa città. Questo può capitare a un impiegato di quart'ordine che non ha il denaro sufficiente per pagarsi la vacanza ma non a un Magistrato il quale è lautamente retribuito. Inoltre "voci" apparse anche sulla stampa (settimanale locale "Wemag";) riferiscono che gli episodi relativi alle dimissioni del consigliere comunale di Sinistra Domenico Trovisi non si sono svolte affatto come è stato raccontato nel mandato di cattura, ma si sono verificati con queste modalità: in quel periodo il Magistrato concittadino Matteo Di Giorgio si trovava ad esaminare per ragioni del suo ufficio alcune intercettazioni telefoniche dalle quali emergeva che due giovani familiari di Domenico Trovisi, persona molto in vista in città in quanto titolare di oleifici, discoteche ed altre importanti attività economiche, fossero responsabili di un grave reato. Per pietà e per senso di concittadinanza il giovane familiare non è stato arrestato dal Magistrato Matteo Di Giorgio e il Trovisi ha pensato bene - per decenza - di dimettersi spontaneamente da consigliere comunale. Però...... "voci"..... Mi chiedo: ma si può trattare un Magistrato come una pezza da piede per fatti di questo genere? Peraltro - come ho detto - tutti i capi di imputazione annullati o non annullati dalla Cassazione si riferiscono a vicende vecchie, datate nel tempo (intorno al 2001 circa) che ormai affondavano nelle polveri degli archivi della Procura della Repubblica di Potenza tanto era stato il tempo trascorso dalla loro archiviazione disposte queste archiviazioni da un valoroso Magistrato che allora era in forza alla Procura della Repubblica di Potenza, che si chiamava John Woodcock. Solo il trasferimento di questo Magistrato dalla Procura di Potenza a quella di Napoli ha consentito che quelle denunce fossero riprese e valorizzate. Per verificare queste denunce poi è stata messa in moto la macchina giudiziaria come per le grandi occasioni, riguardanti fatti gravissimi di criminalità organizzata, sono stati addirittura impiegati anche ex Carabinieri allontanati dall’Arma per ragioni disciplinari o penali e per ben due anni (pensate!) tutte le stanze del Tribunale di Taranto sono state disseminate di cimici per le intercettazioni ambientali!!!!!!!!!!! Al punto che personalmente una volta mi è capitato di essere invitato da un Magistrato a interloquire con lui nel bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, proprio per la presenza – risaputa - di queste invasive cimici. Inoltre è successo pure che molti Magistrati del Tribunale di Taranto e - praticamente quelli più valorosi - infastiditi da tante pressioni, hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso altre sedi. E’ il caso per esempio della dott.sa P.N., del dott. G.D., del dott. G.C. e di altri. Anzi addirittura il dott. G.C., benchè giovanissimo, ricopriva nel Tribunale di Taranto, sua provincia di residenza, il prestigioso ruolo di presidente del collegio penale. Ebbene egli ha preferito chiedere il trasferimento presso un altro Tribunale e autoretrocedersi a Pretore di piccoli paesi pur di sfuggire al clima giacobino e velenoso che, per via di queste intrusioni, si è creato nell'ambiente giudiziario tarantino. Mi chiedo: ma data l’inezia delle accuse e la mole delle forze messe in campo non sarà per caso che l'inchiesta contro il Magistrato Matteo Di Giorgio sia stata solo un pretesto e che invece da Potenza e forse da più in là qualcuno voleva inquisire tutti i Magistrati del Tribunale di Taranto per tentare una sorte di pulizia etnica a sfondo politico? Capisco che questa è un'ipotesi suggestiva ma l'arresto altrettanto plateale e contemporaneo del dott. Giuseppe De Benedictis di Bari a soli quattordici giorni di distanza e anche questo - come vedremo - carico di simbologia, è opera - formalmente - di un'altra Procura esterna, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. In quel periodo si vociferava di intrusioni del dott. Matteo Di Giorgio nella vicenda dei parchi eolici, un'inchiesta che partiva da Roma e precisamente dal P.M. dott. Giancarlo Capaldo, fratello di quel Pellegrino Capaldo, grande amico di Nicola Mancino, il noto e diabolico stratega del 1992. Questa inchiesta sui parchi eolici doveva fare strage di uomini politici e di Magistrati dell'area meridionale e poi invece si è rivelata un flop, un'autentica bolla di sapone. Ma ci ha fatto capire che la testa del drago di questa e di altre inchieste non sta a Taranto. E - forse - nemmeno a Potenza. Sta a Roma. Ed è - guarda caso! - la stessa testa pensante che ha gestito lo scandaloso processo a carico di Raniero Busco per la morte avvenuta venti anni fa di Simonetta Cesaroni (la compiuterista asseritamente assassinata negli Uffici di copertura del Sisde dal fidanzato impazzito Raniero Busco). .......Bha.......a pensar male - dicono - si fa peccato. Però qualche volta si coglie il giusto!............”
Altrettanto non si può dire della Procura di Taranto che ha visto un suo magistrato Matteo Di Giorgio arrestato a seguito di un’inchiesta coordinata dal pm di Potenza, Laura Triassi, e condannato in 1° grado dal Tribunale di Potenza a 15 anni per concussione e corruzione in atti giudiziari. Ma non è tutto. Come pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua del magistrato dai pubblici uffici, motivo per cui è stato attualmente sospeso dalle funzioni dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Sentenza processo al pm Di Giorgio, i fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino, scrive “Il Corriere del Giorno" il 28 ottobre 2015. La sentenza “integrale” del processo che ha condannato il pm Matteo Di Giorgio e per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti di Argentino e Petrucci (ex procuratore capo) per il reato di falsa testimonianza. Dalle motivazioni della sentenza del processo di primo grado a carico dell’ex pm Matteo Di Giorgio escono con le ossa rotte insieme al principale imputato (condannato a 15 anni di reclusione) anche le istituzioni tarantine, i massimi esponenti del passato e attuali della Procura di Taranto, nella fattispecie l’ex procuratore capo Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino, rappresentanti delle Forze dell’ordine, agenti della Digos, il vicequestore vicario in servizio fino a qualche anno fa, Michelangelo Giusti, un sostituto commissario della sezione di pg della Polizia di Stato della Procura e numerosi Carabinieri in servizio nelle caserme di Castellaneta e Ginosa. I due magistrati, poliziotti e militari dell’Arma dei Carabinieri, sono fra i 21 testimoni esaminati in dibattimento per i quali, con l’accusa di falsa testimonianza, il collegio del Tribunale di Potenza ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura lucana. Nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, principio sacrosanto sancito dalla Costituzione, ma quello delineato nelle 665 pagine delle motivazioni è uno scenario inquietante. Dal processo basato su intercettazioni e numerose testimonianze emerge quello che viene battezzato “sistema Di Giorgio”, descritto come “una struttura a piani sovrapposti, le cui fondamenta erano costituite dall’esercizio o dallo sviamento delle sue funzioni giudiziarie o della sua qualità”. Un sistema, stando alla sentenza, che faceva leva sulla “connivenza di altri funzionari pubblici che operavano nella stessa struttura o diversamente abusando, a proprio profitto, delle ‘maglie larghe’ di una organizzazione dell’ufficio che prevedeva pochi controlli e lasciava ampi margini di discrezionalità nella assegnazione e nella gestione dei procedimenti”. (vedi Allegato 1 – pag. 15) I fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino sono emersi dalle testimonianze di due carabinieri. Il maresciallo Leonardo D’Artizio, all’epoca dei fatti in servizio alla compagnia di Castellaneta, ha riferito di un incontro tenuto di pomeriggio in Procura a Taranto con Argentino, sostituto procuratore, da lui e dal capitano Gabriele Stifanelli, comandante della compagnia (attualmente tenente colonnello). Argomento: presunti illeciti al comune di Castellaneta e pressioni di Di Giorgio sul consigliere comunale Domenico Trovisi per far cadere l’Amministrazione guidata dal sindaco e senatore Rocco Loreto. Tali circostanze gli erano state riferite da un assessore comunale, Pontassuglia, il quale, però, non aveva voluto mettere nero su bianco. Le sue dichiarazioni, comunque, erano state registrate dal maresciallo. D’Artizio ha raccontato che Stifanelli prese appuntamento con Argentino ma, quando spiegarono il motivo della loro presenza in Procura, il magistrato li condusse dal procuratore capo Aldo Petrucci. Quest’ultimo disse loro che non si poteva iniziare un’indagine così delicata con quegli elementi. La vicenda finì lì, “perché non c’è mai stata la possibilità di iniziare un’indagine”. Sarebbe stata insabbiata sul nascere, stando alle dichiarazioni rese non solo da D’Artizio. Il racconto trova conferma in quanto riferito dal comandante Stifanelli. Quest’ultimo, l’anno successivo, il 2004, in un altro contesto, l’indagine sul suicidio di un carabiniere in servizio a Castellaneta, riferì al pm Vincenzo Petrocelli dell’incontro avvenuto nel 2003 e di una relazione acquisita dallo stesso Argentino. “Era fine estate, ricordo. E poi non se ne fece niente”. Sono state le parole dell’ufficiale dell’Arma, uno dei migliori in fatto di produttività e di contrasto al crimine in provincia di Taranto da diversi anni a questa parte. Una deposizione definita “genuina” dal collegio in quanto il teste è estraneo al contesto del processo Di Giorgio e, al tempo stesso, “in stridente contrasto” con quelle di Argentino e Petrucci i quali, malgrado l’avvertimento del presidente del collegio su possibili responsabilità penali che potevano emergere dalle loro dichiarazioni, hanno negato di aver ricevuto il capitano Stifanelli e di aver acquisito la relazione. “Può ipotizzarsi un comune interesse a coprire, forse, la loro responsabilità, per avere omesso di formalizzare e inoltrare la denuncia di D’Artizio e Stifanelli. Verosimilmente perché essa coinvolgeva pesantemente il loro collega e amico Di Giorgio”. Altrimenti, sono sempre le motivazioni della sentenza, non si spiega la ragione per la quale, dopo tre anni, nel 2006, dopo aver appreso delle dichiarazioni rese da Stifanelli, Petrucci ha chiesto una relazione ad Argentino che l’ha fornita. “I dottori Petrucci e Argentino, a parere del collegio, hanno così tentato di creare una copertura reciproca, formalizzando a “futura memoria” le rispettive posizioni in un atto scritto che non riportava però fedelmente i fatti accaduti”. Un rimedio peggiore del male, stando alle conclusioni dei giudici. Durante la testimonianza, Argentino ha dichiarato di aver incontrato due marescialli dei quali non ricordava il nome ma non il capitano Stifanelli e ha sostenuto che non gli fu fatto il nome della fonte, non gli fu riferito del possibile coinvolgimento di Di Giorgio e non gli fu consegnata alcuna relazione. Anche sul contenuto dell’incontro la sua deposizione stride con quella dei testi ritenuti attendibili, D’Artizio e Stifanelli, è scritto nella sentenza, “non è credibile”. La relazione di servizio dei Carabinieri, si legge nella sentenza, avrebbe dovuto essere trasmessa a Potenza dal procuratore Petrucci ma ciò non avvenne mai. Anzi, il capitano Stifanelli rischiò di essere perseguito sotto il profilo disciplinare per una nota di censura inviata dalla Procura al comando provinciale. Riuscì ad evitare provvedimenti soltanto perché non più in servizio in Puglia. Quei fatti sono datati e le presunte responsabilità dei magistrati non sono più perseguibili per via della prescrizione. Quella stessa prescrizione prevista dal Codice, ed osteggiata dalla Magistratura. Nel frattempo, il processo a carico di Di Giorgio ed altri imputati è approdato in appello.
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
…DI REGGIO CALABRIA. Operazione Mammasantissima: 'ndrangheta, massoneria e politica nel mirino. Ecco i segreti dell'indagine antimafia che scuote i salotti buoni di Reggio Calabria. E mette a nudo i rapporti tra criminalità e Stato, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su “L’Espresso”. La tempesta sta per arrivare. C’è chi conta i giorni: fine settembre, ottobre al massimo. C’è chi per la paura dà i numeri: centodieci candidati al carcere. Un’enormità per una città come Reggio Calabria. Significa uno ogni mille abitanti circa. Se poi non saranno centodieci, saranno pochi in meno e farà poca differenza. Zona altamente sismica, Reggio. Quasi mezzo secolo di edilizia politica arditissima, realizzata con i materiali in teoria antagonistici di ’ndrangheta, massoneria e Stato, rischia di crollare sui grandi architetti che l’hanno ideata. È un oggetto con molti nomi che si può chiamare Santa o Cosa Unita ma fino a poco tempo fa è stato Cosa Ignota. L’elenco dei vip è già piuttosto robusto. Mammasantissima e le altre inchieste della direzione distrettuale antimafia reggina hanno già inguaiato parlamentari, ministri, politici: l’ex deputato Amedeo Matacena, latitante da quasi tre anni, il senatore Antonio Caridi, che nel 2010 andava in visita a casa del boss Giuseppe Pelle ed è stato arrestato il 4 agosto scorso, l’ex ministro Claudio Scajola a processo ma ancora invitato vip alla festa della polizia dello scorso 26 maggio, Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio ed ex governatore calabrese. Fondatore del Ncd con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, Scopelliti è stato condannato in primo grado a sei anni per le malversazioni delle finanze municipali. È ancora sotto scorta in quanto minacciato dalla ’ndrangheta (dal 2004) e dalle Brigate Rosse (dal 2012). Nelle carte figurano anche Angela Napoli, già membro della commissione antimafia, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio che, secondo il braccio destro di Scopelliti arrestato, Alberto Sarra, era il suo consigliere insieme al sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino. E poi ci sono gli amici dei bei tempi della destra, Gianni Alemanno e Maurizio Gasparri. La Reggio bene, la Reggio che conta non solo a Reggio è investita da un’onda che, per alcuni, è tardiva e per altri meglio tardiva che sospesa in eterno. Si teme che gli effetti collaterali colpiscano anche chi non è colluso, ma semplice vittima dell’attitudine reggina al “me la vedo io”, quando qualcuno offre qualcosa, senza chiedere nulla in cambio o non subito. Giuseppe De Stefano, “Crimine” del clan di Archi oggi al 41 bis, l’ha battezzata brillantemente “la banca dei favori”. È un istituto di credito che ha prosperato oltre ogni speranza, in simbiosi con le strutture istituzionali, trasformandosi in apparato statale fin dagli anni in cui la Cosa Nostra di Totò Riina dichiarava guerra alla Repubblica. Il procuratore Federico Cafiero de Raho e il suo sostituto Giuseppe Lombardo hanno impresso una svolta. Adelante con juicio, per dirla con il Manzoni. Per dirla con Totò, chi sa dove vogliono arrivare. «La procura mette in ginocchio la città», risponde Massimo Canale, ex Comunisti Italiani e poi candidato sindaco per il Pd sconfitto nel 2010 dal centrodestra di Demetrio Arena, lo scopellitiano che guiderà Reggio allo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Oggi Canale è tornato al suo mestiere di avvocato e difende Marcello Cammera, uno dei funzionari più influenti e chiacchierati del Comune di Reggio, alla guida del settore lavori pubblici. Si dichiara garantista a oltranza ma si chiede dov’era lo Stato quando Caridi, consigliere comunale con la prima giunta del sindaco Scopelliti, veniva eletto in Senato a rappresentare, secondo l’accusa che lo ha portato dietro le sbarre, un’organizzazione criminale che non si può più chiamare ’ndrangheta e forse neppure criminale vista la presenza di magistrati, imprenditori, avvocati patrocinanti in Cassazione e commercialisti con studio in centro a Milano. Un’organizzazione che controlla sistemi operativi di rilievo internazionale come il porto di Gioia Tauro, dove sono attivi Cia, Mossad e MI6, e ha accesso ai più evoluti strumenti finanziari del globo, dalle grandi banche svizzere a fondi come il malesiano 1MDB, una vasca da miliardi messa sotto sequestro negli Stati Uniti. Il fondo asiatico è uno dei fronti di indagine in fase di sviluppo, come quello che riguarda il banchiere Robert K. Sursock, numero uno di Gazprombank a Beirut. Un investigatore che da anni lavora sul cono d’ombra della città dello Stretto dice: «Qualcuno si è chiesto come mai il Credito Svizzero, che sponsorizza solo le nazionali elvetiche di calcio e il tennista Roger Federer, doveva comparire per due anni sulle magliette della Reggina in serie A tra l’altro con soldi mandati attraverso la branch di Hong Kong?». Quasi fra le righe di Mammasantissima torna un nome di grande peso a Lugano, quello di Vittorio Peer, ex proprietario dell’isola di Budelli, amministratore della Ciga e mediatore di opere d’arte, citato dai pentiti Nino Fiume (clan De Stefano) e dal colletto bianco massone Michele Amandini, oggi collaboratore di giustizia dopo che, scrivono i magistrati, «aveva svolto, per conto della ’ndrangheta, il compito di riciclare, attraverso canali finanziari svizzeri, i proventi dei sequestri di persona a scopo di estorsione». Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la maggiore obbedienza massonica italiana, sta spiegando la sua uscita dal Goi proprio con l’infiltrazione della ’ndrangheta nelle logge (28 su 32 secondo l’allora vice del Goi). Di Bernardo ha anche detto di avere messo al corrente della situazione il capo supremo della massoneria inglese, il principe Edward duca di Kent, che per questo motivo non ha voluto riconoscere il Goi. La nuova interpretazione del rapporto fra ’ndrangheta e massoneria è che sia stata proprio la seconda a infiltrare la prima dopo una sorta di “reverse merger” operato dalla componente gelliana fin dai primi anni Settanta. Con la nascita della Santa, la ’ndrangheta è rimasta una cosa per “quattro storti”, i quattro stupidi di cui parla Pantaleone “Luni” Mancuso del clan di Limbadi. Sono i manovali del crimine che i capi sacrificano in nome delle relazioni diplomatiche con il potere ufficiale. «Non ho mai conosciuto un grande boss che non fosse il confidente di polizia, carabinieri, finanza o servizi», dice Enzo Macrì, procuratore capo ad Ancona, ex numero due della Dna e uno dei magistrati di Olimpia, il primo processo su ’ndrangheta e politica. «Soprattutto gli apparati di intelligence controllano Reggio fin dagli anni Settanta». “Mammasantissima” ha due assi nella manica. Uno sono le dichiarazioni di Alberto Sarra, ex consigliere regionale, amico d’infanzia e di basket dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti. I verbali di Sarra sono definiti “dirompenti” da chi sta seguendo l’inchiesta. Ma c’è un secondo personaggio capace di portare l’indagine a livelli altissimi. È Cosimo Virgiglio, curiosa figura di imprenditore implicato in un processo (“Maestro”) con potenzialità enormi poi rimpicciolito a un traffico di merci contraffatte sbarcate al porto di Gioia Tauro. Lì erano emerse le relazioni di Virgiglio con il clan Molè, da una parte, e con un contesto eterogeneo rappresentato dal piduista Giorgio Hugo Balestrieri, autore di un memoriale su ’ndrangheta e politica finora rimasto lettera morta, e da esponenti del clan Casamonica. Attivo nell’immobiliare e proprietario della stazione dei carabinieri di Rosarno, Virgiglio sta descrivendo riti e affari di un’organizzazione che non può essere definita semplicemente criminale perché include gli uomini dello Stato e diventa essa stessa apparato dello Stato. Nell’ordinanza Mammasantissima i verbali di Virgiglio sono in larga parte coperti da omissis perché vengono integrati in corso d’opera con i riscontri sull’enorme deposito di documenti e fotografie trovato a Villa Vecchia, l’albergo di Monte Porzio Catone al quale erano interessati gli uomini del clan Molè. L’ordinanza Mammasantissima non è solo, come la definisce il sindaco Giuseppe Falcomatà, «la madre di tutte le inchieste». Raccoglie il lavoro fatto in vent’anni, dai processi Olimpia e Meta a Crimine-Infinito. Chi ha interesse a smontare la madre di tutte le inchieste ripete una cantilena già sentita: possibile che Paolo Romeo, o il senatore Antonio Caridi o uno qualunque degli altri imputati in arrivo, siano il capo dei capi? Ma è un falso problema. Si chiami Santa o Cosa Nuova o Stato, il potere nato nel cono d’ombra di una città del sud di 200 mila abitanti e cresciuto fino a essere l’interlocutore delle potenze statali internazionali, oltre che potenza economica globale in sé, è un’oligarchia. L’oligarchia, per definizione, non ammette monarchi. Un magistrato che ha vissuto la lotta alla ’ndrangheta fin dagli anni Novanta si mostra più critico e avverte che bisogna stare attenti a distinguere, all’interno del reale, tra fossili e esseri viventi. Ma da questo punto di osservazione, uno dei “Mammasantissima” arrestati dovrebbe essere un fossile. Invece è piuttosto un mediatore politico dotato di eccezionale longevità. Paolo Romeo, 69 anni, inizia la carriera quasi mezzo secolo fa, quando da militante di Avanguardia nazionale porta le bombe a mano dentro l’università di Roma durante gli scontri studenteschi del 1968. Nello stesso anno, il fratello Vincenzo uccide per futili motivi - una lite per un ballo alla Festa della Madonna della Consolazione patrona di Reggio - il camerata Benedetto Dominici, a sua volta fratello di Carmine che diventerà uno dei principali collaboratori di giustizia sulle vicende al confine fra ’ndrangheta ed eversione neofascista. Iscritto al Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, e fermato per partecipazione a manifestazione sediziosa durante i Moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, Romeo prende presto la strada giusta al bivio dei rivoluzionari neri. Con la sveltezza ideologica prescritta dal trasversalismo santista, diventa deputato del partito socialdemocratico. Non dimentica di aiutare i camerati in difficoltà, come i fuggitivi Stefano Delle Chiaie e Franco Freda, ma mette a disposizione la sua influenza anche verso i compagni con i quali si è preso a sprangate. Per usare la terminologia bolscevica, diventa il commissario politico del clan De Stefano mentre il collega avvocato Giorgio De Stefano, anch’egli patrocinante in Cassazione, determina le strategie affaristico-militari della famiglia del quartiere Archi. «Per loro la condanna come concorrenti esterni in associazione mafiosa è stata meglio di un’assoluzione», ha detto il pm Lombardo. Il terzo dei concorrenti esterni è Amedeo Matacena junior, figlio di uno dei finanziatori dei Moti per Reggio capoluogo del 1970, vera data di nozze fra massoneria, servizi segreti e quella che allora era nota come mafia calabrese, perché non aveva nemmeno un nome proprio. Dopo cinquant’anni dai suoi esordi, Paolo Romeo parlava con tutti, dava ordini a tutti. A dispetto delle sue condanne, suggeriva al presidente di Confindustria Reggio, Andrea Cuzzocrea, editore del “Garantista”, l’assunzione della giornalista Teresa Munari, ritenuta utile in quanto amica del componente dell’Antimafia Angela Napoli. Pochi giorni prima di essere di nuovo arrestato, Romeo era nelle sale del Comune, a partecipare a incontri sulla città metropolitana come membro dell’associazione Forum Reggio Nord 2020, creando imbarazzi a un sindaco eletto contro il blocco di potere santista. Del resto, Romeo considerava la città metropolitana una sua creatura. Lo ha rivendicato lui stesso davanti al tribunale del Riesame: se non era per lui, Reggio non entrava nella shortlist. Alla faccia, si può aggiungere, di città più grandi e più ricche, come Brescia o Verona. In fondo, è la vecchia storia della mafia che dà lavoro. Il rischio è che i sequestri giudiziari e la chiusura di lidi, negozi, bar, siano il colpo di grazia a un’economia fragile. Falcomatà la cui candidatura è stata imposta a un Pd a rischio di infiltrazioni dal reggino più potente del momento, il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti, sta formulando un piano sul modello Expo per consentire alle imprese impegnate in lavori pubblici urgenti ma colpite da interdittive antimafia di completare le commesse sotto controllo. «Non deve passare il messaggio che con la ’ndrangheta si lavora e con lo Stato no», dice il sindaco che invita la città a reagire nei suoi corpi intermedi, senza affidarsi alle sole inchieste di polizia. Lui non lo può dire ma il marcio è lì, nelle associazioni gestite dai professionisti dell’antimafia e della mafia, fra gli imprenditori, negli ordini professionali che mantengono nell’albo gli avvocati Romeo e De Stefano, che propongono come probi viri legali coinvolti in inchieste di ’ndrangheta, che conservano l’iscrizione al dottore commercialista Pasquale “Lino” Guaglianone, ex tesoriere dei Nar di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Ma la reazione c’è. C’è sempre stata, a smentire la leggenda razzista sull’incapacità genetica dei calabresi a ribellarsi. Continua a esserci. Dopo il cuoco Filippo Cogliandro, il commerciante di prodotti sanitari Tiberio Bentivoglio, il costruttore Gaetano Saffioti, il gestore di agriturismo Cristofaro Tedioso, emigrato di ritorno dal Canada, c’è un fioraio che si chiama Vincenzo Romeo, nessuna parentela con Paolo. Il fioraio aveva un chiosco al centro commerciale Perla dello Stretto a Villa San Giovanni. Per non avere firmato l’accordo con il consorzio il cui dominus era l’avvocato Paolo Romeo, nella notte del 3 giugno 2015 il chiosco è stato bruciato. Un servizio sul network la C ha trasmesso le telefonate dopo il rogo fra il commerciante e il suo finanziatore di Unicredit. «Senti, vedi che glielo puoi segnalare alla banca. Io domani mattina sono là che ricostruisco», dice Romeo cercando con scarso successo di non piangere. «A me se mi ammazzano... La mia famiglia campa sempre là. Campa là perché non so dove andare. A 50 anni non so dove andare. Non so rubare. Mi possono ammazzare. Sono sempre là». Il funzionario di Unicredit riferisce ai superiori di Milano, che in conference call reagiscono sghignazzando. Alla fine, uno dei manager replica, finalmente preoccupato: «E adesso che cacchio gli vendiamo? Il suolo?» Ma il titolare del chiosco è stato di parola e ha tenuto duro. La Perla dello Stretto, il centro commerciale controllato dall’avvocato Romeo, è stata riaperta dopo il sequestro giudiziario disposto nell’inchiesta Fata Morgana. Se passate da Villa San Giovanni e vi servono fiori, sapete dove andare.
Massoneria, mafia, politica e servizi: ecco la “nuova” ‘ndrangheta. “In Calabria 28 logge su 32 controllate da clan”, è scontro. "Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria", spiega il pentito Lo Giudice ai pm che indagano sulla cupola degli "invisibili". Il Gran Maestro Bisi attacca sui verbali del suo predecessore Di Bernardo: "Avrebbe avuto gli strumenti per intervenire", scrive Lucio Musolino il 18 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria”. È il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice detto il ‘Nano’, assieme al pentito Cosimo Virgilio, a dare al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo i riscontri sui cosiddetti “invisibili” che tirano le fila a Reggio Calabria. Le carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, nell’ambito della quale è stato chiesto al Parlamento l’arresto per associazione mafiosa anche del senatore Caridi, rischiano così di riscrivere la storia, non solo politica, di una città dove sono ancora troppe le domande che non hanno avuto una risposta. Punti interrogativi che possono essere svelati solo dopo aver letto tra le pieghe del rapporto massoneria -‘ndrangheta – politica - servizi segreti deviati. A partire dai tre panetti di tritolo piazzati nell’ottobre del 2004 in un bagno di Palazzo San Giorgio e trovati grazie a tre informative firmate dal numero due del Sisde Marco Mancini. Una bomba, collegata a un telefonino, che non poteva esplodere perché non aveva l’innesco. Le barbe finte del Sismi avvertirono la squadra mobile di allora che era stata la ‘ndrangheta a piazzare l’ordigno e che questo era indirizzato al sindaco Giuseppe Scopelliti, messo sotto scorta ancora prima del rinvenimento dei panetti da parte degli uomini del questore Vincenzo Speranza. A distanza di 12 anni, nessuno era riuscito a scoprire quale famiglia mafiosa aveva gestito l’operazione ma solo che il tritolo era quello della “Laura C”, la nave affondata a largo della costa jonica con tonnellate di esplosivo nella stiva diventata il supermarket della ‘ndrangheta. Solo pochi giorni fa, il procuratore De Raho ha spiegato che la collocazione di quell’esplosivo sarebbe stato un avvertimento del gruppo Romeo-De Stefano per ottenere un duplice effetto: da una parte condizionare Scopelliti e dall’altro dare di lui l’immagine di un amministratore bersaglio della ‘ndrangheta, favorendone l’ascesa politica. Una messa in scena, quindi, organizzata nei minimi particolari dalle stesse persone in grado di lasciare fuori l’ala militare delle cosche, fare arrivare il messaggio al vice di Pollari e, allo stesso tempo, creare le condizioni affinché di quel tritolo non si sapesse più nulla. Alla luce anche di questo, è più comprensibile quanto il pentito Lo Giudice spiega al pm Lombardo il 21 giugno scorso: “In questa nuova organizzazione, la parte identificabile con la vecchia ‘ndrangheta è incaricata di gestire i rituali e di svolgere una funzione di parafulmine rispetto alla componente più importante e riservata, che attraverso i rapporti con ulteriori apparati massonici gestisce un enorme potere anche in campo politico ed economico”. Nino il “Nano” riferisce ai magistrati quello che in cella gli ha raccontato il collaboratore Cosimo Virgilio, profondo conoscitore dei grembiulini calabresi che aveva svelato alla Dda come le cosche della Piana di Gioia Tauro avevano imposto la mazzetta del 3% alle imprese che hanno ammodernato la Salerno-Reggio Calabria. “(Virgilio, ndr) mi confidò – dice Lo Giudice – che faceva parte di una società segreta chiamata massoneria e che era costituita da tre tronconi: una legalizzata (di cui facevano parte professionisti di alto livello come giudici, servizi segreti deviati e uomini dello Stato), la seconda da politici, avvocati e commercialisti, e la terza da criminali con poteri decisionali e uomini invisibili che rappresentavano il tribunale supremo che giudicavano la vita e la morte di ogni affiliato, tutti uniti in unica potenza incontrastata”. È ancora più chiaro lo stesso Virgilio che al pm Lombardo illustra come “materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale”. Nel gergo massonico lo chiamano la “breccia di Porta Pia”. In realtà è una sorta di camera di compensazione a una sola entrata, un “varco” tra il mondo della ‘ndrangheta e quello dei grembiulini costituito da una “nuova figura criminale che è identificata con la Santa”. “È importante – continua Virgilio – precisare che, attraverso quel “varco” costituito dai santisti (soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito. Devo precisare ancora che il ruolo di santista all’interno della ‘ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria: è necessario, invece, perché questo contatto avvenga, che si individuino ulteriori soggetti “cerniera”, che noi definivamo soggetti in giacca, cravatta e laurea, che fossero in grado di curare queste relazioni senza che fossero direttamente individuabili”. Mafiosi e massoni insieme quindi. In numerose inchieste ci sono tracce del fascino per la squadra e il compasso nutrito dai boss. Con l’operazione “Mamma Santissima”, però, scopriamo che è avvenuto soprattutto il contrario: sono i massoni che aprono quel “varco” dove i loro interessi si mescolano con quelli della ‘ndrangheta. “Il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘ndrangheta, – è sempre il pentito Virgilio a parlarne con il pm Lombardo – aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria”. Nelle carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, il racconto dei pentiti si incastra alla perfezione con quello dei massoni. A parlare ai magistrati è il professore Giuliano Di Bernardo, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, “non un quisque del populo” chiarisce il gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Interrogato nel marzo del 2014, infatti, Di Bernardo “ha illustrato quella che lui stesso aveva percepito essere una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”. “Entrato in massoneria nel 1961, – sono le sue parole – nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal Goi (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d’Italia, nel 2002 … in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d’Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il Goi disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della massoneria inglese che è la vera massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel Goi, nel corso di una riunione della Giunta (una sorta di cda del Goi in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetta situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avuti dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. La rievocazione dei verbali di Di Bernardo provoca la dura reazione di Stefano Bisi, Gran maestro dl Grande Oriente d’Italia. “Il Grande Oriente d’Italia, pur non avendo nulla a che fare in termini di ruolo, di logge e dei suoi iscritti” con l’inchiesta, sostiene Bisi, “è stato poi strumentalmente e forzatamente evocato in tale contesto dagli organi d’informazione”. Secondo il Gran Maestro, “tirare in ballo un morto, che non può minimamente contraddire o puntualizzare la versione dei fatti attribuitagli, è sin troppo facile e da furbi”. Poi l’attacco a Di Bernardo, che “avrebbe avuto tutti gli strumenti massonici a sua disposizione e sarebbe dovuto prontamente intervenire per sciogliere le Logge in presunto odore d’illegalità di cui ha parlato nel 2014, o denunciarne i fatti alle autorità competenti. Il non averlo fatto allora sarebbe ancora oggi un atto estremamente grave e incomprensibile”. Dal racconto di Di Bernardo emerge come massoneria, ‘ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. In sostanza l’oggetto dell’inchiesta “Sistemi criminali” che l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato non riuscì a portare avanti. Un’indagine in cui era stato coinvolto Paolo Romeo, uno dei presunti componenti della cupola degli “invisibili” assieme al senatore di Gal Antonio Caridi e all’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra. “Seppi dai miei referenti calabresi e non solo – mette a verbale il Gran maestro Di Bernardo – che all’interno del Goi all’inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l’origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del Goi. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del Goi era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei”. Intanto oggi a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, c’è stata una nuova perquisizione dei carabinieri del Ros e del Reparto Operativo. L’obiettivo degli investigatori è trovare altri riscontri sulla posizione dell’ex sottosegretario della Regione Alberto Sarra, fino al 2005 assessore al Personale e nei cinque anni successivi consigliere di minoranza. Uomo di Paolo Romeo (considerato la mente della ‘ndrangheta reggina), Alberto Sarra è uno dei due politici regionali coinvolti nell’inchiesta “Mamma Santissima”. L’altro è il senatore Caridi che, prima di essere eletto al Parlamento, è stato assessore regionale alle Attività produttive. Entrambi, così come Paolo Romeo, erano di casa a Palazzo Campanella dove, anche adesso, hanno i loro referenti. Non è escluso che la Dda stia cercando di ricostruire come i due politici, che gestivano importanti budget, possano aver contribuito con emendamenti e proposte di legge a rafforzare gli amici dei clan.
La Calabria piace solo se è ‘ndranghetista, scrive Michel Dessi il 20 settembre 2016 su "Il Giornale". Vola alto, la Calabria. Addirittura in elicottero. E che elicottero! Quello nero, firmato Casamonica. O giù di lì. E’ stato lo stesso pilota, infatti, a spargere petali di rosa sul feretro del boss degli zingari romani e a far atterrare sul sagrato della chiesa di Nicotera lo sposo in odore di ‘ndrangheta e non autorizzato a raggiungere la sposa per via aerea. Fatto gravissimo, sicuramente, per altro già capitato dalle Alpi fino a Lampedusa, ma esageratamente gonfiato a danno di altri fatti di cronaca ben più gravi di una bravata da bullo di paese. Il guaio è che la Calabria piace solo se è ‘ndranghetista. Dalle fiction televisive fino ai post sui social network, questa Terra fa notizia solo quando è mafiosa. Dei siti archeologici più importanti della storia magnogreca, dei musei stracarichi di ritrovamenti unici al mondo, delle testimonianze di antiche identità e civiltà assolutamente inimitabili e non rare in queste contrade, dei geni, dei filosofi, dei letterati, degli scienziati, degli artisti nati dal Pollino fino a Bova Marina, non gliene frega niente a nessuno. La Calabria e i calabresi devono crepare di ‘ndrangheta. Devono essere brutti, sporchi, pelosi, armati e cattivi. Magari con la catena d’oro al collo grossa quanto un giogo da bue e con un Cristo più grande e pesante dell’originale. Vergogna per gli italiani che vorrebbero essere un popolo, ma, di fatto, non lo sono. I due pesi e le relative due misure, prima che sugli stranieri, pesano sugli italiani stessi. Per cui, i liguri sono tirchi, i siciliani gelosi, i piemontesi falsi e cortesi, i romani fanfaroni, i napoletani ladri, i sardi ottusi, i pugliesi levantini, e i calabresi ‘ndranghetisti. Detto questo degli elicotteri che atterrano senza autorizzazione se ne dovrebbero occupare giusto le autorità competenti, mentre dell’Unità dei Popoli italiani se ne dovrebbe occupare ogni italiano. Magari smettendola di vivere secondo gli stereotipi che non solo non avvicinano, ma, non accomunando, rendono nemici.
MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.
“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”. Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo. Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità. Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero. E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo. E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità. Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina. Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’. Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”. Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolò Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”. L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto. E nessuno che si smarchi. Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra? Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”
Nella civile Emilia Romagna non si denigra una comunità, pur succedendo le stesse cose.
Rimini, 17enne stuprata e filmata: ora dalle amiche anche offese online. Sui profili Facebook di alcune delle giovanissime coinvolte nella vicenda sono apparsi insulti contro la vittima, scrive il 17 settembre 2016 “La Repubblica”. La sua vita era già stata distrutta, ora per la giovane vittima di uno stupro si apre ulteriormente il baratro sotto i piedi. Stuprata questa primavera, a 17 anni, nei bagni di una discoteca (c'è un 22enne indagato per questo reato) e filmata dalle amiche, che hanno poi diffuso il video su Whatsapp, recapitato anche alla stessa vittima, ora arrivano le offese e gli insulti via Facebook dai profili delle stesse compagne. Due volte vittima, anzi tre: del suo aggressore, dell'atteggiamento delle amiche, degli insulti che alcune di queste le avrebbero riservato online. La giovane avrebbe paura di essere etichettata, come accaduto a Tiziana, ragazza di Napoli morta suicida dopo che i suoi video hard erano diventati virali. Gli insulti contro la 17enne sui social media sarebbero prima apparsi poi spariti, forse cancellati per evitare conseguenze penali. Gli avvocati Carlotta Angelini e Piergiorgio Tiraferri, che assistono la ragazzina, sono categorici: "Ha già sofferto troppo, la sua vita è stata rovinata. Quegli insulti sono gratuiti. Presenteremo denuncia contro gli autori di quei post".
Invece per il sud si adotta un atteggiamento diverso. La cultura mafiosa al Sud non morirà mai: Il brodo primordiale di Melito Porto Salvo, scrive il 5 settembre 2016 Roberto Galullo su "Il Sole 24ore". Tra le macerie che questa estate 2016 lascerà, oltre a quelle del terremoto per le quali c’è almeno la speranza della rimozione, ci sono quelle, credo perenni, della continua disgregazione morale del Sud. Sud che, per chi se ne fosse dimenticato, è Italia ma, ancor più purtroppo, è quella parte d’Italia dalla quale la linea della palma di sciasciana memoria continua a salire. Alcuni episodi accaduti in questa brutta estate ce lo ricordano. Alcuni sono stati ben raccontati – dal puto di vista della mera e nuda cronaca – dai media. Altri meno. Altri per nulla o quasi. Soprattutto, ciò che è mancata, è stata proprio l’analisi complessiva dei fenomeni che dovrebbe allarmare forse più di un rischio terremoto. Un’analisi che serve per sensibilizzare un’opinione pubblica che si strazia ed è straziata da veline, tronisti, tette e culi in tv e sui giornali ma che poco o nulla sa di quanto accade davvero oltre quelle veline, tronisti, culi e tette sbattute su uno schermo o su un giornale. Insomma: poco o nulla sanno della realtà profonda. Da oggi propongo una “catena” di riflessioni sulla deriva “mafiosotalebana” del Sud che parte dall’ultimo, inquietante episodio accaduto a Melito Porto Salvo (Rc) dove ormai anche le mura spero sappiano che una ragazzina, dall’età di 13 anni, è stata per almeno due anni stuprata anche dal giovane rampollo di un casato di ‘ndrangheta e dai suoi amici. Scrivo “anche” perché costui, figlio ma soprattutto nipote di un boss indiscusso e conosciuto fin da bambino dalla ragazzina, entrerà in questo gioco mortale in un secondo tempo, quando cioè gli verrà “donata” da chi fino a quel momento l’aveva facilmente soggiogata e ricattata. Vi invito a non sottovalutare questo aspetto: il “dono” della giovane, la presentazione da parte del maggiorenne che fino a quel momento l’aveva abusata mentalmente ancor prima che fisicamente al nipote del boss Natale Iamonte, può infatti essere letto anche come il segno di una sottomissione e di un “accredito” nei confronti di chi è destinato a proseguire la dinastia di violenza e prevaricazione mafiosa sul territorio. Il giovane del casato di ‘ndrangheta, intanto, sembra respingere le accuse e vedrete che in giudizio sarà battaglia durissima tra una linea di difesa degli indagati che punterà al “consenso” e una pubblica accusa che cavalcherà la linea della sottomissione nuda e cruda. Lo scontro tra la cultura del “così fan tutte” e le semplici regole della vita democratica. Vi invito a soffermarvi, al di là del drammatico episodio, dunque sulle parole del capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho: «Questi abusi hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l’omertà regna sovrana e la sopraffazione è l’unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la tredicenne ha provato inizialmente a ribellarsi, per conquistare una vita normale, ma si è scontrata contro la reale dimensione di quella zona: una cultura e una omertà mafiosa che travalica ogni valore, ogni principio e ogni regola di buonsenso. Solo la famiglia – in questo caso, si badi bene, perché in quello che racconterò invece domani è accaduto l’esatto contrario – ad un certo punto si è resa conto che qualcosa non andava e, seppur con ritrosia, ha collaborato con le Forze dell’ordine e con la magistratura. Ora sarà facile per la parte sana di Melito Porto Salvo – è chi nega che ci sia! – gridare alla stampa meretrice e assassina che tutto omologa e che in una stanza buia fa diventare neri anche i gattini bianchi. Nossignori, la stampa non c’entra un tubo ed è giusto che la parte sana del Sud prenda coscienza del fatto che la sua voce non si leva alta e non riesce, di conseguenza, a invertire la tendenza di morte per mano dei “mafiosotalebani”. Il Sud è drammaticamente sempre più mafiosotalebano e la Calabria, ancor più della Sicilia, rappresenta l’area più integralista e retriva ad affacciarsi alla cultura democratica di un Paese che già di suo sta perdendo la stessa via della democrazia. «Quando lui la guardava – ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci, che ha seguito personalmente l’indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». Di grazia: qualcuno sa spiegarmi la differenza tra un capo tribù della più sperduta località mediorientale che con un’occhiata indica la vergine da sottomettere ed il giovane e intoccabile rampollo di un casato di ‘ndrangheta che con un’occhiata fulmina la sua vittima? Non c’è differenza: entrambe possono impunemente avvenire perché la legge riconosciuta – nelle tribù ferme alle origini della propria storia come in ampie parti della Calabria ferme al predominio delle regole imposte dalla cultura mafiosa – è quella. Inutile girarci intorno. E’ così. Punto. Anche il giovane del quale la tredicenne si era innamorata e con il quale aveva cominciato ad un certo punto a frequentarsi è stato costretto a subire la legge della mafia talebana: colpito a calci e pugni ha fatto un passo indietro da quella cotta adolescenziale e non ha trovato ovviamente – in un mare così inquinato dalle regole mafiosotalebane – il coraggio di denunciare liberando, al tempo stesso, se stesso e quella giovane con la quale avrebbe voluto flirtare. Ad un certo punto il Gip Barbara Bennato nell’ordinanza di custodia cautelare scriverà che uno dei balordi che stava distruggendo il fisico e la personalità della ragazzina «aveva fatto di tutto per riappropiarsene, quasi si trattasse di un oggetto di sua proprietà. In tale prospettiva l’aveva circuita, insistendo per avere un incontro chiarificatore, ottenuto il quale l’aveva sedotta ed indotta ad avere un rapporto sessuale, così riaffermando la propria cancerogena presenza». Proprio così scrive il gip: «cancerogena presenza». E di cancro si tratta. Un cancro mafiosotalebano che avvelena Melito Porto Salvo, il Sud e che sta infestando l’Italia intera grazie a quella risalita della linea della palma. Ora, la domanda è: c’è una speranza di rinascita in tutto questo? Ne dubito fortemente e sono ampiamente generoso con me stesso in questa considerazione ma, se proprio vogliamo vedere una luce, ebbene una fiammella c’è. Gli investigatori, infatti, hanno trovato, tra i tanti riscontri, anche quelli di alcune persone con la quale la ragazzina si era confidata. Ecco, la speranza è che loro e le famiglie alle quali appartengono sappiano partire da qui per contribuire a cambiare il profilo di un’impunità che soggioga il loro futuro in un consesso democratico quale, anche la Calabria, dovrebbe essere. Un’altra luce – questa sì – a dire il vero c’è. E’ l’opera incessante delle Forze dell’Ordine e dei professionisti chiamati in causa. Se leggeste, come ho potuto fare io, l’ordinanza, vi rendereste conto dello straordinario lavoro compiuto dalla magistratura, dai Carabinieri del posto e dagli psicologi chiamati in causa per assistere la famiglia della ragazzina, conscia non solo del trauma profondissimo inferto alla figlia ma anche delle ripercussioni alle quali andrà incontro per avere osato chiamare in causa il nipote del boss Natale Iamonte, che a Melito Porto Salvo detta ancora la sua legge. Ecco: l’unica luce è la cultura della legalità ma a Melito Porto Salvo e su per li rami in tutta l’Italia è merce sempre più rara. A domani. Roberto Galullo
'Ndrangheta, violenza e omertà a Melito Porto Salvo: l'imbarazzo di essere calabrese, scrive Francesca Lagatta il 16 settembre 2016 su "Blastingnews.com". La cittadina della ragazza violentata dal branco simbolo di una regione che non vuole cambiare. Essere calabrese non è stato mai facile, ma alla luce della squallida vicenda emersa nei giorni scorsi, l'imbarazzo è tale che quasi ci si vergogna di appartenere alla #Calabria. Pertanto, non mi unirò al coro di chi tenta invano di difendere questa terra bella e altrettanto maledetta descrivendola per quello che non è, non mi unirò al coro di chi oggi urla che i calabresi non sono tutti uguali, mentre la complicità e la connivenza accrescono il cancro mafioso a dismisura. Questa regione è forse anche peggio di come la si vuole fare apparire. Laddove maghi, preti e malavitosi possono sulle menti della gente più dei medici e delle istituzioni, la 'ndrangheta ha vita facile e di casi come questi saremo costretti a sentirne ancora tanti. Perché, precisiamo una cosa, se in questa storia di violenza non fossimo costretti a scrivere la parola 'ndrangheta, probabilmente l'avremmo potuta raccontare prima e magari con un finale diverso. Ma nel profondo sud, a Melito Porto Salvo, nel punto in cui la Calabria è più vicina all'Africa, se una ragazzina di 13 anni viene ripetutamente violentata sotto gli occhi di tutti, nessuno parla per rispetto o per paura del clan Iamonte, attualmente retto da Remingo, figlio dell'ormai defunto Natale Iamonte, mammasantissima della Locride negli anni di fuoco. Giovanni Iamonte, secondogenito del capo cosca Remingo, è infatti l'antagonista di questa triste vicenda. Giovanni rappresenta il volto sporco della Calabria, quella ossequiosa e prepotente, che detta regole e leggi a masse incapaci di reagire, ottenendo la copertura di un'intera cittadina e la complicità di altri otto ragazzi, che stuprano la sua "fidanzata" a turno o in gruppo. Anche i preti, se interpellati, sono costretti a difendere gli stupratori e le famiglie, invocando silenzio e perdono. Ancora silenzio, dopo quello mantenuto nella cittadina per due anni. Le indagini rivelano che a Melito tutti sapevano, anche la madre, che, in linea con la politica omertosa del luogo, le aveva consigliato di smettere di dire quelle cose. Forse perché aveva ritenuto che il giudizio della gente fosse più importante della salute e della serenità di sua figlia o forse perché temeva di perdere il posto di lavoro nella ditta riconducibile proprio a Giovanni Iamonte. Perché qui la 'ndrangheta spesso si sostituisce allo Stato e ribellarsi significherebbe, tra le altre cose, anche morire di fame. Neanche il padre, informato dalla moglie, si era deciso a denunciare. Provò invece a chiedere l'intercessione del boss, peraltro suo parente. Potremmo finirla qui e dire semplicemente che sono cose esistite da sempre, a cui forse saremo costretti ad assistere ancora tante e tante volte, e che alla fine qualche coraggioso è rimasto e ci ha pure messo la faccia partecipando alla fiaccolata. Ma per un calabrese onesto, uno di quelli che paga tutti i giorni le conseguenze della prepotenza mafiosa, è davvero difficile leggere certi commenti dei melitesi sulla vicenda senza doversi vergognare almeno un po'.
Melito di Porto Salvo: un paese a forma di buco. Con una bambina dentro, scrive Giulio Cavalli il 14 settembre 2016 su "Left". Hanno cominciato a violentarla che aveva tredici anni e oggi ne ha sedici. L’hanno resa il loro passatempo andando a prendere a scuola per portarla dove gli veniva più comodo abusare di lei. Loro, il branco di vigliacchi schiavi di un cervello a forma di glande, sono “gente bene” di Melito Porto Salvo, il paese che ora si offende e, come spesso succede, cerca di difendersi attaccando la stampa senza capire che quello che è successo sarebbe feccia anche se Melito fosse in provincia di Aosta. Ma non è questo il punto. Centinaia di articoli morbosi usciti nei giorni scorsi per aiutarci a immaginare la vittima. Ogni volta che c’è uno stupro la stuprata diventa prelibatissima per fantasiosi safari del prurito e così si sprecano le descrizioni, il peso, l’altezza e tutto il resto. Dopo lo stupro qui ti tocca il patibolo: nome, cognome, ricerca ossessiva di foto e profili social per la vittima mentre gli abusatori godono di un certo nascondimento approfittando di essere bestie e poco altro. Invece qui le bestie hanno storie, nomi e cognomi. E vanno spiattellate dappertutto, spalmate nei nostri discorsi al bar e se possibile ripetute nella piazza del paese per i prossimi cent’anni perché lì dentro, tra quella banda di vermi, c’è il cancro di questo Paese. C’è Giovanni Iamonte, dell’omonimo clan di ‘ndrangheta, che gioca a fare il boss con il cazzetto piccolo. C’è un figlio di un maresciallo dell’esercito, che dovrebbe occuparsi dei figli oltre che delle reclute e c’è il fratello di un poliziotto che piuttosto che far rispettare la legge s’impegna a impartire al fratellino lezioni di omertà. Sono da ricordarsi tutti. I nomi e le facce. Giovanni Iamonte (30 anni), Daniele Benedetto (21), Pasquale Principato (22), Michele Nucera (22), Davide Schimizzi (22), Lorenzo Tripodi (21), Antonio Verduci (22). E poi c’è il paese. Diecimila anime che non riescono a mettere insieme uno sputo di fiaccolata decente. Gente che non parla, che bisbiglia sottovoce che “quella se l’è andata a cercare” e preti che minimizzano. È una colata di vomito. Tutto uno scrivere e domandare di lei, la ragazzina, che forse meriterebbe silenzio e protezione. Mentre sono queste facce da appiccicare su tutti muri. E costringere i compaesani a guardarli negli occhi piuttosto che limitarsi ad amorevoli discorsi tra compagni di taverna. Una comunità deve fare i conti con se stessa. Che sia paese, regione e nazione. Ce la facciamo questa volta?
Abusi sessuali, ricatti e omertà a Melito Porto Salvo. Schiava di un branco per due anni. Le foto delle violenze usate per soggiogarla. Un nuovo amore che le volta le spalle. Due anni da incubo per una ragazza a Melito Porto Salvo. Tra gli otto arrestati anche il figlio di un boss, scrive Alessia Candito Venerdì 2 Settembre 2016 "Il Corriere della Calabria". Per lei, quel ragazzo era il sogno di trovare l'amore che in famiglia non trovava più. Ma sono bastati pochi mesi perché il principe azzurro si trasformasse in un orco, capace di offrirla "in regalo" a tutti i suoi amici, che per quasi due anni ne hanno abusato in ogni modo. È questo l'inferno vissuto da una ragazzina di Melito Porto Salvo, violentata, ricattata e costretta al silenzio da un branco capeggiato dal Giovanni Iamonte, il figlio del boss Remingo. A lui, come ad altre sette persone i carabinieri del Comando provinciale e della compagnia di Melito Porto Salvo, hanno stretto le manette ai polsi questa mattina per ordine del gip, che ha disposto il carcere per Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni), Antonio Verduci (22 anni). Insieme a loro è finito dietro le sbarre per ordine del gip presso il Tribunale dei Minori anche il più giovane del branco, G. G., oggi diciottenne, ma minorenne all'epoca dei fatti. Sono loro – concordano gli inquirenti – i responsabili dell'inferno in cui la tredicenne è precipitata alla fine del 2013, quando il suo sogno d'amore si è trasformato in un incubo di violenze seriali, minacce, lesioni e stupri. Per quasi due anni il copione è stato sempre lo stesso. Almeno due volte la settimana, alcuni di loro si presentavano davanti a scuola, obbligavano la ragazzina a salire in macchina e la portavano a casa di Iamonte, dove era costretta ad avere rapporti con tutti quelli del gruppo che ne avessero voglia, anche contemporaneamente. A volte le violenze avvenivano addirittura prima, durante il tragitto in macchina. E tutte venivano fotografate. Quelle immagini sono diventate un'arma micidiale nelle mani del branco. Quando la tredicenne tentava di reagire, quando neanche la violenza con cui le strappavano i vestiti di dosso riusciva a placarla, iniziavano le minacce. Se quelle foto fossero state rese pubbliche, lei sarebbe stata una "disonorata", una reietta, per il paese come per la sua famiglia, che neanche allontanandola sarebbe riuscita a cancellare l'onta. Disperata, terrorizzata, la ragazzina chinava la testa e subiva. Del resto, chi parlava lo faceva in nome e per conto di Giovanni Iamonte, il figlio del boss. «Quando lui la guardava – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, che si è occupato in prima persona dell'indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». A Melito, Iamonte vuol dire un regno che da quarant'anni si fonda su sangue e sopraffazione, denaro e violenza. E lei, che la famiglia la conosceva da vicino, fin da quando la mamma lavorava a servizio del boss Remingo, non riusciva a ignorarlo. Per questo terrorizzata, soggiogata da un branco numeroso, tutto di ragazzi molto più grandi di lei, sopportava. O almeno tentava di farlo. «Questi abusi – dice serio il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho – hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la ragazzina ha provato a ribellarsi, per conquistare una vita normale, uguale a quella di tutte le sue coetanee. Nonostante le violenze subite, ha trovato la forza di iniziare una nuova storia d'amore con un altro ragazzo, ma il branco non glielo ha permesso. Quando i sette componenti del gruppo sono venuti a saperlo, lo hanno picchiato selvaggiamente, costringendolo a non vedere più la tredicenne e imponendogli il silenzio. E lui si è piegato. Non ha denunciato e ha voltato le spalle alla ragazzina, abbandonandola ai propri aguzzini. Un comportamento che per l'ormai quattordicenne si è trasformato in nuove violenze. Un incubo fatto emergere in un tema a scuola o confessato – solo a grandi linee – a poche persone e intuito forse troppo tardi dai genitori, che hanno aspettato fino all'estate 2015 per chiedere aiuto. Prima, il padre della ragazza, lontano parente di Iamonte, ha preferito affrontare direttamente il branco, per chiedere loro di lasciare in pace la figlia. Ma con il passare dei mesi, anche lui probabilmente si è reso conto che quella tregua non era abbastanza. Nell'estate del 2015 si sono presentati al comando accennando in maniera vaga alla vicenda, ma solo dopo diversi mesi hanno chiesto ad un avvocato di fiducia di recarsi in Procura. Da allora, i carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e della compagnia di Melito, si sono messi all'opera e la macchina delle indagini è partita. Nonostante il muro di omertà e l'intimidazione seriale di ogni possibile testimone da parte del branco, gli investigatori sono riusciti a identificare tutti gli aguzzini della tredicenne ed a trovare riscontri alla vicenda che la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio. Un successo investigativo che non riesce a cancellare l'amaro in bocca per l'ennesima storia di violenza che si consuma, senza che nessuno si azzardi a denunciare. «Tutto questo - tuona Cafiero de Raho - è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente. Quando si sveglieranno i cittadini? Quando capiranno che il nemico non è lo Stato, ma la 'ndrangheta?». Alessia Candito
“Se l’è andata a cercare”. Il paese volta le spalle alla ragazzina violentata. Calabria, in poche centinaia alla fiaccolata per la 16enne stuprata da tre anni. Il padre: “Me lo aspettavo, se potessi prenderei mia figlia e la porterei lontano”. A Melito, in Calabria, è stata organizzata una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Soltanto quattrocento le persone presenti su 14 mila residenti, molte arrivate da altri paesi, scrive Niccolò Zancan l'11/09/2016 su "La Stampa". La bambina. «Un metro e 55 per 40 chili», c’è scritto nelle carte dell’inchiesta. È della bambina che stanno parlando. «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata». Movimentata? «Una che non sa stare al posto suo». Arriva in piazza il parroco Benvenuto Malara, va davanti alle telecamere: «Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese». Hanno violentato la bambina per tre anni di seguito. La prostituzione non c’entra niente. L’hanno violentata in nove, a turno e insieme. Tenendola ferma per i polsi, e poi obbligandola a rifare il letto. «C’era la coperta rosa», ha ricordato la bambina nelle audizioni con la psicologa. «E non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Andavano a prenderla all’uscita della scuola media Corrado Alvaro, con la lettera V dell’insegna crollata. È sulla via principale, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove c’era il letto. Quando questa tragedia italiana è incominciata, la bambina aveva 13 anni. Ora ne ha compiuti sedici. Una settimana fa, annunciando l’arresto degli stupratori, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Adesso c’è una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Quattrocento persone presenti, molte arrivate da altri paesi. L’associazione Libera di don Ciotti, gli scout, i gonfaloni. Quattrocento persone su 14 mila residenti. L’altro parroco si chiama Domenico De Biase: «Sono tutte vittime - dice - anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ce n’è già stato troppo di silenzio, a Melito di Porto Salvo. Le parole qui sono sempre colpevoli, come uno specchio che rimanda indietro l’immagine che non si deve vedere. Il sindaco Giuseppe Meduri sale sul palco ed attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Ma che colpa ne ha la giornalista, se una delle voci raccolte nel servizio mandato in onda era quella di una signora che diceva così? «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Melito di Porto Salvo è un paese in discesa, tagliato in due dalla statale 106 e dalla ferrovia. Ci sono rifiuti accatastati, case senza intonaco, balconi crollati. Il commissariato di polizia è davanti allo scheletro di una costruzione abusiva. E adesso, alla fiaccolata in solidarietà, in mezzo alle poche persone presenti, c’è anche il padre della bambina. «Purtroppo mi aspettavo questo tipo di partecipazione», dice camminando con un piccolo lumino in mano. «Tante volte avrei voluto andarmene da questa situazione. Non mi piace usare la parola schifo, perché a Melito ci sono cresciuto. Ma se potessi, certo, se non avessi il lavoro, prenderei mia figlia e la porterei lontana. Abbiamo cercato solo di difenderci». In realtà ci sono stati molti tentennamenti, anche da parte della madre della bambina. Ma adesso è facile fare delle considerazioni per noi che ogni volta possiamo andarcene da qui. Uno stupratore si chiama Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato». Un altro stupratore si chiama Antonio Verduci, ed è figlio di un maresciallo dell’esercito. Un altro stupratore è Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto. Intercettato durante le indagini, chiede consigli proprio a lui. E li ottiene: «Quando ti chiamano, tu vai e dici: non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo “stortu”. Non devi parlare. Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!». Lo storto. La verità. E la bambina. All’inizio pensava che Schimizzi fosse il suo fidanzato, ma poi ha spiegato in cosa consistesse lo stare con le ragazze: «Questo suo amico si mette dove era prima Davide, cioè sopra di me. Però io faccio di tutto per andarmene perché non volevo e mi ero già rivestita. Così Davide ha aiutato questo suo amico a riscendermi i pantaloni. E con questo Lorenzo abbiamo avuto un rapporto, ma proprio un attimo, perché non stavo ferma, dopo di che hanno iniziato ad insultarmi…». La bambina non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Il vecchio preside Anastasi: «Una situazione squallida, ma all’omertà non ci credo». Il nuovo preside Sclapari: «La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia». In realtà la scuola c’entra eccome, malgrado se stessa. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria, la bambina ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia di quel tema è arrivata a casa. E’ stata lei stessa a spiegare alla psicologa cosa ci fosse scritto: «I miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché loro comunque non si sono mai accorti…». Quel tema è l’inizio della consapevolezza. Nessuno potrà mai considerarsi salvo in Italia se in Calabria non verranno liberate le parole e salvata la bambina di Melito. Su Facebook ha cancellato tutti gli amici. Nella fotografia è accanto al padre. Ha scelto una frase del filosofo nichilista Friedrich Nietzsche: «La migliore saggezza è tacere ed andare oltre».
MELITO PORTO SALVO: DIECI ANNI FA LA STESSA OMERTÀ. Scrive "Ciavula". Antonino Laganà aveva 3 anni, partecipava a un saggio scolastico sul lungomare di Melito Portosalvo, doveva cantare una canzoncina. Sono le 18.40 del 6 GIUGNO 2008. La mamma è con il figlio più grande, ci sono tutti i genitori, persone che assistono al saggio, 1000 persone. La mamma sente gli spari, corre e prende in braccio il piccolo Antonino, che è minuto, e si trova le braccia piene del sangue del bambino. TUTTI SCAPPANO, ad aiutarla resta un‛unica persona, il papà di un altro bambino che la porta di corsa in ospedale. Le forze dell‛ordine lanciano un appello affinché chi ha visto parli, anche un dettaglio può essere utile a capire cosa sia accaduto e chi abbia sparato. Nessuno si presenta. Al processo si presenta solo una persona: i due accusati, Leonardo e Antonino Foti, dicono che al momento della sparatoria erano in un‛autofficina, solo il proprietario dell‛autofficina si presenta in tribunale per dire che non è vero. Si disse: “Antonino si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”, la mamma non può sopportare questa frase che paragona al “se l‛è andata a cercare” sussurrato nei confronti della ragazzina violentata a Melito. “Mi sono opposta con tutte le forze a questa frase, ho gridato. Anche quando l‛avvocato dei mandanti in cassazione ha pronunciato quella frase mi sono alzata e gli ho detto che per quelle parole dovevano radiarlo dall‛albo”.
Abusi sessuali a Melito, per politico bolognese il paese “andrebbe bruciato”: divampa la polemica. Abusi sessuali a Melito: caos tra Bologna e la Calabria, polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, scrive il 14 settembre 2016 Danilo Loria su "Stretto web". Abusi sessuali a Melito- Polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, il quale commentando sul suo profilo personale quanto accaduto a Melito Porto Salvo aveva scritto: “questo paese andrebbe bruciato e sulla cenere bisognerebbe poi spargere il sale”. Parole subito criticate dagli stessi amici di Cipriani tanto che prima il post viene modificato e poi cancellato. Un passo indietro che non ha fermato le polemiche: subito, il Pd Ernesto Carbone, ha chiesto le sue dimissioni. Poi il sindaco di Reggio Calabria ha parlato di un “leone da tastiera” e ha invitato il suo partito a riflettere sull’episodio. Nel frattempo, Cipriani, dopo il passo indietro sul social, ha chiesto scusa dicendosi “sinceramente dispiaciuto”.
I Fatti di Melito Porto Salvo: Tra la Mafia e la vergogna, la violenza sottile e feroce, scrive Martina Cecco il 13 settembre 2016 su "Il Secolo Trentino". Nella società del controllo e del possesso anche una ragazzina di 13 anni diventa “il pegno” di una intera città. Parliamo di abuso su minore, a Melito Porto Salvo, dove un uomo discendente da una famiglia esposta nell’ndrangheta ha organizzato un sistema di controllo violento attraverso un raccapricciante percorso di “vendetta” ai danni di una bambina. La stampa parla di alcuni fatti che esponiamo brevemente, noti ai più: una giovanissima tredicenne incontra il figlio del Boss e inizia una relazione molto presto, la relazione dovrebbe terminare per sua volontà, perché si innamora di un altro ragazzo. Il figlio del Boss manda a prendere e picchia brutalmente il nuovo rivale (come attestano le segnalazioni alle forze di Polizia), in seguito – considerando la piccola un bene di sua proprietà – la conduce in un brutto sistema di appropriazione di diritti su base sessuale con i suoi coetanei. Per stabilizzare il controllo sulla situazione invita al suo macabro banchetto anche persone ritenute “affidabili” e così segna il suo territorio. Una storia di mafia, omertà e mancanza di controllo sociale legale che colpisce una famiglia adattata alla violenza generalizzata (della città calabrese) dove perfino durante la marcia di solidarietà la cittadinanza “copre”, “giustifica” il fatto, senza pensare che – seppure fosse stata consenziente – l’età del rapporto legittimo è comunque 14 e non 13 anni. Figuriamoci l’età del rapporto promiscuo, che arriva – se arriva – dopo i 18 anni. La giustificazione sociale, l’accettazione di una situazione di arretramento culturale – rispetto alla media della percezione del reato in Italia – sono espresse nelle parole del padre: “Se potessi la porterei via da qui” ma per andare dove? Il cambiamento c’è stato: tutta Italia sta parlando di questo fatto e le famiglie di Melito, ma anche delle altre città, sanno che c’è stato un caso in cui la reazione della vittima ha portato a una indagine, al momento, nonostante le minacce fatte, senza ritorsioni, ma specialmente ha fatto emergere un contesto e una situazione. Certo non dovrebbero essere necessari casi estremi come questo, per aumentare l’importanza dell’educazione agli affetti nella società civile. La donna come oggetto di cui il Pater Familia, il Marito ha pieno possesso, un retaggio culturale di matrice prevalentemente “rurale” o tuttavia tipicamente “Mediterraneo” e pure in certi contesti “Tribale” nelle società patriarcali, che tocca anche le realtà islamiche meno progredite, non per legge ma per cultura. La donna del Boss è per il Boss e per la società intorno ad esso un membro importante, che non ha capacità decisionale nel decidere di finire un rapporto d’amore. Ma non è solo la mafia: i nostri giovani (lo testimoniano gli omicidi delle ex brutali e terrificanti) mancano di capacità di “perdere” l’affetto, la donna, la ragazza, un evento che diventa un fallimento così grande da essere insormontabile. Ma la gravità non è solo la violenza fisica: la pornografia, il ricatto sul posto di lavoro, le parole violente e le violenze domestiche, l’omertà, la vergogna sessuale sono tutte forme di violenza che accettiamo senza nemmeno percepirle. La percezione della violenza – infatti – non è uguale per tutti. Da una parte la legge, che espone con chiarezza i termini per i quali un’azione è reato; dall’altra le persone, che sono immerse in un determinato contesto sociale che parimenti alla sensibilità e alla cultura relative a se stesse, legittimano, senza rendersene conto, comportamenti assolutamente violenti percepiti come “normalizzati”. Ora – una persona di buon senso, genitore o giovane – non può non percepire il sesso con una tredicenne come effetto di assoluto degrado e assoluta violenza, eppure dalle poche parole espresse a Melito sembra che questo evidente atto osceno non sia percepito così. Siamo tuttavia concretamente in uno Stato che non mette in risalto la violenza, seppure attualmente con un Governo di Sinistra che fa di queste sensibilità la sua bandiera: la violenza delle guerre, la violenza del terrorismo, la violenza degli incidenti sul lavoro, della povertà, dell’esclusione sociale; si tratta di forme di violenza non percepita, che però “lavorano” sul piano emotivo, aumentando la tolleranza alla violenza stessa. Il giustificazionismo: di Stato, politico, sociale, economico, morale, etico, religioso, sono alcuni dei palliativi per cui si normalizzano le violenze, fisiche, materiali, verbali, visive, anche artistiche e così facendo si alza sempre più il livello di tolleranza alla violenza, arrivando, a Melito a sentire frasi senza raziocinio del tipo “Se l’è cercata” diciamo pure che se anche fosse stata disponibile, tuttavia, a 13 anni, fare sesso con un ragazzo molto più grande resta un grave reato, tale reato non può essere percepito come legittimo, altrimenti davvero parliamo lingue profondamente diverse. Martina Cecco
Melito, il muro intorno agli arrestati per stupro: "Su Facebook solo moralisti del ca...". Sul social network gli amici dei sette accusati di violenza di gruppo su una ragazzina di tredici anni raccolgono commenti di sostegno. Uno spaccato della comunità che li difende. Nonostante gli orrori raccontati dalle indagini, scrive Francesca Sironi il 14 settembre 2016 su “L’Espresso”. I commenti di un amico di uno degli arrestati: «La gente si deve fare i cazzi suoi». «Che si guardassero nella loro famiglia prima di giudicare e scrivere cazzate su fb. Moralisti del cazzo». Antonio è un amico di Lorenzo Tripodi, uno dei sette ventenni di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, accusati di violenza sessuale di gruppo su un'adolescente. Antonio li commenta così i fatti. I fatti: ovvero l'incubo di una bambina - quando gli abusi iniziano ha solo 13 anni - violentata dal 2013 al 2015 da un gruppo di ragazzi del paese, fra cui appunto, secondo i pm, il suo amico Lorenzo. Il due settembre, grazie alle indagini dei carabinieri, gli arresti. Fra gli imputati c'è anche Giovanni Iamonte, figlio di un uomo ora al 41 bis. Anche Giovanni avrebbe violentato la ragazza, come i suoi amici. Mentre il cognome, “Iamonte”, faceva il resto: il silenzio – anche la madre della vittima sa, e non denuncia. Le foto degli aguzzini sono sui giornali adesso. Hanno i capelli scuri, le gote rosse, si conoscono tutti fra loro. Vengono definiti “mostri”, ma questo li fa apparire speciali. Mentre i sette imputati di Melito sono giovani terribilmente normali. Di una normalità ripetitiva quanto gli abusi che hanno imposto in silenzio alla vittima. Sulle loro pagine Facebook, nelle loro reti da centinaia di amici, pubblicano foto di serate e matrimoni, di bambini in braccio davanti al camino, di partite a calcio, di nuove pettinature, di cani, di fidanzate e belle macchine; come tutti, pubblicano “pillole di saggezza” - «le persone stupide sono le più pericolose, perché sono ineducabili ed uniscono la stupidità alla cattiveria» - «il tradito può essere un ingenuo, ma il traditore è sempre e comunque un infame». Sono tanto normali, i sette arrestati dalla procura di Reggio Calabria per violenza sessuale di gruppo, quanto è stretta la difesa nei loro confronti di chi hanno vicino. Su decine e decine di pagine di amici degli indagati non c'è un commento sulla vittima. Non c'è un messaggio di indignazione. O un dubbio. No. La rabbia è piuttosto contro i giornalisti «ignoranti», oppure quei «moralisti» che osano parlare, come scrive un familiare di Tripodi: «La partita non finisce finché l'arbitro non fischia», dice in un messaggio del quattro settembre: «Chi ti conosce sa benissimo che sei difficile da superare, da saltare e hanno tutti fiducia in te. Poi a fine partita andremo ad esultare in faccia a TUTTE quelle persone moraliste che accusano senza sapere realmente i fatti!». Saranno i giudici - è vero - a stabilire la fondatezza delle indagini. Ma le prime prove, la testimonianza della vittima, le intercettazioni in cui il "fidanzatino" che ha portato gli altri su di lei chiede consiglio al fratello poliziotto, i ricordi del padre, sembrano delineare un tracciato chiaro. Di stupri. Ripetuti nel tempo. Nei giorni immediatamente successivi agli arresti gli amici reagiscono con il silenzio. Oppure pubblicando foto che li ritraggono con alcuni degli indagati: c'è Giovanni, ad esempio, che pubblica un'immagine di lui con Davide Schimizzi, le birre in mano. C'è Salvatore che condivide un'immagine in abito elegante con Michele Nucera al suo fianco. Ci sono Letizia e Francesca che pubblicano un selfie con l'amico. Un solo insulto, sotto l'ultimo post di Principato. Su tutto il resto si trovano soprattutto silenzio e solidarietà. «Io ti conosco e non so come sei finito in mezzo a questa storia, spero che la giustizia faccia il suo corso e che ti giudichi per la persona speciale che sei», scrive ad esempio Giuseppe. «Lasciateli parlare a questa gente che non vale niente», aggiunge un altro. «Solo Dio può giudicare». «Arriverà la gioia di chi saprà prevalere con le proprie forze e l'onestà in una partita iniziata non bene per un falso arbitraggio ben camuffato!», scrivono. Niente "haters". Solo rispetto, qui. E qualche commento di solidarietà. Agli indagati.
Melito Porto Salvo, per l’arcivescovo di Reggio non è solo ‘ndrangheta e omertà. “C’è un problema di educazione sessuale”. Monsignor Fiorini Morosini critica il clamore mediatico suscitato dalla vicenda della tredicenne abusata per due anni dal branco guidato dal figlio del boss Iamonte, e punta il dito contro una concezione della sessualità troppo edonistica. "Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile", scrive "IL Fatto Quotidiano" il 13 settembre 2016. Non solo omertà, non solo ‘ndrangheta. Il problema è piuttosto connesso ad una visione distorta, troppo edonistica, della sessualità. Questa, in estrema sintesi, l’opinione di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, sulla vicenda di Melito di Porto Salvo, il comune dell’estremo sud ionico dove il 2 settembre scorso gli investigatori guidati dal procuratore Federico Cafiero De Raho hanno arrestato sette giovani per violenza sessuale di gruppo aggravata: l’accusa è quella di aver continuativamente abusato, tra la fine del 2013 e gli inizi del 2015, di una ragazzina di 13 anni. Una storia che vede, secondo l’inchiesta della Procura di Reggio Calabria, un’adolescente seviziata da un branco, ma aggravata da un ulteriore elemento: a organizzare quelle violenze, era infatti Giovanni Iamonte, esponente di spicco della ‘ndrina locale e figlio secondogenito di Remingo, il boss di Melito. “L’altro giorno sono andato a casa della giovane – ha detto monsignor Fiorini Morosini – per incoraggiarla ad andare avanti. Ho trovato una famiglia distrutta ma con la volontà di riprendere il cammino nonostante le difficoltà che dovranno affrontare”. Una famiglia che, però, sapeva e ha taciuto. Dalle indagini in corso emerge infatti come sia il padre, sia la madre dell’adolescente avessero contezza delle violenze subite dalla loro figlia, ma avessero evitato di sporgere denuncia: preferendo, in un caso, parlare direttamente col capobastone Iamonte anziché rivolgersi alle forze dell’ordine, e nell’altro ignorare del tutto i sospetti circa gli abusi subiti dalla giovane. Una storia di omertà, dunque? Non per monsignor Fiorini Morosini, che ha commentato i fatti di Melito in un’intervista alTg2000, il notiziario della Tv dei vescovi. “Parlare di omertà – ha detto il prelato – è solo una lettura parziale dell’episodio e forse è anche troppo comodo. Ridurre tutta la vicenda solo ad un fatto di ‘ndrangheta e di gente che non parla perché ha paura mi sembra troppo riduttivo. In questo paese è esplosa una realtà che vive nel sottobosco: cioè il modo con cui questi ragazzi vengono educati allasessualità che viene vista come gioco e divertimento”. L’arcivescovo ha poi suggerito un metodo per aiutare la ragazza, puntando il dito contro il clamore mediatico suscitato dalla notizia: “Bisognerebbe chiudere luci e microfoni perché non sono le indagini giornalistiche ripetute che educheranno la realtà. Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile”. Parole, quelle di monsignor Fiorini Morosini, che in parte riprendono le esternazioni dei sacerdoti della parrocchia di Melito, che nei giorni scorsi avevano invitato a riflettere sulla tragedia altre “vittime”, e cioè ai membri del presunto branco. Anche l’arcivescovo ha rivolto a questi ultimi un pensiero: “Ho mandato a dire attraverso il cappellano delle carceri – ha spiegato – che devono ripensare non solo a ciò che hanno fatto, ma globalmente alle loro vite perché non so fino a che punto hanno percepito il male fatto. Anche loro appartengono a questa società che ha una visione ‘consuma e divertiti’ della sessualità. Avranno il tempo e il modo di ripensare se questo è il modello che domani vorranno proporre ai propri figli”.
Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Scrive Doriana Goracci il 12 settembre 2016. Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Oggi comincia la scuola e fai conto che vieni a sapere che tua figlia di 13 anni, 1.55 x 40 chili, all’uscita viene caricata da uno, che poi sono 8 o 9, e portata in una casa o al cimitero, o sotto un ponte… o dovunque ci sia un giaciglio; che le tengano fermi i polsi e la violentino: per 3 anni. Ora si sa, chi sono quei “ragazzi” e lei che se l’è cercata…La notizia è dei primi di settembre in Calabria, con l’Operazione Ricatto: “Arrestati 9 ragazzi, tra i 18 e i 30 anni per violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale”. E sappiamo anche chi sono gli 11.416 che risiedono a Melito di Porto Salvo, tranne 400 venuti anche da fuori per la solita fiaccolata di solidarietà per le strade di Melito, per la famiglia della ragazzina vittima di abusi sessuali: erano stati tutti invitati dalla stampa e dalla Chiesa. Il parroco, Domenico De Biase, riesce a tirare fuori queste parole: «Sono tutte vittime anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ma poi ci sarebbe stato poche ore dopo “Sua Eccellenza Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, ha dedicato anche la sua omelia di oggi a questo tema, durante la Santa Messa nella Basilica Cattedrale davanti alla Madonna della Consolazione”. Il sindaco Giuseppe Meduri attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria e sentenzia: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Aveva riportato una certa “signora” dire: «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Mi viene in mente la storia della ragazzina di Montalto di Castro violentata dal branco e le parole del sindaco, oltre i fatti, Salvatore Carai, zio di uno dei violentatori che dichiarò: “Quei ragazzi ingiustamente accusati sono dei bravi ragazzi. Dalle nostre parti le uniche bestie sono gli immigrati romeni. Loro sì che lo stupro l’hanno nel sangue”. Verrebbe voglia di andare lontano, dove non mancheranno i matti ma dove manca tanta spaventosa folla di donne che hanno subito ed educato così i loro figli, alla violenza, e le figlie a subire. Dei padri è meglio tacere, che se si limitano all’indifferenza è già tanto. «C’era la coperta rosa… e non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Parole sommesse e ripetute alla psicologa, da questa nostra piccola figlia, strazianti, in questo deserto umano. La coperta rosa non è riuscita a coprire niente, se non il silenzio di tutto un paese intorno, stretto nel miserevole ipocrita silenzio.
Violentata e chiamata "prostituta", il caso Melito e l'ipocrisia dell'Italia peggiore. «Se l’è andata a cercare», «È una prostituta», «Sono tutti vittime, anche i ragazzi». Questi alcuni commenti dei cittadini di Melito Porto di Salvo, anche dei pochi che hanno partecipato alla fiaccolata in difesa della ragazzina violentata dal branco. Una storia che racconta il nostro lato oscuro, scrive Flavia Perina il 12 Settembre 2016 su “L’Inkiesta”. In apparenza è solo una piccola storia ignobile, come dice la canzone, ma la vogliamo raccontare in prima pagina in difesa di Chiara, nome di fantasia della ragazza residente a Melito Porto di Salvo stuprata per due anni (dai 13 ai 15) da nove compaesani ventenni, in una serie di ripetute violenze di cui solo ieri – grazie a una fiaccolata e a un articolo su La Stampa dell'inviato Niccolò Zancan – si sono conosciuti bene i dettagli. Perché nel branco non c'era solo il figlio del boss locale ma anche il figlio di un maresciallo dell'esercito e il fratello minore di un poliziotto, e insomma: ora che sappiamo con chi aveva a che fare Chiara è più facile immaginare perché abbia taciuto tanto tempo, non solo era piccola ma davanti a lei c'erano figure che a un adolescente appaiono enormemente forti, protette, invincibili, avvolte dalla contrapposta suggestione del potere illegale e di quello legale. Si scriverà di Chiara soprattutto perché di lei, finora, hanno parlato solo uomini, con parole da uomini. Alla manifestazione indetta in suo favore che si è svolta a Melito c‘era il sindaco Giuseppe Meduri: secondo i resoconti se l'è presa con un servizio del Tgr Calabria sui melitesi che dicono “Quella se l'è andata a cercare”, in quanto offensivo della reputazione del Comune (sciolto tre volte per mafia). C'era il parroco Benvenuto Malara che ha detto «purtroppo non è caso isolato, c'è molta prostituzione in paese». C'era l'altro parroco Domenico De Biase che ha compatito tutti i protagonisti della storia perché «sono tutti vittime, anche i ragazzi». E nessuno si è accorto che dietro queste parole da uomini, a questa solidarietà condizionata da uomini, a questa incapacità tutta degli uomini di distinguere con nettezza la vittima dai colpevoli, c'era una nuova e insopportabile offesa. Ma come «prostituzione in paese», che cosa c'entra con Chiara? Ma come «tutti vittime», che cosa state dicendo? Ma come «offesi» dai giornalisti che mostrano in tv la solidarietà di molti verso gli stupratori di una tredicenne? «Offesi» si dovrebbe essere semmai con chi accusa la ragazzina invece dei suoi persecutori. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa, magari parente di grande elettore, e lo fa persino se la vittima è una bambina delle medie, caricata in auto un giorno sì e uno no davanti a scuola, sotto gli occhi di tutti, a tre passi dalla caserma dei Carabinieri, da un clan di ventenni notoriamente violenti e facinorosi. Chiara come Annamaria Scarfò di San Martino di Taurianova, storia quasi identica di quindici anni fa, pure lei violentata dai tredici ai sedici anni e poi finita in un programma di protezione perché in paese non poteva più vivere, aveva denunciato “bravi lavoratori, sposati o fidanzati” ed era diventata “la malanova”, “la puttana”, le avevano ucciso il cane e insanguinato i panni stesi, e c'era persino un Comitato regolarmente costituito per insinuare che avesse agito allo scopo di ricattare gli imputati. Chiara come Fiorella, nome di fantasia, la diciottenne che nei Settanta fu sequestrata e violentata per due giorni a Latina da quattro uomini sulla quarantina che l'avevano attirata in trappola proponendole un posto di lavoro, e poi in tribunale dovette difendersi – in un processo rimasto celebre – dalle obiezioni sul perchè non avesse interrotto la violenza visto che «una violenza carnale con fellatio, signori miei, può essere fermata con un morsetto». Solo che la vicenda di Annamaria diventò caso di prima pagina e alla fine intervenne il Viminale. E quella di Fiorella si trasformò in una delle più importanti produzioni Rai, “Processo per stupro”, documentario mandato in onda per la prima volta nell'aprile 1979 su Rai Due, seguito da tre milioni di telespettatori, ritrasmesso in prima serata nell'ottobre successivo e visto da altri nove milioni, finito nei festival più prestigiosi del mondo e persino al Moma di New York dove tuttora se ne conserva una copia. Nessuno, a quell'epoca, poteva immaginare che trentacinque anni dopo, parlando di nove adulti che obbligano a rapporti sessuali una tredicenne, le figure di riferimento di un Comune italiano, le istituzioni insomma, avrebbero potuto dire «sono tutti vittime», o tirare in ballo la prostituzione, o difendere quelli che giustificano i violentatori con l'eterno “la ragazza se l'è cercata”. Per questo oggi parliamo di Chiara, anche se per tutti è una piccola storia secondaria. Perché a noi sembra invece grandissima, colossale, orribilmente preoccupante per le nostre figlie e le nostre nipoti.
Su Melito abbiamo tutti torto, scrive Paolo Pollichieni Mercoledì, 14 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". Detto con brutale franchezza, ancorché con estrema mitezza, imparino i nostri concittadini di Melito Porto Salvo che mai come in circostanze come quella che oggi vivono, gli assenti hanno sempre torto. E assenti eravamo un po' tutti solo che adesso qualcuno vorrebbe continuare nella sua assenza e provare a giustificarla pure. Ironicamente Paolo Sorrentino, che non è solo un regista da premio oscar ma anche un sensibile e raffinato scrittore, intitola il suo miglior volume «Hanno tutti ragione». Qui oggi è l'esatto contrario, abbiamo tutti torto. Iniziamo da noi stessi: dov'ero io – che per giunta faccio il direttore nel maggior quotidiano on-line di questa regione – mentre un'intera comunità pur dotata di scuole e istituzioni, persino chiese, pur capace di consumi sofisticati e pienamente collocata in quell'Occidente immaginario che gli agitatori dello scontro di civiltà ci dicono davvero diverso dai mondi cupi dei veli, dei burkini, della misoginia di Stato e di Chiesa, regrediva o forse nemmeno si evolveva – solo ingannevolmente rivestita di modernità – restando posata sul bordo di quel medioevo perenne, invincibile, di cui ha dato prova? Perché non ho capito? Quanto buio infiltra questi nostri paesini pacifici, queste contrade laboriose, questi pii circondari? Dove eravamo tutti noi che pensiamo di assolvere al nostro dovere civico limitandoci a cliccare un "mi piace" sugli eroismi degli altri? Dove era, e dove è, il sindacato, la politica, l'informazione, la scuola, la chiesa quando le nostre contrade vengono deturpate dalla 'ndrangheta? Altro mostro medievale che si nasconde in piena luce, negata da tutti, taciuta da tutti, intenta a farsi i fatti suoi in mezzo a tutti. Alla fiaccolata si va. Gli assenti hanno torto. Inutile prendersela con i cronisti. Mai come in quelle circostanze sono gli assenti ad avere torto. Il Pd e la giunta regionale scendono in campo a Melito. Fanno bene, a patto che non finisca come un'altra Platì. Maria Elena Boschi viene a Reggio Calabria per partecipare al Comitato per l'ordine e la sicurezza convocato dal Prefetto. Fa bene. Lancia un messaggio preciso, perché lei è anche ministro delle Pari opportunità ed è bene che si sappia che la sicurezza si costruisce anche attorno alla parità tra cittadini. Sorgerà a Melito un centro per il contrasto della violenza alle donne, anche questo è un segnale da accogliere con trasversale adesione. A patto che tutto abbia poi un seguito e un radicamento nel territorio. A condizione che larga parte della comunità di Melito non sia soggetto passivo di queste attenzioni mediatiche e istituzionali ma ne diventi protagonista. Ecco perché altre assenze non potranno essere perdonate. Il che non assolve lo Stato dalla sua colpa più grave: il genocidio bianco che sradica dalla Calabria le sue forze migliori e isola quelle sane che vi rimangono. Negli ultimi dieci anni trecentomila ragazzi e ragazze calabresi hanno fatto la valigia, davvero non potevano impegnare qui le loro intelligenze e la loro caparbietà? I mafiosi sono gli unici a restare saldamente attaccati al territorio. Vuol dire che chi è rimasto a Melito o altrove è mafioso? Assolutamente no, ma altrettanto certamente le difese immunitarie di un corpo sociale piagato, deturpato, stuprato da decenni di giogo mafioso si sono allentate. E chi resta si divide. C'è chi si illude di poter convivere con il "convitato di pietra" seduto a fianco e chi reagisce ma non trova la dovuta solidarietà. Così il cronista che chiama mafiosi i mafiosi deve andar via, quello che definisce "presunto boss" un ergastolano alla quarta condanna definitiva, può restare a casa sua e dire che il problema è il cranio del "brigante" Villella rimasto in mano ai "piemontesi". Ma di quale dei due generi di cronista hanno veramente bisogno Melito e la Calabria? C'è il medico che cura i latitanti invocando Ippocrate, ma apprezzando anche il voto di scambio, e quello che rifiuta il certificato "amicale". Il primo resta e fa eleggere i rampolli, l'altro emigra... e fa carriera. È così dentro ogni categoria: preti e vescovi, magistrati e ingegneri, imprenditori e commercianti. E' così per i nostri ragazzi: c'è la figlia del boss Aquino che va a dare esami su appuntamento, consegna il libretto prende il massimo e non apre bocca. C'è lo sgobbone che studia di giorno e lavora di notte e nessuno lo prende a bordo. La prima male che vada entrerà alla Regione o in qualche ufficio tecnico comunale. Il secondo partirà ancor prima di laurearsi. C'è il primario che elargisce voti e mazzette e c'è la ricercatrice che cura il parkinson, scopre la Nicastrina ed a stento riesce ad avere un laboratorio negli scantinati. In mezzo un esercito di ignavi che si indignano solo quando la loro ignavia finisce sui giornali e nelle televisioni nazionali. Lì smettono di essere assenti e diventano protagonisti, invocando visibilità e rispetto.
Reggio: il disordine degli avvocati, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” il 22 luglio 2016. In una fase storica come quella vissuta dalla città, con l'azione investigativa che sembra aver orientato il proprio focus sui livelli più alti del malaffare che da decenni soffoca Reggio Calabria, da più parti si chiede uno scatto di reni alla popolazione, alla società civile, ma, soprattutto alla classe di professionisti e intellettuali che avrebbe dovuto risollevare le sorti della città ma che, da sempre, l'ha tradita, vendendo le proprie competenze e la propria professionalità alla 'ndrangheta. La risposta che arriva, però, dall'avvocatura di Reggio Calabria non è delle più incoraggianti. I provvedimenti restrittivi e giurisdizionali che hanno interessato diversi legali a partire dal mese di maggio non ha indotto l'Ordine retto da Alberto Panuccio a prendere alcun tipo di contromisura, almeno sotto il profilo deontologico. Provvedimenti che – secondo quanto si apprende – sarebbero in capo al Collegio di Disciplina (un'entità che sarebbe indipendente rispetto al Consiglio dell'Ordine), che nulla ha deliberato. Eppure di materiale su cui decidere ce ne sarebbe. Agli inizi di maggio, infatti, vengono tratti in arresto gli avvocati Paolo Romeo e Antonio Marra, considerati due eminenze grigie cittadine, elementi di contatto tra la 'ndrangheta e i poteri occulti. Entrambi erano e sono iscritti al Foro di Reggio Calabria, come si evince anche dal sito dell'Ordine. Marra, fino a pochi giorni prima rispetto all'arresto, è stato impegnato in Corte d'Appello nel delicato processo contro la cosca Lo Giudice, ottenendo peraltro l'assoluzione di Antonino Spanò, che la Dda individuava come prestanome di Luciano Lo Giudice. Ancor più particolare la posizione di Paolo Romeo: il legale è da sempre considerato una mente criminale, affondando le radici dei propri oscuri rapporti addirittura negli anni '70. Proprio per questo viene condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito del procedimento "Olimpia". Dopo anni di inattività, però, decide di tornare ad esercitare la professione e si iscrive nuovamente all'Albo: un condannato per un reato gravissimo che svolge la nobile arte dell'avvocatura. Proprio recentemente aveva assunto il mandato conferitogli dai titolari del caffè Equs, ubicato nei pressi della stazione ferroviaria e sequestrato dalla Dda di Reggio Calabria per intestazione fittizia per conto della cosca Alampi. A proposito di cosca Alampi. Il coinvolgimento degli avvocati Giulia Dieni e Giuseppe Putortì nell'inchiesta "Rifiuti SpA 2" – che mette al centro delle investigazioni proprio gli affari di Matteo Alampi e dei suoi – è di alcuni anni fa. I due vengono anche arrestati con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, affrontano il processo con rito abbreviato e il 7 luglio scorso vengono condannati entrambi a 8 anni di reclusione dal Gup, che li riconosce colpevoli di associazione mafiosa. A distanza di due settimane, nessun provvedimento è stato preso nei confronti dei due penalisti, che continuano a svolgere normalmente la propria attività forense all'interno del Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria. La situazione, peraltro, è stata anche stigmatizzata, appena alcuni giorni fa, dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, nel corso dell'evento organizzato da ReggioNonTace in ricordo di Paolo Borsellino. Paci ha ricordato come, appena giunto in città, aveva avuto modo di apprendere della manifestazione (a dire il vero abbastanza delirante) organizzata dagli avvocati reggini proprio in sostegno dei due penalisti accusati di connivenza con la 'ndrangheta. Una solidarietà lunga diversi mesi, visto che l'Ordine non ha preso alcun provvedimento. Ma non solo. L'ultima notizia in ordine temporale è la candidatura dell'avvocato Giulia Dieni, condannata in primo grado per associazione mafiosa, al Collegio dei Probiviri (sic!) della Camera Penale di Reggio Calabria. Una candidatura – almeno stando a quanto comunicato dal legale tramite Facebook – chiesta a sostanzialmente a furor di popolo dai colleghi, nonostante la condanna rimediata dalla Dieni, oltre che per un titolo di reato gravissimo, riguarda l'esercizio della funzione di avvocato. Tra i candidati alle elezioni del nuovo Consiglio Direttivo della Camera Penale "G. Sardiello", anche l'avvocato Gianfranco Giunta, condannato in via definitiva per il reato di favoreggiamento personale alla latitanza di Carmine De Stefano. Si vota oggi, a pochi giorni dalla pausa estiva. Compiti per le vacanze: rileggere Piero Calamandrei.
Il disordine degli avvocati: la replica del legale reggino Michele Albanese. Riceviamo e pubblichiamo: Egregio Direttore, in relazione all'articolo a Sua firma, pubblicato in data odierna su "Il Dispaccio", avverto il bisogno di manifestare il mio personale disappunto per il messaggio, a mio avviso non corretto, che il Suo scritto affida ai lettori. Sia chiaro, a scanso di ogni equivoco, che non intento assumere alcuna difesa pubblica dei Colleghi che Ella ha citato nell'articolo, così come non intendo esprimere alcun giudizio sulle scelte dell'Ordine Forense reggino. Sono tra coloro (sempre meno numerosi) che pensano che i processi si debbano celebrare nelle sedi naturali, cioè le Aule di Giustizia, e, pertanto, ho sempre stigmatizzato la tendenza, forse irresistibile, di molti Giornalisti ad una non utile spettacolarizzazione mediatica del processo penale. Ciò, si badi, pur nella piena consapevolezza dell'importanza, per un sistema democratico, di un'Informazione libera da vincoli e bavagli. Ella, tuttavia, caro Direttore, fornisce nell'articolo una rappresentazione fuorviante e parziale degli accadimenti e, pertanto, appare doveroso puntualizzare talune circostanze. Nella vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti gli Avv.ti Dieni e Putortì, forse Ella non ne è al corrente, il Consiglio dell'Ordine reggino, con inusitata rapidità, instaurò, all'epoca dell'arresto dei citati Professionisti, il relativo giudizio disciplinare. Nella circostanza furono acquisiti gli atti dell'incidente cautelare, invitati gli interessati a fornire le proprie controdeduzioni e adottato, nel contraddittorio, un provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare in attesa del passaggio in giudicato della sentenza penale. Ciò, mi permetto di farLe notare, forse anche in applicazione di quel principio di non colpevolezza, previsto dall'art. 27 della Carta, alla cui stesura, lo stesso Piero Calamandrei, nominato prima alla Consulta Nazionale e successivamente eletto all'Assemblea Costituente, come Ella certamente saprà, fornì un notevole contributo. Si legge ancora, nel Suo pregevole Scritto, una nota critica riguardo la circostanza che, "a furor di popolo", l'Avv. Dieni sarebbe stata richiesta di candidarsi, dai Colleghi, al Collegio dei Probiviri della locale Camera Penale. Dispiace, tuttavia, dover riscontrare, da parte Sua, una mancata attenta lettura delle ragioni per le quali "a furor di popolo" l'Avv. Dieni sia stata sollecitata alla candidatura. Dispiace, in particolare, che sia stata trascurata ogni riflessione sui motivi che possono aver determinato il sostegno, quasi unanime, della classe Forense rispetto alla candidatura dell'Avv. Dieni. Certo, comprendo perfettamente che, sul punto, un'eventuale riflessione avrebbe necessariamente imposto di aprire una parentesi sul significato implicito di quel corale sostegno che, a meno di non voler accusare l'intera classe forense reggina di collusioni e contiguità varie, assume il significato non di una mera manifestazione di solidale colleganza ma, si badi, di netta ed inequivoca presa di posizione rispetto ad una vicenda giudiziaria e ad un'accusa che, evidentemente, non convince una consistente parte degli "addetti ai lavori", cioè gli Avvocati. Interessante, sempre sul piano dell'Informazione, sarebbe stato, a mio modesto avviso, anche evidenziare come, forse per la prima volta negli ultimi trent'anni, gli Avvocati reggini abbiano assunto una netta posizione rispetto ad una vicenda giudiziaria della cui fondatezza, giova ripeterlo, evidentemente nutrono molti dubbi. Analogo spiegamento di forze, non mi pare che, prima d'ora, sia stato mai attuato in presenza di vicende giudiziarie che pure hanno visto coinvolti altri Colleghi. Come mai accade tutto ciò? Si tratta della reazione scomposta e pro domo propria di una categoria professionale malata (i cui appartenenti, siccome collusi, temono di poter rimanere coinvolti in analoghe disavventure) -come il tenore del Suo articolo lascerebbe intendere-, o è piuttosto una protesta nei confronti di una vicenda giudiziaria che desta non poche perplessità e dubbi? Mi permetto di farLe garbatamente notare, senza la pretesa di darLe suggerimenti, che, nell'ottica di un'equidistante e completa Informazione, forse sarebbe stato il caso di porseli tali interrogativi e di condividerli con i lettori della Sua meritatamente seguita testata. Non v'è dubbio che anche questa presa di posizione dell'Avvocatura partecipa di quel sistema distorto di giustizia mediatica che, anche grazie alla veicolazione, più o meno interessata e strumentale, di informazioni ai media da parte da molti operatori del diritto, nessuno escluso, si è ormai radicalizzato e con il quale occorre fare i conti. Stavolta, tuttavia, i conti occorrerebbe farli, sul piano, ribadisco, dell'informazione, con una presa di posizione di un'intera categoria che intende contrapporsi, ovviamente in modo civile e democratico, ad un'accusa e ad una conseguente condanna che, a torto o a ragione, ritiene evidentemente ingiusta. Forse sarebbe stato opportuno, da parte Sua, interrogarsi su tali ultimi eventi con animo più sereno, evitando di lanciare il messaggio subliminale, questo si delirante, che gli Avvocati, compreso il Consiglio dell'ordine, siano tutti collusi. Concludo, accogliendo favorevolmente il Suo gentile invito allo studio estivo del pensiero di un Grande Giurista-Partigiano, Piero Calamandrei, il quale, in occasione di un memorabile discorso sulle libertà e le garanzie costituzionali (tra cui, non lo dimentichi Egregio Direttore, anche la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva), disse che la Carta "è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione". Michele Albanese.
Nota del Direttore. Egregio Avvocato, Ringrazio per la velocissima, sebbene lunga, replica che ha dedicato al mio articolo. Accolgo le sue riflessioni che in parte condivido (rispetto degli insegnamenti costituzionali, stima nella categoria forense reggina, ecc.), nel suo testo però manca a mio avviso il dato principale della vicenda: la sua assistita, avv. Giulia Dieni, è stata riconosciuta colpevole in primo grado da un tribunale che ha pronunciato una sentenza "in nome del popolo italiano" (proprio per richiamarci ai principi costituzionali di cui sopra). Una sentenza per un reato gravissimo (associazione mafiosa) che, in un territorio difficile come il nostro assume ulteriore rilevanza perché il fenomeno mafioso, lei sarà sicuramente d'accordo, distrugge ogni cosa positiva, tanto nel mondo politico ed economico, quanto in quello sociale e professionale. Per la sua assistita non si è mai invocata alcuna "forca" né giudiziaria né mediatica ma, semplicemente, ci stupisce la scelta di una candidatura che arriva ad appena due settimane dalla sentenza di condanna. Siamo convinti che il procedimento è ancora lungo ed ha diversi gradi di giudizio per poter chiarire ogni cosa, ma siamo altrettanto certi che un territorio può crescere non solo con l'attività repressiva e giudiziaria, ma, soprattutto, se la sua parte migliore (ed in essa inseriamo pienamente l'avvocatura) sarà capace di dare segnali forti, talvolta anche in contrasto con i rapporti personali e professionali, naturali nella vita di ogni persona.
Segnali che in questa vicenda non sono arrivati e continuano a non arrivare. Claudio Cordova.
Reggio Calabria, “Benvenuti” nella città sequestrata: è l’estate della tristezza, giovani in fuga. Reggio Calabria, la città e i suoi simboli “sotto sequestro”: un’estate tristissima, giovani in fuga, scrive il 21 luglio 2016 Peppe Caridi su “Stretto Web”. “Benvenuti” a Reggio Calabria, la “città sequestrata” nell’estate della tristezza. Da un punto di vista della vita mondana, sembra di essere tornati agli anni ’90. Per divertirsi bisogna andare fuori, c’è di più persino nei paesini della Provincia. Proprio come una volta. Quella città che attraeva giovani, turisti e visitatori da tutto l’hinterland calabrese e siciliano con la “movida” del Lungomare e le notti estive ricche di eventi prestigiosi è ormai un pezzo di storia che appartiene al passato e rimane soltanto nei ricordi nostalgici di una città viva e in fermento che oggi non c’è più. Ma i passi indietro sono molti di più. Dalla Reggio “bella e gentile” (così veniva descritta dai turisti del dopoguerra), alla Reggio “barbara” di oggi. In pochi anni, il tessuto sociale cittadino s’è letteralmente sfaldato. Era una città con un’anima Reggio Calabria. Aveva un cuore. Era la città che nel 1970 aveva fatto le barricate per difendere il capoluogo. Che il 12 marzo 2009 festeggiava la “promozione” a Città Metropolitana (molto più di un capoluogo), chiudendo il cerchio con lo scippo di 40 anni prima, vedendo la luce e finalmente compiendo il riscatto. Era una città unita Reggio Calabria, la sua comunità compatta pur nelle diversità di visioni politiche, religiose, sociali. Era una città in cui ci si poteva confrontare, ma il bene comune aveva sempre la priorità sugli interessi dei singoli. Adesso la città si è letteralmente imbastardita. E’ divisa, nervosa, isterica, volgare. E’ una nobile decaduta, nel calcio e non solo. Il “bene comune” non si sa più neanche cosa sia. Le varie componenti cittadine camminano su binari separati che mai si incontrano, e tutti sembrano portare ad una strada morta. E’ una città che non riesce a rispondere con solidarietà neanche a un’epocale emergenza umanitaria come quella dei migranti. E’ una città che non ha e non può avere futuro. Il “bene comune”, dicevamo. Era talmente tanto preminente che questa città ha fatto la serie A per anni “in deroga”. Negli anni d’oro della Reggina, infatti, lo stadio Granillo (impianto comunale) non aveva l’agibilità e non poteva ospitare il numero di spettatori (oltre 30.000) che allora gremivano gli spalti del glorioso impianto amaranto. Due sindaci di partiti politici opposti, Italo Falcomatà prima dal 1999 al 2001, Scopelliti poi dal 2002 al 2003 (quando riuscì a ottenere l’agibilità per l’impianto), firmavano la deroga per l’utilizzo dello stadio ogni domenica sotto la loro responsabilità. Qualsiasi cosa sarebbe accaduta, ne avrebbero risposto personalmente. Altri uomini, altri tempi: oggi chi sarebbe disposto a farlo, in questa città in cui l’unica preoccupazione è guardarsi il proprio vellutato sederino, salvaguardare la propria comoda poltroncina? Oggi, infatti, Reggio Calabria è la “Città Sequestrata”. Il Kalura, l’Oasi, il Lido Acquarius, i Gazebo sul Lungomare (per la seconda volta in piena estate), il Centro Sportivo Sant’Agata, il Teatro Catona. Dalla balneazione alla musica, dalla ristorazione allo sport, dalla cultura allo spettacolo: tutto illegale, tutto chiuso, tutto annullato. Saranno anche provvedimenti sacrosanti, ci mancherebbe. Non abbiamo citato la miriade di locali “minori” sequestrati, ma soltanto quelli più noti, esistenti da molti decenni. Hanno fatto la storia della città, di generazione in generazione. L’Oasi, il Kalura e l’Acquarius sono operativi da circa 50 anni. Il Centro Sportivo Sant’Agata da 25. Teatro Catona e i Gazebo sul Lungomare da 20. In città tutti si chiedono come sia possibile che soltanto adesso ci si accorga che siano “irregolari”, “abusivi”, “inagibili”, “realizzati male” ecc. ecc. ecc.? Certo, meglio tardi che mai… ma intanto sono centinaia i posti di lavoro perduti, le famiglie in difficoltà, e molto più ingenti le ripercussioni sull’economia che queste attività generavano con un indotto non indifferente. E’ la città che muore. E il Centro Sportivo Sant’Agata, era il fiore all’occhiello sportivo, sociale ed economico. Un’eccellenza non solo per Reggio, ma per l’Italia. Formava professionalità importanti, allontanava i giovani dalla strada (e dalla malavita), gli dava un’occasione di affermarsi a massimi livelli. Oggi nei campi c’è già l’erba alta oltre mezzo metro, i locali sono abbandonati da mesi. E sono soltanto gli episodi più recenti, perchè potremmo parlare del Parco Caserta, ancora chiuso dopo anni di promesse. Dei lavori sul Corso Garibaldi, fermi e bloccati per un ridicolo scarica-barile tra Comune e Soprintendenza che prosegue da anni. Anche qui, è la città che muore: la principale arteria commerciale della città paralizzata da cantieri-fantasma in piena estate. Ciò che non è sequestrato, è fermo, chiuso, bloccato. Piazza Camagna e il suo storico Bar che ha deciso di chiudere dopo anni di attività mortificata (e, di fatto, impedita) dalle transenne che hanno bloccato una delle piazze storiche del cuore cittadino. Piazza Duomo, piazza Garibaldi, sempre per rimanere nel cuore della città. Il Corso Garibaldi, che nel 2003 era diventato (con successo) un’isola pedonale in cui oggi manca ogni tipo di controllo e ogni sera scorrazzano centinaia di auto e motorini, che tra l’altro si parcheggiano come se niente fosse, nella più totale assenza degli organi preposti a far rispettare le regole. Il nuovo tratto del Corso, quello zona Sud, vede realizzata esclusivamente la pavimentazione: mancano le luci, i cassonetti della spazzatura, ogni altro minimo arredo. Chi ha un pezzo di carta da buttare, deve tenerlo in mano per diverse centinaia di metri, eppure il Sindaco e gli Assessori hanno pubblicato un selfie trionfalistico perchè hanno installato nuovi cestini sul Lungomare (forse l’unica zona della città in cui non servivano perchè già presenti in abbondanza). Poi c’è il Palazzo di Giustizia. Nel 2014 Renzi prometteva l’immediato sblocco dei lavori e la sua repentina realizzazione. Sono passati oltre due anni ed è ancora tutto fermo, mentre un blackout elettrico proprio nei giorni scorsi ha paralizzato l’attività del Tribunale al Ce.Dir. Roba da terzo mondo. Che fine hanno fatto i “tavoli” romani “speciali” per Reggio Calabria e il suo futuro? Se n’è parlato molto in tempi elettorali, adesso è calato il sipario. Restano i lidi sul Lungomare (con il tanto discusso limite dell’orario) ma l’imbarbarimento è tale che sono più le serate che sfociano in violente risse di gruppo rispetto a quelle che trascorrono all’insegna del divertimento. I giovani sono letteralmente in fuga: non più soltanto per motivi di studio e lavoro. L’Università continua a vedere un drastico calo di iscritti, ma anche per le vacanze e per l’estate si iniziano a preferire altre località. Intorno a Reggio, c’è un mondo e persino un Paese che va avanti nonostante le difficoltà. Ci sono tante città del Sud ricche di eventi, locali e attività, non si pretende l’America ma se oggi Reggio non offre neanche ciò che si può trovare nei paesini della provincia, bisogna farsi qualche domanda. E’ una città senza futuro: la nuova Amministrazione Comunale ha ben pensato di bloccare il meraviglioso progetto di Zaha Hadid che avrebbe proiettato il Lungomare a livelli d’innovazione e d’interesse internazionale senza paragoni, con il nuovo Waterfront che nel 2010 era stato presentato ufficialmente a Londra, riscuotendo consensi straordinari ben oltre i confini nazionali e continentali. La stessa Amministrazione è stata persino più fredda dei commissari rispetto allo straordinario progetto della Reggina Calcio per riqualificare la zona dello stadio Granillo in vista della costruzione del nuovo impianto di proprietà del club a Bolano. L’ennesima occasione sprecata. Prospettive di crescita e sviluppo non ce ne sono neanche a cercarle con particolare meticolosità. Nessun progetto ambizioso, nessun disegno importante, neanche una minima idea di dare alla città una sorta d’identità. Reggio non ha più confronti, è chiusa in se’ stesso, è imbarbarita, è sequestrata. Persino l’Aeroporto è commissariato e dei voli internazionali con i progetti di scambio culturale che hanno portato migliaia di giovani reggini a Malta, Parigi, Barcellona, Atene, Berlino e molte altre città europee, è rimasto solo un ricordo sbiadito dal tempo. Adesso ci manca soltanto un altro scioglimento del Comune, auspicato dal Movimento 5 Stelle che oggi ha chiesto al Ministro Alfano di inviare una nuova commissione d’accesso a Palazzo San Giorgio dopo quella del 2012, per mettere definitivamente una pietra tombale alle piccole e residue chance di inversione di rotta per una città di fatto già morta. Ma il “bene comune” non esiste neanche più nel vocabolario cittadino. Ognuno pensa al proprio orticello e se c’è un “motto” che può identificare al meglio lo stato d’animo della città che fu “bella e gentile”, che fu piacevole, pulita, divertente e gioiosa, nel degrado e nel malcontento di oggi c’è soltanto un tristissimo “si salvi chi può”. Di questa triste estate, possiamo trovare comunque un fanalino di speranza. L’unica luce sono infatti le inchieste e le operazioni messe a segno da magistratura e forze dell’ordine: finalmente si è alzato il tiro andando a scoperchiare quella “cupola” che soggioga la città. Quella “borghesia mafiosa” che – come emerge dalle inchieste – tiene sotto controllo praticamente tutto ciò che accade in riva allo Stretto. L’impressione (e la speranza) è che sia solo l’inizio. Perché forse per ripartire bisogna prima toccare il fondo; ma se alla repressione dello Stato non seguirà anche la presa di coscienza di una “rivoluzione” sociale, saremo sempre punto e a capo.
Reggio Calabria, Comune verso un nuovo scioglimento? Chiesto ad Alfano l’invio della commissione d’accesso a Palazzo San Giorgio. Reggio Calabria, il Movimento 5 Stelle denuncia il rischio di ulteriori infiltrazioni della ‘ndrangheta al Comune e chiede l’invio di una nuova commissione d’accesso, scrive il 21 luglio 2016 Peppe Caridi su "Stretto Web". “La commissione d’accesso per il comune di Reggio Calabria è strumento di controllo consentito dalla legge”. Dopo le inquietanti risultanze delle inchieste “Reghion” e “Mammasantissima”, l’hanno chiesta i deputati calabresi M5s Dalila Nesci, Federica Dieni e Paolo Parentela, con i componenti 5 Stelle della commissione bicamerale Antimafia Giulia Sarti, Francesco D’Uva e Riccardo Nuti, mediante un’interrogazione al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che il prossimo 28 luglio incontrerà a Catanzaro i prefetti delle province della Calabria e i vertici di Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza. Sostengono l’accesso al municipio anche la parlamentare europea Laura Ferrara e il senatore Nicola Morra, esponenti 5 stelle. “La richiesta della commissione d’accesso nel Comune di Reggio Calabria è un’azione doverosa e necessaria” – spiegano gli esponenti grillini – “quel municipio è stato sciolto nel 2012 per contiguità mafiose e dalle citate inchieste non risultano rimosse le incrostazioni e connivenze nel palazzo“, affermano i parlamentari del Movimento 5 Stelle, che premono per bonificare la politica dalla ‘ndrangheta e domenica 24 luglio scenderanno in piazza a Reggio Calabria con i deputati Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, insieme alla propria rappresentanza parlamentare nella regione, ai suoi eletti nei Comuni calabresi, ad attivisti e società civile. L’interrogazione dei 5 stelle al ministro Alfano riassume il “condizionamento ininterrotto del municipio di Reggio Calabria ricostruito dalla Procura reggina e il reticolo di rapporti e riferimenti di un gruppo di potere politico, massonico e mafioso in grado di captare enormi risorse pubbliche a proprio vantaggio. Ci sono, poi, passaggi specifici sull’isolamento subito dall’assessore ai Lavori pubblici del Comune di Reggio Calabria, Angela Marcianò, proprio quando ostacolò il dirigente Marcello Cammera, l’uomo chiave di Paolo Romeo, questi già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e ritenuto il dominus dell’apparato di potere individuato dalla Procura. Secondo i parlamentari 5 stelle, Alfano, che all’epoca dei fatti emersi guidava il Ministero della Giustizia, ha un’innegabile responsabilità politica sui relativi ritardi. Perciò – concludono i parlamentari 5 stelle – oggi non può rendersi sordo ne’ temporeggiare. A Reggio Calabria e nell’intera regione c’è un’emergenza assoluta. Col grave silenzio e immobilismo voluto finora dalle istituzioni elettive, la titolarità reale dell’amministrazione pubblica sta rimanendo nelle mani di ‘ndrangheta e massoneria degenere”. Già nel gennaio 2012 a Palazzo San Giorgio si era insediata la commissione d’accesso, inviata dall’allora Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. I commissari erano arrivati al Comune per fare luce sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, e dopo 10 mesi, ad ottobre, il governo aveva deliberato lo scioglimento del consiglio comunale per “contiguità con la ‘ndrangheta”. Adesso, dopo due anni e due mesi di commissariamento (un provvedimento che avrebbe dovuto “bonificare” la democrazia), e quasi due anni di governo di una nuova maggioranza democraticamente eletta, siamo ancora punto e a capo. L’invio della commissione d’accesso di per sè potrebbe già paralizzare l’attività amministrativa (non particolarmente fitta), come già accaduto quattro anni fa, a prescindere poi dall’esito delle risultanze investigative.
Mafia, Scilipoti: "Avvocato condannato, mi scriveva interrogazioni? Non sapevo", scrive il 16 maggio 2016 Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano tv". È stato intercettato con l’avvocato Paolo Romeo, già condannato per mafia e principale indagato dell’inchiesta ‘Fata Morgana‘ grazie alla quale la Dda di Reggio Calabria sta facendo luce su un’associazione segreta “di evocazione massonica i cui interessi – scrivono i magistrati – si intrecciano, in un osmotico rapporto, con gli interessi economici e strategici della ‘ndrangheta”. Nell’ambito dell’inchiesta, i Pm hanno intercettato il senatore Domenico Scilipoti al quale Romeo avrebbe scritto alcune interrogazioni parlamentari poi presentate dall’esponente di Forza Italia all’ex ministro Maurizio Lupi (Ncd). “Non sapevo che Romeo fosse stato condannato per mafia. È la prima volta che lo sento dire. Non è che è un delitto non sapere queste cose”, dichiara l’esponente di Forza Italia ai microfoni de ilfattoquotidiano.it che, a più di quattro giorni dal blitz, non sa nemmeno che Paolo Romeo è stato arrestato: “Non lo sapevo. Io ricevevo e ascoltavo non solo lui, ma tutti coloro i quali sul territorio hanno qualcosa da dire e poi li trasformo in interrogazioni parlamentari. Ma per chiedere delle cose legittime. Non capisco il nesso tra l’arresto di Romeo e le mie interrogazioni parlamentari”
'Ndrangheta, le mani delle cosche sul Terzo Valico: quaranta arresti in tutta Italia. Nuove accuse per il senatore Caridi. Operazione in Calabria, Liguria e a Roma. Colpite le famiglie Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro. Indagato il vicepresidente del consiglio regionale, D'Agostino, scrive Alessia Condito il 19 luglio 2016 su "La Repubblica". Quaranta persone, tutte affiliate o vicine ai clan della Piana di Gioia Tauro, ma radicate anche in Liguria, sono finite in manette per ordine della Dda di Reggio Calabria. Un'indagine monumentale, che ha visto lavorare gomito a gomito le squadre mobili di Reggio Calabria e Genova, coordinate dallo Sco di Roma, come i centri Dia delle stesse città. Il risultato è una fotografia dinamica di quasi dieci anni di radicamento mafioso, scritta di proprio pugno dai clan Gullace-Raso-Albanese e Parrello Gagliostro tra Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, e la Liguria. Sotto la lente degli investigatori dello Sco e della Squadra Mobile della polizia e dei reparti della Dia sono finiti affari e attività dei clan di ndrangheta Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro, che dalla provincia reggina sono riusciti ad infettare anche l'economia del Ponente ligure, mettendo le mani anche sugli appalti del Terzo Valico, la linea ad alta velocità Genova-Milano, opera da 6,2 miliardi attualmente in fase di realizzazione: tanto da arrivare a sovvenzionare, secondo la Dda, i comitati per il "Sì Tav". Una storia in cui tanto l'imprenditoria, come la politica hanno un ruolo da protagonista. In negativo. Ad agevolare le attività dei clan ci sarebbero stati anche rappresentanti politici locali, regionali e nazionali originari di Reggio Calabria, fra cui il senatore di Gal, Antonio Caridi, raggiunto da nuove accuse. Per lui, i magistrati reggini hanno già chiesto l'arresto qualche giorno fa alla Camera di appartenenza, perché coinvolto nell'operazione che ha svelato la cupola massonico-mafiosa che governa la 'ndrangheta. Proprio per questo il gip ha considerato la contestazione che i magistrati gli muovono nell'ambito di questo procedimento pienamente assorbita dalla precedente. Caridi - sostiene il giudice - è uno strumento della direzione strategica della 'ndrangheta tutta, che unitariamente sa che deve rivolgersi a lui in caso di bisogno. E in cambio sa che deve fornire appoggio alle elezioni. "Nel caso delle regionali del 2010 - spiega il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Gaetano Paci - gli uomini del clan hanno usato metodi da manuale dello scambio elettorale politico mafioso, arrivando a minacciare i dipendenti delle loro imprese di licenziamento se loro e le loro famiglie non avessero votato Caridi. E lui lo sapeva". Ma Caridi non è l'unico parlamentare ad essere finito nei guai. I magistrati reggini avevano chiesto l'arresto anche per il parlamentare del gruppo misto Giuseppe Galati, ma l'istanza non è stata accolta dal gip. Per i pm, il parlamentare si è fatto corrompere da Girolamo Raso, che da lui pretendeva una mano per ottenere lo sblocco dei lavori edili sospesi perché eseguili in zona vincolala nel Parco Naturale Decima Malafede, a Roma, anche appalti e lavori per il trasporto pubblico e per lo smaltimento rifiuti nella capitale. Allo scopo, Raso insieme al senatore Caridi, avrebbe incontrato due volte Galati, ma non c'è prova che abbia ricevuto alcuna utilità. Per questo, la richiesta è stata però bocciata dal gip, che non ha ritenuto sufficiente il quadro indiziario a carico del parlamentare. Per lui non hanno chiesto alcuna misura cautelare, ma è indagato e la sua casa e il suo ufficio sono stati passati a pettine fitto dagli uomini della Dia, Francesco D'Agostino. Attuale vicepresidente del consiglio regionale della Calabria, eletto con 7.900 voti nella lista Oliverio presidente alle regionali del 2014, per i magistrati della Dda è "una delle pedine di cui si servivano i clan per portare a termine i loro affari". Su di lui, gli accertamenti sono ancora in corso, al pari di quelli sui molti amministratori locali che le indagini hanno dimostrato "sensibili" alle richieste dei clan, dei loro prestanome come degli imprenditori che non hanno avuto problema alcuno a lavorare con loro. Tra gli arrestati, inoltre, c'è anche un ex collaboratore dell'attuale vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri. Si tratta di Giuseppe Iero, dal 23 gennaio assunto come responsabile della struttura del consigliere regionale di Forza Italia, Domenico Cannizzaro, ma per lungo tempo uomo di fiducia e portavoce del senatore Antonio Caridi. Secondo i pm, Iero sarebbe il trait d'union con i clan e soprattutto con Jimmy Giovinazzo, l'imprenditore di riferimento dei Raso-Gullace-Albanese. Dagli investimenti immobiliari in Costa Azzurra, Canarie e Brasile agli agriturismi, dal movimento terra alla commercializzazione di prodotti alimentari contraffatti, i tentacoli imprenditoriali dei due clan si estendevano nei settori più diversi ed avevano trovato sede in tutto il Nord Italia. Un lavoro minuzioso, coordinato dalla Dia, che ha permesso di scoprire anche come i clan gestissero numerose ditte di igiene ambientale e industriale che hanno finito per lavorare in subappalto anche per "Poste Italiane S.p.a." e "Alleanza Assicurazioni S.p.a.". "Siamo di fronte a una nuova operazione - dichiara il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho - che dimostra come la 'ndrangheta abbia ormai ramificazioni stabili sul territorio nazionale. Non è solo criminalità spiccia. Dall'indagine sono emersi gli interessi dei clan in decine di imprese, attive non solo nel classico settore del movimento terra, ma anche in quelli ad alta tecnologia e specializzazione, come quello della produzione delle lampade a Led". Sul fronte del Terzo Valico, spiega il procuratore "abbiamo importanti riscontri riguardo gli appalti che dimostrano come i clan fossero attivi sul fronte del Sì Tav". I comitati a favore della grande opera sono stati sovvenzionati dal clan, interessati ai cantieri che sarebbero stati aperti anche in Liguria. Tutte attività coordinate dalle Calabria, dove è rimasta la direzione strategica del clan, in grado anche di comprare funzionari dell'Agenzia delle Entrate e della Commissione Tributaria della medesima provincia. Le indagini, dirette dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, con il coordinamento del Servizio Centrale Operativo, sono state condotte dalla Squadra Mobile di Genova e Reggio Calabria nonché di Savona. Altro segmento di indagine è stato svolto dal Centro Operativo Dia di Genova, collaborato dai Centri Dia di Reggio Calabria e Roma. Sotto sequestro sono finiti beni mobili, immobili, depositi bancari di numerose società riconducibili alle consorterie mafiose per un valore complessivo stimabile in circa 40 milioni di euro.
‘Ndrangheta, “do un pezzo di terreno a questo onorevole”. Le intercettazioni sul verdiniano Galati. Il deputato calabrese di Ala indagato per corruzione, ma il gip ha respinto la richiesta di arresto: "Sicuramente coinvolto, ma nessuna prova di una contropartita". Oggetto, un intervento edilizio nella zona Sud di Roma. Nuova tegola su Antonio Caridi (Gal): "Referente della cosca Gullace", scrive Lucio Musolino il 19 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Dall’attività tecnica è incontrovertibilmente emersa la completa messa a disposizione dell’assessore Caridi agli interessi ‘ndranghetistici”. Da tre anni l’ex assessore regionale Antonio Stefano Caridi è senatore della Repubblica, eletto nella lista delPd e oggi con Gal. L’operazione “Alchemia”, che ha portato all’arresto di 42 soggetti della cosca “Raso-Gullace-Albanese”, è il secondo guaio giudiziario in meno di una settimana per il parlamentare calabrese cresciuto alla corte dell’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Appena pochi giorni fa, infatti, la Direzione distrettuale antimafia ha avanzato alla Giunta per le autorizzazioni la richiesta all’arresto del senatore disposto dal gip Santoro nell’ambito dell’inchiesta “Mamma Santissima”. Stando all’indagine “Alchemia”, il boss Girolamo Raso, Jimmy Giovinazzo e i nipoti Rocco e Rosario Politi, volevano realizzare tre villette a schiera a Roma nella zona “Parco Naturale Decima Malafede” che però era sottoposta a vincolo ambientale. Per farlo si erano rivolti al senatore Caridi e al deputato Giuseppe Galati (nella foto), ex berlusconiano poi illuminato sulla via di Verdini e oggi, quindi, a pieno titolo esponente calabrese del Partito della Nazione. Il progetto edilizio che voleva realizzare la ‘ndrangheta nella periferia sud di Roma, secondo gli inquirenti potrebbe essere stato più ampio. Almeno all’inizio quando la squadra mobile di Reggio Calabria intercetta Luciana Politi (anche lei indagata) mentre parla di alcuni appalti pubblici nel settore del trasporto e dello smaltimento di inerti e rifiuti urbani nel Comune di Roma. “Parlo anche con Saro perché questi non vogliono solamente i trasporti, smaltimenti e quello che fa Rocco, vogliono fare tutto… serve sia il trasporto, quello che fa Rocco e anche quello che Saro… Si fa tutto insieme e con questi qua se la mangiano Roma”. In cambio dell’aiuto, la cosca avrebbe offerto a Galati un lotto di terreno di proprietà di Rocco Politi. “Mo’ ci deve dare la risposta, prima della fine di settembre… ci ha promesso… – è la voce di Mimma Politi – perché non è solo la casa fatta come…coso… col piano che non si può costruire… è tutto il terreno qui no… la parte nostra… è parco… gli ha detto(Jimmy)… guarda, se tu riesci a farci questa cosa, io parlo con mio cognato… con Rocco… no… e faccio darti un pezzo di terreno a te a questo onorevole personalmente. Quindi ha detto si interessa si interessa per forza perché a lui questa zona gli piace… però, ha detto, essendo parco non puoi fare niente… però se riesci a sbloccare la casa, calcola che 500 metri di terra, perché lui vuole costruirsi la casa… in questa zona, perché gli piace… te li diamo a te. Allora lui si è interessato”. Secondo gli inquirenti il deputato Galati, per due volte si sarebbe incontrato con gli emissari della cosca che gli avevano chiesto aiuto per rendere edificabile l’area. Nei confronti del politico calabrese, i pm avevano ipotizzato il reato di corruzione ma per il gip non ci sono “elementi sufficienti a delinearne la condotta. Le risultanze investigative danno sicuramente conto di un coinvolgimento dell’onorevole nella vicenda del blocco dei lavori di realizzazione edilizia in zona vincolata, ma difettano della prova sia della proficuità dell’intervento richiesto e offerto (sblocco dei lavori o aggiudicazione degli appalti), sia della ricezione o anche solo dell’accettazione di un immobile di proprietà di Politi Rocco”. Diversa e più complicata la posizione del senatore Caridi. Stando alla montagna di intercettazioni e all’attività investigativa, infatti, Caridi viene indicato “come il referente politico di varie articolazioni territoriali di ‘ndrangheta tra cui la cosca Raso-Gullace-Albanese. – scrive il gip – Il materiale indiziario ha fornito prova di come la messa a disposizione dell’indagato uomo politico abbia contribuito ad accrescere inevitabilmente il prestigio e le capacità operative dell’organismo criminale nel suo complesso, potendo gli affiliati contare all’occorrenza sui particolari e qualificati servizi che costui era in grado di offrire loro”. Un ‘do ut des’ che trova riscontri anche nelle regionali 2010 quando Caridi è stato eletto con 11mila e 500 voti. “Era sin da subito emerso che, nel corso della campagna elettorale, – si legge nell’ordinanza – il Caridi non avesse affatto disdegnato l’appoggio e l’alacre attivismo di esponenti di primissimo ordine nella ‘ndrangheta calabrese”. In sostanza, secondo l’accusa, un politico al servizio del clan: Caridi era stato interpellato non solo per il blocco dei lavori nella zona “Parco Naturale Decima Malafede” (la stessa vicenda di Galati, ndr), ma anche – scrivono i magistrati – “quando era stato necessario provvedere all’aggiudicazione di alcuni (non meglio specificati) lavori pubblici nella capitale in favore di aziende mafiose; finanche per questioni minori, quando era stato chiesto un suo intervento per consentire a un soggetto di ottenere l’abilitazione all’esercizio di attività di mediazione immobiliare; per risolvere questioni di ordine ‘burocratico’ presso l’Agenzia delle Entratedi Palmi e presso la Commissione Tributaria di Reggio Calabria; per truccare concorsi; per inserire la nipote del boss Girolamo Raso all’università La Sapienza di Roma alla facoltà di Odontoiatra, il cui accesso era a chiuso”. Ma Galati e Caridi non sono gli unici politici indagati nell’inchiesta “Alchemia”. La squadra mobile e la Dia hanno perquisito anche l’abitazione e l’ufficio del vicepresidente del Consiglio regionale Francesco D’Agostino, eletto con oltre 4900 voti alle regionali del 2014 con la lista “Oliverio Presidente” molto vicina alle posizioni del Partito democratico. Imprenditore di Cittanova, D’Agostino è “sinonimo” dell’azienda “Stocco&Stocco” che commercializza lo stoccafisso e per anni è stata lo sponsor della Reggina Calcio. Per la Procura, D’Agostino è sempre stato un prestanome della cosca Raso-Gullace così come ha riferito ai magistrati la collaboratrice Teresa Ostareg, ex moglie di Vincenzo Mamone, parente degli uomini del clan. Da qui l’accusa di intestazione fittizia aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta che, al momento, non è stata condivisa dal giudice per le indagini preliminari. Secondo la Procura, però, a pesare sulla posizione del vicepresidente del Consiglio regionale ci sarebbero anche alcune intercettazioni telefoniche in cui altri indagati fanno riferimento a D’Agostino. “L’assunto accusatorio – sottolinea il gip – non è condivisibile, essendo dalle indagini emersa una immanente accessibilità all’azienda da parte degli indagati, leggibile piuttosto attraverso la contestualizzazione dell’attività aziendale esercitata in territori nei quali, nulla si muove ed alcuna iniziativa si intraprende senza il controllo delle cosche ivi imperanti che, anche nel corso della gestione delle imprese, non lesinano di atteggiarsi a ‘padroni’ della stessa, le cui prestazioni e partecipazione sono gratuitamente dovute, in forza di un genetico compromesso”. In merito all’inchiesta il deputato Giuseppe Galati si dice convinto che “presto verrà fatta chiarezza e sarà dimostrata la mia totale estraneità a questa vicenda. Senza timore di smentita, posso assicurare che mai in tutti questi anni il senatore Caridi mi ha proposto o chiesto, né fatto prospettare da altri, favori o affari di qualsivoglia natura, legale o illegale, tanto meno quelli oggetto dell’inchiesta che oggi mi vede coinvolto. Pur avendo sempre lodato e apprezzato il lavoro della magistratura, fondamentale per il rispetto della legalità in una regione difficile come la Calabria, ho la sensazione di trovarmi in mezzo a una forzatura mediatico-giudiziaria, già verificatasi altre volte in passato, utile soltanto ad alimentare populismo, giustizialismo e processi sulla stampa”.
'Ndrangheta: il senatore Caridi al vertice della "cupola segreta" calabrese. Cinque uomini tra politici e avvocati avrebbero condizionato gli appuntamenti elettorali e deciso chi doveva sedere in Parlamento, scrive Nadia Francalacci il 15 luglio 2016 su "Panorama". Il senatore Antonio Caridi, sarebbe uno dei cinque elementi della “cupola segretissima” di vertice della 'Ndrangheta. Avrebbe condizionato gli appuntamenti elettorali in ambito comunale, provinciale, regionale individuando, assieme ad altri quattro uomini, persino i propri affiliati da proiettare in Parlamento. Questo è quello che hanno scoperto i Carabinieri del Ros di Reggio Calabria che questa mattina, nell’operazione “Mammasantissima”, hanno stroncato la cupola arrestando tutti gli illustri e insospettabili appartenenti. Assieme a Caridi, senatore di Gal, la cui ordinanza di custodia in carcere stata inviata alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, infatti, sono stati arrestati anche l'ex deputato del Psdi Paolo Romeo, già in carcere dal 9 maggio scorso, l'ex consigliere regionale e sottosegretario della Giunta regionale di centrodestra Alberto Sarra, l'avvocato Giorgio De Stefano e Francesco Chirico. La "struttura segreta di vertice" della 'Ndrangheta, in base all’indagine dei Ros, avrebbe dato le direttive a tutta l'organizzazione e tenuto contatti di "alto livello", nei vari ambienti politici, istituzionali ed imprenditoriali per infiltrarli ed asservirli ai propri interessi criminali. L'ordinanza di custodia cautelare, eseguita stamani dai carabinieri, è stata emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria secondo cui i cinque destinatari del provvedimento sono tutti accusati di associazione mafiosa. Sempre secondo la procura, la “cupola” composta dai cinque uomini era in grado di condizionare gli appuntamenti elettorali a tutti i livelli: dal locale al nazionale. "La misura cautelare di oggi rappresenta un ulteriore sviluppo del quadro 'ndranghetistico-massonico descritto che figura in provincia di Reggio Calabria. Si tratta di un livello superiore", ha commentato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, in merito all'inchiesta". Solo pochi giorni fa, un’altra operazione dei carabinieri aveva sgominato un’organizzazione criminale facente capo alle ‘ndrine calabresi che era riuscita a gestire gli impianti idrici e di depurazione delle acque in numerose località Italia. Un vero e proprio "comitato d'affari" composto da dirigenti, funzionari pubblici e imprenditori capaci di gestire la "macchina amministrativa comunale" nell'interesse della 'ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese che era riuscita ad infiltrarsi nell’apparato dello Stato e a gestire dall’interno appalti milionari attraverso gare truccate, estorsioni e mazzette.
Antonio Caridi, il senatore "dirigente della cupola di 'ndrangheta". "Mammasantissima" è l'indagine sulla mafia calabrese che fa tremare la politica italiana. Per il parlamentare ex Ncd è stato chiesto l'arresto. Ma nelle carte spuntano i nomi di Gasparri e Alemanno, che non sono indagati, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il senatore Antonio Caridi è un «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Punto di riferimento nazionale, insomma, di quella che la procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho definisce una struttura segreta e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd, ora nel gruppo Gal, Grande autonomia e libertà. Su Caridi dovrà ora esprimersi la giunta per le autorizzazioni di palazzo Madama. Intanto la richiesta è già partita per Roma. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia. Di questa cupola elitaria fanno parte al momento cinque persone. I capi sono due avvocati (e già questo la dice lunga sulla natura di questa entità) Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Entrambi hanno segnato la storia criminale dello Stretto. Dai boia chi molla in poi, tra massoneria deviata, eversione nera e fittissimi intrecci con il potere anche nazionale. Accanto a loro c'è, ipotizzano investigatori e pm, Alberto Sarra, già sottosegretario nel governo regionale guidato da Giuseppe Scopelliti. Poco più sotto nella gerarchia si trova l'imprenditore Francesco Chirico. E infine, il politico che è arrivato a Roma: Antonio Caridi. Del senatore Caridi, agli atti dell'inchiesta "Mammasantissima" coordinata dal pm Giuseppe Lombardo, c'è tutta la sua carriera politica. Un percorso, ora emerge, viziato dal continuo appoggio delle cosche reggine. Per esempio: «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, cosca De Stefano, in occasione di tutte le consultazioni elettorali alle quali prendeva parte, dalla prima candidatura (elezioni comunali 1997) alle elezioni regionali del 2010»; «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, clan Crucitti e Audino in occasione delle elezioni regionali del 2005». Così anche, ma con sostegno di famiglie diverse, per le regionali del 2000, per le comunali del 2007 e così via. Avrebbe, inoltre, utilizzato una 'ndrina della città, i Tegano, per «individuare l'autore di un'intimidazione subita nova anni fa». Non solo. Per il sistema di cui fa parte avrebbe deciso nomine nella partecipate, fatto assunzioni pilotate e canalizzato finanziamenti. Tutto questo per agevolare l'associazione. Anche «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico, delle cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio Comunale di Reggio Calabria, della Giunta Comunale di Reggio Calabria, del Consiglio Regionale della Calabria, della Giunta Regionale della Calabria e del Senato della Repubblica». Da questo e molto altro Caridi si dovrà difendere davanti ai colleghi senatori. Che, con tutta calma, dovranno valutare se la richiesta d'arresto è fondata su solide basi. Non è il solo politico di caratura nazionale citato nei documenti dell'accusa. Gianni Alemanno (in fondo all'articolo la sua replica), per esempio, viene tirato in ballo per le elezioni europee del 2004. Il gip scrive - nella parte riguardante Alberto Sarra, uno degli arrestati - che l'ex sindaco di Roma (imputato in mafia Capitale) ha ricevuto l'appoggio elettorale del gruppetto finito sotto inchiesta. C'è anche Maurizio Gasparri, attualmente vice presidente del Senato, nelle carte. Uno degli episodi, di qualche anno fa, citati da un collaboratore riguarda delle assunzioni chieste da Giuseppe Scopelliti, ex primo cittadino di Reggio e poi governatore della Regione. «Per le assunzioni non parlava … solo una volta ha parlato con me di un suo protetto … era il cameriere del Cordon Bleu, che era amico intimo di Gasparri. Infatti, ha chiamato Gasparri direttamente a Scopelliti. È stata l’unica volta che entrando a Palazzo San Giorgio che il Sindaco mi chiese di assumere direttamente questo qua». Il riferimento, racconta un imprenditore-pentito, è ai posti di lavoro promessi in una S.p.a., la Fata Morgana. Società che si occupava della raccolta differenziata in città. L'imprenditore ha rivelato ai magistrati che la politica, incluso Scopelliti, faceva enormi pressioni per pilotare assunzioni. E a "cantare" non è un collaboratore di giustizia qualsiasi. Ma l'ex responsabile tecnico della S.p.a., parente stretto di Orazio De Stefano, nome e volto del gotha delle 'ndrine reggine. Clientele, criminalità, massoneria. L'intreccio è diabolico. Ecco come il pentito Cosimo Virgiglio, in un recentissimo verbale, descrive la commistione tra mafia e logge: «Ribadisco che il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘Ndrangheta, aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘Ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria». Sembra l'incipit di un romanzo di le Carré. Invece è la realtà. Che l'antimafia di Reggio Calabria ritiene di aver smascherato. Una rete di "invisibili" che negli ultimi tempi stanno diventano sempre più visibili.
La nota di Gianni Alemanno in risposta al nostro articolo: "Smentisco nella maniera più categorica qualsiasi mio collegamento con gli uomini coinvolti nell'inchiesta sulla cosiddetta "Mamma Santissima" dell'ndrangheta. Nella fattispecie non ho mai conosciuto nè politicamente nè personalmente il senatore Antonio Caridi, mentre con l'ex sottosegretario regionale Alberto Sarra non intrattengo più alcun rapporto da almeno dieci anni. In ogni caso la mia azione nella regione Calabria è sempre stata di natura politica ed elettorale senza nessun contatto con ambienti o logiche di tipo affaristico. Vi diffido pertanto dal pubblicare il mio nome negli articoli relativi a questa inchiesta senza alcun riscontro possibile nelle carte che sono attualmente coperte dal segreto istruttorio".
Cosa nostra e 'ndrangheta? "Una Cosa sola". Le riunioni comuni per progettare le stragi del '92. Il no dei calabresi al bagno di sangue. E la nuova saldatura nel dopo Riina. Così due organizzazioni hanno modellato negli anni una joint venut che oggi fa paura, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su "L'Espresso". Mentre la politica immaginava il mega ponte sullo Stretto, le mafie che dominavo le rispettive sponde ne avevano già realizzato uno, assai solido e resistente alle bufere. Nell'inchiesta “Mammasantissima” coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria che ha svelato la cupola dei membri invisibili della 'ndrangheta c'è anche questo: lo strettissimo rapporto tra mafiosi siciliani e calabresi. La ricostruzione dei pm attraverso le dichiarazioni di numerosi pentiti è un tuffo nell'oceano di misteri e alleanze che permetteranno di rileggere anche fatti drammatici avvenuti nel Paese. Come gli anni delle stragi, per esempio, e le successive trattative. Giuseppe Costa è uno dei collaboratori che ha raccontato questi legami per molto tempo rimasti avvolti nel silenzio. E che in molti non volevano neppure vedere: «Come ho già riferito in altri interrogatori, i legami fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta erano strettissimi. Non so in concreto per quanto tempo, nè con quali risultati operativi, ma, sicuramente, si arrivò, anche a progettare e poi a dare forma (parliamo del periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la c.d. Cosa Nuova. Si trattava di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘Ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favori ancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Ma non solo: Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche...Tenga presente che, come pure ho già spiegato, io ero legato alla cosca dei Piromalli, che, a loro volta, insieme ai De Stefano, erano la famiglia storicamente più legata a Salvatore Riina e a Cosa Nostra. Con riferimento ai rapporti fra Massoneria e mondo criminale voglio precisare anche che a me era noto, in quanto ‘ndranghetista e in quanto me lo aveva detto personalmente Giuseppe Piromalli nel corso di una comune detenzione nel carcere di Palmi, che si trattava di rapporti molto intensi specie in Calabria. Più in Calabria che in Sicilia... Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti». Anche pentiti siciliani hanno riferito di queste relazione tra le mafie divise solo dallo Stretto. Gioacchino Pennino - uomo d'onore, politico e massone - racconta di una joint venture economica e culturale tra le organizzazioni: «Mio zio mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60’, ospite del clan Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980-81, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate (boss della mafia palermitana ndr) mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». C'è poi un aspetto, forse il più inquietante, in questa storia di malacarne e notabili insospettabili. Lo rivela l'ex autista di Leoluca Bagarella, braccio destro di Riina, ai magistrati. L'uomo dei Corleonesi rivela «l’esistenza di una struttura “riservata” all’interno di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, destinata a gestirne le relazioni e gli affari di maggior rilievo». Il leader del club dei “riservati” siciliani sarebbe stato proprio Bagarella. Era lui, dunque, a dialogare con i mammasantissima al di là dello Stretto. E sarebbero stati proprio questi due “club” esclusivi a organizzare le riunioni in Calabria per progettare la stagione stragista. O meglio: Cosa nostra voleva tirare dentro anche la 'ndrangheta. Ma l'unico dei boss calabresi che aveva dato la disponibilità era stato Franco Coco Trovato, capo indiscusso di Milano ma legato a doppio filo con il potere criminale reggino. Ma se per le bombe il gotha della 'ndrangheta ha fatto un passo indietro, per il post-stragi - è questa l'ipotesi su cui la procura di Reggio lavora da tempo - la storia ha preso una piega diversa. Perché è dopo gli omicidi eccellenti che 'ndrangheta e Cosa nostra, ora in versione sommersa, ritrovano obiettivi comuni. Impunità e business. Un unico grande sistema criminale mafioso. Dove le differenze si assottigliano. Con l'obiettivo di spartirsi il Paese. E non solo.
Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia il 7 giugno 2016 su “Il Dubbio”. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s’è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d’Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c’è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L’inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a «Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica». (La Repubblica) Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai “lebbrosi” che l’hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l’on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell’antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l’indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all’ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla “catena di comando”. I mafiosi ci sono e vanno fieri dell’attenzione che ricevono dai giornali, dai “partiti”, dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il “buongoverno” del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell’ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il “Sud ribelle” contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una “questione Mediterranea” a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento “5 Stelle” ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.
Il J’accuse di Michele Caccamo. In un libro ha raccontato la sua storia: vittima sia della ‘ndrangheta sia della malagiustizia. “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”, scrive Damiano Aliprandi il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Tre anni di vita sottratta, tre anni di privazioni umane e affettive tra carcere e domiciliari vissute da innocente. Parliamo di Michele Caccamo, un poeta drammaturgo e scrittore. Conosciuto nel mondo arabo come il “poeta della fratellanza” per la sua attenzione e il suo impegno letterario nell’incontro tra popoli e religioni. È calabrese, vive in una regione martoriata sia dallo Stato che non è più in grado di dare risposte sociali alla povertà che dilaga, sia dalla ‘ndrangheta dove riempie quel vuoto e ne trae beneficio. Esiste solo la risposta giudiziaria, una risposta che però non di rado calpesta lo stato di diritto con alcuni pm che effettuano carcerazioni preventive affidandosi a chiunque faccia qualche nome. Ancor meglio se il nome risulta importante. È bastata un’accusa verso Michele - senza alcuna prova - da una parte di una persona che poi è risultata del tutto inaffidabile, per rinchiuderlo preventivamente in galera con un’accusa di associazione a delinquere aggravata dall’articolo 7, ovvero finalità mafiosa. Il 2 Marzo del 2015 Michele Caccamo viene definitivamente assolto per non aver commesso il fatto, assoluzione dovuta anche grazie al collaboratore di giustizia Antonino Russo il quale smentì categoricamente l’accusatore e definì Michele una persona per bene e vittima della stessa ‘ndrangheta che voleva impossessarsi dei suoi beni. Ma non solo. Caccamo ha avuto sotto controllo l’utenza telefonica, e dai controlli non è emerso nulla; è stato intercettato in carcere e sono state sospese le intercettazioni perché non era emerso nulla; ha avuto sequestrati i pc del suo ufficio e dalla perizia tecnica non emerse nulla di riconducibile ad attività criminali. Tre anni di carcerazione da innocente e l’accusatore di Caccamo non è mai stato indagato, neanche dopo le dichiarazioni del pentito: al momento lavora per conto di una ditta che ha acquisito uno dei contratti di lavoro di Caccamo. Il poeta e drammaturgo Michele è stato vittima sia della ‘ndrangheta e sia della cosiddetta malagiustizia. “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”: questo dichiara Michele Caccamo, finalmente da uomo libero. Ha pubblicato un libro intitolato “Pertanto accuso” dove racconta la sua storia, entra negli abissi del carcere dove ha vissuto, lo descrive come fosse un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono chiamate “cubicoli”. D’altronde la parola “carcere” deriva dall’ebraico “carcar” che vuol dire, appunto, “tumulazione”. Riportiamo un estratto del suo romanzo dove spiega come la magistratura, una parte di essa, opera in Calabria nel nome della lotta alla mafia. Uno scritto che potrebbe essere il proseguo del famoso, ma tanto ridicolizzato e oltraggiato, articolo di Leonardo Sciascia dove spiegava il pericolo autoritario del cosiddetto “professionismo dell’antimafia”.
Lo Stato mi ha rapito e rinchiuso per tre anni in una cappella mortuaria. Tre anni fa Michele Caccamo, poeta e imprenditore, finisce in carcere a causa di un’accusa mossa da un suo ex dipendente. Michele andrà a ingrossare le fila di cadaveri tra le sbarre per scontare la pena di colpe non ancora accertate da un processo. Oggi Michele è stato dichiarato innocente. Intervista di Maria Giovanna Cogliandro su “La Rivieraonline” di Domenica 22/05/2016. Ha conservato sotto spirito la sua mente all’interno di “una boccetta riempita di vocaboli”. La penna scampata al sacco nero dell’immondizia l’ha salvato, tendendogli la gruccia di una quasi speranza. Grazie a Dio quella penna non ha fatto la fine dell’evidenziatore, dei libri, delle fotine dei suoi genitori morti, ritenuti, al contrario, pericolosi e per questo sequestrati al suo ingresso. Considerata abile a condividere con lui la detenzione, la sua penna trasparente lo ha confortato mentre rimaneva “sospeso, appeso, ciondolante, legato al filo dell’ingiustizia”, così che potesse mantenere la promessa fatta a se stesso: “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”. Tre anni fa Michele Caccamo, poeta, scrittore e proprietario di una grossa realtà imprenditoriale nel porto di Gioia Tauro, finisce in carcere per un’accusa mossa da un suo ex dipendente. In quel capannone che aveva costruito e adibito a magazzino viene ritrovata merce rubata e derivante da truffe. Un suo ex dipendente lo accusa di esserne il responsabile. Michele viene bollato come truffatore da un primo giudice. Un secondo processo farà di lui un membro di un’associazione dedita alle truffe; Michele farebbe quindi parte di un vasto disegno criminale. Finirà così per ingrossare le fila di quei fascicoli tra le sbarre, lì dove la vita si screpola di fronte alla riduzione a “un’unica identica comunità criminale” che, con i suoi incantesimi infernali, sfila da sotto i piedi ogni briciolo di serenità. In quel cubicolo, in cui per giorni e giorni bisogna accontentarsi di un cielo alla julienne, non c’è spazio per la commozione che diviene solo una breve parentesi insopportabile: scattante la rabbia esonda con tutta la sua irruenza e le piega in due quelle parentesi così come i detenuti farebbero con le sbarre. Il tutto mentre da fuori arrivano, spietate, le notizie scritte dai membri della “congregazione del ghigno”, perfetti cretini intestarditi che, nascondendosi dietro il diritto di cronaca, hanno già disposto “tutti per filari, in un’unica linea di produzione, che porti alla ricchezza della loro bava gloriosa” facendo di ognuno “un meraviglioso spettacolo sconfitto”. Dopo tre anni trascorsi a guardare stelle scabrose infilarsi tra le sbarre, Michele è stato dichiarato innocente. È venuto a galla il pasticcio giudiziario: il vero favoreggiatore dell’associazione per delinquere era l’ex dipendente (custode), che operava all’insaputa di Michele approfittando della notte o delle sue numerose assenze dal complesso industriale. L’assoluzione libera Michele da un sepolcro che ha provato, senza riuscirci, a risucchiarlo e lo restituisce alla sua poesia. Lo scorso 16 maggio ha dato alle stampe “Pertanto accuso”, un capolavoro di stile in cui racconta gli anni della sua “custodia cautelare” che nulla ha della custodia nè della cautela: si tratta piuttosto di sequestro di persona, di abbandono, del punto più alto della violenza di un sistema giudiziario barbaro.
Definisce la cella “un’aria a pacchetti” o addirittura “una cappella mortuaria”. Come ha fatto a sopravvivere?
«Cercando gli angoli vivi, dentro alla cella, in chiesa, o nel fondo della mia mente. E poi nella disponibilità dei detenuti, che mi hanno considerato anima estranea: un uomo diventato per caso un essere rinchiuso. E non ero certo il solo a essere stato rapito dallo Stato. Devo la mia vita, e la mia sanità mentale, alla comprensione dei detenuti, alla pazienza delle autorità carcerarie».
Il pianto è l’unica via di fuga, l’unica riabilitazione possibile. Se fosse stato istituito quello che lei ha chiamato “registro dei pianti” come avrebbe catalogato i pianti che ha consolato?
«Per linee di disperazione e di assenza. Perché capita di incontrare chi si danna per una condanna pesante, chi per un’accusa ingiusta, chi per essere stato abbandonato dagli affetti. Coloro che ritengono il carcere la pena necessaria dovrebbero trascorrere almeno una notte in una sezione: ascolterebbero i respiri i lamenti le perdizioni, e qualche volta anche il suicidio. Il carcere serve solo a creare malattie, nel corpo e nella mente, ad abbrutire le persone».
La maggiore umiliazione?
«Il protocollo d’ingresso: una sceneggiata indegna. Un uomo nudo è un verme: questo è il segnale che si vuole dare. Ma tra i tanti uomini che vengono denudati c’è una percentuale altissima di innocenti: dopo quella esibizione imposta non lo saranno più. Nel pensiero non di certo».
Lei afferma che i rapporti tra detenuti sono fitti di regole inattaccabili e sempre uguali da un secolo. Quali sono queste regole?
«Si va per gradi: anzianità, potere, ruolo. D’altronde non è certo differente dalla società esterna: si è sempre sottoposti a qualcuno. In carcere ad altri detenuti, nella vita sociale ad altri uomini. Andrebbe scardinato il concetto della supremazia, ma prima nella nostra società: renderlo inutile, con l’accoglienza e la tolleranza, sarebbe la più grande conquista sociale. Non ci fosse il dominio nei popoli non esisterebbe neanche tra i carcerati. È questione di educazione civica. Ma quanti tra i proclamatori dello stato giustizialista, giustamente contro i prevaricatori, sono disposti a mettere in discussione il loro stesso ruolo di predominanti, finanche in famiglia?»
A un certo punto si è chiesto: “E se fosse nascosto dove adesso esisto il Dio eterno?”. Che Dio ha incontrato in carcere?
«Un Dio bellissimo, acceso di dolore e gioia. Dovrebbe vederle le celle ornate di immagini e rosari: per ogni branda un altare. E si prega con il cuore, non sicuramente per mettere a posto la coscienza. Ci si affida con Amore, con pia devozione. Dio ha la sua casa nelle carceri, e nei marciapiedi nei sottopassaggi delle metropolitane, non certo nelle chiese».
Ha intravisto negli altri detenuti quello che gli specialisti chiamano indizi di reinserimento?
«La volontà, quella sì. Ma come ci si può reinserire se le leggi sono un’emanazione della persecuzione? Ne ho visti tanti, piegati nelle loro colpe, pentiti e desiderosi d’altra vita altrove, lontani da quest’aria obbligatoriamente infetta, regolarmente sottoposta alla cultura del sospetto. Lei neanche immagina quante persone pur volendo ricollocarsi non potranno mai farlo perché marchiati. È un tamburo d’accusa incessante la detenzione».
Prima ancora della giustizia si diventa prigionieri della stampa che, come lei stesso scrive, è diventata una religione, un grado supremo di giudizio. Cosa della descrizione che di lei hanno fatto i giornali le ha fatto più male?
«Un poeta con l’hobby della truffa: questo mi ha ucciso. I giornalisti neanche immaginano quanto pesante sia l’inchiostro sull’anima di chi malcapita. Non ritengo vi sia più del giornalismo illuminato: le redazioni sono diventate le civette delle varie Procure, il giornalismo d’inchiesta è morto sepolto e siamo in mano a ragazzotti improvvisati che non hanno comprensione del disastro che provocano alla verità».
Se in carcere capita di accusare seri problemi di salute, il più delle volte arrivano prima le condoglianze della decisione dei giudici di concedere i domiciliari. Come è successo a Roberto. Quanto poco vale la vita di un detenuto?
«Meno del nulla. Non sempre per colpa degli istituti penitenziari. Locri, ad esempio, ha una struttura efficiente e attenta. Capitano spesso i casi di leggerezza, dovuta al singolo che interviene, che poi provocano le morti. Lo Stato dovrebbe essere garante della sicurezza dei detenuti, istituendo presidi di pronto soccorso altamente qualificati e rendere meno farraginosi gli eventuali trasferimenti in ospedale: mentre qualcuno decide un altro muore».
Lei scrive: “Il popolo calabrese è diventato una cavia per il controllo del pensiero”. Chi ha in mano questo controllo, qual è il messaggio che vorrebbe lanciare e perché?
«Ho sempre pensato alla Calabria come banco di prova per tentativi dittatoriali: così nell’assistenzialismo così nella repressione. Di certo vi è una degenerazione del libero pensiero e un indirizzamento verso il pensiero massificato: vuoi con la stampa servile vuoi con i proclami governativi. Io scrivo che bisognerebbe affiliare la Calabria all’onore: non è una provocazione piuttosto un’occorrenza necessaria al nostro popolo per fargli riconoscere chi sono gli impositori del pensiero: la ‘ndrangheta, il potere (in ogni espressione) e il sistema economico».
Pensa che la società civile sia pronta ad accogliere chi esce dal carcere?
«Assolutamente no. Non serve neanche l’assoluzione per essere accolti: rimane il sospetto, l’onta. La cosiddetta società civile vive con i pannetti caldi al culo, e la sua unica preoccupazione è che qualcuno glieli tolga, così si schiera senza sapere esattamente come. Poi c’è la società emarginata che sa come aprire cuore e mente. Le associazioni antimafia hanno costruito un pessimo esempio di società civile, non hanno educato alla legalità ma spinto alla separazione sociale».
"Le abbiamo sfondato la vagina" Orrore nell'ospedale di Reggio Calabria. Risate sugli errori dei colleghi e sul rischio di morte dei pazienti. Dalle indagini sugli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria emerge un quadro inquietante, scrive Rachele Nenzi, Venerdì 22/04/2016, su "Il Giornale". Le indagini sugli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria e sui suoi medici, ieri hanno portato alle manette quattro ginecologi e all'interdizione altre sette persone. Dalle intercettazioni emergono alcuni dettagli inquietanti. Alessandro Tripodi, primario facente funzioni, ride al telefono mentre racconta gli errori commessi dai medici, soprattutto contro le pazienti. Nei nastri, pubblicati oggi da ilDispaccio, quotidiano online calabrese, si sente il dott. Alessandro Tripodi fare "apertamente riferimento alla circostanza che il dott. Timpano, nel corso dell'intervento aveva cagionato alla paziente [Omissis] una perforazione della vescica, analogamente a quanto era accaduto nel caso della paziente denominata [Omissis]". Tripodi: minchia non sai che è successo, stanotte l'ira di Dio; Manuzio: eh? e di chi?; Tripodi: allora, quella lì, eh, di Timpano, che gli ha sfondato la vagina. Eh, allora, lo sai, ha la vescica aperta, (ride......ride....ride) (...) allora dal drenaggio esce urina .. te la ricordi a [Omissis]? Era oro.....mi ha chiamato Pina Gangemi...dottore vedete se potete venire che qua c'è l'ira di Dio...ride....ride che oggi..........2 litri di urina dal drenaggio (ride).....in pratica...sono andato.... la vescica era aperta....l'hanno suturata in triplice stato.....". Non c'è solo questo. Parlando con un altro collega, dr.ssa Manuzio, Tripodo dice: "Vadalà (il primario, Ndr) mi ha spiegato e mi ha detto io non lo so che cazzo hanno combinato, perchè l'isterotomia era fatta alta. Poi, dice c'era un buco nella vagina e l'utero in pratica era come se avessero fatto una..inc.le.. per fare un'isterectomia, la stessa cosa (ride) ...... dice non ha capito neanche lui quello che ha fatto..sangue che usciva a fontana da sotto..inc.le..m'immagino a Timpano". Non solo. Tripodi al telefono ride anche quando a perdere la vita è un bambino, a causa di un parto finito male che sarebbe stato realizzato dal primario, Pasquale Vadalà, e dalla collega Manuzio. "Ehi...- dice alla moglie al telefono - eh niente, gli è morto un bambino quà... a Vadalà e alla Manuzio...omissis... ho chiuso il cellulare apposta, cretina, perché sennò mi chiamava in continuazione Vadalà eh...omissis.. e infatti me ne sono andato subito (ma fuia subutu) (n.d.r. ride)...". Parlare al telefono degli errori/orrori commessi in sala operatoria sembra una cosa normale, all'ospedale di Reggio Calabria. In chiamata con un'altra collega, Tripodi avrebbe detto: "Si sono messi l'altro giorno a fare un'isterectomia per via vaginale". Risponde la collega: "Eh?". "Gli è rimasto l'utero nella mani", ride Tripodi, "stava morendo la paziente". Anche il Gip Antonino Laganà è choccato da quanto emerge dai nastri delle intercettazioni: "Si ride letteralmente degli altrui errori medici - si legge nel documento riportato da ilDispaccio - forieri di devastanti conseguenze per le pazienti ignare vittime di tale situazione con ciò delegittimando e di fatto sfiduciando totalmente il singolo medico "preso di mira" e rilevando la drammaticità della situazione medica occorsa".
Reggio Calabria, le intercettazioni shock di Mala Sanitas: “minchia, gli ha sfondato la vagina”. E scoppiano a ridere. Reggio Calabria, emergono nuove agghiaccianti intercettazioni dall’inchiesta “Mala Sanitas” sui reparti di Ginecologia e Ostetricia degli Ospedali Riuniti, scrive il 22 aprile 2016 Ilaria Calabrò su “Stretto Web”. Emergono nuove conversazioni intercettate riguardo l’operazione “Mala Sanitas” che ieri ha portato all’arresto di alcuni medici dei reparti di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali riuniti di Reggio Calabria. In una conversazione, il dott. Alessandro Tripodi (medico ginecologo presso il reparto “Ginecologia e Ostetricia”, Primario responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia) fa apertamente riferimento alla circostanza che il dott. Timpano, nel corso dell’intervento aveva cagionato ad una paziente una perforazione della vescica, analogamente a quanto era accaduto nel caso della paziente denominata.
TRIPODI: “minchia non sai che è successo, stanotte l’ira di Dio”;
MANUZIO: “eh? e di chi?”;
TRIPODI: “allora, quella lì, eh, di Timpano, che gli ha sfondato la vagina”;
MANUZIO: “eh”;
TRIPODI: “eh, allora, lo sai, ha la vescica aperta”, (RIDE……RIDE…..RIDE);
MANUZIO: “eh”;
TRIPODI: “allora dal drenaggio esce urina .. te la ricordi a …? Era oro…..mi ha chiamato Pina Gangemi…dottore vedete se potete venire che qua c’è l’ira di Dio…” ride….ride “che oggi……….2 litri di urina dal drenaggio” (ride) “…..in pratica…sono andato…. la vescica era aperta….l’hanno suturata in triplice stato…..”.
In un’altra conversazione, Tripodi parlando peraltro con altro collega medico dr.ssa Manunzio, le riferisce quanto appresso direttamente dal dr. Vadalà evidenziando che lo stesso (in prima persona) gli ha riferito (a conferma della gravità di quanto occorso in sala operatoria in uno dei casi trattati) “di non essersi ancora riuscito a spiegare cosa abbiamo combinato i colleghi medici in sala operatoria” (“VADALA’ mi ha spiegato e mi ha detto io non lo so che cazzo hanno combinato, perchè l’isterotomia era fatta alta. Poi, dice c’era un buco nella vagina e l’utero in pratica era come se avessero fatto una..inc.le.. per fare un’isterectomia, la stessa cosa (ride) …… dice non ha capito neanche lui quello che ha fatto..sangue che usciva a fontana da sotto..inc.le..m’immagino a TIMPANO”), concludendo poi Tripodi in ordine anche all’ulteriore intervento di Vadalà (“poi, è arrivato VADALA’ e gli ha dato un paio di punti là sulla vagina. Dalla vagina perdeva“). Tripodi continuerà anche a ridere nel caso della morte di un neonato. In un’altraconversazione dice alla moglie che era morto un bambino, durante un parto eseguito dal dott. Pasquale Vadalà e dalla dott.sa Daniela Manuzio; nella telefonata aggiungeva di aver lasciato l’ospedale con la scusa di un appuntamento e di aver spento il cellulare, per evitare che il dott. Vadalà lo facesse rientrare in reparto (TRIPODI: “ehi… eh niente, gli è morto un bambino quà… A VADALÀ E ALLA MANUZIO …omissis… ho chiuso il cellulare apposta, cretina, perché sennò mi chiamava in continuazione Vadalà eh…omissis.. e infatti me ne sono andato subito (ma fuia subutu) (n.d.r. ride)…”). Estremamente significativa appare una conversazione in cui il dott. Tripodi ripercorreva – dimostrando di possedere ampia conoscenza del caso clinico in questione – le fasi che avevano portato all’aggravamento di una paziente e la scarsa trasparenza del primario Pasquale Vadalà nei confronti della stessa in relazione alle sue reali condizioni di salute (TRIPODI A. :”””…omissis…hanno operato a una, una certa [Omissis], Vadalà e Pennisi…omissis…allora, nella sostanza, questa qua ha dolori, insomma le hanno preso l’uretere di sinistra e c’è un idronefrosi a sinistra…omissis… l’hanno operata un mese fa circa…omissis…e ha un idronefrosi di secondo grado a sinistra, logicamente, questa qua ha dolori no? …omissis… e gli hanno impapucchiato alla signora che ha un infezione, che ha questo che ha quest’altro…”””) (TRIPODI M.: “””…omissis…e le hanno preso l’uretere (ride) …omissis…lui mi ha detto una volta: “nella colpisterectomia, l’uretere non si può prendere mai”… (ridono), “questo è il bello”, mi disse, “mai al mondo si può prendere”… e infatti l’hanno presa!!! (ridono) …omissis…”””). Nel corso del racconto i due sanitari ridevano della situazione, noncuranti della gravità della condotta tenuta nei confronti della donna operata e dei familiari.
Risate continue di Tripodi anche con un’altra collega, Francesca Stiriti:
TRIPODI: “ma, si sono messi l’altro giorno a fare un’isterectomia”.
STIRITI: “come come?”
TRIPODI: “si sono messi l’altro giorno a fare un’isterectomia per via vaginale, per un carcinoma dell’endometrio”.
STIRITI: “eh”.
TRIPODI: “e gli è rimasto l’utero nelle mani (ride)”.
STIRITI: “gli è restato l’utero nelle mani?”
TRIPODI: “Allora! stava morendo la paziente, scioccata”.
Colpisce ancora una volta la circostanza che i conversanti si mostravano alquanto insensibili e superficiali, ridendo scherzosamente del tragico evento occorso a un’altra paziente. Infine, ad appesantire ulteriormente il quadro di inadeguatezza professionale concorre la frase, di assoluta eloquenza, pronunciata dalla dott.sa Stiriti: “Mamma che scempio! che scempio! povero a chi ci capita, mannaia la buttana ah?”. Atteggiamenti agghiaccianti che lo stesso Gip Antonino Laganà sottolinea: “Si ride letteralmente (stando sempre alle riportate risultanze in atto della parte investigativa) degli altrui errori medici forieri di devastanti conseguenze per le pazienti ignare vittime di tale situazione con ciò (anche) delegittimando e di fatto sfiduciando totalmente il singolo medico “preso di mira” in nulla –e questo ciò che rileva ai presenti fini- rilevando la drammaticità della situazione medica occorsa”.
Reggio Calabria, primario al collega: “Cambia la flebo a mia sorella con una scusa, così si sbrigherà e abortirà”. Dall'inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato all'arresto di 4 medici, emergono pratiche agghiaccianti: il primario facente funzioni Alessandro Tripodi avrebbe fatto abortire la sorella senza il suo consenso, sospettando che il feto potesse essere affetto da una patologia cromosomica. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Laganà parla di "bollettino di guerra", scrive Lucio Musolino il 21 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Apriamo, l’utero non sembrava rotto. Senonché, comincia a perdere da sotto… cioè il collo (dell’utero, ndr) si è staccato… Il bambino è vivo, ma qua l’utero si è staccato. Si è staccato l’utero. Hai capito?”. “Come si è staccato il collo?”. “Che cazzo ne so. Ancora la paziente è con la pancia aperta e con le pezze. È divelto il collo, dalla plica. È una cosa pazzesca”. Sono alcune delle intercettazioni finite nell’inchiesta della Guardia di Finanza che stamattina ha portato all’arresto di quattro medici degli ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Sono finiti agli domiciliari l’ex primario Pasquale Vadalà, il primario facente funzioni Alessandro Tripodi e i ginecologi Daniela Manunzio e Filippo Saccà. Il gip ha, inoltre, interdetto dall’esercizio della professione medica anche i ginecologi Salvatore Timpano, Francesca Stiriti, Antonella Musella, gli anestesisti Luigi Grasso e Annibale Maria Musitano, il responsabile dell’ambulatorio di neonatologia Maria Concetta Maio e l’ostetrica Pina Grazia Gangemi. Sono, invece, indagati i medici ginecologi Massimo Sorace, Roberto Rosario Pennisi, l’ostetrica Giovanna Tamiro e Antonia Stilo. Al centro dell’inchiesta dalle Fiamme Gialle, guidate dai colonnelli Luca Cioffi e Domenico Napolitano– ci sono il decesso (in due distinti casi) di due bimbi appena nati, le irreversibili lesioni di un altro bimbo dichiarato invalido al 100%, i traumi e le crisi epilettiche e miocloniche di una partoriente. Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dai pm Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci, è finito anche il procurato aborto di una donna non consenziente nonché – scrivono gli investigatori – le lacerazioni strutturali ed endemiche di parti intime e connotative di altre pazienti”. Stando alle risultanze investigative, infatti, il primario facente funzioni Alessandro Tripodi avrebbe fatto abortire addirittura la sorella senza il suo consenso o quello del cognato. Assieme ai colleghi Daniela Manunzio e Filippo Saccà, avrebbe iniettato farmaci funzionali all’espulsione prematura del feto determinando l’interruzione della gravidanza. “Vedi se puoi fargli cambiare quella flebo… – dice Tripodi alla collega Manunzio – tipo con una scusa che non scende”. “Se non c’è tuo cognato… in un momento che non c’è… ma la notte non sta con lei?”. “Ma pure se c’è. Pure se c’è, tanto non capisce niente. Senza che ti vede nessuno, ehm, vedi come puoi fare, gli metti 2/3 fiale di Sint, gliela fai scendere a goccia lenta”. “In maniera tale che “morisce”, così si sbrigherà ed abortirà”. Il primario sospettava che il feto della sorella potesse essere affetto da una patologia cromosomica. Ma dopo avere indotto l’aborto forse si è accorto che quello era solo un sospetto e commenta con il collega Filippo Saccà: “Un’oretta fa ha abortito; l’ho raschiata… apparentemente non mi sembra che abbia nulla, comunque… omissis… va boh… l’attaccatura un po’ bassa delle orecchie… omissis”. “Visibilmente non c’entra niente, che puoi vedere a 16 settimane, 17 quanto era… niente si può vedere… si deve prendere un pochino di tessuto…”. I due parlano del feto estratto dal corpo della sorella di Tripodi il quale è d’accordo con il collega e predispone ulteriori accertamenti: “E va bo, domani lo facciamo, ci chiudiamo in una stanza io e te e lo facciamo…”. Questi sono solo alcuni dei casi esaminati dalla Procura e dalla Guardia di Finanza che ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata a commettere una serie di reati tra cui la manipolazione delle cartelle cliniche relative alle pazienti (che si sottoponevano ad interventi ginecologici) e ai neonati al fine di occultare le responsabilità dell’equipe medica che aveva preso parte ai singoli interventi. “Due bimbi morti appena nati, un aborto procurato senza e contro la volontà della gestante, due bimbi con danni cerebrali permanenti e donne con danni persistenti nelle parti intime ed essenziali alla persona”. Il gip Antonino Laganà parla di “bollettino di guerra” nell’ordinanza di custodia cautelare da cui emerge il sistema adottato dai medici per “salvarsi il culo”. Un sistema condiviso dall’intero apparato sanitario come emerge dalle intercettazioni. “Allora chiudete questa cartella in un cassetto. Chiudila in un armadio, intanto…”. Da quell’armadio la cartella clinica dei pazienti veniva presa e “falsificata ad arte” in modo da garantire ai medici “la reale e sicura via di fuga dall’impunità”.
Reggio Calabria, medici arrestati, intercettazioni rimaste chiuse nel cassetto per 5 anni. L'ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria, dove sono stati arrestati 11 medici del reparto di ginecologia per falso ideologico e interruzione di gravidanza senza consenso. Il giudice della indagini preliminari: "Sistema criminale". I magistrati lanciano appello alle vittime di malasanità nel reparto di ginecologia, ieri quasi totalmente azzerato, affinché si rivolgano agli inquirenti, scrive Alessandra Ziniti il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Sono rimaste chiuse in un cassetto per cinque anni. Senza che nessuno le trascrivesse e avviasse le indagini che ieri hanno portato al quasi totale azzeramento del reparto di ginecologia dell’ospedale di Reggio Calabria. E nel frattempo i medici che erano soliti coprire i loro errori e la loro superficialità costata la vita ad alcuni neonati continuavano a fare e disfare, falsificando le cartelle cliniche e assicurandosi l’impunità. E chissà forse anche a procurare altri danni ad altri pazienti. Le conversazioni intercettate nell’ambito di un’altra inchiesta di mafia e poi trascritte su iniziativa del procuratore aggiunto Gaetano Paci accendono un faro solo su tre mesi del 2010. Ma la successiva attività di intercettazione avviata dalla Guardia di finanza sui medici finiti sotto inchiesta ha rivelato che anche negli anni successivi, e persino dopo essere andati a lavorare in altri ospedali della Regione, i medici avrebbero continuato a mettere in atto questo modus operandi che il gip firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare ha definito un “sistema criminale”. Anche per questo, ora, i magistrati della Procura guidata da Cafiero de Raho si rivolgono ai cittadini e lanciano un appello: chiunque, negli ultimi anni, ritenga di essere rimasto vittima di casi di malasanità nel reparto in questione o anche in altri reparti degli ospedali riuniti, episodi mai denunciati o denunciati e archiviati, si faccia avanti e si rivolga agli inquirenti. L’indagine dunque potrebbe presto allargarsi a macchia d’olio. La scoperta di quel brogliaccio contenente le intercettazioni-shock avviene poco piu di un anno fa quasi per caso, quando il padre di un bambino rimasto tetraplegico dopo il parto si presenta alla Procura di Reggio Calabria chiedendo l’intervento dei magistrati per accelerare il processo a carico dei sanitari ritenuti responsabili della disabilità del bimbo. Quel processo, incardinato presso il giudice monocratico di Melito Porto Salvo, stava per andare in prescrizione dopo l’abolizione dell’ufficio giudiziario distaccato e avrebbe dovuto ricominciare daccapo a Reggio, ma i tempi lunghi della giustizia rischiavano di mandarlo in prescrizione. Al procuratore aggiunto Paci è bastato dare un’occhiata a quel fascicolo e fare un monitoraggio di altri fascicoli nelle stesse condizioni per capire che era opportuno riunirli. Ed è stato durante questa attività di ricognizione che sono saltate fuori le intercettazioni mai trascritte. Disposte nell’ambito di un’indagine di mafia sul clan Di Stefano, avevano registrato la voce del primario facente funzione di Ginecologia Alessandro Tripodi, cugino del boss. Da quelle conversazioni non era venuto fuori nulla di interessante sulle complicità della zona grigia della borghesia mafiosa alle cosche mafiose della città. E le ciniche conversazioni tra medici sugli orrori commessi nel reparto sono finite nel dimenticatoio per anni.
Reggio Calabria a rischio guerra. L’offensiva dello Stato contro le ’ndrine può scatenare una reazione violenta. Come negli anni Ottanta. Quando bazooka e tritolo erano pane quotidiano, scrive Gianfranco Turano il 28 marzo 2016 su "L'Espresso". Rilanciare il Sud con gli annunci? Fatto! Reggio Calabria, che fra tre mesi diventerà una delle dodici città metropolitane d’Italia, avrà l’alta velocità ferroviaria, il completamento dell’autostrada, il ponte sullo Stretto, finanziamenti per la statale 106 dello Jonio, il budello che al sindaco metropolitano di Monasterace, per fare un esempio, costa un’ora e mezzo di strada fino alle rive dello Stretto. Forse si farà qualcosa perfino per la ferrovia ionica, un solo binario che le mareggiate tendono a portarsi via come una capanna di canne. Nel linguaggio degli spin doctor di Palazzo Chigi si chiama narrativa. A Reggio hanno una parola più terra terra, al limite volgaruccia, per definire lo tsunami di promesse di Matteo Renzi e dei suoi fedelissimi. Lo scetticismo è la superficie della paura. La Grande Rottamatrice, la ’ndrangheta, sta tornando con prepotenza in città e nell’area della futura metropoli. In città si torna a uccidere. Sulla piana di Gioia Tauro non si è mai smesso. Il catalogo delle intimidazioni include le minacce al presidente del parco dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino, al sindaco di Gioiosa Jonica, Salvatore Fuda, e alla collaboratrice de “l’Espresso”, Alessia Candito. Il primo febbraio la flotta delle autolinee Federico a Locri è stata distrutta da un incendio e in pieno centro a Reggio ci sono stati due attentati a ridosso di Carnevale. Gli investigatori parlano di un possibile ritorno a metodi da anni Ottanta, quando per le strade bazooka e tritolo erano il pane quotidiano. Sui motivi della ripresa di azioni militari l’interpretazione del procuratore capo Federico Cafiero de Raho è che la ’ndrangheta sta reagendo al contrasto più duro da parte di uno Stato che, qui, spesso si è voltato dall’altra parte, quando non ha intrattenuto un’intesa cordiale con gli uomini dei clan. Il messaggio dei criminali è chiaro: rimettiamoci d’accordo o scorrerà il sangue. Altrettanto chiara è la replica della magistratura. Gli arresti di martedì 15 marzo contro i padroni assoluti di Reggio, i De Stefano del quartiere Archi, possono segnare una svolta storica per il livello dei personaggi coinvolti. Ci sarà escalation? Finora l’azione criminale più simbolica è stata condotta contro Tiberio Bentivoglio, un commerciante che da oltre vent’anni denuncia i clan e i loro protettori nelle istituzioni. Dopo essersi salvato per miracolo nel 2011 da un tentato omicidio, dopo avere rischiato il fallimento per la fatwa delle ’ndrine verso il suo negozio di articoli per l’infanzia, Bentivoglio si è visto distruggere il deposito da un ordigno. La città, guidata dal giovane sindaco del Pd Giuseppe Falcomatà che si è presentato sul luogo del delitto ad arringare la folla con un megafono, ha reagito molto al di là dei circuiti associativi antimafiosi. È una rivolta ancora più apprezzabile in un momento in cui il professionismo dell’antimafia mostra il suo aspetto più squallido. La pasionaria di Fiumara del Muro e San Luca d’Aspromonte, Rosy Canale, dopo una lunga tournée nei maggiori teatri d’Italia a monologare sul suo destino di vittima, è stata appena condannata in primo grado a quattro anni per malversazioni nell’uso dei fondi destinati alla sua associazione. Il dirigente del museo-osservatorio della ’ndrangheta, Claudio La Camera, è sotto inchiesta per circa un milione di euro di spese non giustificate e non giustificabili se non in piccola parte. Altre polemiche hanno colpito “Riferimenti” di Adriana Musella, figlia di Gennaro, costruttore di origine salernitana saltato in aria con un’autobomba alla Carrero Blanco in pieno centro nel 1982. Anche nel caso di “Riferimenti” è emerso un impiego familistico dei finanziamenti pubblici, concessi in gran parte dall’ex sindaco ed ex governatore Giuseppe Scopelliti, a sua volta in attesa di appello dopo la condanna in primo grado a sei anni per il buco di bilancio che ha spezzato le gambe a un’economia già fragile. Reggio è stata solidale con Bentivoglio proprio perché ha commesso un delitto di lesa maestà criminale. È il primo privato a ricevere in uso un bene confiscato alla ’ndrangheta. È un locale sulla via Marina alta, la parallela del lungomare intitolato a Italo Falcomatà, storico sindaco padre del primo cittadino in carica. Il proprietario del negozio dato a Bentivoglio era Gioacchino Campolo, una figura romanzesca. Re dei videopoker con oltre 300 milioni di euro di patrimonio, Campolo era il braccio imprenditoriale dei De Stefano. Per riciclare i ricavi aveva trovato una strada alternativa al solito business edilizio-immobiliare. Campolo amava e comprava arte: De Chirico, Fontana, Guttuso, Ligabue, Dalí, Migneco, Cascella. Una collezione di 150 tele degna di Peggy Guggenheim, anch’essa confiscata e già esposta al museo di Reggio insieme ai Bronzi. Dopo gli avvertimenti a colpi di esplosivo, Bentivoglio ha preso possesso del suo nuovo locale proprio martedì 15 marzo, nel giorno dell’operazione contro i De Stefano. Al taglio del nastro c’era la politica, la magistratura, le associazioni, cittadini comuni. E naturalmente i soldati dell’esercito che resteranno di guardia al negozio, come accade nelle metropolitane di Roma e Milano a protezione dallo Stato islamico. Naturalmente la parte oscura della città è dura a morire e ancora capace di creare consenso. Racconta il sindaco Falcomatà: «Eravamo a fare un incontro in una scuola elementare di Arghillà, un quartiere difficile dove sorge il nuovo carcere. Una bambina di quinta si è alzata e ha chiesto: è vero che la ’ndrangheta può fare anche cose positive?». Il sostegno che ricevono le cosche è direttamente proporzionale alle difficoltà economiche della città. Il vecchio discorso della mafia che dà lavoro o “fa cose positive” è l’antinarrativa tradizionale che il crimine organizzato contrappone alle promesse mancate del governo centrale, preso nella gabbia di un’austerity uguale e contraria al panem et circenses di età berlusconiana. Gli amministratori locali impiegano buona parte delle loro energie a cercare respiro dai piani di rientro fissati da Roma o da Bruxelles, a dispetto delle emergenze più spettacolari. «Il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando ha più volte promesso di ampliare la pianta organica degli uffici giudiziari reggini», continua il sindaco. L’impegno rischia di finire in buona compagnia con l’alta velocità ferroviaria e il completamento imminente della Salerno-Reggio. All’inaugurazione dell’anno giudiziario è stato evidenziato il deficit di organico permanente degli uffici di Reggio, nonostante inchieste che hanno investito la politica nazionale, dal caso del tesoriere leghista Francesco Belsito all’ex ministro Claudio Scajola fino all’armatore ex parlamentare forzista Amedeo Matacena, latitante a Dubai dall’agosto 2013. Il tribunale ha quattro presidenti e trentadue giudici. Dovrebbero essere sei e quarantatré. In Corte d’appello ci sono altre due posti vuoti e uno alla Procura generale. Altri due vuoti ci sono nell’ufficio del gip-gup. In Procura, i sostituti sono diciannove invece di ventisei. Potrebbe peggiorare. L’aggiunto Nicola Gratteri è dato in uscita, forse per diventare procuratore capo a Catanzaro. È possibile che sia sostituito da Giuseppe Lombardo, il pm del caso Scajola. Oltre a Gratteri, potrebbero trasferirsi due magistrati esperti come Roberto Di Palma, che ha ordinato gli arresti di martedì scorso, e Antonio De Bernardo. In aggiunta a questo, la situazione dei rapporti fra i tenori della procura non è idilliaca. Accade anche altrove, a maggior ragione in una sede ad alto coefficiente di stress. Fatto sta che l’esodo dei migliori sarebbe una buona notizia solo per i criminali. E non è la migliore premessa per recuperare un arretrato di 6526 processi pendenti, uno dei parametri usati per misurare la qualità della vita. Nella classifica del “Sole 24 ore” Reggio Calabria è arrivata terzultima nel 2013, penultima nel 2014 e ultima su 110 concorrenti nel 2015. In città c’è già chi prepara il ritorno al potere della destra esibendo il glorioso piazzamento del 2009, quel 91° posto da predissesto che - direbbe la scolara di Arghillà - ha fatto anche cose positive.
Incendi, agguati, attentati e sviste dei giudici: la vita impossibile di Tiberio Bentivoglio. L'ultimo atto l'altra notte: il fuoco ha devastato il deposito del suo negozio. L'imprenditore di Reggio Calabria ha denunciato le cosche, per questo è finito nel mirino dei criminali: «Sono solo e la giustizia è lenta, sto aspettando da tre anni il deposito di una sentenza di un processo in cui ero testimone», scrive Giovanni Tizian il 29 febbraio 2016 su "L'Espresso". Nel 1992 il primo messaggio mafioso: il furto nel negozio. Dopo sei anni, un altro furto e un primo attentato. Nei sette anni successivi un secondo attentato e un incendio. Nel 2008 il capannone viene dato alle fiamme. A febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando in campagna, alle sei di mattina. L'altra notte l'ultimo avvertimento: il deposito distrutto dalle fiamme. La vita di Tiberio Bentivoglio, imprenditore e testimone di giustizia, è a rischio. Protetto per questo dalla polizia in una città, Reggio Calabria, in cui il clima si sta surriscaldando. Gli equilibri, dicono gli investigatori, non sono più quelli di qualche anno fa. Bentivoglio è nel mirino per aver denunciato pressioni e minacce, per non essersi piegato ai clan di Reggio. Con le sue denunce ha fatto scattare indagini e arresti. Ma come spesso accade in questo Paese, chi denuncia è costretto poi a chiudere bottega. Ma Tiberio resiste. Non vuole fallire. Resiste all'arroganza delle 'ndrine, alle richieste della banche, a quelle di Equitalia, a quelle dei creditori insensibili al sacrificio di chi sceglie l'opposizione dura alle cosche. Ci prova in tutti i modi, e in tutti i modi prima la 'ndrangheta e poi lo Stato tentano di affossare la sua attività. «La mattina dopo l'incendio è venuto l'ufficiale giudiziario a mettere i sigilli al negozio, mi stanno sfrattando perché non riesco a pagare», racconta Bentivoglio a “l'Espresso”. Perseguitato dai boss e dalla burocrazia, che non guarda in faccia nessuno, neppure in un giorno così drammatico per la famiglia dell'imprenditore. Così la sua Sanitaria Sant'Elia rischia di chiudere per sempre. Ma c'è ancora l'ultima speranza. Gli è stato concesso un bene confiscato dove trasferire l'attività. Purtroppo però i lavori procedono a rilento, sempre per questione di soldi, troppo pochi per procedere spediti. Forse però l'ultimo incendio ha dato una scossa al sistema di solidarietà. Entro il 15 marzo Bentivoglio potrebbe trasferirsi nel nuovo locale che un tempo era dei padrini dello Stretto. Nulla di certo ancora, per il momento solo una speranza a cui aggrapparsi. L'imprenditore reggino vive sotto scorta da molto tempo. Non nasconde la rabbia per gli attentati e per l'indifferenza, di molti suoi concittadini e delle istituzioni, che lo isola ancora di più. Certo, c'è l'associazione Libera al suo fianco, e pochi altri. Ma non tutti i reggini stanno dalla sua parte: basti pensare che da quando ha denunciato gli estorsori la clientela si è ridotta sempre di più. «La giustizia è lenta» sostiene Tiberio, che porta esempi concreti su cui la politica dovrebbe ragionare seriamente: «Nel 2009 ho presentato una denuncia per favoreggiamento con nomi e cognomi. Solo in questi giorni è arrivata la notifica della fissazione della prima udienza. Sono passati sette anni. Un'enormità che, come in questo caso, portò alla prescrizione del reato». Lui denuncia, si espone, rischia la pelle. Poi ci pensa la prescrizione a cancellare tutto. Quello che non viene cancellato però è la sua esposizione, perché era e resta un obiettivo da eliminare. La prescrizione, per esempio, ha salvato il prete, cerimoniere dell'ex vescovo di Reggio Calabria, don Nuccio Cannizzaro, imputato poi assolto in un processo di 'ndrangheta naufragato con diverse assoluzioni. Tra queste, appunto, quella di Cannizzaro: prescritto il reato di falsa testimonianza per aver favorito il boss della 'ndrangheta Santo Crucitti, ras del quartiere di Condera. Bentivoglio era testimone in quel processo, e a “l'Espresso” racconta: «Sono passati tre anni da quella sentenza e il giudice non ha ancora depositato le motivazioni, per questo né io né la procura abbiamo potuto presentare appello». Qualcuno avrà pagato per questa negligenza? «No, perché la procura generale sostiene che deve essere il Csm a intervenire, il Csm rimbalza la responsabilità su altri. Intanto, però, le motivazioni non sono state ancora depositate e un mio diritto viene calpestato». «Dalle istituzioni solo promesse, per ora rimaste tali», conclude Bentivoglio. Come dargli torto. Dopo oltre dieci anni di denunce gli è rimasto ben poco, se non la dignità che gli permette di camminare per la vie di Reggio a testa alta. È questo il prezzo da pagare per aver denunciato la mafia calabrese?
Abuso ufficio, interdetto giudice lavoro. Contestate anomalie nell' assegnazione di incarichi a consulenti, scrive "L'Ansa" il 04 febbraio 2016. Un provvedimento di misura interdittiva di sospensione dalle funzioni è stato emesso dal Gip di Catanzaro nei confronti del giudice Luciano D'Agostino, in servizio nella sezione lavoro del Tribunale di Locri. Il provvedimento, con l'ipotesi di abuso ufficio, è stato notificato dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro. Le indagini della Procura di Catanzaro, sotto la direzione del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e del sostituto Fabiana Rapino, hanno evidenziato anomalie nell'assegnazione di incarichi di consulenza tecnica nella distribuzione di incarichi tra i consulenti nell'albo del Tribunale. In particolare, al giudice D'Agostino si contesta l'agevolazione verso alcuni professionisti, mediante assegnazioni di consulenze oltre la percentuale consentita dalla legge. Contestate anomalie anche nella gestione di processi trattati con Equitalia, con sentenze, pur in presenza di interesse proprio.
Abuso d’ufficio: giudice Tribunale Locri sospeso dalle funzioni, scrive G.B. su “Zoom 24” il 04/02/2016. Interdetto dalle funzioni il magistrato Luciano D’Agostino, giudice del Lavoro al Tribunale di Locri. E’ stato anche pm della Dda di Catanzaro con delega per il territorio di Vibo. Notificato da parte dei finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Catanzaro un provvedimento di misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, emesso dal gip di Catanzaro, nei confronti di Luciano d’Agostino, 61 anni, napoletano, magistrato della sezione lavoro del Tribunale di Locri. Le indagini, condotte dalla Procura di Catanzaro, sotto la direzione del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e del pm Fabiana Rapino, hanno consentito di evidenziare una serie di anomalie nell’assegnazione di incarichi di consulenza tecnica, che si sono riverberate sulla distribuzione tra i consulenti iscritti nell’apposito albo del Tribunale. In particolare, al magistrato si contesta l’agevolazione verso alcuni professionisti, mediante assegnazioni di consulenze oltre la percentuale consentita dalla legge, così favorendoli. Contestate, altresì, anomalie nella gestione di processi trattati avverso la società Equitalia, dove, pur in presenza di interesse proprio, il giudice D’Agostino non si sarebbe astenuto dalla pronuncia di sentenze. Il provvedimento emesso comporta l’effetto della sospensione dall’esercizio delle funzioni di magistrato e l’interdizione da tutte le attività ad esse inerenti. In passato, dal 1994 il magistrato Luciano D’Agostino, sino al 2001, è stato pm della Dda di Catanzaro con delega ad occuparsi del fenomeno mafioso nella provincia di Vibo Valentia. A lui gli è subentrato poi il pm Patrizia Nobile a cui sono legate le storiche operazioni antimafia “Dinasty” contro il clan Mancuso, “Prima” contro i clan Anello di Filadelfia e Fiumara di Francavilla Angitola, e “Rima” contro il clan Fiarè-Gasparro. A Patrizia Nobile è poi succeduta il pm Marisa Manzini. Prima ancora, il magistrato Luciano D’Agostino è stato pm alla Procura di Lamezia Terme.
…DI COSENZA. 'Ndrangheta: arrestato il boss Muto di Cetraro. "Controllava anche il respiro del territorio". Per 30 anni il suo clan ha inquinato il settore turistico e inondato di droga la costa dell'alto Tirreno cosentino fino al Cilento, monopolizzando anche il commercio ittico. Cinquantotto ordini di custodia cautelare. Il procuratore Gratteri: "Indagati anche amministratori giudiziari infedeli. La cosca continuava a gestire i beni confiscati", scrive il 19 luglio 2016 "La Repubblica". Da 30 anni signore del controllo malavitoso sulle risorse economiche nell'alto Tirreno cosentino, il boss della 'ndrangheta Francesco Muto di Cetraro, meglio noto come il "re del pesce", è stato arrestato nelle prime ore di questa mattina nell'ambito di un'operazione dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Cosenza che si è estesa anche alla provincia di Salerno e in altre località del territorio nazionale. Operazione, "Frontiera", a cui è stato dedicato uno schieramento di forze imponente, che rende l'idea del calibro del suo principale obiettivo, il boss Muto. L'Arma ha impiegato circa 400 uomini, provenienti anche dalla Campania, per circondare la zona di Cetraro e chiudere ogni via di fuga. Un assedio che affonda le sue radici originarie nel terreno delle indagini sull'omicidio di Angelo Vassallo, il "sindaco pescatore" di Pollica, nel Cilento, come rivelato dal generale Giuseppe Governale, comandante del Ros. La pesca, in questa storia di 'ndrangheta, è a suo modo triste vittima, ma non risultano arresti e indagati riconducibili all'assassinio di Vassallo. Complessivamente, le ordinanze di custodia cautelare emesse dalla Dda di Catanzaro sono 58, spiccate contro persone indagate, tra l'altro, per associazione di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, estorsione e rapina. Tra gli arrestati, anche i figli del boss Luigi e Mary (detta Mara). Alcune ordinanze sono state notificate in carcere a diversi pregiudicati, ritenuti interni o vicini alla cosca. Come Maurizio Rango, già detenuto, esponente di spicco delle cosche operanti a Cosenza. Contestualmente sono stati sottoposti a sequestro beni per circa 7 milioni di euro e i carabinieri stanno effettuando, ancora adesso, diverse perquisizioni in varie località del cosentino. Al centro delle indagini Francesco Muto, classe 1940, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e vertice di una delle cosche più pericolose e violente che, in un'area a forte impatto turistico, dalla costa tirrenica cosentina fino al Cilento, monopolizzava fino al dettaglio la commercializzazione dei prodotti ittici, i servizi di lavanderia industriale delle strutture alberghiere e la vigilanza dei locali d'intrattenimento. Ma l'attività di Muto e del suo clan non si fermava all'inquinamento del settore turistico. Parallelamente, le indagini del comando provinciale di Cosenza hanno documentato un importate traffico di stupefacenti che, sotto il controllo di Muto, riforniva abbondantemente di cocaina, hashish e marijuana le principali località balneari della zona, tra cui le note Diamante, Scalea e Praia a Mare. L'operazione è stata raccontata in conferenza stampa dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. "Oggi abbiamo colpito i vertici di una delle famiglie più importanti della 'ndrangheta. La famiglia Muto di Cetraro, che tra l'altro controllava il pescato di tutte le imbarcazioni che operavano sulla costa cosentina. Ordinavano a tutti i pescatori che tipologia di pesce volevano, se non era quello imponevano di buttarlo in mare. Un particolare che testimonia la spietatezza della 'ndrangheta, che arriva a vessare dei poveri pescatori. Controllavano questo pescato che rivendevano alla grande distribuzione e a tutti i ristoratori della fascia tirrenica cosentina. Andavano dagli amministratori dei grandi supermercati e imponevano la gestione della pescheria, pena severe ritorsioni". "Nei pressi di Sala Consilina (Salerno) - aggiunge il pm Vincenzo Luberto - hanno fatto saltare in aria un supermercato il giorno dell'inaugurazione. La Conad è stata molto vessata dal clan. A Cetraro il Comune ha costruito, ma mai attivato, l'asta del pesce, che libererebbe il mercato. Il Comune deve fare di più". Tra gli indagati anche diversi amministratori giudiziari. "Infedeli, asserviti alle organizzazioni mafiose, perché beni confiscati continuavano a essere gestiti dalla cosca - sentenzia il procuratore -. Per questi amministratori giudiziari abbiamo chiesto misure interdittive, che non sono state accolte ma faremo appello perché queste persone devono andare in carcere. Ai fini della credibilità dello Stato non è possibile che beni sequestrati alla mafia continuino a essere nella disponibilità dei mafiosi. Una cosa è certa: queste persone non lavoreranno più con noi. E forse neanche con altri". "Questa indagine consegna qualcosa di inquietante - aggiunge il procuratore aggiunto di Catanzaro Giovanni Bombardieri -. Il gip Gioia, nel ripercorrere le pagine di vecchi atti giudiziari, in particolare le prime sentenze contro la cosca Muto, evidenzia come nulla fosse cambiato dal 1992, quelle pagine descrivono una situazione identica a quella attuale. Nonostante le condanne, le confische dei beni, tutto continuava a essere gestito da loro". "La cosca Muto - prosegue Gratteri - si muoveva come una multinazionale, diversificava le proprie attività e gli interessi economici per avere il controllo assoluto del territorio, controllava quasi il respiro in questo territorio". "Pensiamo di aver colpito i vertici della 'ndrangheta su quel territorio" conclude il procuratore, per poi rivolgersi alla società che "su quel territorio" ha convissuto con questa storia criminale per oltre trent'anni. "Se la gente vuole, adesso può alzare un muro per non far arrivare quelli della terza fila a chiedere mazzette. Noi siamo disponibili ad ascoltare chi vuole denunciare. Pensiamo di meritare la fiducia della gente. E tanti già si fidano".
PARLIAMO DELLA CAMPANIA.
…DI CASERTA. Appalti e corruzione, finisce in carcere il sindaco di Maddaloni. Cinque arresti: oltre al primo cittadino Rosa De Lucia anche un assessore, due consiglieri e un imprenditore. Mazzette per favorire opere pubbliche. Indagato vigile, scrive "Il Corriere della Sera” del 7 marzo 2016. Mazzette sugli appalti. In carcere il sindaco di Maddaloni Rosa De Lucia (centrosinistra) arrestata dai carabinieri coordinati dai magistrati della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. In tutto fermate cinque persone: (due in carcere e tre agli arresti domiciliari). Oltre al sindaco, provvedimenti giudiziari anche per altri appartenenti all’amministrazione comunale (un assessore e due consiglieri) e un imprenditore, ritenuti responsabili a vario titolo di corruzione, tentata induzione indebita a dare e promettere qualcosa e peculato in concorso. Con l’esecuzione delle misure cautelari sono state notificate informazioni di garanzia per corruzione a un consigliere di maggioranza e, per peculato, al comandante della locale Polizia municipale. I carabinieri stanno procedendo anche al sequestro preventivo di un importo di circa un milione di euro a carico dell’imprenditore destinatario del provvedimento cautelare. Era stata minacciata. De Lucia aveva subito in passato minacce da lavoratori e riceveva una sorveglianza più stretta, ma nessuna scorta. In particolare nel febbraio dello scorso anno una telefonata giunta al Commissariato di Maddaloni avvertiva che «stasera per il sindaco fa caldo»; scattò subito l’allarme in quanto De Lucia già tempo prima era stata minacciata, anche personalmente, da alcuni lavoratori, uno dei quali, ex dipendente di una ditta che in passato aveva gestito alcune attività al cimitero comunale, la minacciò di morte aggredendola negli uffici del Municipio.
…DI NAPOLI. TIZIANA CANTONE ED IL PREZZO DELLA NOTORIETA'. DELLA SERIE: CHI E' CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO.
La vergogna di Tiziana: «Ero fragile e depressa, i video sono 6». La denuncia della 31enne a maggio 2015: «Era un gioco». È lei stessa a fare i nomi delle quattro persone a cui aveva inviato i filmati hard: ora sono indagate per diffamazione. Il ruolo dell’ex fidanzato, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" il 16 settembre 2016. Tiziana Cantone è morta per una cosa che era cominciata come un gioco. Era un gioco fare sesso cambiando partner, era un gioco lasciarsi riprendere, era un gioco inviare poi i video ad altri uomini. Lei ha giocato senza rendersi conto di quanto fosse pericoloso. Non ha capito che mandare in giro quelle immagini significava mettere la sua intimità nelle mani di gente che avrebbe potuto farne qualsiasi cosa. Se ne è resa conto quando ha scoperto di essere finita sui siti porno. E ha provato, inutilmente, a fermare quel mondo incontrollabile che è il web. Quello che Tiziana oggi non può più raccontare — le sue libere scelte sessuali, la condivisione dei video e ritrovarseli online, e poi la vergogna e gli insulti e le battutacce, e la solitudine, la depressione, le lacrime, la voglia di farla finita — lo raccontano le carte giudiziarie dei procedimenti nati dalle sue denunce e dai suoi tentativi di far sparire dalla Rete quei filmati. È il maggio del 2015, quando Tiziana si presenta in Procura per fare una denuncia. Racconta di aver girato quei video e di averli poi inviati a persone con le quali, spiega al magistrato, aveva intrecciato «relazioni virtuali» sui social network. Era un periodo di «fragilità e depressione», fa mettere a verbale, e ancora peggio sta ora che ha scoperto che quei video sono su molti siti porno. Fa i nomi dei quattro a cui ha inviato le immagini, e tutti vengono indagati per diffamazione: sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano. Di uno viene indicato anche il nickname che usa su Facebook: Luca Luke. La donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video. Sono giorni in cui Tiziana fa di continuo scoperte che la avviliscono. Le racconta, una dietro l’altra, nella memoria che il 13 luglio 2015 presenta al giudice civile di Aversa per chiedere la rimozione dei video da siti e motori di ricerca. Anche qui premette di essersi fatta riprendere «volontariamente e in piena coscienza», e specifica che le registrazioni sono sei. Conferma anche i nomi contenuti nella denuncia di maggio come destinatari delle sue condivisioni. E racconta quello che le succede a partire dal 25 aprile, quindi pochissimo tempo dopo aver girato i video. Quel giorno la chiama un amico e le dice di averla vista in un filmato su un sito porno. Lei riconosce le immagini e ricorda pure a chi dei quattro amici virtuali le aveva mandate. Due giorni più tardi una nuova scoperta su altri due siti porno, e dopo meno di una settimana un’altra ancora. Tiziana comincia a passare il suo tempo a fare ricerche mirate. Scopre un forum per adulti in cui si parla di lei come della protagonista di video pubblicati da un sito di scambisti, e alcuni gruppi su Facebook dedicati a lei, ma soprattutto numerosi profili fasulli con il suo nome e le sue foto tratte dai frame di quei filmati, seppure parzialmente coperte per non incorrere nella censura del social network. Poi le arriva la telefonata di un altro amico che le racconta di aver ricevuto su WhatsApp una sua foto, sempre di quelle tratte dai video. Che ormai stanno girando all’impazzata. Tiziana torna in Procura, fa una integrazione alla denuncia di maggio e i pm aggiungono il reato di violazione della privacy, ma stavolta non iscrivono nessuno nel registro degli indagati. Intanto lei smette di uscire da casa perché le è capitato di essere «riconosciuta e derisa», scrive nella denuncia. Non va più al supermercato, né in palestra, al cinema o al ristorante. Gli amici spariscono, nessuno la chiama più, nessuno la invita a uscire. Lei comincia a stare male, ha attacchi di panico, piange, pensa al suicidio. Ci prova anche ma la fermano in tempo. L’unico che le è accanto e che la sostiene anche nelle spese per l’avvocato è l’ex fidanzato. Se per affetto o per altro non è chiaro. E anche questo, così come un suo eventuale ruolo in tutta la vicenda dei video, cercheranno di capire i pm della Procura di Napoli Nord che martedì hanno aperto un’inchiesta per induzione al suicidio. Per adesso senza nessun indagato.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano il 15 settembre 2016: valanga virtuale e cattiveria umana hanno travolto la vita di Tiziana. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell' hinterland napoletano. È di buona famiglia - l'espressione ha ancora un senso, lì - e ha la postura "aggressive" di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po' pantera ma non volgare, una donna che vuole piacere agli uomini e non ha problemi a riuscirci. Ha una specie di fidanzato, ma - non è chiaro se sia per qualche ripicca - sta di fatto che decide di fare sesso con altri, anche con due alla volta; e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. È lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l'espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. Ma pare che a diffonderli sia stata anche lei, benché a non più di cinque persone. A riceverli sono dapprima due fratelli che vivono in Romagna, poi un utente di Facebook di cui è noto solo il "nickname" e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c' è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l'inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c' è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama "meme", ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo». Che sta succedendo? Qualcuno parla di "revenge porn", categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l'apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l'operazione, ipotizzano l'efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare - come questo scritto farà, nel suo piccolo - nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell' automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei "click" che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d' origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l'icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il "meme" tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina "Fuori c' è il sole" di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video puoi trovarli direttamente su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un'impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può lavorare neppure nel locale di cui i genitori sono titolari. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Toscana lontano perlomeno da conoscenti e amici, gente in grado di associarla immediatamente a quel video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio: non è chiaro se prima o dopo la decisione di tornare a vivere nel napoletano in un'altra cittadina, Mugnano, da una zia, neanche lontano da dove stava prima. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo e chiede una serie di provvedimenti "d' urgenza", i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia è rivolta sia ai primi diffusori materiali dei video - quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network - e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas. Comunque il tribunale di Napoli Nord le dà ragione - un sacco di tempo dopo - e, con un provvedimento "ex articolo 700", riconosce la lesione del diritto alla privacy e contesta ai social di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose - e qui si capisce perché internet è un inferno - c' è che molti social network, per esempio Facebook, non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato. A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali - si legge - ma Tiziana dovrà pagare 3.645 euro a carico di quei social network che le varie pagine, intanto, le avevano già rimosse. Senza farla lunga: i dare e gli avere alla fine si sono equivalsi. Ma non è finita. Il diritto all' oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l'interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all' oblio - si legge ancora, - è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo». Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, che per metterci un'inutile pezza impiegano un anno e mezzo. E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all' oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c' è ancora l'attualità della "notizia". Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza - neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento - il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Ma, a proposito di tempi, è dopo di questo che Tiziana è scesa nello scantinato e si è impiccata con un foulard. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana. Filippo Facci
Questa è la versione meno censurata dello stesso Filippo Facci su “Il Post” del 15 settembre 2016. Storia di Tiziana Cantone di Filippo Facci. Filippo Facci ha ricostruito e messo in ordine quello che è successo alla donna che si è uccisa martedì, al suo fidanzato e al processo. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell’hinterland napoletano. Benché abbandonata dal padre una settimana dopo la nascita, è di buona famiglia – l’espressione ha ancora un senso, lì – e ha la postura «aggressive» di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po’ pantera ma non volgare, palestrata, esagerava col bere – per smettere andava da uno psicologo – e in sostanza era una donna che vuole piacere agli uomini e che non ha problemi a riuscirci. Diploma di liceo classico, studi interrotti di giurisprudenza. Ha una specie di fidanzato quarantenne, Sergio Di Palo, che sta a Licola con il suo cane: ci ha pure convissuto dall’estate 2015 al settembre 2015, e, secondo la madre – Maria Teresa Giglio, 58 anni – è stato lui a spingerla ad avere rapporti con altri e a filmarli. A loro piaceva così, ed era già successo nel novembre precedente. A dimostrarlo c’è il fatto che i video furono girati e diffusi mentre i due ancora convivevano. Così, in quell’aprile, Tiziana accetta di fare sesso con altri (anche con due alla volta: la condizione è che a sceglierli sia lei) e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. E’ lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l’espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. La madre, impiegata comunale, sospetta che a diffonderli sia stato il fidanzato, ma sicuramente è stata anche lei, anzi, è lei ad averli spediti al fidanzato. In una clip, ambientata in una cucina, secondo la madre s’intravede la sagoma di lui. A ricevere i video, sempre in quell’aprile, sono in seguito due fratelli che vivono in Emilia Romagna (amici del fidanzato, che lei aveva conosciuto) poi un utente di Facebook di cui è noto solo il «nickname» e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c’è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l’inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c’è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama «meme», ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo».
Che sta succedendo? Qualcuno parla di «revenge porn», categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l’apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l’operazione, ipotizzano l’efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare – come questo scritto farà, nel suo piccolo – nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell’automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei «click» che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d’origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l’icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il «meme» tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina «Fuori c’è il sole» di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video sono reperibili su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome, mentre vip e calciatori vengono intervistati a proposito della famosa frase. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un’impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può più lavorare neppure nei locali di cui gli zii sono titolari: un bar in zona porto e un negozio. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Emilia Romagna da amici del fidanzato, poi da parenti in Toscana, lontana perlomeno da concittadini in grado di associarla immediatamente al video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio. Due, secondo la madre: nel dicembre 2015 avrebbe ingerito barbiturici e fu salvata in extremis, chiamando il 118, poi tentò di lanciarsi da un balcone a casa del fidanzato. Il quale passa per cornuto d’Italia perché la faccenda è sfuggita di mano anche a lui: prima di cancellare il proprio profilo Facebook – come Tiziana – in un ultimo post rivolge minacce un po’ a tutti: «Vi veng a mangià o cor a piett… attenti». È di pochi mesi dopo la decisione di Tiziana di tornare a vivere nel napoletano in un’altra cittadina, Mugnano, da una zia, non lontano da dove stava prima. C’è anche la mamma. Una villetta a schiera con giardino e con la palestrina nel seminterrato. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo – segnalata, anche qui, dal fidanzato – e nell’aprile scorso chiede una serie di provvedimenti «d’urgenza», i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia ammette che lei dapprima fu consenziante alla diffusione, ma poi si rivolge sia ai primi diffusori materiali dei video – quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network – e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. A giugno c’è una prima udienza. Prosegue l’8 luglio. La sentenza, scritta il 10 agosto, è ufficialmente del 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord (di Aversa, cioè) le dà teoricamente ragione un sacco di tempo dopo: e, con un provvedimento «ex articolo 700», si rifà a un po’ di giurisprudenza (legge 70 del 2003, Privacy, limiti del diritto di cronaca) e in sintesi contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose – e qui si capisce perché internet è un inferno – c’è che alcuni dei social network non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato, cioè titoli tipo «il famoso video che sta facendo parlare l’Italia». A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali – si legge – ma paradossalmente Tiziana apprende la notizia per vie traverse: l’avvocatessa non l’ha neppure avvisata e ha postato la notizia direttamente su – sì – Facebook. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva a carico di 5 (su 10) dei social network citati. Google e Yahoo! vengono prosciolte per degli errori degli avvocati nell’indicare le società di appartenenza. Senza farla lunga: Tiziana – dice la sentenza – dovrà pagare 18.225 euro. Più Iva. La richiesta di un risarcimento è giudicata «inammissibile in sede cautelare», posticipando la questione ad altro momento: questo, del resto, prevede l’articolo 700 del codice di procedura civile. Non è finita. Il diritto all’oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». L’interesse. Della collettività. Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, inadeguati anche con «provvedimento d’urgenza». E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all’oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c’è ancora l’attualità della «notizia». Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza – neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento – il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e tutta la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Sicuramente lei era affranta dalla sentenza. E comunque, a proposito di tempi, è a margine di tutto questo che Tiziana è andata giù nello scantinato e si è impiccata con un foulard azzurro appeso a un tubo. Oggi alle 15 c’è il funerale. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana.
Verità, bugie e video: chi era e cosa ha fatto davvero Tiziana Cantone. E poi, giù il sipario. Su Tiziana Cantone si sono spesi fiumi di inchiostro e dette migliaia di bugie nelle ultime ore. Facciamo chiarezza. E poi, per favore, giù il sipario. Ma senza dimenticare, scrive Francesco Guarino il 15/09/2016. Una morte figlia dei nostri tempi. Una morte che ha occupato le prime pagine di tutte le testate, scalzando politica, scienza e sport e dividendo l’Italia in due. Partendo da una frase, pronunciata in un video hard divenuto virale nel giro di pochi giorni ad aprile 2015, che è stato l’inizio della fine di Tiziana Cantone, 31enne napoletana. “Stai facendo un video? Bravo!”: poche parole che Tiziana si lascia scappare nella concitazione, impegnata in un rapporto orale con un uomo e perfettamente riconoscibile in un video hard che doveva rimanere privato. Ma privato non è rimasto. Innescando una reazione a catena incredibile, in cui il web e il giornalismo hanno sì le loro colpe, ma con adeguati distinguo. Il dramma della morte di una ragazza, giovane e bella, divenuta suo malgrado uno dei volti più conosciuti del web, merita che ora le luci su di esso si spengano. E che la parola passi definitivamente ai tribunali, per accertare le possibili responsabilità della sua discesa negli inferi. Ma che Tiziana Cantone finisca nell’aldilà accompagnata da una marea di bugie, figlie del tam tam della rete e dell’incapacità dell’utenza di verificare correttamente una fonte, è indegno e ingiusto. Wakeupnews ha scritto due articoli sulla vicenda di Tiziana Cantone a suo tempo: uno quando il video iniziò a far notizia, un altro per palesare alcune anomalie nelle successive apparizioni a catena di nuovi video con Tiziana Cantone protagonista. In entrambi i casi è stata deontologicamente rispettata la privacy della diretta interessata, non mostrandola mai in volto anche quando le foto sono state prese da altri portali (che invece le avevano mostrate a volto scoperto). CRONISTORIA WEB E LEGALE DI TIZIANA CANTONE
Fine Aprile 2015: un video in cui una ragazza bella ed appariscente pratica sesso orale al partner, inizia ad apparire su diversi siti hard. Si vociferava da giorni nel napoletano di un video che stava passando di telefono in telefono tramite WhatsApp: quando il video arriva sui portali hard più noti, in alcuni casi reca nella descrizione la definizione generica di “coppia napoletana”, ma in quasi tutti i tag appare il nome di Tiziana Cantone. Quando il video viene scaricato da altri utenti (procedura basilare che può essere effettuata da chiunque con appositi programmi) e ricaricato su altri siti web, o sullo stesso sito del primo upload, il nome di Tiziana inizia ad apparire anche nella descrizione del video. Rendendola immediatamente riconoscibile. A rendere virale il video hard, oltre alla perfetta identificazione della ragazza e alla sua bellezza appariscente, c’è il fatto che Tiziana insulti il suo compagno, facendo capire che lo sta tradendo. Sul finire del video si aggiunge una componente comica, quando un abitante della zona – i due si sono appartati accanto alla macchina all’aperto – si accorge della loro presenza e li rimprovera. Il video gira senza tagli e diventa un piccolo cult, come forse in Italia era successo solo più di un decennio fa con “Forza Chiara”, video circolato anch’esso clandestinamente che ritraeva una coppia impegnata in un rapporto sessuale. Con l’aggravante che la lei fosse minorenne.
Inizio maggio 2015: il video e gli screen di Tiziana diventano oggetto di meme, sfottò ed entrano in pochi giorni a far parte dell’immaginario comune della rete. La bellezza della ragazza e il fatto che il video hard abbia forti componenti tragicomiche (l’apparente tradimento di un fidanzato e il momento in cui la coppia viene scoperta da un abitante della zona, il tutto immortalato in video senza tagli) rendono il filmato ancora più famoso e visualizzato.
Prima settimana maggio 2015: iniziano ad apparire nuovi video di Tiziana Cantone. In tutti i filmati Tiziana è sempre l’unica riconoscibile, ma stavolta la si vede impegnata in atti sessuali con più uomini. Diverse clip di pochi secondi, tra camere da letto e cucine. Trapelano foto personali dai suoi account Facebook e Instagram (chiusi nel giro di pochi giorni). Stampa e siti di gossip iniziano a parlare di Tiziana Cantone come una futura pornostar in cerca di visibilità o di un contratto. Nessuna casa di produzione confermerà mai di aver ricevuto proposte o video da Tiziana, né di averla mai contattata.
Seconda settimana maggio 2015: come segnalato a Wakeupnews (e confermato dalla foto nell’articolo), risulta un avvio di registrazione alla Camera di Commercio di un “marchio di abbigliamento donna di tendenza sexy” a nome Tiziana Cantone (N.B.: era il nome della linea di abbigliamento, non il nome della persona che l’aveva registrata). Su un portale lavorativo per agenti di commercio viene pubblicato l’annuncio per la ricerca di rappresentanti per la linea di abbigliamento. Seguendo la linea logica della pubblicazione dei video, tutto fa propendere verso un evento “commercialmente organizzato” e l’interesse giornalistico nella vicenda scema in attesa di nuovi sviluppi.
Estate 2015: di Tiziana Cantone non si hanno notizie. Prime voci iniziano a far trapelare il fatto che si sia trasferita in Toscana per allontanarsi dal clamore mediatico diffuso alla circolazione dei video, che sono uno dei tormentoni virali dell’estate. Sulla stampa nulla trapela, ma tramite il suo legale Roberta Fogli Manzillo è già partita una causa nei confronti dei siti hard che hanno pubblicato il video integrale, e ai danni dei siti e dei social che ne hanno pubblicato estratti non censurati, in cui Tiziana Cantone è riconoscibile. La legale sceglie di non parlarne con la stampa. Tra i vari siti, come riferito da Filippo Facci in un’ottima ricostruzione de il Post, ci sono Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. Il giudice negherà successivamente il sequestro dei siti: al netto delle visualizzazioni, il filmato era stato scaricato già oltre 200 mila volte. Ossia oltre 200 mila persone ne avevano una copia su un proprio dispositivo, senza che potesse esserne tracciato il percorso. Col passare dell’estate, il “fenomeno” Tiziana Cantone si attenua. Ma Tiziana per tutti è la “troia” e la “zoccola” che ha cornificato il suo compagno.
Dicembre 2015: Tiziana Cantone prova il suicidio ingerendo una dose massiccia di medicinali. (La madre lo riferirà agli inquirenti dopo la morte della ragazza).
5 Settembre 2016: un anno dopo arriva la sentenza ufficiale sulla causa intentata per diffamazione nei confronti dei soli siti internet. La sentenza, sempre riprendendo quanto scritto da il Post, è stata scritta il 10 agosto, ma appare ufficialmente dal 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord dà teoricamente ragione a Tiziana Cantone e contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma nei confronti di 5 dei 10 social citati, Tiziana perde la causa, sembra per un errore degli avvocati nel citare le società di appartenenza fatte oggetto della causa. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva per 5 dei 10 siti citati in giudizio: 18.225 euro più iva. In assenza di una legge sul revenge porn – e non avendo comunque proceduto contro un individuo, ma contro le società e i social che hanno pubblicato – è stato negato anche il diritto all’oblio dal giudice, seppur in maniera a dir poco opinabile: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge sempre dal Post, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». Dopo un anno, secondo il giudice, c’è ancora interesse verso dei video hard che la diretta interessata ha richiesto di far rimuovere un anno fa. Quando al web bastano poche ore per distruggere l’immagine di una persona, per la giustizia un anno non è un periodo di gogna sufficiente.
13 settembre 2016: Tiziana Cantone si toglie la vita impiccandosi nello scantinato della casa di Casalnuovo di Napoli, in cui era tornata a vivere da alcune settimane assieme alla mamma, Maria Teresa Giglio. Il padre, con cui Tiziana aveva smesso di avere rapporti da anni, non appare neanche tra i parenti che ne danno la notizia nel manifesto funebre.
15 settembre 2016: risultano indagati per diffamazione ai danni di Tiziana Cantone quattro uomini, quelli con cui la vittima ha intrattenuto rapporti sessuali in alcuni dei video circolati in rete. Tra questi non c’è il suo ex compagno.
TIZIANA CANTONE, VERITÀ E BUGIE. Dopo la notizia della morte di Tiziana Cantone, i pareri in rete si sono divisi tra coloro che chiedono giustizia per una donna la cui unica colpa era avere una vita sessuale dissoluta, finita in pasto al web, e chi invece sostiene che se la sia cercata. Ancor di più tradendo il suo compagno e vantandosene nei diversi video ripresi. Con i dati giornalisticamente e legalmente in nostro possesso, facciamo chiarezza.
TIZIANA CANTONE ERA CONSAPEVOLE DI ESSERE FILMATA MENTRE FACEVA SESSO CON DIVERSI PARTNER? Sì, ne era consapevole. Lo testimonia il tipo di interazione che ha con gli uomini (soprattutto nel primo video), la presenza di telecamere e telefonini ben visibili e non nascosti, ed il fatto che si rivolga di frequente al suo compagno, dileggiandolo e dandogli del “cornuto”.
TIZIANA CANTONE HA TRADITO IL PROPRIO COMPAGNO IN QUEI VIDEO? No: con S. D. P. (queste le iniziali fatte trapelare da alcuni siti), 40enne napoletano, Tiziana Cantone ha avuto una relazione durata almeno fino a settembre 2015. Secondo quanto fatto filtrare dalla deposizione della madre di Tiziana ai carabinieri, “S. il compagno di Tiziana per un anno e mezzo [...] aveva indotto Tiziana a girare i video con cinque o sei uomini, S. provava piacere nel sapere e nel vedere che lei si prestava a quegli incontri”. Alcuni degli incontri sarebbero stati organizzati addirittura in Emilia-Romagna dallo stesso S., che ha mandato Tiziana a casa di alcuni suoi amici per farla filmare mentre faceva sesso con loro. Una confessione pesante, che difficilmente una madre si sarebbe potuta inventare ex novo. Il compagno di Tiziana aveva impostato il rapporto con lei da cuckold: un cuckold, nel gergo sessuale, è un uomo che prova piacere nel vedere la propria partner avere rapporti sessuali con altri uomini. Sia in sua presenza che in sua assenza. E farsi mandare video in cui la partner lo tradisce sessualmente e lo deride, è una pratica comunemente diffusa – ed ampiamente documentata nel web – dai cuckold. È una informazione troppo specifica per poter essere campata in aria, e la dinamica dei video sembra corrispondere perfettamente a questa pratica. Tiziana Cantone è probabilmente stata vittima, ancor prima che del giudizio feroce del web e della gente, di un gioco sessuale che è degenerato.
TIZIANA CANTONE HA PUBBLICATO SPONTANEAMENTE QUEI VIDEO? No: i video sono inizialmente circolati all’interno di una cerchia di quattro o cinque persone (Tiziana, l’ex compagno e i diretti interessati presenti nei video). Anche questa è una pratica molto comune nel mondo delle “coppie aperte” o dei cuckold. Un conto è l’essere consapevoli di essere ripresi, un altro paio di maniche è diffondere pubblicamente su un sito web o di telefonino in telefonino un video in cui non c’è nessuno strumento a tutela dell’anonimità dei partecipanti. Il tutto si regge sulla fiducia reciproca, affinché i video non vengano diffusi all’esterno del “cerchio magico”. Qualcuno ha rotto il cerchio con il primo video tramite WhatsApp, che è circolato nel napoletano di telefonino in telefonino. Quando è finito sul web, probabilmente per mano di una persona completamente estranea ai fatti, ormai il danno era fatto. E sono saltati fuori tutti gli altri video, come se Tiziana a quel punto fosse la poco di buono da esporre al pubblico ludibrio. Tiziana Cantone ha cancellato nel giro di pochi giorni i suoi account Facebook ed Instagram. Tutto ciò che è apparso su Facebook con pagine che recavano il suo nome, è stato pubblicato da altre persone che erano entrate in possesso dei video.
QUAL È STATA LA POSIZIONE (LEGALE E NON) DELL’EX COMPAGNO DI TIZIANA CANTONE NELLA VICENDA? Oltre all’aspetto meramente sessuale, la madre di Tiziana chiama in ballo S.D.P. sempre nella deposizione dei carabinieri riportata da la Repubblica: “Secondo me i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei. Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi”. Sempre stando a quanto riferito dalla madre di Tiziana, S. le aveva procurato l’avvocato e aveva partecipato alle spese processuali della battaglia giudiziaria contro la diffusione di quei filmati. Compensazione per un senso di colpa diretto (ipotesi nel caso fosse stato lui a far circolare il video) o indiretto (lo hanno fatto circolare altri e se ne è sentito ugualmente responsabile)? Fatto sta che, al momento, l’uomo non è neanche indagato.
QUALI SONO LE COLPE DELLA STAMPA? Il giornalismo in Italia è attualmente un meccanismo perverso e spesso di qualità bassa. Soprattutto sul web, per guadagnare introiti pubblicitari e nuovi inserzionisti, conta fare visite. Un articolo su un avvenimento dai risvolti a luci rosse, magari correlato da video anche non sfacciatamente sessuale, può portare migliaia di visualizzazioni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che tutti hanno voluto fare visite su quel video. Ma un conto è tutelare deontologicamente la privacy dei protagonisti – e Wakeupnews lo ha fatto – ed un altro paio di maniche è gettare in pasto subito volti, nomi e cognomi senza che nessun reato sia stato commesso. Vale per qualsiasi tipo di reato, figurarsi per una vicenda sessuale.
QUALI SONO LE COLPE DEL WEB? In un mio post su Facebook molti mi hanno accusato di aver “assolto” il web. Nulla di più sbagliato. Io assolvo il meccanismo naturale del web, quello attraverso il quale una notizia virale, una foto, un filmato, una volta messi in circolo sono pressoché impossibili da far sparire. Che tutto ciò sia giusto o sbagliato merita una approfondita riflessione ed una legislazione moderna e specifica, che non debba passare dal reato di diffamazione e magari non debba impiegare un anno per obbligare un sito o meno a rimuovere immagini o video caricati senza autorizzazione. Non assolvo invece il senso di deresponsabilizzazione che la rete ha inculcato in molte, troppe persone. Basta leggere una notizia (spesso solo il titolo) per giudicare e farsi un’idea. Nulla di più sbagliato. Tiziana, nel mio post, è stata dipinta nel peggiore dei modi da uomini e donne, perché colpevole di aver tradito il proprio partner e di averlo denigrato. Oggi che abbiamo la pressoché totale certezza che fosse stato esplicitamente S. a chiedere a Tiziana di tradirlo, deriderlo ed umiliarlo, qualcuno ha ancora davvero il coraggio di darle della poco di buono? Ingenua, forse. Superficiale nel fidarsi di sconosciuti, sicuramente. Ma provate a digitare “cuckold Italia” su Google. Troverete 427.000 risultati. QUATTROCENTOVENTISETTEMILA. Tiziana Cantone ed il suo compagno erano un puntino in mezzo ad una galassia. Una galassia perversa, sottile, in cui basta che salti il dente di un ingranaggio per rompere il meccanismo perfetto. Siete liberi di non prenderne parte e di guardare con distacco chi sceglie di vivere così il sesso, certo. Ma no, non siete tenuti a dare della troia a chi ha deciso di entrare nel gioco. Ancor più – e qui fior di psicologi potrebbero dire la loro – in una ragazza che ha vissuto l’assenza totale di una figura paterna di riferimento.
CHIESA E MORALE – Nel mio post su Facebook ho anche chiamato in ballo la Chiesa, colpevole – a mio parere – di essere l’unica che parla di sesso in Italia. E quindi lo fa a modo suo. Un’affermazione che sfido chiunque a contestare, dato che nelle scuole non si fa educazione sessuale, e non si insegna al rispetto del proprio corpo e di quello altrui. Soprattutto in tempi in cui un video su un telefonino, come nel caso di Tiziana, può essere il confine sottile tra la vita e la morte. Un post su Facebook va inteso come tale, e nel mio caso specifico come un forte sfogo di pancia. Rabbioso e sicuramente incompleto, per una morte che sento troppo vicina ai miei tempi e al mio lavoro. So bene che non è la Chiesa la causa prima e unica di tutti i mali, ma è un dato di fatto che, in un paese di cultura fortemente cattolica come l’Italia, lo scandalo suscitato dal video hard privato di un uomo e di una donna, a parità di esposizione, ricade sempre di più sulla donna. Si insulta la donna troia, non l’uomo puttano.
Questo è quanto c’è da sapere su Tiziana Cantone. Una volta per tutte, verità per verità e bugia per bugia. I suoi funerali si sono tenuti oggi alle 15. E fino a quando le cose non cambieranno, continuerò sempre a sostenere che Tiziana è morta perché, in Italia, il piacere è ancora singolare maschile, e le tentazioni sono sempre plurale femminile. Francesco Guarino
La ragazza avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? Ma non è andata esattamente così, scrive "Next Quotidiano" giovedì 15 settembre 2016. Tiziana Cantone avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? La storia dei 20mila euro che Tiziana Cantone doveva pagare. Lo si legge nel dispositivo dell’ordinanza dal giudice del Tribunale Napoli Nord Monica Marrazzo. Il giudice infatti ha condannato Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) alle spese in favore della ricorrente liquidate “in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. Il giudice ha altresì condannato la ricorrente al rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese “che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. In pratica spiega Conchita Sannino oggi su Repubblica: Il giudice ha poi esaminato caso per caso i profili relativi alle testate giornalistiche on line, due delle quali condannate a rimuovere tutte le pagine riguardanti la vicenda. Nel dispositivo, il giudice condanna Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) anche alle spese in favore di Tiziana liquidate «in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Ma al tempo stesso impone alla ricorrente il rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese «che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Il giudice ha anche stabilito che per Tiziana non ci fosse alcun diritto all’oblio, perché la vicenda che la riguarda è troppo recente, risalendo soltanto alla prima metà del 2015. Su questo punto il passaggio della sentenza non lascia dubbi: «Non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività alla conoscenza della vicenda». Decisamente respinta, infine, anche la richiesta di risarcimento danni che il giudice definisce «evidentemente inammissibile in sede cautelare», rimandando la questione al «successivo eventuale giudizio di merito». L’indagine su Tiziana Cantone. Nel fascicolo dell’inchiesta che la Procura di Napoli nord ha avviato sulla morte di Tiziana Cantone saranno acquisiti anche gli atti della causa civile che la 31enne aveva intentato appellandosi al diritto all’oblio e chiedendo a vari social e motori di ricerca di rimuovere i video hard diventati virali. L’inchiesta, coordinata dal procuratore Francesco Greco e dal sostituto procuratore Rossana Esposito, segue per il momento l’ipotesi dell’istigazione al suicidio, ma non si esclude la possibilità di valutare altri reati come lo stalking. Due mesi fa, a luglio, la 31enne aveva ottenuto l’autorizzazione a cambiare il proprio cognome acquisendo quello della madre. Era stata la stessa Tiziana ad avviare la pratica per quel cambio di identità, lo aveva deciso a novembre 2015, cinque mesi dopo la diffusione sul web del video hot che la ritraeva in momenti di intimità con un uomo. Intanto la madre oggi a Repubblica lancia pesanti accuse nei confronti del fidanzato: «Secondo me, lui la plagiava. Andarono a vivere insieme, e durante la sua convivenza io la vedevo cambiata. Tra me e lei c’era un particolare legame eppure lei aveva deciso di allontanarsi e lui mi dava sempre una brutta impressione… anche se mia figlia non mi ha mai raccontato qualcosa in particolare. Solo una volta, prima del Natale del 2015, la vidi sconvolta». Il motivo? «Tiziana — continua sua madre — mi raccontò di alcuni giochetti fatti con quell’uomo. Una sera ritornò di notte, forse era il novembre 2015, riferì che aveva litigato con lui. Era ubriaca. Si rifugiò in casa mia per quella sera. Venni a sapere che avevano fatto un video che aveva avuto una diffusione virale. Voi mi chiedete dei video che poi uscirono… Io posso precisare che gli stessi video furono girati nel periodo della sua convivenza». La donna aggiunge alcuni nomi di uomini, dice che proprio S. la mandò in Emilia a casa di alcuni suoi amici. «Tiziana mi riferì che sempre il suo compagno l’aveva indotta a girare alcuni video per far piacere a lui, con altri uomini. Considerata questa costrizione, lei aveva deciso di avere rapporti sessuali, ripresi con una telecamera, quantomeno con persone che lei gradiva. Il suo compagno, in realtà, non era presente a quei rapporti sessuali, ma provava piacere a sapere che lei andava con altri e nel vedere i filmati. E anche nel filmato più diffuso, in cui si parla di tradire il fidanzato, posso dire che quell’uomo, per me, ne era a conoscenza. In un filmato, quello girato nella cucina della loro abitazione, si sente la voce dell’uomo e compare una sagoma riconducibile a mio avviso a questo suo compagno». Non solo. La madre riprende dopo un altro crollo. «Tra l’altro il compagno di mia figlia cercò di rassicurarmi, nel corso di un nostro dialogo, che nei video diffusi in rete non era presente Tiziana ma c’era un fotomontaggio e che avrebbero provveduto a difenderla». Poi lei lancia l’accusa più pesante. Ma tutta da provare. «Secondo me, i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei». Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi. La mamma sostiene che forse lui voleva lucrare. Quattro indagati per diffamazione. Ci sono intanto quattro persone indagate per diffamazione nei confronti di Tiziana Cantone, la 31enne morta suicida protagonista di un video hot diventato virale un anno fa sul web. E anche questa iscrizione nel registro degli indagati, a quanto si è appreso, risale ad un anno fa, quando cioè Tiziana presentò una querela contro le quattro persone alle quali aveva mandato via whattapp le immagini hard che poi hanno fatto il giro del web, con milioni di click, senza il suo consenso; l’origine della fragilità che poi portato la ragazza a impiccarsi con un foulard due giorni fa in uno scantinato. A indagare il procuratore di Napoli Fausto Zuccarelli e dal pm Alessandro Milita. La Procura di Napoli Nord invece, competente per territorio rispetto quel decesso, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
EDIT: In una precedente versione dell’articolo avevamo calcolato male il rimborso dovuto alla Cantone. L’edit con la citazione di Repubblica Napoli spiega invece come sono andate le cose.
EDIT 2 (16 settembre 2016): Elisabetta Garzo del tribunale di Napoli spiega oggi a Repubblica perché la sentenza condannava la Cantone al risarcimento delle spese: Quando si è rivolta a voi? «Il ricorso è stato presentato circa un anno fa. Le parti in gioco erano tantissime. Una volta costituite ci sono state un paio di udienze, non di più. L’8 luglio il giudice Marrazzo le ha invitate alla discussione. Ha depositato il provvedimento ad agosto. È stato pubblicato il 5 settembre. L’iter è stato velocissimo». La ragazza è stata anche condannata a pagare alcune spese legali. Non è assurdo? «Nei confronti di alcuni siti internet è stata ritenuta soccombente perché in sede civile la domanda non può essere proposta in maniera non precisa. Ad esempio, per quanto riguarda Yahoo, è stata rivolta nei confronti di Yahoo Italia che non è responsabile del controllo e quindi non è stata accolta. Nel momento in cui il ricorrente è soccombente, viene condannato alle spese».
Tiziana Cantone, parla Luca: «Io, indagato ma ci scambiavo solo foto osé», scrivono Marco Di Caterino e Gigi Di Fiore il 16 Settembre 2016 su “Il Messaggero”. Sono partiti in cinque. Tutti uomini, tutte persone che, utilizzando la chat di Messenger, hanno dialogato con Tiziana dal dicembre del 2014 al gennaio del 2015. A loro, Tiziana inviava foto «in gran parte in costume da bagno e altre a seno nudo» come si legge nell'esposto denuncia presentato alla Procura di Napoli nella primavera del 2015. Cinque, due sono fratelli e di Salerno. Altri di differenti località. Dopo una prima scrematura, il pm Alessandro Milita decise di iscrivere nel registro degli indagati quattro dei nomi indicati nella denuncia. Uno dei fratelli salernitani, giovane imprenditore trentenne, si schermisce: «Non devo spiegare proprio nulla, la storia sta per essere archiviata e io non c'entro nulla con quello che si legge in queste ore». Poi il rinvio, per qualsiasi questione tecnico-giuridica, al difensore, l'avvocato salernitano Marco Martello che dice: «Contiamo di poter comunque arrivare all'archiviazione, dimostrando che, con il video, i miei assistiti non c'entrano». Gli avvisi di garanzia partono un anno fa. Da allora, la Procura non è riuscita ancora ad individuare con certezza chi tra i nomi segnalati nell'esposto sia andato oltre lo scambio di foto in chat e abbia diffuso il video che Tiziana aveva acconsentito a girare, ma senza aver mai avuto intenzione di diffonderlo in pubblico. La prima copia del video compare su un sito a luci rosse il 25 aprile del 2015. Tre giorni dopo, c'è già la moltiplicazione su altre pagine di Internet. I social network, come Facebook, vietano la pubblicazione in chiaro di video con immagini esplicite di sesso. La divulgazione segue altre strade, compresa l'applicazione WhatsApp degli smartphone. Insomma, una valanga inarrestabile, dove è diventato difficile scoprire chi è stato il primo a «postare» le immagini. C'è, però, la denuncia di Tiziana che fa in modo esplicito cinque nomi, come le persone che ricorda destinatari del video che aveva girato. Esclude, nell'elenco dei sospettabili, i presenti alle riprese del video. Uno dei cinque interlocutori di Tiziana in chat era Luca. Nell'esposto, viene indicato con il nickname scelto per aprire il suo profilo Facebook: Luca Luke. Con quel nome, hanno un profilo oltre una ventina di uomini. Luca è sereno, convinto di non avere nulla da nascondere. Non vuole rivelare la sua attività, né fornire dettagli sulla sua vita. Ma sulla vicenda in cui è indagato, invece, spiega: «Ricordo che all'epoca ci fu uno scambio di foto. E alla fine nella denuncia, che conosco bene perchè ho ricevuto un avviso di garanzia, vengono indicate una serie di persone cui sono state inviate proprio delle foto. E, per quanto mi riguarda, le cose stanno proprio in questo modo e cioè io ho ricevuto via chat delle foto, ma video assolutamente no».
Le colpe della Procura della Repubblica di Napoli. Tiziana, il pm attese un anno. I video hot rimasero in rete, scrive Gigi Di Fiore Venerdì 16 Settembre 2016 su "Il Mattino". L'inchiesta è stata aperta un anno fa. Subito dopo la presentazione della denuncia querela, che Tiziana affidò al suo avvocato penalista Fabio Foglia Manzillo. È un fascicolo sull'ipotesi di diffamazione per la diffusione del famoso video girato dalla ragazza con il suo consenso. Già un anno fa, il pm Alessandro Milita con il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli decise di inviare un avviso di garanzia a quattro dei cinque giovani segnalati nell'esposto. Nell'atto si parlava di «gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori». Che poi era essenzialmente lo scambio di foto, in prevalenza attraverso la chat di Facebook. Foto, si leggeva nell'esposto, «in gran parte in costume da bagno o a seno nudo». Poi, l'invio anche del video girato con il consenso di Tiziana. Cinque nomi, appunto, di sospettati della diffusione senza consenso, qualcuno indicato con il nick scelto per il profilo su Facebook. Due sono fratelli, giovani imprenditori salernitani. Dice il loro avvocato Marco Martello: «Gli avvisi, come atto dovuto, risalgono a diversi mesi fa. Eravamo convinti si andasse verso una richiesta di archiviazione. Presto, ci presenteremo in Procura chiedendo di essere di nuovo sentiti. Il mio assistito non c'entra con la diffusione via Internet di quel video». Il filmato, in un file su pennetta Usb, venne depositato in Procura. Inizialmente, l'avvocato Foglia Manzillo ne chiedeva l'oscuramento su Facebook. Spiega il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli: «Il collega Milita, oberato di fascicoli di rilievo come quello sulla ex Resit e sul processo Cosentino, si occupò anche di questa vicenda. Con una motivazione scritta, spiegò che non era possibile sequestrare le pagine del social network per un video che aveva subito moltiplicazioni successive in diversi siti Internet». Di fatto, dopo l'iscrizione nel registro degli indagati, il procedimento per diffamazione a carico dei quattro giovani è rimasto in sospeso. Poi, la drammatica evoluzione della vicenda, con il suicidio di Tiziana che, nell'esposto, indicava come suo domicilio effettivo la residenza del compagno Sergio Di Palo. In un'occasione, proprio Di Palo, imprenditore nel settore edile, aveva accompagnato Tiziana nello studio napoletano dei suoi avvocati. È ora probabile che, nei prossimi giorni, il fascicolo napoletano venga chiuso. Lunedì prossimo, ci sarà un incontro tra il procuratore capo di Napoli nord, Francesco Greco, e il procuratore aggiunto di Napoli, Fausto Zuccarelli. C'è da verificare l'ipotesi di una unione dei due fascicoli penali aperti nei differenti uffici. Quello della Procura Napoli nord ha appena due giorni. È scaturito dalla morte di Tiziana, è a carico di ignoti sull'ipotesi dell'istigazione al suicidio. Dopo dichiarazioni a verbale della mamma di Tiziana, che ha parlato di «plagio» dell'ex compagno sulla figlia, facendo quasi capire che sulla registrazione dei video fosse stata costretta proprio da lui, sicuramente Sergio Di Palo verrà sentito nei prossimi giorni come teste dal pm Rosanna Esposito della Procura di Napoli nord. Di lui gli inquirenti parlano come di un teste «figura essenziale» per la ricostruzione dell'accaduto.
Il mistero delle accise ritrattate. La ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale», scrive Next Quotidiano sabato 17 settembre. C’è ancora un mistero nella storia di Tiziana Cantone. Ieri sono i nomi degli indagati nel procedimento per diffamazione – che sono sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano; la donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video – ma oggi, come spiega Conchita Sannino su Repubblica, si comprende che tutto probabilmente finirà in un’archiviazione, visto che la Cantone ha ritrattato le accuse. Ecco cosa scrive Tiziana nella querela presentata in Procura il 20 maggio 2015. «Quello che sta accadendo assume i connotati di una totale devastazione nei confronti della mia persona, che già di per sé ha profili di psicolabilità». E aggiunge: «È vero che sono stata una stolta sprovveduta a fare giochetti stupidi con persone a me sconosciute, ma è anche vero, che quanto adesso sta accadendo mi avvicina in maniera veloce a istinti di suicidio». Non solo: «Questa gogna provoca danni incalcolabili in me, pregiudica in maniera assoluta e irreparabile il mio futuro di ragazza di 30 anni». Parole che, a rileggerle il giorno dopo i suoi funerali, consegnano l’immagine di una inesorabile solitudine. Quelle pagine stanno ora per essere acquisite dalla Procura di Napoli nord-Aversa, dopo che il procuratore capo Francesco Greco ha avuto contatti con l’aggiunto Fausto Zuccarelli e il pm Alessandro Milita (il magistrato dell’antimafia, che fu già nel mirino dei killer di Gomorra) che procedono, a Napoli, con l’accusa di diffamazione. Ma la ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale». Tre tappe. Tiziana chiede aiuto la prima volta il 29 aprile 2015. Si nasconde dietro una piccola bugia. «Ho smarrito il mio iPhone, e purtroppo stanno circolando delle scene intime, dei video e delle foto», è la denuncia. Passa un mese e il 20 maggio la storia cambia. Tiziana consegna 8 pagine durissime in cui punta il dito contro cinque uomini, ai quali ha inviato il materiale. Sono loro, per Tiziana, ad aver diffuso in Rete, presso altri utenti o siti quelle foto e scene di sesso. Lei fa i nomi di: Christian, Antonio, Enrico, Luca, e un altro Antonio. Ribadisce che loro le chiesero successivamente di incontrarla «per passare dal gioco virtuale all’incontro reale» e lei si rifiutò. Il sospetto è che, per sfregio e per punirla, li abbiano poi fatti circolare. Tiziana accusa: «Poiché questo video è stato inviato da me solo ai signori Christian, Antonio, Enrico, Luca e Antonio, i predetti lo hanno diffuso in Internet senza la mia autorizzazione. Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro». Quattro di loro sono ora indagati per diffamazione. È verosimile, tuttavia, che tutto finisca con un’archiviazione. Il motivo? Da ieri è noto. Passano quattro mesi e il 23 ottobre 2015 Tiziana va in Procura, viene sentita e ritratta il senso delle accuse. «Non era mia intenzione addita re le responsabilità delle diffusione su quegli uomini, loro possono solo essere a conoscenza e offrire elementi». Perché Tiziana Cantone ha ritrattato?
Tiziana, i verbali shock: "Gogna mediatica, mi stanno spingendo al suicidio". La denuncia, nel maggio 2015, della donna che si è tolta la vita per i video hard sul web: "Sono devastata, per strada mi aggrediscono", scrive Conchita Sannino il 17 settembre 2016 su "La Repubblica". Tre racconti, tre versioni diverse affidate alla Procura di Napoli. Ma in comune, tra i tre atti, c'era la disperata ricerca di aiuto da parte di Tiziana. E quelle parole firmate da lei che ora mettono i brividi: "Questa gogna mediatica cui sono sottoposta di ora in ora mi sta portando al suicidio". "Repubblica" è in grado di ricostruire qualcosa che assomiglia, complici anche le (incolpevoli) leggerezze di una bella e libera trentenne, a un calvario giudiziario: civile e penale. "La mia vita è devastata. Sono anche oggetto di episodi di aggressività perché mi riconoscono per strada", ecco cosa scriveva Tiziana nel suo appello-testamento. Parole che raggelano. Tutto comincia con una denuncia di aprile, in cui Tiziana racconta semplicemente di aver smarrito il suo Iphone. Racconta che aveva del materiale incandescente su quel cellulare, che ora sta girando. Ma ovviamente non è la verità. Si arriva al 20 maggio 2015: in questa data consegna la querela circostanziata. Otto pagine. Tiziana puntava con decisione il dito contro cinque uomini ai quali aveva inviato quei video hot - senza averli mai incontrati - e dei quali si dice sicura che sono stati loro a divulgarli su Internet. Forse per ripicca dopo i "no" che lei aveva offerto alle loro richieste di "incontrarsi dal vero". Poi accade un fatto strano. Dopo quattro mesi, ad ottobre 2015, per motivi che sono - sarebbero - tutti da spiegare, lei stessa si ripresenta in Procura, si fa sentire dalla Guardia di Finanza e ritratta quasi tutto. Dice che non voleva accusare quegli uomini. Dice che forse si è spiegata male. Racconta che i nomi di quegli uomini sono veri, che davvero "essi sono stati gli unici" destinatari dei suoi video e foto hot: ma che lei ne ha fatto il nome non per accusarli, ma perché ipotizza che, a loro volta, quelle persone "potevano essere a conoscenza di elementi utili a ricostruire" l'identità dei veri responsabili della divulgazione. In pratica, consegna ai pm qualcosa che assomiglia a una remissione di querela. Ora resta il dubbio di difficile soluzione, anche negli inquirenti: qualcuno ha indotto Tiziana a rimangiarsi le accuse? Qualcosa, o qualcuno, l'aveva spaventata? Ecco il racconto (quasi) integrale di Tiziana, datato maggio 2015. "Voglio premettere che io ho intrattenuto un gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori: Antonio ed Enrico; Luca e Antonio. Il gioco consisteva nell'inviare via internet agli stessi mie fotografie provocanti, poiché gran parte sono in costume da bagno ed altre a seno nudo. Inoltre, io ho fornito loro video pornografici nei quali chiaramente compio qualche atto sessuale. Questo gioco virtuale è durato un paio di mesi, precisamente da dicembre 2014 a gennaio 2015. Nel febbraio ho interrotto i rapporti con costoro, perché essi mi chiesero di incontrarci e di trasformare il nostro rapporto virtuale in qualcosa di reale. Ma io mi negai, poiché non era mia intenzione trasformare il gioco da virtuale in reale e conseguentemente furono interrotti i rapporti in via telematica". Passa poco tempo, rispetto al rifiuto di Tiziana, e cominciano a girare i video e le foto su siti porno, profili personali. Sta cominciando la tempesta. È quella che la porterà alla tomba. Aggiunge Tiziana: "Devo precisare che i rapporti tra di noi erano esclusivamente via telefonica, o meglio attraverso l'app Whatsapp e con lo scambio di messaggi con foto e filmati allegati e con l'intento che questi rimanessero esclusivi tra di noi e non venissero divulgati in rete o con altri mezzi di comunicazione". Invece non andrà così. E lei li accusa: "Poiché questo video è stato da me inviato solo ai signori Christian, Antonio ed Enrico, Luca e Antonio, con la mia esplicita intenzione che tale video rimanesse in esclusività tra di noi, i predetti Christian, Antonio ed Enrico, Luca Luke e Antonio lo hanno diffuso in internet senza la mia autorizzazione. Questa vicenda mi sta ammazzando la vita". Aggiunge ancora Tiziana: "È vero che sono stata una stolta, sprovveduta a fare giochetti stupidi, di invio - scrive - con persone che neanche avevo incontrato, a me sconosciute. Però la mia vita ora ne è devastata". Ottobre 2015. Tiziana torna in Procura, e stavolta alleggerisce di molto il peso delle accuse contro quegli uomini. Racconta: "Non intendo accusare quelle persone della divulgazione. A rileggere ora la querela del maggio scorso, mi accorgo di averli additati come responsabili, ma ribadisco che coloro che ho citato potevano solo essere a conoscenza" di come fossero andate le cose". E ancora: "Anche se ho agito su un impeto, non è mai stata mia intenzione di indicarli come responsabili". Sedici mesi dopo, l'unica certezza è che Tiziana è morta. Suicida. Condannata dalla solitudine in cui è finita. E che i suoi amanti virtuali incasseranno, verosimilmente, un'archiviazione.
IL MEA CULPA DEI MEDIA.
Tiziana Cantone: il caso sul web, il suicidio e le nostre negligenze, scrive Peter Gomez il 14 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Ilfattoquotidiano.it, al pari di molte altre testate e siti online, si è comportato in maniera gravemente negligente sul caso di Tiziana Cantone, la ragazza di Napoli che si è suicidata dopo la diffusione sui social network di una serie di suoi video hard. Nella primavera del 2015, quando Tiziana era già diventata suo malgrado una star del web, anche il web-giornale che dirigo ha pubblicato un pezzo sul suo caso. Un articolo che dava conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Nel pezzo si raccontava come venissero vendute magliette che riportavano una frase da lei pronunciata, si parlava dei gruppi Facebook a lei dedicati, delle parodie e dei tanti video satirici che spopolavano su YouTube. Sbagliando avevamo trattato la cosa come una sorta di fenomeno di costume e avevamo come altri ipotizzato che la vicenda potesse essere un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice. L’errore commesso è evidente e innegabile. Non eravamo davanti a un caso di costume, ma un caso di cronaca che come tale andava trattato e approfondito per poi avere in mano elementi sufficienti per decidere se pubblicare o meno. Detto in altre parole non ci saremmo dovuti accontentare del fatto che la povera Tiziana fosse introvabile, ma avremmo dovuto chiedere ai nostri collaboratori di cercare i suoi amici e familiari per capire cosa era realmente accaduto. E credo che se avessimo fatto fino in fondo il nostro mestiere quel pezzo del 2015 non sarebbe mai finito in pagina. La scorsa settimana un giudice, su richiesta dei legali della ragazza, ha ordinato di rimuovere i contenuti su Tiziana a Facebook, Google, Yahoo e YouTube e a due giornali online che avevano anche ripreso i suoi video. In seguito alla notizia della sentenza – che a noi era francamente sfuggita – nei giorni successivi centinaia tra siti e testate online hanno cancellato quello che in quella primavera avevano scritto. Ieri notte poi, dopo la morte della giovane donna, da internet sono sparite altre centinaia di migliaia di pagine. Alcuni quotidiani hanno oggi ipotizzato che il suicidio sia stato deciso dalla ragazza per lo sconforto di vedere nuovamente la sua storia riprendere vigore in Rete in seguito alla notizia della sentenza. Non sappiamo come siano andate le cose. E davanti alla tragedia non crediamo che sia nemmeno importante capirlo. È giusto e doloroso dire però che anche noi abbiamo avuto una parte, sia pur piccola, in questo misfatto compiuto dal web. Poco importa che senza il nostro pezzo del 2015 le cose non sarebbero cambiate di una virgola. Quanto accaduto non può e non deve essere risolto con la semplice cancellazione di ciò che era stato scritto. Impone una riflessione, già iniziata, su quello che possiamo fare qui a ilfattoquotidiano.it. Anche davanti a storie e vicende già pubblicate da altri o già conosciute tramite i social da milioni di persone, il nostro giornale online deve riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare. Non per dare lezioni a nessuno (che evidentemente mai come in questo caso non siamo in grado di dare), ma per poter dire a noi stessi che abbiamo fatto fino in fondo, con correttezza, il nostro dovere. Ogni giorno pubblichiamo più di 120 contenuti. A ciascuno di essi dobbiamo dare la medesima cura. E se non siamo in grado di farlo, a causa del super-lavoro, dobbiamo non pubblicare. Il dibattito, che come sempre in questi casi, si è aperto sulla forza distruttrice dei social è senza dubbio importante. Così come sono importanti tutte le raccomandazioni ripetute agli utenti sugli enormi rischi legati alla diffusione di filmati e immagini potenzialmente imbarazzanti. Ma oggi è il caso che qui si parli di noi, delle nostre responsabilità e delle nostre manchevolezze. Questo solo mi sento di dire a chi ci legge, convinto che ogni altra parola sia di troppo.
Tiziana Cantone: quando gli sciacalli si riscoprono moralisti, scrive Stefano Casagrande il 15 settembre 2016. All’indomani del suicidio di Tiziana Cantone sul banco degli imputati ci sono due categorie. Gli uomini (tanto per non generalizzare, ne abbiamo già parlato qui) e i social media. O più generalmente “il popolo del web”, termine che personalmente ritengo un abominio ma è tanto caro ai giornalisti mainstream. Qualcuno s’è addirittura spinto indicando quali sono le pagine Facebook che avrebbero spinto Tiziana all’insano gesto, indicando nomi e cognomi degli admin. Ora, intendiamoci: esistono pagine Facebook che hanno la potenzialità di creare veri e propri tormentoni giovanili (Escile, Andiamo a comandare, Ti ammazzo ucciso e amenità varie) ed esistono collegati a queste pagine gruppi più o meno nascosti dove i fan si ritrovano per discutere e lanciare le nuove mode. Ma il loro ruolo (che esiste, sia ben chiaro) è minoritario nella gestione e nell’esplosione di fenomeni di costume. Lo stesso “Andiamo a comandare” ne è un esempio: nato in una di queste pagine Facebook come “tormentone” allegato a qualche immagine è arrivato al successo nazionale solo tramite una canzone prodotta da Fedez, cantante “nazionalpopolare” e giudice di X Factor. Non propriamente un fenomeno underground. La stessa cosa per il video di Tiziana Cantone. La sua viralità è cominciata con l’arrivo del video in una di queste pagine stile Mad Magazine (o come direbbe qualcuno meno attempato: 4Chan)? Sì, probabile. Ma la sua esplosione non è stata causata dal “popolo del web” ma dai media ufficiali. Quelli bravi e responsabili. Elisa D’Ospina, giornalista de Il Fatto Quotidiano, aveva scritto un articolo dove il video veniva indicato come possibile azione di “marketing di una futura pornostar”. Ora la stessa twitta addolorata “La storia di #TizianaCantone è l’esempio di quanto in fondo siamo schiavi del giudizio altrui e mai realmente liberi”. Radio Deejay, terza radio più ascoltata a livello nazionale, aveva fatto diventare parte del video un jingle per “Deejay Chiama Italia”. E se la cava con un post di scuse talmente generiche da non dire assolutamente niente. FanPage, il cui direttore da 24 ore non riesce a twittare altro che accuse verso la metà del genere umano di cui fa parte, aveva dedicato più articoli al fenomeno con descrizioni morbose del video, video pixellati e titoli inquietanti come “Napoli, dopo il video hard su Whatsapp è “caccia” ai due amanti focosi”. In un momento dove l’informazione “tradizionale” rincorre i fenomeni web e concede loro una vetrina nazionale per non bucare nessuna news e recuperare ogni singolo click dove inizia la colpa del “popolo del web” e dove quella dei media ufficiali? Stefano Casagrande
TIZIANA, SUICIDA PER VIDEO HARD: TOSCANI SHOCK, "È UN PO' FESSACCHIOTTA". Scrive Giovedì 15 Settembre 2016 “Leggo”. Ancora un parere discutibile riguardo il suicidio di Tiziana Cantone. «Non voglio insultarla, ma è un pò fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale?». È il commento choc del fotografo Oliviero Toscani sul caso della ragazza suicida per i suoi video hot diffusi in rete. «È colpa sua, solamente sua», è l'affondo di Toscani. «Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L'ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo». «I cretini - ha detto ancora Toscani - sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare». «Devi sapere che può accadere - ha aggiunto - non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l'ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso». Il fotografo non è nuovo a prese di posizioni provocatorie, che in alcuni casi gli sono costate anche delle querele, come quando definì i veneti «un popolo di ubriaconi, alcolizzati atavici» (il processo è finito con un'archiviazione). Ma sono state soprattutto le sue foto, usate per le campagne pubblicitarie o come manifesti di film (per Amen di Costa Gavras trasformò una croce cattolica nella svastica nazista), a fare «scandalo». I casi sono numerosissimi. Basti citare il fotomontaggio (per una campagna Benetton) che ritraeva il bacio tra Benedetto XVI e l'imam di Al-Azhar, e quello tra Obama e il presidente cinese Hu Jintao: un caso che fece infuriare tutti, dalla Sante Sede alla Casa Bianca.
Consigliere PD attacca Tiziana Cantone: “Cercava notorietà, non era una santa”. Walter Caputo, consigliere del PD a Torino, ha scritto su Facebook: "Lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa", scrive "FanPage" il 15 settembre 2016. Sta facendo discutere l'affermazione fatta da Walter Caputo, consigliere per il Pd alla circoscrizione 4 di Torino, che ha deciso di dire la sua sulla vicenda sul suicidio di Tiziana Cantone, la ragazza che si è tolta la vita dopo che filmati in atteggiamenti intimi che la immortalavano sono stati diffusi sul web. Secondo il democratico "lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa".
Tiziana Cantone, anche i vip scherzarono sul video hard, scrive Veronica Cursi il 14 Settembre 2016 “Il Gazzettino”. «Stai facendo un video? Bravo»: quel tormentone che era passato di social in social, che aveva macinato migliaia di click e che si è trasformato in una trappola mortale per Tiziana Cantone, la ragazza di 31 anni che si è suicidata ieri per la vergogna di un suo video hard circolato in rete, aveva contagiato anche qualche vip. Su Youtube tra decine di parodie, fotomontaggi, spuntano infatti ben due video postati circa 8 mesi fa: protagonisti sono due calciatori Paolo Cannavaro e Floro Flores. Nel primo filmato parodia si vede l'attaccante del Chievo dentro un supermercato mentre si domanda: «Ma dove sta che non riesco a trovarlo?». Poi il telefonino riprende Cannavaro accovacciato vicino ad alcuni succhi di frutta: «Paolo ma dov'eri?», domanda Flores e lui risponde: «Ma stai facendo un video? Bravo», mostrando il contenitore del succo di frutta, la cui marca si chiama appunto "Bravo". Nel secondo filmato invece la coppia Cannavaro-Flores è stesa su due letti. Cannavaro guarda in camera sotto le lenzuola e dice: «Stai facendo un video? Bravo». Risate, imitazioni, prese in giro. Come tante, troppe, finite sul web. Video che ancora oggi, dopo la sua morte, circolano liberamente in rete. Tiziana era diventata un "fenomeno" a sua insaputa. Era diventata famosa. Lei che in realtà aveva cambiato nome, città, lavoro, lei che avrebbe fatto di tutto pur di scomparire per sempre. E alla fine, purtroppo, ci è riuscita.
"L'ha rimosso subito il vigliacco": Lucarelli contro chi insulta Tiziana. Selvaggia Lucarelli non ci sta e dalla sua pagina facebook smaschera un musicista dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Spero che la famiglia di Tiziana lo denunci", scrive Marta Proietti, Mercoledì 14/09/2016, su "Il Giornale". Gli insulti nei confronti di Tiziana, la 31enne campana che si è suicidata ieri sera dopo essere diventata famosa sui social per un video hot, non si placano neanche dopo la sua morte. Selvaggia Lucarelli non ci sta e pubblica sulla sua pagina facebook il commento di un musicista membro dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Ti è piaciuto zocciliare e farti guardare?!?Adesso non ti resta che da un foulard penzolare...stai facendo il video?!? Brava...ahahahahah Spero che da domani tutte quelle come lei facciano la stessa fine!!! Tutte da un foulard a penzolare!!!". Immediata la risposta di Selvaggia: "Caro Antonio Leaf Foglia, visto che godi del suicidio di una ragazza (anzi, di una troia come la definisci più volte nei commenti) e visto che sei anche un musicista presso l'orchestra sinfonica a Salerno e non solo per cui immagino che un po' di popolarità non ti dispiaccia, eccoti servito! Ti regalo un giorno da "Tiziana Cantone". Sperimenta sulla tua pelle come ci si sente ad essere lo zimbello o la merda del giorno suo web. Stai facendo il video? Bravo! Ps: spero che la famiglia di Tiziana lo denunci". L'uomo ha subito cancellato il post ma, si sa, sul web è inutile. Qualcuno l'ha già letto e fotografato. E così la Lucarelli affonda il coltello: "L'ha rimosso in 10 minuti il vigliacco. Troppo tardi Antó. E chiudi la bacheca la prossima volta se non vuoi condivisioni ai tuoi status. Intanto sperimenterai due cose: a) sul web tutto resta. Specie quando si tengono le bacheche aperte come la tua B) quello che scrivi qui ha delle conseguenze. Le ha avute per Tiziana. Spero che l'orchestra sinfonica di Salerno si vergogni, come dovrebbe essere in memoria di Tiziana e per rispetto di tutte le donne, di averti tra i suoi musicisti, così una piccola conseguenza tocca pure a te. Spero che si vergogni la curva del Salerno calcio ad ospitarti allo stadio. E che anziché suonare in un tributo a Vasco da ora in poi, al massimo, ti facciano suonare in un tributo a Tiziana".
TIZIANA CANTONE NON L’ABBIAMO AMMAZZATA NOI, scrive Flavia Piccinni il 14 settembre 2016. Questa mattina non avevo idea di chi fosse Tiziana Cantone, e ancora adesso non l’ho ben capito. Tiziana Cantone come ce la raccontano oggi i giornali è una ragazza campana di 31 anni protagonista di quattro video pornografici amatoriali, che dopo la loro diffusione ha ricevuto migliaia di offese, è stata investita da parodie, ha lasciato il suo paese di provincia e il ristorante dei genitori dove lavorava per cercare una nuova vita e una nuova identità in Toscana. Di Tiziana Cantone non sappiamo niente altro. Non abbiamo idea di chi fosse. Non abbiamo idea nemmeno di quella lunga sfilza di idiozie che costruiscono l’empatia: non conosciamo quale fosse il suo piatto preferito, cosa amasse guardare in televisione, se le piacesse il cinema o la musica. Sappiamo che ha fatto del sesso (e chi non lo fa?) e che è stata ripresa, sbattuta online senza il suo consenso, trattata come merce di scambio e come oggetto di irrisione. Bullismo. Vittima. Diritto all’oblio. Privacy online. Mancanza di privacy online. Italia bigotta. Italia assassina. I killer siamo noi. No, i killer sono quegli uomini bastardi: quelli che hanno messo il video online, quelli che l’hanno guardato, quelli che l’hanno condiviso, quelli che l’hanno parodiato. Facciamo tutti sesso e video fino a quando non perdano significato. Se lo meritava. Non se lo meritava. Regaliamo più foulard alle troie. Un fiume di parole ci ha sommerso. Abbiamo tutti cercato il video, alcuni l’hanno trovato, altri non l’hanno comunque guardato. Abbiamo tutti pensato che una cosa del genere non ci potrà mai accadere, perché noi siamo troppo per bene. E abbiamo pensato che non è giusto giudicare, giudicando. Tiziana Cantone si è ammazzata per essere lasciata in pace. Si è ammazzata per mettere la parola fine a quel “Stai facendo un video? Bravoh!” che invece continuerà a rappresentarla per sempre. Insieme ai frame che la immortalano con gli occhi bassi, le labbra umide, l’aria eccitata. Tiziana Cantone distesa su un divano. Tiziana Cantone immortalata nella sua vita privata, che diventa pubblica per un sinistro e perverso gioco moderno. Almeno, facciamole un favore: evitiamo di scandalizzarci, smettiamo di essere ridicolmente puritani. Ipocriti. Tiziana Cantone ha rinunciato a lottare, stremata, quando è stata ritenuta consenziente (dobbiamo ancora capire di cosa) e condannata a pagare 20mila euro per le spese processuali ai motori di ricerca che aveva portato in tribunale. Adesso tocca a noi prendere il testimone. Fare in modo che il diritto a fare sesso con chi vogliamo, a essere protagoniste di video pornografici, a venire dimenticate e ancora a vestirci come vogliamo, a praticare fellatio a chi crediamo, a tradire e ad amare diventino una realtà anche nel nostro bigotto Paese. Dentro questa storia c’è tutta la nostra insicurezza di persone. La nostra necessità di sentirci meglio degli altri. Il nostro bisogno di giudicare. Eppure, fino a quando non capiremo che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di Paese vogliamo costruire, non potremo dire che Tiziana Cantone siamo noi. Fino a quando giudicheremo un video rubato, le fotografie della nostra vicina di casa in biancheria intima, una coppia che fa sesso, due uomini che si baciano, due donne che si baciano saremo soltanto la fotografia in bianco e nero di quello che l’Italia nel 2016 dovrebbe essere: un Paese libero, non giudicante, aperto all’amore e alle forme di espressione sessuale di ognuno. Il sociologo del web: «Gli unici anticorpi della rete siamo noi».
Dopo il caso della ragazza che si è suicidata perché alcuni suoi video hot erano finiti in rete e lei era stata sottoposta alla gogna, abbiamo sentito Giovanni Boccia Artieri: «Il colpevole non è il mezzo la responsabilità è di un unico e complesso ecosistema», scrive Andrea Scutellà il 15 settembre 2016 su “Gazzetta di Reggio”. I suoi video hard finiscono in rete, giovane si suicida per la vergogna. Aveva anche cambiato identità. Lei stessa avrebbe inviato per gioco quelle immagini ad alcuni amici, uno dei quali l'avrebbe tradita trasmettendo il video che a catena è diventato virale. Messa alla gogna aveva provato a cambiare identità, poi non ha resistito. Aveva anche vinto una causa con Facebook per far rimuovere i contenuti nei quali veniva presa in giro. «Qui c’è la responsabilità di un unico e complesso ecosistema». La tragedia della ragazza campana che si è uccisa in seguito al video hard virale che le ha rovinato la vita, porta sul banco degli imputati non solo i new media, ma un cortocircuito dell’informazione per cui il sociologo Giovanni Boccia Artieri vede un’unica soluzione: gli utenti. «Il diritto all’oblio - spiega - è una falsa illusione, gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
Cosa ci insegna questo evento tragico sui new media?
«Questi mezzi amplificano i comportamenti sociali, un fenomeno come quello che è accaduto ha diversi livelli di responsabilità. Vanno dal singolo che produce il contenuto fino a chi partecipa condividendolo, a chi mette il “mi piace”, a chi ricercando su google lo rende ancora più visibile perché aiuta un algoritmo a portare notorietà al fatto».
Dal punto di vista morale, la semplicità del gesto della condivisione, il clic, non rischia di farci sentire meno responsabili di quello che pubblichiamo sulle nostre bacheche?
«Sì, è chiaro. Chi condivide un contenuto, spesso lo fa senza neanche aprire o approfondire, ma non è questo il caso. La logica di condivisione dei social si inserisce nella volontà dei singoli di stare dentro le conversazioni del momento: quello di cui parlano tutti, di cui parlano i tuoi amici, è un modo di “partecipare a”. Il fatto che questo abbia delle conseguenze è poco trasparente. Noi siamo abituati a commentare ogni cosa anche con toni accesi nella comunicazione interpersonale, spesso viene detto “è una chiacchiera da bar”. Ma lì non c’è una visibilità di massa e aggregata della nostra opinione, mentre nei social media sì».
Quindi la cattiva informazione diventa la cassa di risonanza del rumore di fondo dei social network?
«Un caso come questo, che era noto nei flussi dei social network locali, per diventare una notizia da quotidiano nazionale deve avere almeno la visibilità che gli è data da uno locale. In questo video ci sono tutti gli elementi di piattaforme che lavorano su un certo tipo di ironia e che propongono video di nicchia a un pubblico di massa. C’è una donna vittima di un atteggiamento maschilista, c’è un modo dire scherzoso, quel “bravoh” che è diventato un hashtag, un tormentone. Qui c’è la responsabilità di un intero sistema che è complesso».
C’è una confusione tra la dimensione pubblica e quella privata all’interno dei social media?
«Il digitale ci libera dal contesto. In realtà non esiste veramente un privato in spazi che sono pubblici o semi-pubblici. Se io litigo con lei in un commento sulla mia pagina Facebook, chiunque può vederlo e riportarlo. Le contromisure con l’uso, anche biografico, stanno venendo fuori. Mi vengono in mente gli adolescenti che costruiscono con Instagram profili chiusi. Snapchat rende deperibile un video e avverte se qualcuno fa screenshot. Gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
La ragazza si era appellata al “diritto all’oblio”, aveva chiesto e ottenuto in tribunale di essere dimenticata. Ma è possibile nell’era dei social e dei motori di ricerca?
«Anche qui viviamo una specie di falsa illusione. Il diritto all’oblio non ha a che fare con il cancellare cose che ci riguardano dalla rete, può essere applicato quando qualcuno cerca un’informazione su di noi per evitare che venga agganciata a un contenuto esistente, ma il contenuto continua ad esistere. Se io non cerco il nome e cognome della ragazza ma un’altra parola chiave, il video esiste e si può prendere e condividere. Per come funzionano i social le informazioni che ci sono su ognuno di noi si annidano nelle conversazioni di chiunque: è impossibile cancellarle definitivamente».
La paranza dei bambini: adda murì mammà. Giovanissimi, veloci, violenti. Sono i protagonisti dell'atteso romanzo di Roberto Saviano che uscirà per Natale. Eccone un assaggio in esclusiva, scrive Roberto Saviano il 31 luglio 2016 su "La Repubblica". È il 31 maggio 2013, Anna chiama Antonella poco prima di mezzanotte per dirle di non uscire di casa. La conversazione si interrompe per il rumore fortissimo di spari in strada, nei pressi di via Sant'Arcangelo a Baiano, pieno centro storico di Napoli, zona universitaria, a due passi da via dei Tribunali e dai luoghi del turismo. A poche centinaia di metri da lì hanno sfilato gli abiti di Dolce e Gabbana. Il mattino dopo, prestissimo, alle 5.40 Antonella sente al telefono un'altra donna, Angela, che abita a vico Carbonari, prolungamento di via Sant'Arcangelo a Baiano. Anche Angela ha sentito gli spari. Parlano proprio di quello:
Angela: Comunque mi sono scioccata stasera.
Antonella: Qui mi sembra il Far West. Mi hanno detto che stanno tutti(incomprensibile), pure i bimbi... pure...
Angela: Ma è una paranza nuova?
Antonella spiega ad Angela che a Forcella c'è una nuova paranza dove ci sono "pure i bimbi".
Queste intercettazioni telefoniche sono presenti nelle oltre 1.600 pagine dell'ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli, nell'ambito dell'inchiesta sulla "Paranza dei bambini" (condotta dai pm della Dda Henry John Woodcock e Francesco De Falco), che ha portato a 43 condanne, quasi tutte nei confronti di giovanissimi. Nel gergo camorristico "paranza" significa gruppo criminale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L'espressione "paranza dei bambini" indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l'immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell', proprio come questi ragazzini. 1987, 1989, 1991, 1993, 1985, 1988, 1995, 1994: queste le date di nascita dei ragazzi della paranza. "Ciro Ciro", "'o Rerill", "'o Pop", "'o Russ", "'Nzalatella", "Recchiolone" i loro soprannomi. Studiare la paranza dei bambini significa tratteggiare la nuova forma che la camorra napoletana ha assunto: barbe lunghe e corpi completamente tatuati, ma giovanissimi. Queste storie, tra doglie, sforzi, lacrime e muscolose spinte di rabbia, diventeranno il mio prossimo romanzo (questa volta di fiction e non più non-fiction). Si intitolerà La paranza dei bambini e uscirà a dicembre per Feltrinelli. Qui, oggi, trovate una anticipazione il cui titolo è Adda murì mammà, espressione che a Napoli i ragazzi usano di continuo per giurare che ciò che stanno dicendo è vero. Espressione che descrive meglio di molte altre lo spirito della paranza, pronta al sacrificio estremo - perdere la propria madre - per affrontare ciò che nel resto d'Italia sarebbe impensabile. Pronta a perdere tutto, libertà, affetti, vita. Per comandare.
Adda murì mammà. "Dobbiamo costruire una paranza tutta nostra. Nun amma appartenè a nisciuno, sule a nuje. Non dobbiamo stare sotto a niente." Tutti guardavano Nicolas in silenzio. Aspettavano di capire come avrebbero potuto emanciparsi senza mezzi, senza un cazzo. Nemmeno votare potevano, erano in pochi ad aver compiuto diciott'anni. Patenti manco a parlarne, sì e no qualche patentino per i 125. Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L'unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d'uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d'istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte. Diventare mostruosi, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate. "Se creren' ca simm' creature, ma nuje tenimm' chest'... e tenimm' pur' chest'." E con la mano destra Nicolas prese la pistola che teneva nei pantaloni. Uncinò il ponticello con l'indice e iniziò a far roteare l'arma come se non pesasse niente mentre con la sinistra indicava il pacco, il cazzo, le palle. Tenimm' chest' e chest': armi e palle, questo era il concetto. "Nicolas..." Agostino lo interruppe, qualcuno doveva farlo, Nicolas se l'aspettava. L'aspettava come il bacio che avrebbe fatto identificare Cristo ai soldati. Aveva bisogno che qualcuno si prendesse il dubbio e la colpa di pensare: un capro espiatorio, perché fosse chiaro che non c'era scelta, che non si poteva decidere se essere dentro o fuori. La paranza doveva respirare all'unisono e il respiro sul quale tutti dovevano calibrare la propria necessità di ossigeno era il suo. "...Nico', ma non s'è mai visto che facciamo da soli una paranza, così, da subito. Adda murì mammà, Nico', dobbiamo chiedere il permesso. Proprio mo' che alla Sanità la gente pensa ca nun ce sta cchiù nisciun', se ci sappiamo fare ci danno una piazza, fatichiamo per loro." "Agosti', è gente come a te che non voglio, la gente come te se ne deve andare mo' mo'..." "Nico', forse non mi sono spiegato, sto solo dicendo che..." "Aggio capit' buon', Austi', staje parlann' malament'." Nicolas si avvicinò, tirò su col naso e gli sputò in faccia. Agostino non era un cacasotto e provò a reagire, ma mentre stava caricando la testa in direzione del setto nasale, Nicolas lo prevenne e si scostò. Si guardarono negli occhi. E poi basta, finito il teatro. A quel punto Nicolas continuò. "Agosti', io non voglio gente con la paura, la paura non deve venire nemmeno in mente. Se ti viene il dubbio, allora per me non sei più buono." Agostino sapeva di aver detto ciò che tutti temevano, non era l'unico a pensare che bisognasse trovare un'interlocuzione con i vecchi capi e quella sputata in faccia più che un'umiliazione fu un avvertimento. Un avvertimento per tutti. "Mò te ne devi andare, tu nella paranza non ci puoi stare più." "Siete solo una vrancata di merdilli," disse Agostino, paonazzo. Enzuccio 'o Rentill'si intromise, e cercò di placarlo. "Austi', va vattenne, che ti fai male..." Agostino non aveva mai tradito eppure, come tutti i Giuda, fu strumento utile per accelerare il compimento di un destino: prima di uscire dalla stanza regalò inconsapevolmente a Nicolas ciò di cui aveva bisogno per compattare la paranza. "E vuje vulesseve fa 'a paranz' cù tre curtiell'e doje scacciacani?" "Cù 'sti tre curtiell't'arapimm' sano sano." Esplose Nicolas. Agostino alzò il dito medio e lo fece roteare in faccia a quelli che un momento prima sentiva sangue del suo sangue. A Nicolas dispiaceva lasciarlo andare: non si butta via così una persona di cui conosci ogni giorno, ogni fratcucin', ogni zio. Agostino era con lui allo stadio, sempre, al San Paolo e in trasferta. Un brò lo devi tenere vicino, ma era andata così e cacciarlo serviva. Serviva una spugna che assorbisse tutte le paure del gruppo. Appena Agostino ebbe sbattuta la porta, Nicolas continuò. "Frate', 'o cacasott' ten' ragione... Non la possiamo fare la paranza con tre coltelli da cucina e due scacciacani." E quelli che un attimo prima erano pronti a combattere con le poche lame e i ferri vecchi che avevano, perché Nicolas li aveva benedetti, dopo l'autorizzazione al dubbio confermarono tutti la delusione: sognavano santebarbare ed erano ridotti a maneggiare giocattoli che nascondevano in cameretta. "La soluzione ce l'ho," disse Nicolas, "o m'accireno oppure torno a casa cù 'n arsenale. E se questo succede, qua adda cagnà tutte cose: con le armi arrivano pure le regole, perché adda murì mammà, senza regole simm' sule piscitiell' 'e vrachetta." "Le teniamo le regole, Nico', siamo tutti fratelli." "I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. "L'avete visto Il camorrista, no? Quando 'o Prufessor' fa il giuramento in carcere. Veritavell', sta 'ncopp a YouTube: noi dobbiamo essere così, una cosa sola. Ci dobbiamo battezzare coi ferri e colle catene. Amma essere sentinelle di omertà. È tropp' bell guagliu', veritavell'. Il pane, che se uno tradisce diventa piombo e il vino ca addivent' veleno. E poi ci deve uscire il sangue, amma ammiscà 'e sang' nuoste e non dobbiamo tenere paura di niente." Mentre parlava di valori e giuramenti, Nicolas aveva in mente una cosa sola, una cosa che gli creava disagio e gli svuotava l'addome. Le palle, se davvero ce le aveva ancora, dopo quella storia, una storia di niente, se le poteva appendere al collo come cravatta al prossimo sposalizio. Faceva caldo e c'era la partita, giocava l'Italia, ma lui tifava contro, perché lui e i compagni suoi non si sentivano italiani e per la partita avevano strafottenza. Tenevano una cosa da fare e pure urgente. Erano in sei su tre scooter. Il suo lo guidava Enzuccio 'o Rentill', gli altri due sfrecciavano dietro. Dal Moiariello era una strada sola in discesa. Vicoli stretti stretti - "il presepe", lo chiama la gente che ci vive. Se passi di là fai prima e per piazza Bellini, marciapiede marciapiede, eviti traffico e sensi unici, ci metti un attimo. A piazza Bellini c'era il contatto con l'Arcangelo e Nicolas doveva fare presto. È vero, si sentiva un padreterno, ma quel contatto gli serviva. E quella non è gente che aspetta. Dieci minuti e doveva stare là. L'ultimo tratto di via Foria, prima di arrivare al Museo, i tre scooter lo percorsero su marciapiedi larghie illuminati, zigzagando a clacson spiegati. Chi li guida a Napoli è un Minotauro: metà uomo e metà ruote. Si sorpassa ovunque, non c'è sbarramento o isola pedonale. Per loro valgono le regole dei pedoni e nessun'altra. Questa volta avrebbero potuto anche andare per strada, perché in giro non c'era anima viva e quei pochi che non si erano organizzati per la partita stavano fermi davanti agli schermi che a Napoli si trovano a ogni pizzo. Di tanto in tanto, se sentivano esultare, fermavano gli scooter e chiedevano il risultato. L'Italia era in vantaggio. Nicolas imprecò. Via Costantinopoli la imboccarono contromano. Salirono sui marciapiedi che questa volta erano stretti e bui e qui c'era più gente. Ragazzi, per lo più universitari e qualche turista. Stavano andando anche loro, ma con maggiore calma, a piazza Bellini, a Port'Alba, a piazza Dante, dove c'erano locali con televisori in strada. Andavano troppo veloci e non videro due passeggini fermi sul marciapiede, accanto adulti seduti al tavolino di un bar. Il primo scooter a frenare non ci provò nemmeno, il manico del passeggino più esterno arpionò lo specchietto dello scooter e il passeggino iniziò a muoversi veloce finché non si staccò, cadde di lato, sembrava come planare sul ghiaccio. Si fermò solo quando arrivò al muro: l'impatto fece un rumore sordo. Un rumore di sangue, di carne bianca e pannolini. Di capelli appena cresciuti, disordinati. Un rumore di ninnananne e notti insonni. Dopo un attimo si sentì il bambino piangere e la madre urlare. Non si era fatto niente, solo spavento. Il padre invece era impietrito, immobile. In piedi, guardava i ragazzi che nel frattempo avevano parcheggiato gli scooter e se ne stavano andando via con calma. Non si erano fermati. E nemmeno erano fuggiti in preda al panico. No. Avevano parcheggiato e si erano allontanati a piedi, come se tutto ciò che era accaduto rientrasse nella normale vita di quel territorio, che appartiene a loro e a nessun altro. Calpestare, urtare, correre. Veloci, strafottenti, maleducati, violenti. Così è e non c'è altro modo di essere. Nicolas però sentiva il cuore pompare sangue all'impazzata. Non era cazzimma la sua, ma calcolo: quell'incidente non doveva modificare il loro percorso. C'erano due macchine della polizia - da un lato e dall'altro di via Costantinopoli - ferme proprio dove i ragazzi avevano parcheggiato. I poliziotti, quattro in tutto, stavano ascoltando la partita alla radio e non si erano accorti di nulla. Erano a pochi metri dall'incidente ma quelle urla non li avevano strappati alle loro macchine. Cosa avranno pensato? A Napoli si urla sempre, a Napoli urla chiunque. Oppure: meglio stare alla larga, siamo pochi e qui non abbiamo alcuna autorità. Nicolas non diceva niente e mentre con lo sguardo cercava il suo contatto, pensava che avevano rischiato di farsi male, che a quel passeggino un calcio dovevano dare e non portarselo appresso per dieci metri. A Napoli tutto era loro e i marciapiedi servivano, la gente questo lo doveva capire. Eccolo il suo contatto con don Vittorio Grimaldi, cappello in testa e spinello in bocca. Si avvicinava lento, non si tolse il cappello e non sputò lo spinello: trattò Nicolas come il ragazzino che era e non come il capo che fantasticava di essere. "L'Arcangelo ha deciso che puoi andarlo a pregare. Ma per entrare nella cappella bisogna seguire bene le indicazioni." Indicazioni in codice che Nicolas seppe decifrare. Il boss l'avrebbe ricevuto a casa sua, ma che non gli venisse in mente di passare dall'entrata principale perché lui, don Vittorio, era agli arresti domiciliari e non poteva incontrare nessuno. Le telecamere dei carabinieri non si vedevano ma c'erano, ficcate nel cemento, da qualche parte. Ma non erano quelle che Nicolas doveva temere, piuttosto gli occhi dei Colella. Il contatto di piazza Bellini fu chiaro: "Se ti vedono i Colella, tu diventi un Grimaldi. E le botte che buttano su di noi, le buttano pure su di te. Punto. L'Arcangelo vuole che stai avvisato, poi fai tu". La verità era un'altra: Nicolas e il suo gruppo erano delle teste di cazzo e i Grimaldi non volevano che, per colpa loro, i sospetti di inquirenti e rivali si concentrassero sull'Arcangelo che era già pieno di guai. L'appartamento di don Vittorio, detto l'Arcangelo, era a San Giovanni a Teduccio. In via Sorrento, in un palazzone ocra con ferri alle finestre. San Giovanni ha le dimensioni di un paese e venticinquemila abitanti, ma è un quartiere di Napoli, un quartiere della periferia orientale. Una strada con case basse, paesane e qualche parallelepipedo. È tutto giallino a San Giovanni, pure il mare. Nicolas arrivò in scooter, tanto non era famoso come avrebbe voluto e lì, lontano da casa sua, nessuno dei guaglioni di Sistema lo conosceva. Di nome forse, ma la sua faccia poteva passare inosservata. Vedendolo, avrebbero pensato che era lì per comprare del fumo, e infatti si accostò col motorino ad alcuni ragazzi e subito fu accontentato: "Quant' 'e ave'?". "Cient' eur'." "Azz', buon'. Ramm' 'e sord'." Qualche minuto dopo il fumo era sotto il suo culo, sotto il sellino. Fece un giro e poi parcheggiò. Mise un lucchetto vistoso e andò a passo lento verso la casa dell'Arcangelo. I suoi movimenti erano chiari, decisi. Niente mani in tasca, gli prudeva la testa, stava sudando, ma lasciò perdere. Non s'è mai visto un capo grattarsi in un momento solenne. Citofonò all'appartamento sotto quello di don Vittorio, come da indicazioni. Risposero. Pronunciò il suo nome, ne scandì ogni sillaba. "Professore', sono Nicolas Fiorillo, aprite?" "Aperto?" "No!" In realtà era aperto ma voleva prendere tempo. "Spingi forte che si apre." "Sì, sì. Ora si è aperto." Rita Cicatello era una vecchia professoressa in pensione che dava ripetizioni private a prezzi che qualcuno definirebbe sociali. Andavano da lei tutti gli allievi dei professori amici suoi. Se andavano a ripetizione da lei e da suo marito, venivano promossi, altrimenti piovevano i debiti e poi da lei ci dovevano andare lo stesso, ma d'estate. Nicolas raggiunse il pianerottolo della professoressa. Entrò con tutta calma, come uno studente che non avesse voglia di sottoporsi all'ennesimo supplizio; in realtà voleva essere certo che la telecamera piazzata lì dai carabinieri riprendesse tutto. Come un occhio umano, la considerava capace di battere le palpebre e quindi ogni suo gesto doveva essere lento, che restasse impresso. La telecamera dei carabinieri, che sarebbe servita anche ai Colella, doveva vedere questo: Nicolas Fiorillo che entrava dalla professoressa Cicatello. E basta. La signora aprì la porta. Aveva un mantesino che la proteggeva dagli schizzi di salsa e olio. Nella piccola casa c'erano tanti ragazzi, maschi e femmine, in tutto una decina, seduti alla stessa tavola da pranzo rotonda, con i libri di testo aperti, ma con la testa nell'iPhone. A loro piaceva la professoressa Cicatello perché non faceva come tutte le altre, che prima di iniziare la lezione sequestravano i cellulari, costringendoli poi a inventare scuse fantasiose - mio nonno è in sala operatoria, mia madre se non rispondo dopo dieci minuti chiama la polizia - per poterli guardare, ché magari era arrivato un messaggio su WhatsApp o qualche like su Facebook. La professoressa glieli lasciava in mano e la lezione nemmeno la faceva, se li teneva in casa davanti a un tablet - regalo del figlio per l'ultimo Natale - collegato a un piccolo amplificatore da cui usciva la voce di lei che parlava di Manzoni, del Risorgimento, di Dante. Tutto dipendeva da cosa dovessero studiare i ragazzi; la professoressa Cicatello, nei tempi morti, preregistrava le lezioni e poi si limitava a urlare di tanto in tanto: "Basta cù 'sti telefonini e ascoltate la lezione". Nel frattempo cucinava, riordinava casa, faceva lunghe telefonate da un vecchio telefono fisso. Tornava per correggere i compiti di italiano e geografia, mentre suo marito correggeva quelli di matematica. Nicolas entrò, biascicò un saluto generale, i ragazzi nemmeno lo degnarono di uno sguardo. Aprì la porta di vetro e la varcò. I ragazzi vedevano spesso entrare e uscire gente che spariva, dopo un rapido saluto, dietro la porta della cucina. La vita oltre quella porta era loro sconosciuta e, siccome il bagno era sul lato opposto, della casa della professoressa conoscevano solo la stanza del tablet e il cesso. Sul resto non facevano domande, non era il caso di essere curiosi. Nella stanza del tablet c'era anche il marito, sempre dinanzi a un televisore e sempre con una coperta sulle ginocchia. Anche d'estate. I ragazzi lo raggiungevano sulla poltrona per portargli i compiti di matematica. Lui con una penna rossa che teneva nel taschino della camicia li correggeva, punendo la loro ignoranza. Bofonchiò verso Nicolas qualcosa che doveva somigliare a un "Buongiorno". Alla fine della cucina c'era una scaletta. La professoressa senza fiatare indicò verso l'alto. Una piccola e artigianale opera in muratura aveva realizzato un foro che collegava il piano di sotto al piano di sopra. Così, semplicemente, chi non poteva raggiungere don Vittorio dalla porta principale, andava dalla professoressa. Arrivato all'ultimo piolo, Nicolas batté il pugno un paio di volte sulla botola. Era lui stesso, don Vittorio, che quando sentiva i colpi si chinava lasciando che dalla sua bocca uscisse un gorgoglio di fatica che veniva dritto dalla spina dorsale. Nicolas era emozionato, don Vittorio non l'aveva mai incontrato di persona, ma visto solo sui giornali delle capuzzelle - così si chiamano in gergo quei giornali locali che pubblicano tutti i giorni le foto segnaletiche dei camorristi della zona. Quelli arrestati, quelli condannati, i latitanti e i morti uccisi. Vederlo da vicino non gli fece l'effetto che aveva creduto. Era più vecchio rispetto alla foto che conosceva, che risaliva al primo arresto. L'aveva visto poi al processo, ma da lontano. Don Vittorio lo lasciò entrare e con lo stesso gorgoglio di schiena richiuse la botola. Non gli strinse la mano, ma gli fece strada. "Vieni, vieni..." disse solo, entrando nella sala da pranzo dove c'era un enorme tavolo d'ebano che in quella geometria assurda riusciva a perdere tutta la sua cupa eleganza per diventare un monolite vistoso e pacchiano. Don Vittorio si sedette alla destra del capotavola. La casa era piena di vetrinette con dentro ceramiche d'ogni tipo. Le porcellane di Capodimonte dovevano essere la passione della moglie di don Vittorio, di cui però in casa non c'era traccia. La dama col cane, il cacciatore, lo zampognaro: i classici di sempre. Gli occhi di Nicolas rimbalzavano da una parete all'altra, tutto voleva memorizzare; voleva vedere come campava l'Arcangelo e quello che vedeva non gli piaceva. Non sapeva dire esattamente perché provasse disagio, ma certo non gli sembrava la casa di un capo. C'era qualcosa che non tornava: non poteva essere, la sua missione in quel fortino, cosa tanto banale, scontata, facile. Un televisore a schermo piatto circondato da una cornice color legno e due persone con indosso pantaloncini del Napoli: in casa sembrava esserci solo questo. Non salutarono Nicolas, aspettando un cenno di don Vittorio che, presa posizione, indice e medio uniti come a scacciare tafani, fece loro un segno che inequivocabilmente interpretarono come "jatevenne". I due si spostarono e passò poco che, da un'altra stanza, si sentì arrivare la voce gracchiante di un attore comico - doveva esserci un altro televisore - e poi risate. "Spogliati" ordinò l'Arcangelo. 2016 Roberto Saviano. All rights reserved. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016
La paranza dei bambini. L'Arcangelo e il Marajà. Un'anticipazione dal prossimo romanzo di Roberto Saviano. "Sono vecchio, vero? Ma devi essere vecchio e brutto per fare paura. E tu infatti stai tremando, guaglio'...". Due generazioni criminali si confrontano sullo sfondo di una Napoli feroce, scrive Roberto Saviano il 7 agosto 2016 su “La Repubblica”. Nel gergo camorristico “paranza” significa gruppo criminale. Il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L’espressione “paranza dei bambini”, fenomeno emerso relativamente di recente, indica invece una batteria di fuoco, ma restituisce anche l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell’, proprio come i ragazzini protagonisti del prossimo romanzo di Roberto Saviano (“La paranza dei bambini”, appunto) che la casa editrice Feltrinelli pubblicherà a dicembre 2016. Domenica scorsa abbiamo anticipato in esclusiva la prima parte di uno dei capitoli de “La paranza dei bambini”, intitolato “Adda murì mammà”. Lì il giovanissimo Nicolas decide di mettere in piedi “una paranza tutta nostra” ma per farlo ha bisogno di armi. Le chiederà a Don Vittorio, boss di camorra agli arresti domiciliari. L’incontro tra le due generazioni criminali è quanto racconta questa seconda e ultima parte dello stesso capitolo.
Ora riconosceva la voce di un uomo abituato comandare. "Spogliati? E cioè?". Nicolas accompagnò la domanda con un'espressione di incredulità. Non si aspettava questa richiesta. Aveva per cento volte immaginato come sarebbe andato questo incontro e per tutte e cento le volte mai aveva preso in considerazione l'ipotesi di doversi spogliare. "Spogliati, guaglio', chi cazzo ti sa. Chi me lo dice che non tieni registratori, cimici e maronne...". "Don Vitto', adda muri' mammà, ma come vi permettete di pensare...". Usò il verbo sbagliato. Don Vittorio alzò la voce per farsi sentire dalla cucina, per sovrastare la voce del comico e le risate. Un boss è boss quando non ha limiti a ciò che si può permettere. "Qua abbiamo finito". I due con i pantaloncini del Napoli non fecero nemmeno in tempo a tornare indietro che Nicolas già aveva iniziato a sfilarsi le scarpe. "No, no, vabbuo', mi spoglio. Lo faccio". Tolse scarpe, poi pantaloni, poi la maglietta e rimase in mutande. "Tutto, guaglio', ché i microfoni pure nel culo te li puoi mettere". Nicolas sapeva che non era questione di microfoni, davanti all'Arcangelo doveva essere solo un verme nudo, era il prezzo da pagare per quell'appuntamento. Fece una piroetta, quasi divertito, mostrò d'essere senza microfoni e microtelecamere, ma di possedere autoironia, spirito che i capi perdono, per necessità. Don Vittorio gli fece il gesto di sedersi e senza fiatare Nicolas indicò se stesso, come a chiedere conferma di potersi sedere così, nudo, su sedie bianche e immacolate. Il boss annuì. "Così vediamo se ti sai pulire il culo. Se lasci sgommate di merda significa che sei troppo piccolo, non ti sai fare il bidet e ti deve ancora pulire mammà". Erano uno di fronte all'altro. Don Vittorio non si era messo a capotavola di proposito, per evitare simbologie: se l'avesse fatto sedere alla sua destra, il ragazzino avrebbe pensato chi sa cosa. Meglio uno di fronte all'altro, come negli interrogatori. E nemmeno volle offrirgli nulla: non si divide cibo sulla tavola con uno sconosciuto, né poteva fare il caffè a un ospite da vagliare. "Allora sei tu 'o Marajà?". "Nicolas Fiorillo...". "Appunto, 'o Marajà... è importante come ti chiamano. È più importante il soprannome del nome, lo sai? Conosci la storia di Bardellino?". "No. "Bardellino, guappo vero. Fu lui che fece, di bande di bufalari, un'organizzazione seria a Casal di Principe". Nicolas ascoltava come un devoto ascolta messa. "Bardellino aveva un nome che gli fu dato quando era piccolo e se lo portava appresso pure da grande. Lo chiamavano Pucchiacchiello ". Nicolas si mise a ridere, don Vittorio annuì con la testa, allargando gli occhi, come a confermare di star raccontando un fatto storico, non leggenda. Qualcosa che fosse agli atti della vita che conta. "Bardellino per non tenere la puzza di stalla e terra addosso, per non stare con le unghie sempre nere, quando scendeva in paese, si lavava, si profumava, si vestiva sempre elegante. Ogni giorno come fosse domenica. Brillantina in testa... capelli umidi". "E come uscì 'stu nomm'?". "All'epoca era pieno di zappatori in paese. A vedere nu' guagliunciello sempre accussì, in tiro, venne normale: Pucchiacchiello, come la pucchiacca di una bella donna. Bagnato e profumato come la fica". "Ho capito, 'nu fighetto". "Fatto sta che 'stu nomm' non era nomm' 'e chi po' cumanna'. Per comandare devi avere un nome che comanda. Può essere brutto, può non significare niente, ma non adda essere fesso". "Ma i soprannomi non li decidi tu". "Esattamente. E infatti quando divenne capo, Bardellino voleva che lo chiamassero solo don Antonio, chi lo chiamava Pucchiacchiello passava 'e guaje. Davanti nessuno lo poteva chiamare così, ma per i vecchi del paese sarebbe rimasto sempre Pucchiacchiello ". "Però è stato un grande capo, no? E allora, adda muri' mammà, si vede che il nome non è così importante". "Ti sbagli, ha passato una vita sana a toglierselo di dosso...". "Ma che fine ha fatto poi don Pucchiacchiello? " lo disse sorridendo e non piacque a don Vittorio. "È sparito, c'è chi dice che s'è fatto un'altra vita, una plastica facciale, che ha fatto finta d'essere morto e se l'è goduta alla faccia di chi 'o vulev' accis'o carcerat'. Io l'ho visto solo una volta, quando ero ragazzo, è stato l'unico uomo di Sistema che sembrava 'nu re. Nisciun'comm' a iss'". "E bravo a Pucchiacchiello" chiosò Nicolas come se parlasse di un pari suo. "Tu ci sei andato bene, ti hanno azzeccato il soprannome". "Me chiamman'accussì perché sto sempre al Nuovo Marajà, 'o locale 'ncopp Posillipo. È la centrale mia e fanno i meglio cocktail di Napoli". "La centrale tua? Eh bravo", don Vittorio fermò un sorriso "è 'nu buon'nomm', sai che significa?". "Ho cercato su internet, significa 're' in indiano ". "È 'nu nomm' e re, ma statt' accuort' che può fa' 'a fine ra canzon'". "Qua' canzone?". Don Vittorio, con un sorriso aperto, iniziò a canticchiarla dando sfogo alla sua voce intonata. In falsetto: "Pasqualino Marajà non lavora e non fa niente... fra i misteri dell'Oriente fa il nababbo fra gli indù. Ulla! Ulla! Ulla! La! Pasqualino Marajà ha insegnato a far la pizza, tutta l'India ne va pazza". Smise di cantare, rideva a bocca aperta, in maniera sguaiata. Una risata che finì in tosse. Nicolas aveva fastidio. Avvertì quell'esibizione come una presa in giro per provare i suoi nervi. "Non fare quella faccia, è 'na bella canzone. La cantavo semp' quann'ero guaglione. E poi ti ci vedo con il turbante a ffa' 'e pizz' 'ngopp Posillipo". Nicolas aveva le sopracciglia inarcate, l'autoironia di qualche minuto prima aveva lasciato il posto alla rabbia, che non si poteva nascondere. "Don Vitto', devo restare col pesce da fuori? " disse solo. Don Vittorio, seduto sulla medesima sedia, nella medesima posizione, fece finta di non aver sentito. "A parte 'ste strunzat', le figure di merda sono la prima cosa da temere per chi vuole diventare un capo". "Fino a mo', adda muri' mammà, 'a merda in faccia non ce l'ha messa ancora nessuno ". "La prima figura di merda è fare una paranza e non tenere le armi". "Fino a mo', con tutto quello che avevo, ho fatto più di quello che stanno facendo i guaglioni vostri, e parlo con rispetto don Vitto', io non sono niente vicino a voi". "E meno male che parli con rispetto, perché i guaglioni miei, se volessero, mo', in questo momento, farebbero di te e della paranzella tua quello che fa 'o pisciaiuolo quann'pulezz' 'o pesce". "Fatemi insistere, don Vitto', i vostri guaglioni non sono all'altezza vostra. Stanno schiattati qua e niente possono fare. I Colella vi hanno fatto prigioniero, adda muri' mammà, pure per respirare vogliono che gli chiedete il permesso. Con voi ai domiciliari e il casino che ci sta là fuori, simm' nuje a cumanna', con le armi o senza armi. Fatevene una ragione: Gesù Cristo, a Maronn'e San Gennaro l'hann'lasciat' sule sule all'Arcangelo". Quel ragazzino stava solo descrivendo la verità e don Vittorio glielo lasciò fare; non gli piaceva che mettese in mezzo i santi e ancora di più non gli piaceva quell'intercalare, lo trovava odioso, "adda muri' mammà"... deve morire mia madre. Giuramento, garanzia, per qualsiasi cosa. Prezzo per la menzogna pronunciata? Adda muri' mammà. Lo ripeteva a ogni frase. Don Vittorio voleva dirgli di smettere, ma poi abbassò lo sguardo perché quel corpo di ragazzino nudo lo fece sorridere, quasi lo intenerì e pensò che quella frase la ripeteva per scongiurare ciò che più teme un uccello che non ha ancora lasciato il nido. Nicolas dal canto suo vide gli occhi del boss guardare il tavolo, "per la prima volta abbassa lo sguardo", pensò e credette in un'inversione dei ruoli, si sentì predominante e forte della sua nudità. Era giovane e fresco e davanti aveva carne vecchia e curva. "L'Arcangelo, così vi chiamano miez' 'a via, in carcere, in tribunale e pure 'ncopp a internet. È nu buono nome, è un nome che può comandare. Chi ve l'ha dato?". "Patemo, mio padre, si chiamava Gabriele come l'arcangelo, pace all'anima sua. Io ero Vittorio che apparteneva a Gabriele, quindi m'hanno chiamato accussì". "E questo Arcangelo", Nicolas continuava a picconare le pareti tra lui e il capo, "con le ali legate, sta fermo in un quartiere che prima comandava e ora non gli appartiene più, con i suoi uomini che sanno solo giocare alla PlayStation. Le ali di questo Arcangelo dovrebbero stare aperte e invece stanno chiuse come quelle di un cardillo in gabbia". "E così è: ci sta un tempo per volare e un tempo per stare chiusi in una gabbia. Del resto, meglio una gabbia comm' a chest', che una gabbia a Poggioreale". Nicolas si alzò e iniziò a girargli intorno. Camminava piano. L'Arcangelo non si muoveva, non lo faceva mai quando voleva dare impressione di avere occhi anche dietro la testa. Se qualcuno ti è alle spalle e gli occhi iniziano a seguirlo, significa che hai paura. E che tu lo segua o no, se la coltellata deve arrivare arriva lo stesso. Se non guardi, se non ti giri, invece, non mostri paura e fai del tuo assassino un infame che colpisce alle spalle. "Don Vittorio l'Arcangelo, voi non avete più uomini ma tenete le armi. Tutte le botte che tenete ferme nei magazzini a che vi servono? Io tengo gli uomini ma la santabarbara che tenit' vuje me la posso solo sognare. Voi, volendo, potreste armare una guerra vera ". L'Arcangelo non si aspettava questa richiesta, non credeva che il bambino che aveva lasciato salire in casa sua arrivasse a tanto. Aveva previsto qualche benedizione per poter agire nel suo territorio. Eppure, se mancanza di rispetto era, l'Arcangelo non ne fu infastidito. Gli piaceva anzi quel modo di fare. Gli aveva messo paura. E non provava paura da tanto, troppo tempo. Per comandare, per essere un capo, devi avere paura, ogni giorno della tua vita, in ogni momento. Per vincerla, per capire se ce la puoi fare. Se la paura ti lascia vivere o, invece, avvelena tutto. Se non provi paura vuol dire che non vali più un cazzo, che nessuno ha più interesse ad ammazzarti, ad avvicinarti, a prendersi quello che ti appartiene e che tu hai preso a qualcun altro. "Io e te non spartiamo nulla. Non mi appartieni, non sei nel mio Sistema, non mi hai fatto nessun favore. Solo per la richiesta senza rispetto che hai fatto, dovrei cacciarti e lasciare il sangue tuo sul pavimento della professoressa qua sotto". "Io non ho paura di voi, don Vitto'. Se me le pigliavo direttamente era diverso e tenevate ragione". L'Arcangelo seduto e Nicolas in piedi, di fronte, le nocche delle mani chiuse in pugno e poggiate sul tavolo nella speranza che quel gesto dissimulasse il tremore che aveva alle gambe, tremore di nervosismo. Non voleva, Nicolas, regalare quell'emozione all'Arcangelo, un'emozione che avrebbe potuto rovinare tutto. "Sono vecchio, vero?" disse l'Arcangelo. "Non so che vi devo rispondere". "Rispondi, Marajà, sono vecchio?". "Come dite voi. Sì, se devo dire di sì". "Sono vecchio o no?". "Sì, siete vecchio". "E sono brutto?". "E mo' che c'azzecc'?". "Devo essere vecchio e brutto e ti devo fare pure molta paura. Si nun foss'accussì, mo' quelle gambe tue, nude, non le nasconderesti sotto al tavolo, pe' nun me 'e ffa verè. Stai tremando, guaglio'. Ma dimmi una cosa: se vi do le armi, cosa ci guadagno io?". Nicolas era preparato a questa domanda e si emozionò quasi a ripetere la frase che aveva provato mentre arrivava col motorino a San Giovanni. Non si aspettava di doverla pronunciare da nudo e con le gambe che ancora gli tremavano, ma la disse lo stesso. "Voi ci guadagnate che ancora esistete. Ci guadagnate che la paranza più forte di Napoli è amica vostra". "Assiettete", ordinò l'Arcangelo. E poi indossando la più seria delle sue maschere: "Non posso. È come mettere 'na pucchiacca n'man''e criature. Non sapete sparare, non sapete pulire, vi fate male. Nun sapite nemmeno ricarica' 'nu mitra". Nicolas aveva il cuore che gli suggeriva, battendo con ansia, di reagire, ma rimase calmo: "Datecele e vi facciamo vedere cosa sappiamo fare. Noi vi togliamo gli schiaffi dalla faccia, gli schiaffi che vi ha dato che vi considera azzoppato. L'amico migliore che potete avere è il nemico del vostro nemico. E noi i Colella li vogliamo cacciare dal centro di Napoli. Casa nostra è casa nostra". L'ordine attuale non gli stava più bene, all'Arcangelo: un ordine nuovo si doveva creare e, se non poteva più comandare, almeno avrebbe creato ammuina. Le armi gliele avrebbe date, erano ferme da anni. Erano forza, ma una forza che non si esercita fa collassare i muscoli. L'Arcangelo aveva deciso di scommettere su questa paranza di piscitielli. Se non poteva riprendere il comando, almeno voleva costringere chi regnava sulla sua zona a venire e trattare per la pace. Non ce la faceva più a ringraziare per gli avanzi, e quell'esercito di bambini era l'unico modo per tornare a guardare la luce, prima del buio eterno. "Vi do quello che vi serve, ma voi non siete ambasciatori miei. Tutte le cacate che farete con le armi mie non devono portare la firma mia. I debiti vostri ve li pagate da soli, il sangue vostro ve lo leccate voi. Ma quello che vi chiedo, quando ve lo chiedo, lo dovete fare senza discutere". "Siete vecchio, brutto e pure saggio, don Vitto'". "Marajà mo', come sei venuto, così te ne vai. Uno dei miei ti farà sapere dove andarle a prendere". Don Vittorio gli porge la mano, Nicolas la stringe e prova a baciarla, ma mentre lo fa l'Arcangelo la sfila schifato: "Ma che cazz' fai?". "Ve la stavo baciando per rispetto". "Guaglio', hai perso la testa, tu e tutti i film che ti vedi". E invece a Nicolas 'o Marajà, una volta diventato capo, la mano tutti gliela dovevano baciare, la mano destra, quella con al mignolo l'anello che lo faceva cardinale della camorra. L'Arcangelo si alzò appoggiandosi al tavolo: le ossa gli pesavano e gli arresti domiciliari l'avevano fatto ingrassare. "Mo' ti puoi rivestire e fai presto che tra poco c'è un controllo dei carabinieri". Nicolas indossò mutande, jeans e scarpe più in fretta possibile. "Ah, don Vitto', una cosa...". Don Vittorio si girò stanco. "Nel posto dove devo andare a prendere le imbasciate... no?". Non c'erano cimici eppure Nicolas su certe parole manteneva un istintuale riserbo. Le armi non si pronunciano mai. "Allora?" disse l'Arcangelo. "Mi dovete fare la cortesia di mettere dei guardiani che io posso leva' 'a miez'. Devo fare almeno due pezzi per far vedere che le armi me le sono fottute. Così io non ho avuto le armi da voi e tutto quello che fa la paranza mia non sono imbasciate vostre" "Mettiamo due zingari con le botte in mano, ma sparate in aria ché gli zingari mi servono ". "E quelli poi ci sparano addosso". "Gli zingari, se sparate in aria, scappano sempre... cazzo, v'aggia 'mpara' proprio tutte cose". "E se scappano che li mettete a fare?". "Quelli ci avvertono del problema e noi arriviamo ". "Adda muri' mammà, don Vitto', non dovete tenere pensiero, farò come avete detto ". I ragazzi accompagnarono Nicolas alla botola, mentre aveva già messo i piedi sul primo piolo, sentì don Vittorio: "Oh!", lo fermò. "Porta 'na statuetta alla professoressa per il disturbo. Va pazza per le porcellane di Capodimonte". "Don Vitto', ma veramente fate?". "Tie', piglia 'o zampognaro, è un classico e fa fare sempre bella figura". Roberto Saviano. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016
Il carabiniere infedele e la camorra che fabbrica i dossier. Operazioni della Divisione investigativa antimafia contro la camorra. Sbirri "venduti" e faccendieri, la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan. L'ultimo caso è quello del maresciallo dei carabinieri arrestato a Napoli con l'accusa di avere passato informazioni riservate a Nicola Cosentino. C'è poi il copione visto negli affaire di Bisignani e Lavitola, due volti al centro di altri scandali, dalla P4 alla compravendita di parlamentari, scrive Roberto Saviano il 3 agosto 2016 su “La Repubblica”. La storia che sto per raccontare vi riguarda perché è storia del nostro Paese e di quei rapporti ambigui tra politica, giornalismo e forze dell'ordine che spesso ci sembra odioso persino descrivere. Figure che operano nell'ombra, che raccolgono informazioni riservate e sanno come manipolarle, amputarle, barattarle. Notizie che servono a ricattare, a disinnescare inchieste giudiziarie e a preparare agguati e che arrivano a favorire le organizzazioni criminali. Sì, perché nella storia che sto per raccontarvi c'entrano anche loro, i clan di camorra. E c'entrano politici sotto processo per presunti legami con le organizzazioni criminali, rappresentanti delle forze dell'ordine infedeli, faccendieri e giornalisti borderline. È quanto si può leggere nell'ordinanza cautelare emessa nei confronti del maresciallo dei carabinieri Giuseppe Iannini, arrestato qualche giorno fa. Il gip in uno dei passaggi più significativi del provvedimento così descrive l'indagato: "Emerge una personalità forte, arrogante e prevaricatrice con la criminalità da strada (il mondo dei pusher nel quale si impegna, anche oltre il consentito a quanto pare) e accondiscendente, disponibile e, peggio ancora, corruttibile nei confronti della criminalità di un livello superiore (...)". "Persone come Iannini Giuseppe sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti". Quanto oggi sappiamo su Iannini è frutto del lavoro dei carabinieri di Caserta, guidati dal colonnello Giancarlo Scafuri, e dell'ex comandante della stazione dei Carabinieri di Castello di Cisterna (dove Iannini ha prestato servizio fino al 2013), Fabio Cagnazzo. L'impressione è che ci sia ancora da scavare per capire se Iannini lavorava per se stesso o se fosse eterodiretto, lui che, secondo quanto ha ricostruito la Dda di Napoli, avrebbe fornito informazioni riservate e file relativi ad atti di indagine secretati a Nicola Cosentino, imputato per essere il referente politico del clan dei Casalesi. La personalità di Iannini, come descritta dal giudice, coincide con l'idealtipo dello sbirro, caratteristico di una cultura tradizionalmente di destra che ha trovato espressione politica nel centro-destra di governo, non solo in Campania. Forte con i deboli, debole con i forti e servile con i potenti. Questa politica ha riempito le carceri di tanti piccoli spacciatori e per lungo tempo ha fatto di tutto per rendere penalmente irrilevanti i comportamenti dei colletti bianchi, della politica e della camorra, quando le due non erano la stessa cosa. Questa tipologia di carabiniere corrotto, secondo le accuse dell'antimafia di Napoli, costruisce la propria credibilità negli arresti di pusher, per potersi meglio sedere al tavolo dei politici camorristi, dell'imprenditoria criminale che non sparando e non spacciando assume altro tipo di profilo. L'ordinanza offre uno spaccato desolante della situazione campana, e casertana in particolare, con un ospedale pubblico - che poi sarà di lì a poco oggetto di commissariamento per infiltrazioni camorristiche - che, nelle parole del gip, diviene quasi una "succursale" dello studio di Cosentino. L'oggetto dello scambio ipotizzato dal gip tra Iannini e Cosentino erano i documenti contenuti in una pen drive ricondotta al primo e trovata in possesso del secondo; Iannini e Cosentino, nel corso degli interrogatori, hanno poi confessato la consegna della pen drive. L'ex uomo forte di Berlusconi in Campania ha sostenuto di essere stato truffato dal carabiniere, poiché tra gli atti che gli erano stati consegnati ce n'era uno oggetto di contraffazione. Proprio così: nella memoria gli inquirenti hanno trovato un verbale che riportava dichiarazioni apparentemente riconducibili a un collaboratore di giustizia, Tommaso Prestieri, ma che in realtà era stato modificato, utilizzando il contenuto del verbale di un altro collaboratore. Ma il documento (questa volta) originale più importante tra quelli presenti nella memoria è un'informativa, al tempo del sequestro secretata, riguardante i rapporti tra la famiglia Cesaro e il clan Puca, secondo la quale "il clan Puca aveva stretto accordi con il clan dei casalesi che si manifestavano nei rapporti altalenanti tra Cosentino Nicola, ritenuto referente dei casalesi, e Cesaro Luigi, ritenuto referente del clan Puca". Luigi Cesaro è un deputato di Forza Italia, dal 2009 al 2012 presidente della Provincia di Napoli, prima fedele a Nicola Cosentino, poi suo acerrimo rivale. Cosentino, prima di confessare, era stato più volte sentito dagli inquirenti perché chiarisse l'accaduto e, secondo il gip, aveva fornito versioni ogni volta diverse e fantasiose, allo scopo evidente di proteggere Iannini. Perché esporsi tanto per un soggetto del quale secondo la prima versione di Cosentino, riportata dal giudice, gli era ignoto anche il nome? Il profilo personale del maresciallo Iannini è assai complesso e aiuta ad aggiungere un ulteriore tassello alla comprensione di quel sottobosco che trama contro la democrazia, attraverso il meccanismo tristemente noto con il nome di macchina del fango. Non è la prima volta che il carabiniere finisce nei guai negli ultimi anni, poiché da poco è stato assolto in una vicenda analoga, che lo ha riguardato assieme a un altro politico casertano in ascesa fino a qualche anno fa: Angelo Brancaccio, ex sindaco di Orta di Atella, con trascorsi nell'Udeur di Mastella e nel Partito Democratico. Anche quella volta Iannini era stato indagato e poi processato in relazione a un illecito traffico di notizie riservate, poiché avrebbe avvertito Brancaccio delle indagini a suo carico. Dalla sentenza di assoluzione si comprende che gli indizi in possesso della procura non sono stati sufficienti a provare i fatti contestati, anche grazie al silenzio di Brancaccio, che, prima e come Cosentino, ha preferito proteggere il maresciallo. Viene il dubbio che Iannini possa essere il terminale di una struttura più grande, anche se non ci sono, per adesso, elementi sufficienti per giungere a questa conclusione. E ciò che sempre conta di più per chi ha a che fare con ambienti mafiosi è darsi un'immagine antimafiosa. Questa è la prima regola. Come fare? Semplice: scrivere libri apparentemente antimafia, organizzare convegni sulla legalità, ridurre tutto il fenomeno criminale a un affare di strada, porsi in prima linea contro questi affari e poi essere referente invece della borghesia criminale. L'ordinanza cautelare dedica attenzione anche a un professore francese, Bertrand Monnet (totalmente estraneo e verosimilmente del tutto inconsapevole della reale identità dei soggetti con cui è entrato in contatto), che sarebbe stato presentato a Cosentino come esperto di dinamiche criminali. Effettivamente il nome di Monnet, insieme a quelli di Brancaccio e Iannini, si trova nel panel di un convegno (La giornata della legalità) organizzato ad Orta di Atella dalla giunta guidata dall'allora sindaco Brancaccio. La presenza del professor Monnet in questa vicenda mostra come l'intenzione di chi costruisce dossier sia quella di cercare costantemente sponde all'estero. Mancando in Italia gli anticorpi per distinguere una critica legittima da un attacco su commissione, è chiaro che un j'accuse che arrivi da lontano ha una efficacia maggiore. Quel giorno del 2012, Monnet era a Orta di Atella per la presentazione di un libro, Napoli in cronaca nera, scritto a quattro mani proprio da Iannini e da un giornalista di cronaca giudiziaria, Simone Di Meo. Insieme al carabiniere arrestato, Di Meo ha scritto due libri ed è stato in passato molto vicino a Sergio De Gregorio, senatore condannato con Valter Lavitola e Silvio Berlusconi nel processo per la compravendita dei voti che determinò la caduta del governo Prodi. Il tema dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria è assai rilevante nella comprensione della dinamica esemplificata da questa indagine. Ci sono diversi modi di fare cronaca giudiziaria e uno è chiaramente quello di sondare l'universo degli informatori, appartenenti alle forze dell'ordine e in qualche caso alla criminalità, comune o anche organizzata. L'equilibrio e la deontologia, su questo crinale, sono essenziali, poiché la possibilità di entrare in possesso di dati sensibili o di atti coperti dal segreto d'ufficio è alta: se mancano equilibrio e deontologia, si aprono le praterie del dossieraggio e del traffico di informazioni riservate; si apre il varco all'affermarsi di figure di confine, tra servitori infedeli dello stato e giornalisti pronti a costruirsi una identità parallela: informatori al soldo del migliore offerente, anche a rischio di favorire la criminalità organizzata. La procura della Repubblica di Napoli, prima che la Dda si interessasse a Giuseppe Iannini, aveva focalizzato la sua attenzione e in alcuni casi ha indagato e poi ottenuto importanti risultati su una serie di figure chiave, che in parte ritornano anche in quest'ultima indagine. I nomi sono tutti accomunati dalla raccolta illecita di informazioni, finalizzata a un utilizzo di queste nella lotta politica e in ambito economico-finanziario. Qualche settimana fa, in un'intervista rilasciata a Dario Del Porto per questo giornale, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, uno dei pilastri della procura partenopea, nel commentare l'esito di un processo su una fuga di notizie che ha visto condannati un avvocato e un cancelliere dell'ufficio Gip di Napoli, ha parlato chiaramente di una "operazione di spionaggio". Quell'intervista riguardava non una fuga di notizie qualsiasi, ma quella che aveva favorito la latitanza di Valter Lavitola: le informazioni riservate furono pubblicate da Panorama , settimanale di proprietà di Silvio Berlusconi (che personalmente aveva consigliato a Lavitola, sulla base di quell'informazione, di stare alla larga dall'Italia), e furono acquisite da un giornalista, Giacomo Amadori, inizialmente indagato insieme al direttore del settimanale, Giorgio Mulè; le due posizioni sono state poi archiviate. Il nome di Amadori ritorna anche in un'altra vicenda napoletana, quella relativa alle minacce contenute nell'istanza di rimessione letta dall'avvocato Michele Santonastaso, nel corso del processo di appello Spartacus. All'esito dell'istruttoria di quel processo, infatti, è emerso un rapporto assai stretto tra Santonastaso e Giacomo Amadori, finalizzato secondo quanto sostenuto da Santonastaso alla acquisizione, da parte del giornalista, di un'intercettazione telefonica tra due collaboratori di giustizia, nella quale si parlava di ipotetiche pressioni - mai accertate - perché gli stessi formulassero accuse dirette al premier in carica Berlusconi. Quell'intercettazione fu effettivamente pubblicata da Panorama, pochi giorni dopo l'istanza di rimessione, mentre il giorno successivo la lettura in aula, Santonastaso, nelle parole del tribunale che lo ha condannato per le minacce nei miei confronti, "sfruttava la propria conoscenza con il giornalista Amadori per rendere proprie dichiarazioni su quanto avvenuto il giorno prima in udienza e per aumentare il clamore mediatico della notizia". Questa conclusione è impressionante se letta insieme a un altro passaggio di quella sentenza, che chiarisce come quel clamore mediatico fosse stato appositamente cercato per pubblicizzare alla platea degli affiliati casalesi e "nel linguaggio della camorra", un "perentorio invito ai magistrati e ai giornalisti a non cooperare più tra loro e a rientrare nell'ambito delle rispettive competenze, mantenendo un profilo più basso e smettendo di operare con clamore". Anche nell'indagine che riguarda Iannini tornano nomi noti: quello di Valter Lavitola, la cui abitazione è stata perquisita, come quella di un altro carabiniere a suo tempo coinvolto nell'indagine sulla cosiddetta P4 (una struttura finalizzata alla acquisizione di informazioni riservate per aggredire politici e imprenditori), Enrico La Monica. In relazione a quella vicenda è stato condannato Luigi Bisignani (ha patteggiato una pena a un anno e sette mesi di reclusione, senza la condizionale, a causa di una precedente condanna), la figura più eminente di giornalista borderline attualmente attiva in Italia. Bisignani, fino a quella indagine, era un uomo di grande potere nel sistema berlusconiano, dopo aver mosso i primi passi all'ombra di Andreotti. Nonostante la pena, Bisignani continua a camminare per le stesse strade di sempre e il 5 maggio scorso, in un editoriale su Il Tempo, passato inosservato ai più, ma ancora disponibile online, ha mandato un messaggio durissimo a un fedelissimo di Matteo Renzi, Marco Carrai. Bisignani ha scritto: "Ora che da pochi mesi ha tra le braccia la sua bimba, Florence, chi glielo fa fare di mettersi in un "affaire" del quale sa poco quando invece ha dimostrato di essere un imprenditore di successo". Carrai era in procinto di assumere un ruolo di primo piano, di nomina governativa, nell'ambito della cyber security, incarico che ad oggi pare essere tramontato. Quell'editoriale è il modello fedele del lavoro che Bisignani ha svolto nell'ombra per molti anni. E mi viene in mente un paragone, per le allusioni utilizzate, per i riferimenti più o meno metaforici e il linguaggio criptico, tra lo scritto di Bisignani e la lettera inviata in carcere al boss Michele Zagaria. In quella lettera, secondo una mia interpretazione pubblicata su questo giornale, si faceva probabilmente riferimento a Nicola Cosentino (che mi ha citato in giudizio, ma ha perso). Anche in quel caso bisognava sapere leggere tra le righe. Le informazioni ridotte a minaccia, a dossier, manipolate sono il più grande pericolo per il giornalismo italiano. Questa inchiesta della Dda di Napoli, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e seguita dai pm Alessandro D'Alessio, Fabrizio Vanorio e Antonello Ardituro (da due anni al Csm), ha una assoluta rilevanza, poiché sta disvelando l'esistenza di un sistema di dossieraggio, realizzato attraverso il furto di atti riservati e la manipolazione delle informazioni, il cui fine era la distruzione degli avversari politici. Le indagini delineano un quadro allarmante, ai limiti dell'eversione dell'ordine democratico, popolato di personaggi inquietanti, spesso millantatori o peggio estorsori travestiti da giornalisti, e purtroppo anche da molti che dovrebbero servire lo Stato e che invece, come scrive il gip nell'ordinanza di arresto di Iannini, "sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti".
Ma quale icona di sinistra. Saviano, dettaglio imbarazzante: "A Buttafuoco disse che...", scrive Giacomo Amadori il 5 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Mi sono accorto con ritardo (mica pretenderete che uno si legga Saviano il 3 agosto!) che l'autore di Gomorra mi ha dedicato più di qualche riga sulla Repubblica dell'altro ieri, in un articolo dal titolo suggestivo: "Camorra, la fabbrica dei dossier". In realtà me lo ha segnalato un amico della Direzione investigativa antimafia con un sms divertito: «Se ti hanno arrestato sono disposto a verbalizzare le tue confessioni». Dopo di che ci ho messo un giorno a decrittare le frasi di questo Milionario dell'Anticamorra e ho scoperto che mi dà del giornalista «borderline» e, se ho tradotto bene dal savianese, mi accusa pure di essere contiguo alla camorra. Nella sua lenzuolata ha ricordato un mio scoop dei tempi in cui lavoravo per Panorama, riguardante un'inchiesta che coinvolgeva l'allora premier Silvio Berlusconi: una fuga di notizie per cui la procura di Napoli ha indagato per un paio d' anni anche su di me e sul direttore del settimanale mondadoriano Giorgio Mulè. I pm partenopei dispiegarono un vero e proprio dispositivo di «spionaggio» che consentì di ascoltare per settimane decine di migliaia di telefonate sulle utenze di diversi giornalisti di Panorama. Per questo fa sorridere che oggi Saviano mi appiccichi addosso, citando il pm Vincenzo Piscitelli, un'accusa di «spionaggio» che fa a pugni con il decreto di archiviazione del gip di Roma. Giudice che ha ereditato l'inchiesta da Napoli per la palese incompetenza territoriale degli inquirenti campani e che ha riconosciuto che io e Mulè non abbiamo fatto altro che il nostro lavoro. Le accuse a Berlusconi - Nell' articolo il criptico Saviano è poi partito per la tangente e ha raccontato del rapporto «assai stretto» che avrei avuto con l'avvocato Michele Santonastaso, ex difensore di diversi boss della camorra. Dal 2010 è rinchiuso in cella per i presunti rapporti pericolosi con i suoi assistiti e anche per le minacce rivolte allo stesso Saviano. Ma all' epoca in cui lo incontrai, nel 2008, era solo un legale e molti giornalisti avevano una certa consuetudine con lui, visti i nomi dei clienti. Un giorno per esempio lo incrociai in un bar mentre parlava con la collega Rosaria Capacchione, divenuta poi senatrice del Pd. I motivi per cui ho contattato Santonastaso sono limpidi e certificati. In particolare lo avevo cercato per provare a realizzare un'intervista con il più celebre latitante dei Casalesi, Antonio Iovine, detto O' Ninno. Conservo ancora copia delle domande che gli consegnai. Informai anche il capo della squadra mobile di Caserta del tentativo che stavo facendo e lui tra il serio e il faceto mi propose di imbottirmi di microspie. Ovviamente rifiutai considerando la cosa troppo rischiosa. Alla fine non so se Santonastaso abbia mai consegnato quel mio lungo questionario, di certo le risposte non mi arrivarono. In quegli stessi giorni Santonastaso mi confidò che aveva recuperato delle intercettazioni esplosive e che le avrebbe rese pubbliche. Nei brogliacci il pentito Carmine Schiavone parlava di presunte pressioni subite da pm e investigatori per fargli accusare Silvio Berlusconi. «Da quando stava quel piecoro di omissis che andava cercando che io accusassi Berlusconi. Eh, io gli dissi: ma chi c… lo conosce!», diceva in una telefonata Schiavone. All' epoca il presidente di Forza Italia era premier e la notizia era di grande rilevanza mediatica. Il praticante maldestro - Per potermi consegnare quei brogliacci Santonastaso decise di allegarli a un'istanza di rimessione, ovvero a una richiesta di trasferimento del cosiddetto processo Spartacus ad altre toghe. I tempi erano ristretti e l'avvocato chiese a un suo praticante, tale Davide, di redigere l'atto. La sera prima del deposito il giovanotto entrò nello studio di Santonastaso, dove ero seduto anche io, e iniziò a leggere il documento che aveva preparato. Il linguaggio era colorito e minaccioso e si rivolgeva direttamente a tre presunti nemici dei boss, che secondo Santonastaso imbrogliavano le carte della tenzone giudiziaria: il pm Raffaele Cantone, Roberto Saviano e la già citata Capacchione. Mi sembrò tutto improvvisato e pasticciato. I termini erano decisamente sopra le righe e il giorno dopo successe il patatrac che tutti sanno. L'avvocato dei boss lesse quello squinternato atto d' accusa in aula e subito i giornali rilanciarono la notizia delle minacce dei Casalesi a tre paladini dell'Anticamorra. Il risultato fu che a Saviano fu confermata la scorta che aveva dall' anno prima. Anche per colpa della fretta e di un praticante alle prime armi. Nel novembre 2014 per quelle minacce venne condannato il solo Santonastaso che evidentemente per i giudici non aveva mandanti. Ma io già lo sapevo e ne informai lettori di Panorama, quando decisi di intervistare l'avvocato sul putiferio che era scoppiato e di cui ero in piccola parte responsabile avendo tanto insistito per avere quelle intercettazioni. Nell' intervista (disponibile su Internet per chi voglia verificare come il taglio delle domande fosse di riprovazione rispetto all' iniziativa dell'avvocato) tentai in tutti i modi di far recitare un mea culpa a Santonastaso, che ammise: «Probabilmente il tono era sbagliato. Solo che a scrivere ero io e non i miei clienti. I casalesi non hanno minacciato nessuno, non avrebbero potuto farlo tramite me». I giudici lo hanno confermato. Il plagiatore - Peccato che quella innocua intervista nella testolina di Saviano, forse troppo impegnato a guardare puntate di Gomorra, sia diventata un messaggio inquietante o per lo meno questo mi sembra di aver inteso negli involuti periodi che Saviano ha propinato ai suoi coraggiosi lettori agostani. «O' premio Pulitzèr», come lo ha soprannominato qualcuno, pensa di svelare complotti che non ci sono e di trovare chissà che talpe. E se non fosse chiaro il suo intento, su Facebook esplicita sobriamente il concetto: «"Sbirri" venduti, giornalisti e faccendieri, ecco la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan, compromettendo la democrazia». Bum! Io, il bravissimo collega napoletano Simone Di Meo e pochi altri giornalisti non identificati saremmo un rischio per la democrazia. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Su Di Meo urge aprire una parentesi: è il giornalista che ha avuto la colpa di vincere con la sua casa editrice sino in Cassazione la causa intentata contro Saviano per plagio, perché «o' Pulitzèr» è anche un signor copiatore. Tanto che dall' undicesima ristampa di Gomorra, a pagina 141, è scritto nero su bianco che diversi passi del libro sono appunto di Di Meo, coautore a sua insaputa. Purtroppo due giorni fa Saviano non ha informato i suoi lettori, mentre attaccava Simone, di questo piccolo conflitto d' interesse. Comunque se il Saviano imbronciato (quanto gli piace ostentare la sua aria pensosa) scrive su di me falsità, io adesso vi voglio raccontare due o tre cose vere che so di lui e per esperienza diretta. Macho man e il braccino - Era il 2006 e in Mondadori, dove lavoravo, si favoleggiava di un libro su cui l'azienda puntava molto. Anzi moltissimo. Era di un giovanotto campano sponsorizzato da un grande critico letterario, campano pure lui, di nome Goffredo Fofi. Rita Pinci, all' epoca vicedirettore di Panorama, mi chiamò alla sua scrivania per affidarmi un delicato compito. Avrei dovuto leggere il tomo (bisogna dirlo: la più grande operazione di marketing editoriale degli ultimi vent' anni) e presentarlo in anteprima mondiale sul nostro giornale. Mi consegnarono una bozza cartacea, in gran parte riscritta e tagliata (l'originale, Saviano lo portava in giro con la carriola) dai fenomenali editor della casa editrice di Segrate. Iniziai il primo capitolo e dopo poche righe mi ero quasi appisolato. Con un occhio semiaperto domandai in Mondadori il numero di cellulare di questo Roberto, all' epoca uno sconosciuto ventisettenne, e dandogli del tu gli chiesi di scegliere in mia vece i capitoli più interessanti. Di mio pugno volli aggiungere un breve biografia. Gli domandai due o tre informazioni personali e lui, garbatamente, mi rispose. Tra l'altro mi disse che amava la pallanuoto (non era ancora un fanatico della boxe) e che era fidanzato. Lo scrissi. Apriti cielo. Quando gli rilessi la breve bio, lui, evidentemente già compreso nel personaggio, mi chiese di cancellare quei due particolari «da rivista di gossip». Gli dissi che non ci trovavo niente di disdicevole e lo lasciai che bofonchiava. Quando tornai al giornale il vicedirettore mi disse che Saviano aveva contattato i vertici dell'azienda per far togliere quelle due righette e che dai piani alti avevano telefonato al compianto direttore Pietro Calabrese. Ma le righette rimasero al loro posto. Con grande scorno del Nostro. Nel 2009 mi trasferii nella redazione di Roma e mi piazzai nella postazione di fronte a un vero scrittore, Pietrangelo Buttafuoco, che tutto divertito mi raccontava dell'imbarazzo di Saviano per l'essere diventato un'icona della sinistra, lui che era «un vero camerata». Ridendo mi leggeva alcuni passaggi dei loro scambi epistolari. Secondo lui Saviano aveva ambizioni superomistiche e sognava di andare a fare il paracadutista in Afghanistan al seguito dei carabinieri. Non so se fosse vero, ma un'amica dell'autore di Gomorra, che aveva la ventura di incontrarlo in privato e che lo conosceva da quando era studente, me lo descrisse più che come un pensoso intellettuale di sinistra, come un ardito con la passione per i pugni e gli approcci ruvidi verso le donne. L' ultimo aneddoto riguarda la premiata coppia Fabio Fazio-Saviano. I due insieme con la scorta di sette persone al seguito del Sommo Scrittore sostarono per pranzo in un lussuoso ristorante della Riviera di Ponente, di proprietà di un mio amico. La coppia scelse il tavolo migliore, mentre i bodyguard vennero fatti accomodare un po' distanti. Fazio si avvicinò allo chef: «Una portata a testa per quei signori la offro io» disse soddisfatto della sua magnanimità. Saviano nemmeno si alzò. E il mio amico li fulminò: «Le altre portate per la scorta le offrirò io». Ora vista la parsimonia di cotanto Autore, temo che non apprezzerà la mia richiesta di risarcimento danni. Ma purtroppo, io che non ho mai citato in giudizio nessuno, mi trovo costretto a farlo per l'enormità delle accuse. In attesa di incontrarlo in Tribunale, lo rassicuro: anche se ho visto più volte il Padrino, dall' 1 al 3, non sono un picciotto e i suoi libri non mi disturbano per il contenuto, ma solo perché sono mal scritti. Giacomo Amadori
Napoli, le case popolari occupate dalla Camorra. Fuorionda del dirigente: «Cacciarli? Sarebbe una manovra di guerra». Secondo l'Osservatorio sull'abitare sociale, il patrimonio immobiliare del Comune di Napoli ha un valore di 1,081 miliardi di euro ma rende solo 1,7% del suo valore. Inchiesta di Antonio Crispino su CorriereTv del 22 giugno 2016. Se chiedete quanti immobili pubblici hanno un regolare contratto di affitto, al Comune di Napoli vi diranno che non lo sanno: «Stiamo verificando». Se domandate quante sono le case vuote pubbliche vi risponderanno lo stesso: «E' difficile, le dobbiamo individuare». Se infine chiedete di consultare l'elenco dei canoni riscossi per ogni singolo immobile vi diranno che «…non è possibile perché manca un software aggiornato capace di aggregare tutti i dati». E questo nonostante da tre anni ci sia una nuova società pubblica, la Napoli Servizi (che costa 34 milioni di euro l'anno) a gestire il patrimonio immobiliare napoletano. Sostituisce la Romeo Gestioni dell'avvocato Alfredo Romeo (che, tra gli altri, gestisce anche il patrimonio del Comune di Roma) e che ha lavorato a Napoli per un ventennio. Una situazione di stallo certificata anche dalla Ragioneria generale dello Stato che in una relazione scrive: «Non risultano tutt'ora approvati, a seguito di un contenzioso con il vecchio gestore, i rendiconti degli anni 2010, 2011, 2012, 2013 e 2014». Così come i Revisori dei conti del Comune denunciano di non ricevere l'adeguata documentazione da parte della società di servizi totalmente partecipata dal Comune. Accuse a cui l'amministratore unico della società Domenico Allocca risponde così: «Io sono in carica solo da due anni. Non ho mai presentato rendiconto perché non me lo hanno mai chiesto. Tra l'altro vorrei che mi spiegassero che cosa intendono per "rendiconto". Meglio che non mi fanno parlare, diventerei pericoloso perché conosco benissimo le loro responsabilità». Secondo l'Osservatorio sull'abitare sociale, il patrimonio immobiliare del Comune di Napoli ha un valore di 1,081 miliardi di euro ma rende solo 1,7% del suo valore. Infatti gli ultimi dati forniti dalla società di gestione immobiliare indicano un incasso mensile medio di 1,2 milioni di euro, frutto unicamente delle locazioni. Vale a dire circa il 55% delle bollette emesse. La restante parte sono persone che non pagano o contenziosi che si trascinano da anni. Un dato che non sorprende e che alcuni ritengono anche sovrastimato visto che fino al 1990 il Comune di Napoli sapeva di possedere solo 5300 immobili dei circa 30.000 esistenti, cifra a cui si arriva appena sei anni fa. Alle abitazioni sconosciute al censimento vanno aggiunte quelle occupate abusivamente. Sono il 13%. E poi c'è un dato che sfugge a tutte le statistiche: gli appartamenti gestiti dalla camorra. Sono quelli dove abitano i boss, gli affiliati, le "paranze". E coincidono quasi sempre con i loro centri di potere. «Basta guardare la mappa criminale disegnata dalla Direzione Investigativa Antimafia per accorgersi che ogni clan controlla una porzione di alloggi popolari, sia per una questione di potere ma soprattutto perché il territorio da comandare deve essere sicuro» denuncia Domenico Lopresto, segretario cittadino dell'Unione Inquilini. Il riferimento è a qualche anno fa quando centinaia di nuclei familiari, dalla sera alla mattina, furono deportati da via Comunale limitone d'Arzano. «Lo prevedeva la faida di camorra - continua Lopresto -, chi non era allineato al clan non poteva risiedere nello stesso quartiere, men che meno nello stesso palazzo del boss». Lo conferma anche il procuratore aggiunto della DDA di Napoli Giuseppe Borrelli: «Diverse inchieste hanno accertato che soprattutto nella zona orientale della città i clan gestiscono l'ingresso e l'uscita dalle case popolari. Dopodiché, però, nulla è cambiato». In altri casi la camorra ha trovato uno stratagemma legale. «C'era una legge regionale del 2000 che consentiva la voltura a favore di chi per almeno due anni risultava nello stato di famiglia di un altro soggetto- spiega Alessandro Fucito, assessore al Patrimonio del Comune di Napoli -. Ci fu un boom di richieste da parte di persone che chiedevano il subentro al posto del legittimo assegnatario che, guarda caso, sceglieva di andare a vivere altrove lasciando libero l'appartamento». Qualcosa oggi è cambiato, c'è una delibera che mette mano al mare delle morosità, una maggiore attenzione nelle assegnazioni di nuovi alloggi (circa settanta nuove assegnazioni sono state bloccate per infiltrazioni dei clan al rione De Gasperi) e un nuovo impulso per giungere a una rendicontazione patrimoniale più efficace. Anche se persistono situazioni paradossali, come un'organizzazione scoperta da poco che affittava appartamenti comunali a studenti dell'università. Ma c'è un'altra legge regionale di cui nessuno parla, quella che prevede la decadenza dal titolo di assegnatario per coloro che hanno ricevuto una condanna per associazione camorristica. «Stimiamo che sono almeno 5000 le persone appartenenti ai clan, condannate e che dovrebbero essere cacciate via - denuncia Lopresto -. Al Comune ci ripetono che non sanno dove sono ma è abbastanza inverosimile visto che il gestore delle case popolari ogni mese spedisce loro il bollettino per pagare l'affitto. Basterebbe chiedere alla Prefettura il casellario giudiziario di chi le abita. L'ultima volta che ho sollecitato questo intervento mi hanno risposto che ci sono problemi tecnici che impediscono di procedere». Lo andiamo a chiedere a un dirigente comunale muniti di una telecamera nascosta e quello che risponde è abbastanza sconcertante: «Problemi dal punto di vista tecnico non ne vedo, piuttosto manca la volontà di farlo perché sarebbe una manovra di guerra, una dichiarazione di guerra. Se io oggi faccio un provvedimento di decadenza nei confronti del camorrista di turno e non lo eseguo, lei capisce che boomerang diventa questa cosa? Perché io non lo eseguo. Oggi almeno posso dire "non so chi siano"…». E poi ci saluta segnalandoci che il problema vero è l'infiltrazione all'interno della macchina comunale: «Sarno non è un cognome qualunque, nel momento in cui ricevi una richiesta con questo nome, vuoi chiedere un certificato?». Una dichiarazione che fa il paio con un altro fuorionda, stavolta dell'assessore Fucito: «Sa quante volte ho segnalato queste situazioni alla Prefettura? Proposi gli sgomberi al prefetto Musolino, mi rispose "Ma no, ma che ci mettiamo a fare?". La verità è che sono dei cialtroni, non si attivano». Poco dopo un altro dipendente comunale rincara la dose: «Abbiamo inviato segnalazioni precise di compravendite (di alloggi, ndr) con i nomi dei soggetti ma la Prefettura e la Questura non ci hanno mai convocato, non lo ritengono meritevole di attenzione».
Garante minori da shock: Napoli, allarme incesto, scrive Valeria Chianese il 21 giugno 2016 su Avvenire. La prima ricerca in Campania sugli abusi intrafamiliari sui minori, condotta dal Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Campania, Cesare Romano, in collaborazione con la ricercatrice Ida Romolini e l’Associazione di volontariato Iuvare, ha rivelato risultati sconvolgenti. Sarebbero oltre 200 i casi stimati di abusi intrafamiliari subiti dai minori in Campania. Maltrattamenti e violenze tra le mura domestiche, trasformate in stanze di tortura e di orrori. Le vittime sono per lo più minori in età preadolescienziale, pari all’80% e, nell’87% dei casi si tratta di bambine tra i 6 e i 10 anni. «Abbiamo fatto questa ricerca per evidenziare che il fenomeno è abbastanza consistente, è trasversale ed è molto sommerso – è la sconcertante affermazione di Cesare Romano. – Abbiamo testimonianze dirette e indirette, anche se non compaiono nella ricerca, che ci sono intere zone in cui l’abuso sessuale, l’incesto, è elevato a normalità». Il rapporto, presentato ieri, è cominciato nel novembre 2013 ed è proseguito per tutto il 2014. Ha interessato, a campione con questionari anonimi, 45 Comuni (il 12% delle amministrazioni locali) e 31 Ambiti territoriali (il 60% di tutti gli Ambiti). Ma diversi enti secondo il Garante campano non hanno collaborato. Romano ha precisato di avere chiesto, tramite la Curia di Napoli, la collaborazione delle parrocchie, da cui non ha avuto risposta. Due anni fa il cardinale Sepe indicò un sacerdote all’interno della commissione del Garante, nomina non formalizzata. «Essendo dati sensibili – precisa Enzo Piscopo, portavoce della Curia – i parroci non possono comunque divulgarli». Il Garante ha anche elencato alcune zone "critiche": le Salicelle ad Afragola, Madonnelle ad Acerra, quartieri di Napoli, e il Parco Verde a Caivano. Tutte zone di degrado, di povertà, dove sono assenti i servizi sociali e lo Stato. Considerazioni che amareggiano don Maurizio Patriciello, parroco al Parco Verde che ribatte: «Uno sciacallaggio mediatico impressionante, frutto di un discorso pigro e disonesto che ha voluto equiparare la povertà, che diventa miseria, alla pedofilia». Si tratta invece di un fenomeno che riguarda «ricchi, professionisti, persone che conoscono bene i posti dove le ragazzine, le bambine, si possono comprare per pochi euro. Non ci si rende conto che così facendo – sottolinea don Patriciello – si fa un piacere ai pedofili di tutto il mondo». Gli fa eco un altro sacerdote in prima linea contro la pedofilia. I bambini vanno anche educati – dice don Fortunato Di Noto, fondatore e presidente dell’Associazione Meter Onlus – credo che occorra lavorare molto su questo fenomeno aberrante che richiede tanta determinazione». L’obiettivo del Garante campano è andare verso un sistema regionale di raccolta dati per arrivare all’istituzionalizzazione di sistemi e procedure che siano in grado di individuare le giovani vittime, tutelarle e perseguire i responsabili. «Vogliamo accendere i riflettori su questo fenomeno – ha sottolineato Romano – e fare qualcosa che sia non solo un approfondimento, ma soprattutto prevenzione e contrasto a un fenomeno che va sicuramente combattuto». Sui dati è intervenuto anche Andrea Orlando, ministro per la Giustizia, a Napoli per una iniziativa della Comunità di Sant’Egidio: «Pensare di risolvere solo con le norme è illusorio oltre che fuorviante. C’è un tema della scuola, dei servizi sociali, di sottosviluppo». Poi c’è un ambito «che riguarda il degrado sociale e che può essere affrontato solo attraverso strumenti diversi dalla giustizia». Da Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, la richiesta di maggiore consapevolezza e "una più adeguata offerta di servizi, unita alla predisposizione di sensori efficaci in grado di cogliere i segnali d’allarme". Creando una cultura del rispetto del bambino, con il contributo di insegnanti, pediatri e figure a contatto con le famiglie.
Napoli, l’allarme dei magistrati. Liberi migliaia di condannati. Il Csm: 50 mila sentenze non eseguite, tra cui 12 mila con pene detentive, scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera” il 17 giugno 2016. A volerla guardare in positivo si può mettere così: nei tribunali di Napoli (la sede centrale e quello di Aversa-Napoli Nord istituito tre anni fa) la tanto vituperata lentezza dei giudici produce sentenze a un ritmo più alto di quanto il sistema giustizia sia in grado di assorbire. Ma sui dati forniti dal presidente della Corte d’Appello, Giuseppe De Carolis, in una lettera al ministro Andrea Orlando e rilanciati ieri dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, il campanello d’allarme suona forte: «Nel distretto ci sono oggi 50 mila sentenze definitive non eseguite, di cui 20 mila di assoluzione e 30 mila di condanna», sottolinea Legnini. E tra le condanne, ribadisce De Carolis, «12mila riguardano esecuzione di pene detentive. Migliaia di persone che — se le condanne superano i due anni — dovrebbero essere in carcere e invece non ci sono i mezzi per dare seguito alle sentenze. Le soluzioni ci sono, ma occorre far presto». Il ministro Orlando ha già disposto l’invio degli ispettori: «Stiamo prevedendo una serie di misure di rafforzamento della presenza del personale di cancelleria, ma distretti che hanno uguali scoperture non hanno accumulato questo ritardo». «Una nuova ispezione è inutile. La causa è chiara: la mancanza di personale amministrativo», ribatte il consigliere del Csm, ed ex pm anticamorra, Antonello Ardituro. Navigando più in profondità nei dati, la situazione si aggrava. Intanto le condanne ineseguite riguardano spesso più persone alla volta, quindi il numero di «detenuti virtuali» va rivisto al rialzo. Poi c’è un fattore economico, sottolineato dal procuratore generale di Napoli, Luigi Riello: «Si parla anche di confische non eseguite, con il duplice aspetto che beni sotto sequestro restano a carico dello Stato per la gestione e non producono introiti con le possibili vendite. E mancata esecuzione significa anche mancato incasso delle pene pecuniarie». Le ragioni di questo disastro sono diverse. Il blocco delle assunzioni che risale al 1998, salvo quelli che Riello definisce «pannicelli caldi» forniti sporadicamente negli anni. Il Csm fa una stima tra il 20 e il 40% di personale mancante negli uffici. E quello che c’è, aggiunge De Carolis, «spesso non è formato a sufficienza o è calcolato su piante organiche stimate per carico di lavoro precedente alle ultime riforme». Una metafora del presidente della Corte d’Appello sembra efficace: «È come avere i chirurghi in sala operatoria senza il decisivo apporto degli infermieri». Le sentenze non eseguite nel 2009 erano 15mila. Sono quindi aumentate al ritmo di cinquemila l’anno. E sulla Corte d’Appello, competente per le delle esecuzioni, grava ora anche Napoli Nord, che include il territorio dei Casalesi, città come Caivano, la Terra dei Fuochi, e su cui gravita un milione di persone. Il neonato tribunale è già in apnea. «A Napoli si concentrano tutte le criticità ma anche le positività del sistema giudiziario per l’impegno dei magistrati che ci lavorano», sottolinea Legnini. «Il distretto giudiziario di Napoli è il più grande d’Italia — ragiona Riello — e nell’ultimo anno ha prodotto la cattura di 55 latitanti, il sequestro di beni per 1,3 miliardi di euro e, a conferma indiretta del lavoro svolto, un attentato sventato al procuratore Giovanni Colangelo. Siamo di fronte a un’emergenza nazionale, con magistrati frustrati e cittadini senza risposte».
Sos dalla Corte d'Appello: incontro con il Csm per il caso delle 50mila sentenze definitive mai eseguite, scrive Dario Del Porto il 17 giugno 2016 su "La Repubblica". La giustizia degli impuniti. Almeno 12 mila persone, condannate con sentenza passata in giudicato a pene che prevedono la reclusione in carcere, sono tuttora tranquillamente a piede libero e risultano incensurati. I verdetti di colpevolezza, pur definitivi, sono infatti fermi in Corte di Appello in attesa di esecuzione. È questo il dato più aggiornato, di sicuro il più allarmante, emerso dal monitoraggio disposto dal presidente della Corte, Giuseppe De Carolis, per provare a fare chiarezza sul caso delle sentenze non eseguite a causa della gravissima carenza di personale amministrativo che grava sull'ufficio. "Un buco nero", lo aveva definito nei giorni scorsi il presidente De Carolis a Repubblica. L'alto magistrato ha completato lo screening avviato con la collaborazione della cancelleria e, come anticipato, ha scritto al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Consiglio superiore della magistratura per segnalare la situazione. E Orlando oggi rende noto di aver chiesto all'ispettorato del ministero di "svolgere accertamenti per individuare tutte le cause che nel distretto di Napoli hanno generato il problema di decine di migliaia di sentenze ineseguite". Al ministro replica il consigliere del Csm Antonello Ardituro: "Gli accertamenti sono inutili, l'ispezione c'è stata da poco. La causa si conosce già: la carenza di personale amministrativo". Le sentenze d'appello già definitive ma non ancora eseguite sono in totale circa 50 mila così suddivise: 20 mila sono di assoluzione e prescrizione. Le altre 30 mila si riferiscono a verdetti irrevocabili di condanna. Parliamo dunque di processi definiti in primo e secondo grado, scampati alla prescrizione e per i quali non è stata proposta impugnazione davanti alla Corte di Cassazione Di queste sentenze, almeno 12 mila prevedono la pena della reclusione dell'imputato. Il numero è evidentemente approssimato per difetto, perché nulla esclude che ogni singolo processo si sia concluso con la condanna alla reclusione di più di un imputato. La pena non è stata ancora eseguita perché non è stato emesso l'estratto esecutivo, indispensabile per completare formalmente il procedimento e trasmettere gli atti alla Procura per l'ordine di carcerazione. Più tempo passa, più aumentano le possibilità per il condannato di farla franca, perché la legge prevede che anche la pena possa estinguersi se non sia stata data esecuzione alla sentenza entro certi termini. Senza contare altre ricadute di carattere economico, ad esempio le pene pecuniarie che non vengono riscosse, spese di giustizia non recuperate e beni non confiscati. Alla base di questo ingorgo, aveva ricordato il presidente De Carolis, c'è un paradosso: la grande produttività dei magistrati napoletani che si scontra con la carenza di personale amministrativo. La questione è stata ribadita questa mattina dal presidente della Corte nell'incontro con il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, a Napoli, accompagnato dai consiglieri "togati" Antonello Ardituro, Lucio Aschettino e Francesco Cananzi, per incontrare i capi degli uffici giudiziari del distretto. "A Napoli si concentrano tutte le criticità e le emergenze, ma anche le positività del sistema giudiziario italiano - ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini- Il Csm ribadisce le richieste sugli organici del personale amministrativo e dei magistrati evidenziate nella delibera assunta il 15 giugno scorso". Nel dettaglio "la scopertura degli organici dei soli magistrati - ha detto il consigliere Antonello Ardituro - oscilla tra il 20 ed il 40 per cento". La delegazione ha visitato anche il tribunale di Aversa Napoli Nord, il più giovane ufficio giudiziario d'Italia, partito a carico zero ma a sua volta alle prese con enormi vuoti nell'organico amministrativo.
Le donne di Scampia, il vero nemico della Camorra. Casalinghe che non lasciano i figli per strada e li invogliano a studiare. Le mamme del quartiere spiegano come combattono la criminalità, scrive Nadia Francalacci il 27 maggio 2016 su "Panorama". C’è un’apparente indifferenza e un silenzio surreale mentre varchi la soglia del quartiere di Scampia. Un’indifferenza che in realtà è tutto meno che indifferenza. Le persone ti osservano, spiano ogni tuo movimento. Non parlano. Sei un forestiero che entra a Scampia, in quella terra ai margini della Napoli “bene”, abbandonata dalle Istituzioni e sembra anche da Dio. La gente vuole prima capire chi sei. E’ diffidente. Ma non ci vuole poi molto perché quella diffidenza e quel silenzio si trasformi in accoglienza, sorrisi e disponibilità. La gente che ti guarda da dietro le finestre non ha problemi a scendere in strada e a parlare ma soprattutto a denunciare. Non ha paura. Anzi. Non vede l’ora di parlare del disagio e della ghettizzazione di Scampia come “il quartiere” della Camorra anzi di Gomorra. La gente di Scampia è coraggiosa. E odia Gomorra perché ha distrutto e continua a distruggere tutto il bello che c’è a Scampia. “E ce n’è assai di cose bbuone a Scampia”. Ci dicono. La gente è stanca di sentire in televisione o di leggere sui giornali che il loro quartiere è il ‘male assoluto’ di Napoli, “è Camorra”. “A Scampia ci vive tanta gente perbene che lotta ogni giorno contro la Camorra- racconta a Panorama.it, Assunta, una casalinga che abbiamo incontrato in un parcheggio davanti alle Scuole Medie “Virgilio 4”, a pochi metri dalle Vele - gente con dei valori morali che lotta veramente contro la mafia e la criminalità. Non siamo mica tutti i personaggi di Gomorra. Qui non c’è lo Stato che combatte i boss ma noi mamme che gli togliamo i nostri figli”. Sono le 12.30 e Assunta è seduta all’interno di una Fiat Punto di colore blu, vecchio tipo, parcheggiata nel cortile davanti alla scuola. Ci vuole almeno un quarto d’ora prima che decida di scendere. Aveva abbassato tutto il finestrino e parlava con le braccia appoggiate fuori. “Sto aspettando che esca mio figlio – continua- l’ho accompagnato questa mattina e adesso lo vengo a riprendere”. Lo fa tutti i giorni? “Spesso” Abitate lontano da qui? (Indica con un dito una parte delle Vele che non distava più di 80-100 metri dalla scuola, ndr.) Laggiù. Perché lo viene a prendere? Non è molto distante... Perché non deve stare in mezzo alla strada. E poi parlo con le insegnati quando escono. Assunta non è la sola mamma che aspetta il proprio figlio. In una mezz’ora arrivano anche altre decine di donne tutte a riprendere i propri figli e tutte residenti all’interno delle Vele. In tre si avvicinano. “Ho tre figli e li seguo tutti: li accompagno e li vado a riprendere- continua Vanessa, una donna che ha 31 anni nata a Casalnuovo di Napoli e trasferita a Scampia a 19 anni appena sposata – e il pomeriggio li porto in palestra o a calcio. Se stanno in mezza alla strada non ritornano più”. “Non bisogna lasciarli soli- continua Assunta, che dopo essere scesa dall’auto faceva fatica a stare zitta – sappiamo che non possiamo proteggerli ma l’unico modo per non farli diventare camorristi, non farli finire in carcere o ammazzati, è farli studiare”. Quelle di Vanessa e Assunta non sono solo parole. A Scampia ci sono centinaia di donne che seguono i propri figli fin all’interno delle classi, vanno a parlare periodicamente con le insegnanti o la preside e si accertano che i figli facciano tutti i compiti a casa. Ma soprattutto non facciano deviazioni sul tragitto casa-scuola-casa. Non solo, sono le prime a partecipare a gare o corsi di cucina organizzati dagli istituti. “Le donne di Scampia sono la vera ricchezza di questo quartiere – ci conferma Lucia Vollaro, Preside dell’Istituto Comprensivo Statale “Virgilio 4” di Scampia – sono le mamme che con la loro presenza costante evitano la dispersione scolastica e di conseguenza la nascita di piccoli criminali, spesso destinati ad una vita per strada”. “Le mamme di Scampia sono davvero donne molto coraggiose – conclude la preside – lottano davvero contro la Camorra e la criminalità organizzata e lo fanno quotidianamente mandando i figli a scuola. Le donne hanno capito che per sconfiggere la mafia bisogna combattere l’ignoranza”.
Brogli a Napoli, il Pd trema. I pm setacciano i computer. La procura partenopea ha acquisito nelle ultime ore le immagini del video del sito Fanpage.it su presunti scambi di soldi davanti ai seggi. Si aggrava la posizione delle due donne perquisite, scrive Simone Di Meo, Venerdì 10/06/2016, su "Il Giornale". Napoli Fioccano le inchieste a Napoli. La procura partenopea ha acquisito nelle ultime ore le immagini del video del giornale Fanpage.it su presunti scambi di soldi davanti ai seggi, in occasione del voto di domenica scorsa. Il filmato, realizzato da cronisti con telecamere nascoste in diverse zone della città, si sofferma in particolare su un Caf del rione Sanità dove si vedono entrare diverse persone munite di schede elettorali. È il terzo filone aperto dagli inquirenti dopo quello sulle monetine da un euro regalate alle primarie Pd del 6 marzo scorso e quello che vede indagate due candidate del Pd per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Su quest'ultima tranche potrebbero arrivare ben presto sviluppi alla luce dell'analisi dei due computer e degli elenchi che sono stati sequestrati, l'altro ieri, nelle abitazioni e nei comitati di Anna Ulleto (eletta al consiglio comunale con 2200 preferenze) e di Rosaria Giugliano; in corsa, quest'ultima, invece, alla Municipalità Mercato-Pendino. Sono entrambe accusate di aver rastrellato voti in cambio secondo la ricostruzione del pm Francesco Raffaele e dell'aggiunto Alfonso D'Avino dell'inserimento in «Garanzia Giovani», il progetto finanziato dalla Regione Campania che prevede un sussidio di tremila euro per sei mesi a favore di giovani allocati, per progetti a tempo, in aziende pubbliche o private. Dal fronte giudiziario a quello politico, la temperatura resta sempre alta in vista del ballottaggio del 19 giugno prossimo. Il candidato del centrodestra Gianni Lettieri analizzando i flussi elettorali dei quartieri di Scampia, San Pietro a Patierno, San Giovanni a Teduccio e Barra ha alzato il tiro contro lo sfidante Luigi de Magistris: «Non è certamente una coincidenza che il 5 giugno si è registrato un voto massiccio in favore del sindaco uscente proprio in determinate zone della città, da sempre, a rischio di inquinamento nell'espressione del voto ha attaccato. C'è da pensare che preferiscono un sindaco e un'istituzione debole che non controlla il territorio, rispetto a chi, come me, ha sempre tenuto la schiena dritta contro la criminalità organizzata». Il colpo più profondo l'ha sferrato però Antonio Bassolino nei confronti del suo stesso partito con cui è ormai in guerra da mesi. «Renzi intervenga con determinazione, prima che il Pd precipiti in un burrone politico e morale ha denunciato l'ex sindaco. Per rimetterlo in piedi si deve rifare tutto: commissariare il Pd provinciale e regionale con persone autorevoli e fuori dalle rigide correnti. Azzerare l'attuale tesseramento militarizzato e lottizzato».
Benvenuti ad Acerra, dove il voto si compra con 20 euro. Il voto di scambio è prassi nel napoletano: «Qui tutti fanno così. Il più ricco offre di più e in genere è quello che vince.» - di Antonio Crispino/Corriere TV del 24 maggio 2016. In molti ad Acerra non vedono l'ora di tornare a votare. Passione civile? «No. Ci sono troppi disoccupati e almeno in quel mese vediamo qualche euro» risponde un ragazzo sui trent'anni nel rione Madonnelle, uno dei tanti rioni di questo popoloso comune alle porte di Napoli che reclama i natali di Pulcinella. Sessantamila abitanti. Gli euro di cui parla sono quelli che elargiscono i vari candidati in campagna elettorale. Un argomento convincente per tanti che ormai non ne fanno più un mistero: «Io li ho presi perché non ho un lavoro e venti euro mi fanno comodo». Venti euro? «Sì, questo pagano per ogni voto dato in cambio. Qualche altro un po' più ricco offre cinquanta euro e in genere è quello che vince. Ma qui tutti fanno così». Quella del ragazzo sembra una provocazione ma non lo è. Continuiamo le nostre interviste in giro per il rione e la maggior parte confermano tutti: «Sì, abbiamo avuto soldi in cambio dei voti, non è una novità, a ogni elezione è così» dice una donna con la figlia sotto al braccio. Ma non solo soldi. Secondo gli inquirenti che hanno avviato un'inchiesta (che ad oggi non ha portato ad alcun esito), in campagna elettorale fioccano i posti di lavoro. Incontriamo il testimone chiave. Racconta di come sia stato assunto in cambio di voti: «In un primo momento venne la mamma di Nicola Ricchiuti, candidato consigliere (Ricchiuti fu eletto in consiglio comunale con 341 voti, poi dichiarato decaduto in seguito all'inchiesta della magistratura, ndr). Disse che il figlio mi avrebbe dato un lavoro se mi fossi impegnato per la campagna elettorale. E così fu». Il candidato lo convocò il giorno dopo presso l'ufficio della Metronotte, un istituto di vigilanza privata, e gli consegnò la divisa. La stessa settimana iniziò a lavorare, sia come vigilante che come procacciatore di voti. Poco importò se la persona in questione aveva precedenti per droga e falso. Quello che emerge dall'inchiesta però è solo la punta di un iceberg più grande dove la regola sembra essere la sistematica compravendita del voto. Bisogna andare in città, quartiere per quartiere, casa per casa; la gente lo ammette in modo cristallino. A libro paga ci sarebbero bollette della luce, affitti di locazione e buste della spesa. Proprio così. Cinquanta euro di spesa gratis in cambio del proprio voto. Ecco cosa ci racconta un altro testimone: «Fui avvicinato dal proprietario del supermercato che si trova proprio qui nel rione. Mi chiese se volevo fare la spesa gratis in cambio del voto per un consigliere comunale. Sinceramente accettai. Anzi, portai anche mia sorella, mia mamma, la mia vicina di casa…». E chi è questo consigliere comunale? «Si chiama Puopolo, poi è stato eletto. Ma nello stesso periodo venne anche la mamma di un altro candidato consigliere, Antonio L., e ci propose il pagamento del pigione in cambio dei voti per il figlio». Pino Puopolo è un consigliere di maggioranza eletto nelle liste dell'Udc. Il più votato. La media dei suoi voti è di 9 per ogni seggio. Ma nel quartiere dove realizziamo le interviste i voti si quintuplicano e toccato il picco: 54. Lo incontriamo nella sede del Comune dopo un lungo corteggiamento ma evita qualunque risposta. Anzi, quando gli riferiamo le testimonianze raccolte iniziano spintoni e aggressioni. Non prima di aver negato di conoscere qualsiasi supermercato e di non aver mai comprato buoni spesa. Poco dopo ci rechiamo nel market che tutti ci indicano, e il titolare, ignaro di essere ripreso da una telecamera nascosta, ci racconta tutta un'altra storia: «Certo che lo conosco Puopolo. Nel periodo elettorale mi limitavo a ritirare i buoni che lui regalava e a consegnare la spesa. Mi pagò anticipatamente e mi disse: "Questo è il numero di buoni che ho consegnato, quindi da te devono venire queste persone"». Prima di andare via ci viene spontanea una domanda: alla fine lei lo ha votato questo consigliere? «Ora vuoi sapere troppo. Io lo dovevo fare con discrezione perché oltre a lui qui viene anche un altro partito che mi consuma tanta merce e non posso far vedere che sto schierato con uno piuttosto che con un altro». Infatti i periodi elettorali qui sono una guerra e bisogna stare attenti da che parte stare. Ne sanno qualcosa almeno otto candidati che prima del voto hanno ricevuto schiaffi, minacce, proiettili sotto casa, lettere minatorie, abitazioni danneggiate. Come Paola Montesarchio, candidata in una lista civica e oggi segretario cittadino del Pd. Le serrature di casa sua e poi quelle dei suoi genitori sono state sigillate con il poliuretano. È andata peggio a una sua collega che vuole restare anonima per paura di altre ritorsioni. La sua auto è stata bloccata in strada da due uomini su una moto. «Uno di loro mi disse chiaramente di andare via altrimenti mi sarei fatta male. Volevano che mi ritirassi da quel partito. Alla fine mi ritirai anche perché mi resi conto che non potevo competere con gli altri: persone che conoscevo benissimo davano anche 300 euro in cambio dei voti». Tra questi ci sarebbe l'attuale sindaco, Raffaele Lettieri. «Non veniva lui personalmente ma c'erano dei ragazzi che ti fermavano e proponevano 20 e 50 euro in cambio di un voto per lui». Lettieri è un geometra che, secondo un'informativa dei carabinieri, ha curato alcune pratiche edilizie per la nipote di Mario De Sena, camorrista di spicco della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e a suo tempo inserito tra i 500 latitanti più pericolosi (oggi in carcere). Gli stessi inquirenti segnalano come nelle sue liste fossero presenti numerosi pregiudicati. Cerchiamo un incontro per chiedergli conto di questo e di altro ma quando gli spieghiamo di cosa vogliamo parlare il sindaco scappa letteralmente. Il suo antagonista alle ultime elezioni Antonio Crimaldi va ben oltre. In un esposto lo accusa di brogli elettorali e di condizionare appalti, incarichi e assunzioni. Non una novità per i carabinieri che in un'informativa citano il parere di un ispettore del ministero dell'Economia in visita al Comune: «… ci sono numerose anomalie nei concorsi, negli incarichi esterni e nell'avanzamento di carriera da parte di dirigenti che sono stati assunti con contratto a termine e successivamente stabilizzati proprio dai politici citati». Ma «attenzione», dicono gli inquirenti. «Ad Acerra anche coloro che apparentemente denunciano le illegalità sono parte dello stesso sistema». Infatti a ben vedere Crimaldi e Lettieri facevano parte dello stesso partito. Gli investigatori evidenziano come anche Crimaldi «elargiva favori in cambio del voto» addirittura presso l'ufficio di un geometra comunale. Oltre a notare il coinvolgimento del noto pregiudicato Tortora Gaetano detto «o' bob» a favore delle sue liste. E poi viene intercettato mentre cerca di convincere Nicola Ricchiuti, l'imprenditore della vigilanza privata di cui abbiamo parlato all'inizio, a passare nelle sue liste: «Tu decidi che cosa vuoi fare… se vuoi crescere a livello lavorativo… se vuoi crescere a livello politico… si possono aprire tanti discorsi.» E il consigliere risponde: «Antonio, non ho ideali né con la sinistra né con la destra… per il momento corro dove sto correndo, sempre per i miei interessi… Io voglio stare con chiunque se mi dà qualcosa…». Da un paio di mesi il comune di Acerra è sotto la lente d'ingrandimento della Prefettura di Napoli assieme ad altri 26 comuni della provincia. Un'attenzione che si aggiunge a quelle delle procure che indagano dal 2012. L'anno prossimo si ritorna al voto.
Pd, tra veleni e signori delle tessere. Un partito scalabile con 21 mila euro. Nel capoluogo campano 2.800 tesserati, ogni iscrizione costa 15 euro. Il nodo trasparenza: il potere di veto in mano a pochi e il senso delle primarie, scrive Marco De Marco il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Le primarie annullate cinque anni fa a Napoli e quelle, su cui infuria la polemica, di domenica scorsa, più o meno compromesse, nonostante l’app anti-brogli, dal cliccatissimo video accusatorio di Fanpage. Il caso Salerno, dove in provincia e città sono molti gli episodi di opacità elettorale di cui si sta occupando la magistratura: dalle urne «insaccate» di schede prevotate, agli elettori pagati con le monete del «Bingo». I fatti di Casavatore, che vedono come protagonista il capogruppo Pd (poi dimessosi) indagato per voto di scambio con l’aggravante del metodo mafioso. Sono tutti segnali di una falla apertasi nel sistema di raccolta del consenso. E tutti suggeriscono un’unica domanda: che fine ha fatto il voto d’opinione? Un partito come il Pd, che sul tema della trasparenza elettorale si è sempre proposto come modello e ha appena impartito una lezione ai grillini a proposito di Quarto, difficilmente potrà ora limitarsi alle solite formule di rito, ai vedremo, faremo e via minimizzando. E tantomeno alle sdrammatizzanti battute di Vincenzo De Luca. I fatti di Napoli? «Babbarìe», da babbà. Sciocchezze, dice il governatore campano ricorrendo al dialetto in uso nell’Agro Nocerino-sanese. Cosa è dunque accaduto in casa Pd? Quale anello della catena, e perché, si è spezzato? Era opinione assai diffusa, tra i politologi e non solo, che la caduta del muro di Berlino avrebbe favorito flussi elettorali dal voto ideologico o di appartenenza a quello di opinione. Ed era ancor più forte la convinzione che un altolà alle pratiche del voto di scambio, specialmente nei territori di camorra, avrebbe ancor di più liberato il voto. La primavera dei sindaci, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, apparì come una conferma di queste ottimistiche previsioni. La realtà è invece andata da un’altra parte, come confermano i recentissimi fatti di Napoli, per quanto marginali e ancora tutti da accertare. A Napoli, e forse non è un caso, è da dieci anni, dalla riconferma di Rosa Russo Iervolino, che il centrosinistra, di cui il Pd è massima parte, non vince. Il Pd si sta ora arricchendo con forze nuove, naturalmente, ma intanto ha progressivamente allentato i rapporti con molti non professionisti della politica. Tra gli attuali parlamentari non c’è un solo professore universitario; molte personalità di un tempo (l’ex presidente del Cnr Gino Nicolais, il filosofo Eugenio Mazzarella, l’italianista Emma Giammattei) sono impietosamente scivolate ai margini della scena pubblica, mentre hanno conquistato le prime file i figli d’arte, a cui i padri hanno trasferito ingenti pacchetti di tessere. E gli iscritti si sono ridotti al minimo storico. A duemilaottocento, per la precisione, e senza che mai si sia riflettuto sufficientemente su cosa questo comporti. Su cosa può produrre, cioè, il combinato disposto di un partito non più di massa e non ancora di opinione, viste le note difficoltà del renzismo di estendersi in periferia. La prima conseguenza, come si è visto proprio in occasione delle primarie di domenica, è che tutto il potere di veto è tornato nelle mani di pochi signori delle tessere. L’ex sottosegretario Umberto Ranieri, tante per dirne una, non è riuscito a presentarsi alle primarie di Napoli proprio perché ormai fuori da questo giro: servivano 400 firme di tesserati, ma non ce n’erano più di disponibili, avendo già tutti sostenuto altre candidature. Il partito è diventato così un meccanismo perfetto, ma nel senso di perfettamente manovrabile, come può esserlo, insomma, quello di un orologio a cui puoi caricare la sveglia, rinviarla o, se ormai inutile, annullarla. Del resto, come è stato possibile indicare in anticipo quanti sarebbero stati quest’anno i votati alle primarie? Si è detto che trentamila (cioè suppergiù il numero delle tessere moltiplicato, come prassi, per dieci) sarebbe stato un buon risultato. E guarda caso tanti sono stati. E come ha fatto Valeria Valente a stappare lo spumante e a dare l’annuncio della vittoria, con assoluta certezza, a scrutinio ancora in corso, e nonostante si sapesse del risicatissimo margine di vantaggio (452 voti, alla fine)? Mistero. Un partito dove tutto è già scontato non esclude il voto d’opinione, ma certo è difficile che lo incoraggi. Ma per paradosso, un partito così perfettamente controllabile è anche un partito facilmente scalabile. Vuol dire questo. I tesserati, si è detto, oggi a Napoli sono 2.800, ogni tessera costa in media 15 euro. In linea teorica potrebbe bastare un investimento di 21 mila euro per garantire a chicchessia il controllo del 51% del partito. E cioè per rivendicare una adeguata rappresentanza negli organismi dirigenti, indicare le candidature nelle istituzioni, orientare le scelte politiche locali e condizionare quelle nazionali. Un film di fantapolitica? Certo. Eppure ne stiamo già vedendo i primi trailer.
Primarie truccate a Napoli, aperta un'indagine, scrive “Libero Quotidiano” l’8 marzo 2016. Non si placano, come è naturale che sia, le polemiche derivanti dal video pubblicato da Fanpage riguardo lo scandalo che ha visto protagoniste le primarie del Pd a Napoli. Nel filmato si vede come consiglieri comunali e municipali Pd erano piazzati fuori dai seggi a distribuire monete da un euro per poter votare, come previsto dal regolamento. I casi individuati dai giornalisti napoletani prevedevano che il voto fosse indirizzato verso la Valente, candidato vincente di misura contro Antonio Bassolino. In merito alla vicenda l'entourage di Bassolino sta pensando ad un ricorso mentre la procura di Napoli aprirà un'indagine conoscitiva: il procuratore aggiunto Alfonso d'Avino acquisirà il video incriminato e aprire un'inchiesta. Convocata anche la direzione del Pd dal presidente Matteo Orfini per il prossimo 21 marzo per discutere di quanto successo all'interno del partito negli ultimi giorni.
Suore, boss, caffè pagati Consultazione viziata da trucchi e mancette, scrive Simone Di Meo, Martedì 08/03/2016 su “Il Giornale”. Napoli Perde il pelo ma non il vizio, il Pd. Nel 2011 furono cinesi e camorristi a inquinare le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, oggi - cinque anni dopo - le ombre tornano ad allungarsi in particolare sui quartieri controllati dai clan: Scampia, Secondigliano e San Giovanni a Teduccio. I rioni dove la deputata renziana Valeria Valente ha probabilmente conquistato la vittoria grazie a una rete di «galoppini» e di sostenitori dai modi assai disinvolti. Giovani che non hanno avuto remore a distribuire monete da 1 euro ai votanti davanti ai seggi, come testimoniato da un filmato del giornale online Fanpage.it. In un'immagine è addirittura il consigliere comunale Antonio Borriello, ex bassoliniano di ferro tra gli artefici del successo della candidata di apparato, a consegnare i soldi a un uomo. Il mercato delle preferenze dem stavolta è stato meno sfacciato ma non meno movimentato rispetto al passato. Per portare gli elettori a depositare la scheda nelle urne - confida al Giornale un testimone oculare - c'è chi ha distribuito addirittura biglietti per il trasporto pubblico, dal bus al tram alla funicolare. Un piccolo regalo per chi non voleva spendere nemmeno i soldi per titolo di viaggio. Per strappare un voto anche snack da offrire dopo pranzo o di buon mattino. Nei quartieri del centro storico, alcuni fan hanno corteggiato i passanti con la classica tazzulella di caffè. L'aggancio, una chiacchierata veloce al bar di fronte per convincere l'improvvisato elettore con un caffè, e poi di corsa al gazebo a esprimere la preferenza a costo zero. In fila, nella zona del Pendino, dove risiede la Valente, si sono messe pure due suore - immediatamente ribattezzate «le sorelle dem» - che hanno versato l'obolo da 1 euro. Sempre a Secondigliano sono stati visti leader delle cooperative di detenuti, immigrati e disoccupati storici. Erano state presentate come primarie ad alta tecnologia (la segreteria provinciale aveva speso 8mila euro per acquistare 80 tablet su cui installare una app per evitare doppi o tripli voti, mettendo in rete tutti i seggi della città) ma la speranza è durata appena 600 secondi. Dieci minuti dopo l'apertura dei seggi la app è andata in tilt e sono ritornati i vecchi sistemi di conteggio con carta e penna.
Napoli, le pistole dei ragazzi invisibili e quelle vittime senza colpa. Il racconto. Dal negoziante colpito per caso al giovane ucciso per sbaglio a due passi da una pizzeria famosa. Gli ultimi morti di camorra spesso sono incensurati. Il loro errore? Trovarsi sulla traiettoria dei proiettili delle gang che la città fa finta di non vedere, scrive Roberto Saviano il 6 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Napoli è tornata a sparare? No, non ha mai smesso: si è solo spenta l'attenzione nazionale. Napoli, 31 dicembre 2015, piazza Calenda, pieno centro storico. Fai due passi e sei da Michele Condurro, la storica pizzeria di Forcella, quella con i tavolacci, sempre affollata di turisti fino a esaurimento pizze. Alle 19.30 entrano in un bar e iniziano a sparare. Muore Maikol Giuseppe Rossi, 27 anni, pregiudicato. Fine. Pregiudicato: non serve aggiungere altro. Questa definizione, purtroppo, ci tranquillizza: "Ah, era uno di loro....". E invece no. Rossi aveva precedenti per scippo, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, ma non era lui nel mirino dei killer che forse quella sera non avevano nemmeno un obiettivo preciso. Rossi è stato colpito per sbaglio. E per sbaglio è morto, la sera di San Silvestro, nel centro storico di Napoli. In una zona che in genere è piena di turisti (motivo di vanto per il sindaco De Magistris), ma dove quella sera non c'era nessuno, non una telecamera né forze dell'ordine (promesse dimenticate del presidente della Regione De Luca). Dopo l'omicidio pare che il proprietario del bar non abbia chiamato i carabinieri, ma semplicemente abbassato la saracinesca. Chiuso. Questa è Napoli. Sapevo di quest'omicidio prima che ne scrivessero i giornali, perché un amico, passando nella zona del Trianon in macchina, voleva fermarsi a prendere una bottiglia d'acqua per il figlio, ma la polizia aveva già transennato la piazza, e il bar era irraggiungibile. Mi ha scritto dicendomi che non era sorpreso, che queste cose possono capitare. Aveva visto un omicidio di camorra nel parco di fronte casa qualche anno prima, un sabato a mezzanotte. Poi la morte di un camorrista che aveva deciso di stabilirsi nel quartiere, uno di quelli che falsificavano assicurazioni, pianto come persona per bene: "Non ha mai accis'a' nisciun', era una persona per bene". A Napoli si fanno gli scongiuri, si spera sempre di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mi chiedo come faccia la città ad accettare tutto questo. Il 30 gennaio viene ucciso a Ponticelli Mario Volpicelli, l'uomo che gestiva un negozio "tutto a 50 centesimi". La sua morte è quanto di più simile possa accadere a chiunque viva in un territorio in guerra. Finiti i Sarno, a Ponticelli ci si spartisce il regno a colpi di tatuaggi che segnano l'appartenenza a due clan avversi: i D'Amico e i De Micco. Volpicelli era cognato dei Sarno e parente dei De Micco, questo è bastato per essere condannato a morte. Questo basta per essere nella lista nera della faida: ogni faida ne ha una, vi sono scritti i nomi di parenti anche lontani, l'obiettivo è sfidare l'avversario colpendo chi è indifeso; decimare il nemico partendo da chi non si sente in pericolo. Conoscete voi un vostro cugino di secondo grado? Il nipote del fidanzato del cugino di vostra moglie? In tempo di faida si è ucciso per questo. I cadaveri sono lettere che vengono spedite. L'obiettivo è terrorizzare. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, azioni dimostrative in tutta la città, dalla zona di Cavalleggeri d'Aosta a due passi dallo stadio San Paolo alla centralissima Materdei: bottiglie incendiarie e sventagliate di kalashnikov per avvertire, intimidire, annunciare rappresaglie. Il primo febbraio, una "paranza" di dieci ragazzi legati al clan D'Amico, armati fino ai denti sugli scooter, ha invaso e terrorizzato San Giovani a Teduccio: l'obiettivo era Raffaele Oliviero, vicino al clan Rinaldi-Reale. Se guardiamo le azioni di rappresaglia degli ultimi sei mesi, noteremo come la città sia coinvolta tutta, come nessuno possa dirsi al sicuro, e come arresti, processi e condanne, da soli, non abbiano alcun potere di fermare una guerra che va combattuta anche e soprattutto con altri strumenti. Non è possibile leggere questi dati e non comprendere quanto la politica, quella locale e soprattutto quella nazionale, abbia tragicamente fallito. Maggio 2015, Ponticelli: Ciro Rivieccio, 43 anni, pregiudicato, è ferito con tre colpi d'arma da fuoco. Nella stessa notte di giugno, un 23enne con precedenti penali è colpito alla coscia da un proiettile in via Pallonetto a Santa Lucia, luogo di spaccio, e un altro di 32 anni, neanche lui incensurato, è ferito alla gamba destra durante una sparatoria in via Sant'Anna di Palazzo (dove abitavo quando ancora ero a Napoli). E poi un 15enne ferito alle gambe nei Quartieri Spagnoli; era incensurato, ma era con un cugino con piccoli precedenti. E ancora, Soccavo: 46enne con precedenti penali raggiunto da proiettili mentre cammina per strada. Via Costa, quartiere San Lorenzo: feriti in una sparatoria tre minorenni a bordo di uno scooter. Il giorno dopo, e siamo a luglio, nella stessa strada colpi d'arma da fuoco contro un'abitazione al piano terra: è la risposta. A sparare, due ragazzi su un motorino. E poi le "stese" - le chiamano così - di luglio: baby camorristi che mirano a finestre e ad antenne paraboliche trasformando il centro storico in un poligono a cielo aperto. A Fuorigrotta un ragazzo di 21 anni viene raggiunto da un proiettile a una spalla. Si tratta forse di un episodio connesso alla guerra tra ex affiliati ai D'Ausilio, clan di Bagnoli in auge ai tempi della Nuova Mafia Flegrea. In centro, in via Salvator Rosa, un 24enne in scooter viene affiancato da altri ragazzi, anche loro in scooter, che gli sparano. Nella stessa notte, in vico Nocelle, un 25enne viene ferito da colpi di pistola. A Ponticelli, due ragazzi di 19 e 15 anni restano feriti in una sparatoria. Ad Afragola, un uomo di 50 anni con precedenti per estorsione e ricettazione viene colpito a una coscia da un proiettile. Ad agosto muore Luigi Galletta, il meccanico vittima della faida di Forcella, un ragazzo per bene, ucciso perché non voleva truccare i motorini della "paranza". E poi Roberto Rizzo, un ragazzo con piccoli precedenti penali, ferito da colpi di arma da fuoco mentre di notte era in strada con amici. Agli inizi di settembre un uomo con precedenti per droga viene ferito alla gamba da un colpo di arma da fuoco. Ha detto nell'immediato di avere solo avvertito un bruciore, di non essersi accorto dello sparo. E poi Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso in piazza San Vincenzo alla Sanità: i killer in sella a due moto sparano ovunque, il loro obiettivo è fare morti. Segue un raid agghiacciante al Rione Traiano: un numero imprecisato di ragazzi, armati fino ai denti, sparano ininterrottamente facendo esplodere anche una bomba carta. Sul selciato restano circa 60 bossoli di arma da fuoco tra cui quelli di un kalashnikov. E poi, di nuovo a Fuorigrotta, viene ferito Nicola Barbato, poliziotto impegnato nell'operazione antiracket. A ottobre la prima vittima eccellente è Annunziata D'Amico, detta Nunzia la Passilona, reggente dei D'Amico, condannata a morte dal clan nemico di Ponticelli. Poi Ciro Rosano, pregiudicato, ferito nel quartiere San Pietro a Patierno, mentre a Giugliano due persone in sella a una moto esplodono colpi d'arma da fuoco: nel mirino il figlio di un affiliato al clan Mallardo. A novembre a Capodimonte quattro uomini armati di pistole e a bordo di due moto seminano il terrore esplodendo colpi in aria. Un ragazzo di 22 anni viene gambizzato ad Acerra e due persone ferite a Miano. A dicembre, un uomo resta ferito in un agguato a Pianura, un altro ad Afragola. Il 25 gennaio in un agguato a Fuorigrotta viene ferito un 16enne. Poi c'è Giuseppe Calise, 24 anni, ucciso al rione don Guanella mentre il ministro Alfano era in prefettura a parlare della necessità di "far tacere le pistole". E nella notte ammazzano Pasquale Zito, 24 anni: suo zio era stato ucciso nel 2007. Dopo quest'omicidio, a Bagnoli diversi cittadini hanno dichiarato che "non usciremo di casa" rispettando una sorta di coprifuoco imposto dalla faida. Ecco: il catalogo della violenza è questo. E probabilmente è incompleto. Sulla stampa nazionale se ne parla solo quando a morire sono minorenni o incensurati. Gli altri agguati sono cancellati, derubricati a normale amministrazione. Qui la normale amministrazione è una guerra quotidiana legata alla droga e nutrita di omertà, combattuta da centauri non ancora maggiorenni. Ho parlato a lungo con il capo della squadra mobile di Napoli: Fausto Lamparelli conferma che si tratta di ragazzi "giovanissimi, disposti a tutto. Sanno di poter ottenere nel breve periodo potere e soldi pagati poi con la vita o l'ergastolo. Qui non si può procedere solo con l'attività di polizia giudiziaria, noi facciamo la nostra parte, ma la camorra va combattuta con lavoro, impegno, investimento. Cose facili a dirsi, ma difficilissime a realizzarsi". Certo, se ammettessimo che si tratta di un territorio in guerra, capiremmo come non basta affatto avere ex magistrati alla presidenza del Senato, a capo dell'Autorità anticorruzione, alla guida della città per pensare che tutto quello che si più fare lo si sta già facendo. Non basta. Dobbiamo smettere di trattare Napoli come una città normale. Non lo è: i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun'altra città italiana. La politica locale sta mostrando il volto peggiore nell'imminenza del voto. E il territorio è abbandonato, nelle mani dei nuovi capi, ragazzini che contano molto più dei rappresentanti politici. Intere aree della Campania sono nelle loro mani, le abbiamo irrimediabilmente perse, e ancora la politica nazionale pretende di fare campagna elettorale fingendo di non vedere. Mi chiedo perché la città non si ribelli: non si è stancata di valere qualcosa solo sotto elezioni e meno di niente a giochi fatti? Dovremmo pretendere che la nostra città torni a noi. Smettiamo di pensare che l'unico modo che abbiamo per viverci è farlo con un ideologico amore struggente: "Napoli è meravigliosa, chi parla di faide la sta insultando. Questa è romantica omertà che ha come unica conseguenza la rassegnazione. L'Italia sta morendo, lentamente, silenziosamente, e la ripresa non potrà esserci se metà del suo territorio è completamente fuori gioco perché mancano infrastrutture, investimenti e per di più è prigioniera del potere dei clan in guerra. Pubblicavo Gomorra dieci anni fa, i magistrati che ora il governo utilizza per darsi un Dna antimafioso dissero che era un libro importante non solo per quello che avevo scritto, ma perché avevo ricostruito un quadro d'insieme che mancava e, soprattutto, perché finalmente aveva portato attenzione. Dopo dieci anni, di quell'attenzione non è rimasto nulla.
L’affittopoli napoletana finisce in Procura. Aperta un’inchiesta sul patrimonio pubblico. Da anni partiti politici ma anche associazioni occupano immobili pubblici senza pagare il canone d'affitto. La denuncia partita da un'inchiesta giornalistica è arrivata in comune e poi sul tavolo dei magistrati, scrive Vincenzo Iurillo il 3 settembre 2011 su "Il Fatto Quotidiano". Il caso è approdato sulla scrivania del pm di Napoli Ettore La Ragione, della sezione reati contro la pubblica amministrazione guidata dall’aggiunto Francesco Greco. Non poteva essere altrimenti, perché la vicenda è quella dei 31 casi della Affittopoli politica partenopea scoperchiata dal cronista Ciro Crescentini: partiti di tutti gli schieramenti che per anni non hanno pagato i canoni di locazione di appartamenti e locali di proprietà del Comune di Napoli, fino ad accumulare un debito complessivo di oltre un milione di euro, come denunciato dall’assessore al Patrimonio della giunta de Magistris, il dipietrista Bernardino Tuccillo. Il pm La Ragione infatti ha già in corso da quasi due anni un’inchiesta sulla gestione complessiva del patrimonio pubblico napoletano. Quindi ha di fronte a sé due strade: aprire un fascicolo stralcio, oppure far confluire la documentazione dei fitti ai partiti in quello già istruito. In ogni caso, la Procura ha deciso di procedere con approfondimenti e accertamenti per verificare se siano stati commessi reati. Nei prossimi giorni il sostituto procuratore disporrà l’acquisizione formale di atti, delibere, contratti di affitto, e la convocazione dei rappresentanti legali dei partiti che hanno aperto le sedi negli immobili comunali senza pagare un euro o corrispondendo affitti irrisori. Si cercherà di capire attraverso quali criteri case, negozi e locali del Comune di Napoli siano stati assegnati e perché questo andazzo sia durato per anni senza che nessuno sia intervenuto per avviare le procedure di sfratto o per tentare di riscuotere i crediti. Dal tono irritato e dalle numerose smentite pervenute in questi giorni da parte di alcuni esponenti politici, si vuole infine verificare se questi immobili, ufficialmente assegnati alle forze politiche, non siano in realtà finiti in subaffitto. Su questa ipotesi lavora l’assessore al Patrimonio. L’inchiesta madre nacque nel 2010, dopo la decisione dell’amministrazione Iervolino di vendere gli immobili più prestigiosi del Comune di Napoli per fare cassa. Le indagini della magistratura stanno affrontando anche il contenzioso in corso con la ‘Romeo’, la società che ha in concessione la gestione del patrimonio immobiliare napoletano. La Romeo vanta oltre 40 milioni di credito dal Comune. E’ in corso un giudizio, con l’amministrazione che si oppone e contrattacca lamentando presunte inadempienze. Il contenzioso tra la ‘Romeo’ e il Comune ha reso ancora più difficili i controlli dell’amministrazione comunale sui casi di morosità. Ed è anche per questo che l’assessore pare disponibile a un accordo transattivo che preveda un miglioramento dei servizi, la riscrittura e il rinnovo del contratto, in scadenza nel 2012.
Otto mesi di carcere al magistrato Luigi Bobbio: diffamò Carlo Giuliani, scrive "Articolo 3" il 28 gennaio 2016. Aveva offeso su Facebook la memoria di Carlo Giuliani definendolo "feccia" e "teppista". Querelato dai genitori del 23enne rimasto ucciso a Genova il 20 luglio del 2001, durante la manifestazione contro il G8, il magistrato Luigi Bobbio è stato riconosciuto colpevole di diffamazione aggravata condannato a otto mesi di reclusione (con sospensione della pena) e una provvisionale (somma di denaro stabilita dal giudice per la parte danneggiata) di cinquemila euro ciascuno ai genitori di Giuliani, più un risarcimento di danni da stabilire in separata sede. La sentenza è stata emessa dal giudice monocratico Procolo Ascolese, del Tribunale di Torre Annunziata, che ha accolto le richieste del pubblico ministero Mariangela Magariello e delle parti civili rappresentate dagli avvocati Gilberto Pagani e Liana Nesta. Attualmente giudice civile al Tribunale di Nocera, Bobbio è stato attivo in politica per lunghi anni: già esponente di Alleanza nazionale, senatore e capo di gabinetto del ministro Meloni, poi consigliere comunale a San Giuseppe Vesuviano e sindaco di Castellammare di Stabia. Chiusa la lunga parentesi politica, è poi tornato in magistratura. Luigi Bobbio aveva definito Carlo Giuliani “feccia di strada”. Ora il giudice (ed ex politico) è stato condannato per aver offeso la memoria del ragazzo morto durante il G8 di Genova nel 2001. Bobbio aveva insultato Giuliani in un post su Facebook ed è stato condannato a otto mesi. Attualmente è giudice civile al tribunale di Nocera Inferiore.
Scrive Dario Sautto sul Mattino: il giudice Procolo Ascolese del tribunale di Torre Annunziata ha ritenuto offensiva una sua frase pubblicata sul profilo pubblico di Facebook «Luigi Bobbio Due», da lui gestito secondo l’accusa rappresentata dalla pm Mariangela Magariello. «Giuliani era una feccia di teppista di strada» è la frase comparsa sul social network dell’ex primo cittadino stabiese il 28 luglio del 2014. Un’affermazione segnalata ad un comitato e poi ad Adelaide Gaggio e Giuliano Giuliani, i genitori del 23enne, morto durante gli scontri del G8 di Genova nei pressi della stazione Brignole alle 17:27 del 20 luglio del 2001. Di lì la decisione dei coniugi Giuliani di sporgere querela, la costituzione di parte civile affidata ai legali Gilberto Pagani e Liana Nesta, e oggi la sentenza contro Bobbio: 8 mesi di reclusione, pena sospesa, provvisionale da 5mila euro e risarcimento dei danni da stabilire in separata sede.
Aggiunge Fabrizio Geremicca sul Corriere del Mezzogiorno: “Siamo molto soddisfatti di questa sentenza – commenta l’avvocato Nesta”. Aggiunge: “Durante il dibattimento il legale di Bobbio ha provato a sostenere che il profilo dal quale furono lanciati gli insulti fosse stato clonato, che a scrivere quelle parole non fosse stato l’ex senatore. Tentativo non riuscito, anche perché sarebbe stato ben strano che un magistrato, se davvero avesse subito un furto di identità informatica, non avesse presentato un esposto, una denuncia”. Non è la prima volta che i genitori del ragazzo genovese ucciso 14 anni fa sono costretti a rivolgersi ad un tribunale, per tutelare la memoria del figlio. Lo avevano già fatto con Alessandro Sallusti, il direttore de Il Giornale, che versò 35.000 euro per evitare il processo. La somma è stata poi devoluta all’ambulatorio di Emergency a Ponticelli.
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
Ma per i poveri cristi meridionali questo non è voto si scambio mafioso? Bologna - Per Affittopoli, "Il Tempo Passa. La Prescrizione Avanza", scrive l'11 novembre 2008 l'agenzia "Dire". Torna l'ombra di "Affittopoli" su Bologna. Questa volta per mano degli Amici di Beppe Grillo che rispolverano l'affaire che portò alle dimissioni dell'assessore comunale alla Casa di allora Antonio Amorosi, il grande accusatore dei clientelismi. Promettono che domani sera proietteranno tutta la documentazione raccolta in un incontro a cui sono invitati il sindaco Sergio Cofferati, l'ex sindaco Giorgio Guazzaloca (entrambi non hanno ancora risposto), Amorosi e il presidente dell'Acer bolognese Enrico Rizzo (che invece ha già declinato l'invito). Ma chiederanno anche conto alla Procura di Bologna del procedere "lento" dell'indagine (a giugno 2009 i reati ipotizzati d'abuso d'ufficio andranno in prescrizione), con una richiesta di ispezione e verifica al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Al tempo stesso denunciano un conflitto d'interesse del presidente Rizzo... "Perchè la Procura non ha proceduto nel 2004? - chiede Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità durate una conferenza stampa - e alla Corte dei conti è arrivata la denuncia nel 2008?". E ancora: "Perchè lasciare fermo tutto e poi allargare le braccia di fronte all'abuso d'ufficio che va in prescrizione dopo cinque anni?". Il Csm "deve provvedere - dice Abbondanza, che invierà una richiesta ad hoc - e procedere a verifiche". In piazza Trento e Trieste "ci possono essere tanti problemi: quello dell'organico o un procuratore capo che bloccale inchieste, ma non spetta a noi giudicare". I tempi della prescrizione intanto vanno avanti. "A giugno dell'anno prossimo-fa notare Agnese Ferrero- va in prescrizione tutto". Comunque da domani sera, sarà "tutto pubblico - dice il presidente della Casa della legalità - dalle lettere di consiglieri che indicano chi ha il diritto all'emergenza abitativa e chi no". Coinvolti? "Tutti gli assessori dal 1986 ad oggi e tutti i consiglieri della commissione casa fino a che non è stata sciolta". Vent'anni, insomma. E, sottolinea Abbondanza, "se sono morti in 19 nei primi posti della graduatoria in due anni, in attesa della casa, figuriamoci in tutto quel periodo". E non ha ancora pagato nessuno, afferma il Meet Up, c'è una richiesta di archiviazione, ma l'inchiesta non è stata archiviata. Solo "un amministratore comunale è stato condannato in primo grado ma poi il reato è caduto in prescrizione". Per i grillini dunque a Sotto le Due Torri si è agito nell'illegalità più totale (come diceva Amorosi). A partire dal fatto, dice Abbondanza, che "la legge proibisce che siano i politici a gestire le assegnazioni". La commissione casa di Palazzo d'Accursio, denunciata anche in video su youtube, è composta dai consiglieri Valerio Monteventi, Niccolò Rocco di Torrepadula, Sabrina Sabattini, Francesco Osti e Claudio Merighi. Nel filmato si leggono anche le firme in calce al documento: Franco Morelli e Stefano Noli, responsabile dell'ufficio casa.
Virus - Il contagio delle idee. Puntata 11 febbraio 2016, 22:25. In studio c'è Antonio Amorosi: "Mi hanno eletto assessore della casa a Bologna. Durante il primo giorno di lavoro, un uomo ha minacciato di darsi fuoco perchè veniva sempre sorpassato in graduatoria. Sono andato all'ufficio casa e ho scoperto le assegnazioni "politiche" delle case. Così le altre persone venivano sorpassate in graduatoria. Il sindaco Cofferati, all'epoca, non fece nulla. Ho portato tutto alla procura della Repubblica. Dopo un anno, tutto è stato archiviato".
Assessore alla Casa, primo giorno il contatto con un cittadino che dopo una colluttazione con i vigili si presenta davanti a me e mi piazza due bottiglie di benzina sul tavolo e un accendino il mano e mi dice "se lei non mi spiega perchè io vengo scavalcato da 5 anni quando io sono nei primi 5 posti delle graduatorie io mi dò fuoco davanti a lei". Io ho chiamato i dirigenti. I dirigenti mi han spiegato che questa persona era in graduatoria che poteva stare tranquillo che entro un paio di settimane avrebbe avuto la casa. Quindi il problema era risolto, però ho aperto l'assessorato, essendo un cittadino comune, e ho cominciato ad incontrare persone. Persone in grave difficoltà, anziani soli che dormivano in macchina per strada con redditi inesistenti, famiglie disagiate, anziani con la bombola di ossigeno, persone che volevano suicidarsi. Però aumentavano quelli che mi dicevano: "Ma lei mi faccia, anche persone che poi non erano in queste condizioni, ma lei mi faccia una firmetta e poi mi assegna la casa. Lo può fare. C'è la Commissione". Io dicevo, mah, che Commissione? "C'è una Commissione che lei presiede che dà gli alloggi. Lei non lo sa, lei è giovane". Ma guardi che un politico non può dare alloggi. E questi mi dicevano; "No! Lei non ha capito". Ad un certo punto quando son diventati 10, 20, 30, 50 persone sono andato all'ufficio casa e all'ufficio casa, dopo le mie insistenze, una funzionaria si è messa a piangere e mi ha fatto vedere una parete, un armadio. Bologna civilissima nella sua capacità di coprire. Nell'armadio c'erano le assegnazioni politiche dal 1986 fino al 2004. Le assegnazioni politiche che il comune faceva. Esisteva una Commissione che dovevo presiedere io, che presiedeva l'assessore con tutti i consiglieri comunali di maggioranza ed opposizione. Uno per partito con nome del partito e consigliere comunale. IL consigliere comunale assegnava su sua discrezione, usando una parolina fantastica che è "L'Emergenza" a chi lui credeva possibile e quindi scavalcavano queste persole quelle che erano in graduatoria. Nell'armadio c'erano le schede annuali. Ogni anno c'erano 100, 150 assegnazioni fatte in questo modo, quando erano la metà delle assegnazione che il Comune riusciva a fare. Ovviamente il Comune non aveva una mappatura di dove erano le case, chi era dentro le case, a che titolo stavano dentro le case. Quindi noi abbiamo immediatamente cercato di capire qual era la situazione. Quindi abbiamo trovato persone che abitavano nelle case del comune con redditi a 140.000 euro, 500.000 euro di patrimonio. Affitti a 39 euro, 50 euro. Quindi, io tutti i giorni avevo queste persone. Io ero l'assessore, ma non vuol dire che il politico partecipa, comunque, a queste cose. (Nell'assegnazione) c'era il nome del consigliere comunale. Per esempio l'assessore che era venuto prima di me, che poi era anche un civico, assegnavo una casa ad una signora, una pittrice lettone e scriveva nel verbale "poichè esalta i rapporti tra Lettonia ed Italia". Cosa aveva fatto questa signora che non ha. Cosa aveva fatto questa signora. La signora aveva eseguito un quadro con un quarto di manzo del Sindaco. Perchè il Sindaco era Guazzaloca ed era stato un macellaio e quindi per esaltare questa figura, e quindi la signora non aveva la dichiarazione dei redditi e c'era scritto: "e che importa, la porterà la prossima volta". C'era scritto nel faldone, nella relazione. Cioè, prima di votare, una settimana prima del voto del 2004 sono arrivate una valanga di assegnazioni di emergenza: 54. E nel Comune di Bologna sono tante. Perchè Bologna è un quartiere di Roma. E' piccola. Tutte emergenze. Tutte assegnate. Perchè in Italia. Poi c'era la maga. La famosa maga di Bologna. Era una ex consigliera di quartiere del PCI che si era autoassegnata l'alloggio. Lei poi era diventata chiromante. Il Comune aveva avuto un contenzioso, quindi tutto chiara. L'Ufficio Legale doveva sgomberarla, mandarla via. Erano 20 anni che ci provava. Ma nessuno firmava l'atto di sgombero della signora, perchè ad un certo punto i legali hanno detto. "Guardi che la signora ogni volta viene qui, ci minaccia con degli anatemi astrali". Il problema era che era tutto scritto. Io ho fatto prima un'altra cosa. Pensando di avere la verità rivelata dentro di me sono andato all'Ufficio Legale, all'Ufficio contenzioso del Comune di Bologna e gli ho chiesto "scusate, ma come è possibile una cosa del genere?" Perchè un politico non può assegnare case ai cittadini. E lo mi hanno detto: "Effettivamente lei ha ragione. E' tutto illegale". Allora ho chiesto ma, questo per iscritto, c'è stato uno scambio per iscritto, non verbale. Ok, mi spiegate perchè è illegale? Allora mi hanno fatto una lista di leggi aggirate, ma di tutti i tipi, dicendomi "nessuno ci ha chiesto". Vado prima da Cofferati, il Sindaco che mi aveva dato la delega dicendogli "qui c'è una situazione gravissima". Lui mi ha detto "Sì, effettivamente" - dopo aver guardato i documenti - "dobbiamo fare una campagna sulla legalità". Non ha fatto nulla. Ha fatto una campagna sulla legalità che era quella sui lavavetri, contro i poveracci che dormivano sul lungo Reva. E questo gli ha permesso di andare in TV. Io ho visto che la situazione era seria, perchè io in 6 mesi ho cercato e recuperato queste persone che avevano questi redditi abnormi: 550 persone in 6 mesi. Abbiamo fatto delle operazioni, perchè si può fare. Io ho detto no. Guardate io torno alla mia vita. Questa Giunta non è una Giunta seria e voi non fate le cose serie, arrivederci. Porto, perchè ero un pubblico ufficiale, tutto alla Procura della Repubblica e la Procura della Repubblica mi dice "noi indagheremo, verificheremo, ecc.". Dopo un anno archiviano, riconoscendo tutti i miei rilievi, erano tutti fondati. Lo mettono tutto per iscritto. Ma dicono lo stesso che avevano indagato per abuso di Ufficio ma non i politici, ma due assegnatari delle case. Poi, dopo del tempo, quando il Procuratore Capo è andato in pensione, ha spiegato questo rapporto che esiste in Emilia, a Bologna. Ed ha messo anche questo per iscritto con una intervista con un bravissimo giornalista, dove lui dive che il rapporto tra istituzioni è un rapporto che deve stare in armonia. Non esiste una separazione dei Poteri in Emilia, ma una distinzione dei poteri. Quindi, quando accade qualcosa, lui dava una lettera alle Pubbliche Amministrazioni. Poi ho scoperto che non mandava alcuna lettera, mandava solo decreti di archiviazione. Ma la cosa più bella è che diceva "noi dobbiamo risolvere i problemi, per quello che non c'è separazione dei Poteri. Il cittadino non può aspettare 10 anni, perchè poi il cittadino dà ragione a Berlusconi. Quindi la Magistratura perde e Berlusconi risolve". Io Faccio il giornalista.
PARLIAMO DEL LAZIO.
…DI ROMA. Soldi e casa pagata al commissario. Le infiltrazioni dei clan nella polizia. Arrestato il dirigente Antonio Franco: soffiate per evitare controlli nelle sale giochi, scrive Giovanni Bianconi il 29 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Stavolta il reato contestato non è mafia ma corruzione, solo che ad essere arrestato è l’ex dirigente del commissariato di polizia di Ostia, che secondo il giudice non poteva non rendersi conto del contesto mafioso in cui operava. E nel quale ha «venduto la propria funzione» a un personaggio considerato vicino prima ad esponenti della banda della Magliana e poi del clan Spada: una fetta importante della criminalità organizzata del litorale romano che, al di là della «qualità giuridica» dei reati, si muove tra intimidazioni, condizionamenti e traffici finiti da quattro anni nel mirino di inquirenti e investigatori. Il commissario di polizia Antonio Franco incassava «utilità» e giocava «alle macchinette» dei video-poker (forse truccate, per favorire le vincite) nei locali gestiti dal suo amico Mauro Carfagna, a sua volta legato a un giovane esponente degli Spada, in cambio di informazioni riservate utili a tenerlo lontano da controlli e guai giudiziari. «Riciclaggi e autoriciclaggi sintomi di mafiosità» Questa la tesi del pubblico ministero Mario Palazzi e del procuratore aggiunto Michele Prestipino che, a prescindere dal capo d’imputazione, torna a sottolineare l’aria di mafia che si respira insieme a quella del mare alle porte di Roma. Di cui, nella ricostruzione della giudice Simonetta D’Alessandro che l’ha mandato agli arresti domiciliari, il commissario Franco avrebbe approfittato attraverso una frequentazione «gravemente inopportuna, sospetta e finanche larvatamente solidale». Relazioni pericolose in un contesto di «riciclaggi e autoriciclaggi sintomi di mafiosità», espressione di «un evidente legame corruttivo». A maggio la corte d’appello ha annullato le condanne per associazione mafiosa pronunciate in primo grado contro l’altra famiglia della malavita di Ostia, i Fasciani, sebbene nel frattempo la corte di cassazione avesse confermato (nello spezzone di processo celebrato con il rito abbreviato) la bontà di quell’accusa. Subito dopo Carmine Spada era stato condannato per estorsione «aggravata dal metodo mafioso», e solo pochi giorni fa all’imprenditore del luogo Mauro Balini sono stati sequestrati beni per 450 milioni di euro a causa dei presunti legami con un noto narcotrafficante, nonché opacità imprenditoriali legate al porto di Ostia e altre attività; il suo nome è comparso anche nell’inchiesta sul «Mondo di mezzo» di Buzzi e Carminati per i rapporti con Luca Gramazio, l’ex consigliere regionale ritenuto un «terminale politico» della ipotizzata associazione mafiosa. Adesso ecco il nuovo capitolo del poliziotto «a libro paga», secondo uno dei canovacci più classici del crimine che trova appoggi nelle istituzioni: l’affitto di una casa in cui s’incontrava con un’amica come corrispettivo per le «soffiate» utili a salvaguardare l’amico gestore di sale giochi, presunto «socio occulto» degli Spada e forse riciclatore del clan. Senza accorgersi però di essere sotto controllo da parte dei suoi colleghi della Squadra Mobile di Roma, che ne intercettavano incontri e telefonate. L’11 gennaio scorso, quando già era stato trasferito per un’altra indagine a suo carico, Franco avvertì Carfagna mentre i poliziotti stavano andando a fare un controllo in uno dei locali: «Stanno a venì là... Stanno in borghese... Metti il cartello “bar in allestimento” e spegni i televisori». «Tutto un teorema... una massa de stronzi». Carfagna si mosse immediatamente, ma gli agenti erano già lì e stavano identificando, tra i presenti, proprio Ottavio Spada. Al che Carfagna richiamò Franco: «Fallo lascià perde». Poi dal bar lo rassicurarono: «Lo hanno mandato via, non gli hanno fatto niente...». Pochi giorni dopo, a fronte di uno sfratto esecutivo in un altro locale di Carfagna, il commissario telefonò a un’assistente amministrativa: «Domani ci dovrebbe essere uno sfratto di un amico mio... non dovremmo farlo... una sala giochi ...». A cose fatte fu Carfagna a chiamare il poliziotto: niente sfratto, «per assenza della forza pubblica». Scene di ordinaria corruzione in un ambiente dove la mafia è ammessa da una sentenza e smentita da un’altra, salutata con giubilo (quest’ultima) dal commissario finito agli arresti. «Che spettacolo, capito? È decaduta la mafiosità, otto assoluzioni su diciotto, sai che vuol dire?», lo informò l’amica. E il poliziotto: «Tutto un teorema... una massa de stronzi, questa è la verità».
Rifiuti, Panzironi a Muraro: "Faccio una società, pronto ad assumerti". La telefonata tra l'assessora e l'ex ad di Ama coinvolto in Mafia capitale. Ma il direttorio M5S la blinda, scrivono Federica Angeli e Francesco Salvatore l'8 agosto 2016 su “La Repubblica". Paola Muraro (ansa)Tra stipendio raddoppiato e incarichi, l'asse Muraro-Panzironi è ormai un dato di fatto. Un'alleanza consolidata negli anni con l'attuale assessora all'Ambiente in cui "Franco" (così lo chiamava il ras delle coop Buzzi) era ai vertici Ama, e proseguita anche quando fu sostituito da Giovanni Fiscon. Ed è proprio dalla scrivania di un'altra azienda del Comune, la Roma Multiservizi, che Panzironi continua a dare incarichi alla storica consulente della municipalizzata e a confrontarsi con lei su come spendere soldi. A lei affida, ad esempio, la gestione dell'apertura di un impianto a Trento. È lei che va dal legale dell'imprenditore dell'impianto di smaltimento rifiuti che aprirà a Trento: consulenze extra dunque, a spese di Ama. Così, con una mano, Franco aiutava Cerroni e le cooperative di Buzzi e Carminati, motivo per cui ora è uno degli imputati del maxiprocesso sulla mafia romana, dall'altra proseguiva nella gestione della partita rifiuti potendo contare sull'attuale assessora sui cui rapporti con il re delle discariche ora sta indagando il pm Alberto Galanti, da due mesi arruolato nel pool dell'Antimafia. Nonostante lo stillicidio di episodi non penalmente rilevanti ma politicamente scomodi, però, il direttorio del Movimento 5Stelle continua a blindare l'assessora. Il commissario accetterà. Il 24 ottobre del 2013 Panzironi contatta l'ex consulente Ama e le chiede se ha incontrato il Commissario che dovrebbe dare l'ok per l'impianto da fare a Trento e da affidare all'imprenditore Alessandro Falez, della società "Gemma". "La donna dice di sì - scrivono i carabinieri della II sezione del Ros - e gli dice: "Abbiamo riguardato i suoi poteri e lui ha effettivamente un percorso privilegiato per impianti che trattano frazione organica da raccolta differenziata". Aggiungendo che "sulla raccolta differenziata dell'organico "lui" agevola (verosimilmente il Commissario, ndr)". Conclude infine dicendo che la cosa è positiva e a quell'incontro dovrebbe esserci, in via informale, anche Fiscon. I 50 milioni della Regione. Il giorno successivo "Panzironi dice alla Muraro che le ha inviato dei riferimenti perché sono usciti dei fondi stanziati dalla Regione pari a 50 milioni e vedere se possono essere utilizzati". La regione è il Trentino Alto Adige e l'ex ad Ama ha fiutato un affare. A lei si chiedono lumi su come poterli gestire. "Ti assumo io". Siamo al 6 novembre quando "Paola Muraro e Franco Panzironi parlano del progetto sull'impianto di trattamento rifiuti (di Trento) - questo si legge nell'ordinanza di Mafia capitale - Panzironi riferisce che sarà l'amministratore delegato della società che gestirà l'impianto e prospetta alla donna la possibilità di assumerla in qualità di tecnico all'interno della nascitura società". Gli incontri per l'impianto. A gestire tutta la partita per conto di Panzironi è proprio la Muraro. Che l'8 novembre, dopo aver presenziato a un incontro nello studio del legale di Falez in via della Conciliazione a Roma è pronta a partire per il Trentino. "Muraro dice a Franco che ha fatto "quella verifica" alla Provincia di Trento e che è "una bella soluzione". Lo informa anche di aver fatto l'incontro con la figlia dell'imprenditore Falez e hanno parlato con il costruttore per andare a vedere. Lei andrà a Trento il successivo 14 o 15 novembre".
«Scusi lei è garantista?» «Oggi no: forse domani sera...», scrive Piero Sansonetti il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. Scusi, ma le oggi è garantista? «No, mi spiace, oggi son forcaiolo, ripassi domani, per favore». E’ esattamente così, nella politica italiana. Se escludiamo un minuscolo drappello di garantisti veri (in Parlamento saranno quattro o cinque tra destra e sinistra...) tutti gli altri vanno “a ore”. Garantisti granitici a favore dei propri amici, distributori di manette e gogne per gli avversari. Il cambio di casacca può avvenire anche nel giro di 24 ore e in casi eccezionali persino nella stessa giornata. Non solo l’aula del parlamento pullula di parlamentari pronti a votare a favore dell’arresto di qualunque collega dello schieramento opposto - senza neppure un briciolo di senso dell’umanità, né, naturalmente, della legalità - non solo trovi centinaia di esponenti politici che tuonano contro la giustizia spettacolo e poi chiedono abbondanti retate di piccoli spacciatori o immigrati illegali, o ladruncoli; ma ormai succede anche il contrario: forcaioli d’acciaio scattano come un sol uomo a difesa dei politici forcaioli, e gridano al complotto. L’altro ieri persino l’integerrimo Marco Travaglio ha speso un intero, lungo editoriale, furioso col “Corriere della Sera”, il quale aveva osato parlare di conflitto di interessi per l’assessora romana a 5 Stelle (la Muraro) che ha un contenzioso di svariate decine di miglia di euro (che lei vorrebbe riscuotere) con l’Ama, e cioè con l’azienda che ora entra sotto il suo controllo politico. Travaglio ha abbandonato anche lui la tradizionale intransigenza, e ha iniziato a chiedere “prove”. Un colpo di fulmine: la odiata e vituperata presunzione di innocenza - negata a tutti, specialmente a quelli del Pd - è tornata con baldanza alla ribalta a difesa della Muraro, oggetto del complotto della sinistra. Qualche settimana fa il dottor Graziano, segretario del Pd campano, per “il Fatto” era un camorrista (è stato prosciolto recentemente, con tante scuse: giusto il tempo di far tenere le elezioni regionali e mettere il Pd fuorigioco). Oggi invece il conflitto della Muraro non esiste e chi dice il contrario è un farabutto. Un tempo Travaglio scriveva che un politico deve dimettersi dinnanzi anche al più esile sospetto; oggi - intendiamoci: giustamente - chiede rispetto dell’innocenza presunta dell’assessora Muraro, anche in presenza delle registrazioni delle sue telefonate con Salvatore Buzzi, che fin qui i giornali hanno descritto come il capo della mafia romana. Bene: Travaglio ha ragione. E’ chiaro che ha ragione: la Muraro, a quanto ne sappiamo, è chiaramente in conflitto di interessi (ma questo si sapeva prima che fosse nominata) ma non ha commesso nessun reato, o almeno non risulta, e non è un reato aver parlato al telefono con Buzzi, che era semplicemente il capo di una cooperativa, e non risultava imputato di niente, tantomeno di associazione mafiosa (peraltro va detto che questa accusa è chiaramente assurda, anche se non bisogna dirlo). Travaglio ha ragione, e hanno ragione i grillini a difendere il diritto della Muraro a non dimettersi. Hanno torto quelli del Pd a chiederne le dimissioni. Così come ebbero torto i giornali romani, il “Corriere”, i grillini, Travaglio e tutta la santa alleanza che cacciò Marino dal Campidoglio per ragioni che non avevano nulla a che fare né con l’etica, né col diritto.
Però questa splendida alternanza tra garantismo e forche - che dimostra la fragilità, o forse l’inesistenza dei principi, e la strumentalità di tutte le battaglie - mette una grande tristezza. La stessa tristezza che ci ha colto l’altra sera, quando abbiamo visto e sentito manipoli di mazzieri accanirsi contro Antonio Caridi in lacrime.
Assessora M5S contro manager. «Va troppo spesso in Procura...», scrive Piero Sansonetti il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Roma, scontro aperto tra l'amministratore dell'Ama e la Muraro (in conflitto di interessi con l'azienda). E perché mai questa assessora ce l'ha con Fortini, fino al punto da accusarlo di essere un "delatore"? I maligni dicono che Fortini avesse deciso qualche mese fa, prima delle elezioni comunali, di chiudere il contratto che l'assessora in questione - cognome e nome: Muraro Anna - aveva proprio con l'Ama in qualità di consulente. Perché non la riteneva all'altezza. E che la Muraro si fosse molto arrabbiata, e avesse fatto causa all'Ama per avere svariate migliaia di euro (decine: molte decine di migliaia). Possibile? E cioè la sindaca Raggi avrebbe scelto per assessora una signora in conflitto di interesse palese col suo incarico? E l'assessora avrebbe chiesto soldi all'ente da lei controllato? Una enormità. Uno dice: beh, ormai bisogna abituarsi: il Pd è diventato così... Macché: qui stiamo parlando del Movimento 5 stelle, non del Pd! L'assessora Muraro è del movimento 5 stelle, il sindaco che l'ha incaricata è del movimento 5 stelle. Clamoroso. Vi immaginate cosa avrebbe potuto fare il Movimento 5 Stelle se l'assessora in così strepitoso conflitto di interessi fosse stata davvero una Renzi-girls? Cosa avrebbe scritto il "Fatto Quotidiano" che quando finì nei guai la ministra Guidi (per un fidanzamento sbagliato) fece fuoco e fiamme e scrisse che le dimissioni della ministra non bastavano? Invece la Muraro, per sua fortuna, è 5 Stelle e quindi se la cava abbastanza bene. Il sistema dei mass media non si accanisce mai troppo con i 5 Stelle. E trova che sia una cosa quasi naturale che l'assessora che governerà Ama sia stata per dodici anni una consulente dell'Ama, di alto livello (dice l'amministratore Fortini) e dunque largamente responsabile, ad occhio e croce (soprattutto se nel giudizio si volessero usare parametri grillini) dello sfascio della "nettezza urbana" (come si diceva una volta) a Roma. Consulente - penserete - con tariffe ragionevoli, a buon mercato. Macché! Ha preso più di un milione in dodici anni, che vuol dire che la consulenza le veniva pagata mediamente circa 90 mila euro all'anno. Caspita: alla Rai è successo un casino dell'altro mondo per i consulenti pagati 80 mila euro all'anno. «E' un furto, è un furto», gridavano tutti, politici, giornali, grillini... E nessuno si era accorto che all'Ama pagavano meglio. Ora tutta questa storia non sappiamo come si concluderà. Fortini sembra convinto che i 5 stelle vogliano resuscitare il vecchio Cerroni, il "re della monnezza" finito varie volte nei guai con la giustizia. E' giusto presumere, naturalmente, che Cerroni sia innocente, nonostante i processi e gli arresti. Succede spesso che gli indagati siano galantuomini e non vedo perché non dovrebbe essere così anche per Cerroni. Qui il problema però è il rovesciamento delle parti. Fortini, l'amministratore dell'Ama, che porta in procura dossier contro Cerroni e i 5 stelle che vanno fuori di testa per questa ragione. E dove è finito quel grido - onestà, onestà, onestà - che risuonò come un giuramento, al funerale di Casaleggio, e che estasiò l'intero fronte giustizialista? Si disse che quel grido era il passaggio di testimone tra il vecchio "moralismo" di Berlinguer e del vecchio Pci e il moderno movimento 5 Stelle. Però Berlinguer e il Pci innalzavano due bandiere, non una sola: Onestà e Lotta di Classe. Forse era sbagliato, forse era giusto, chissà: comunque era una strategia politica robusta. Il programma di sostanza era la giustizia sociale e l'onestà era un attributo. L'onestà, da sola - l'onestà del singolo - è una dote "sociale" in grado di cambiare le cose? Direi di no. E ora forse, se ne accorgono anche i grillini. Roma, in neanche un mese, ha già mandato all'aria la strategia dei 5 Stelle: la sindaca coinvolta in quella storia di consulenze non dichiarate (affidate a lei, quando era consigliere comunale, dalla sindaca 5 stelle di un'altra città), l'assessora travolta dal conflitto di interessi, e per di più il dramma di una città ormai sommersa dalla spazzatura. Sarebbe assurdo pensare che l'eccesso di spazzatura sia colpa dei grillini che hanno preso il Campidoglio da poche settimane. Non è però assurdo chiedere loro: come vi sareste comportati se fosse toccato ad una giunta di sinistra, o di destra, e non a una giunta grillina, di dover affrontare uno scandalo di questo genere?
"Trucchi su appalti e acquisti per favorire i soliti noti". Cantone, dossier sul crac Atac. L’Autorità anticorruzione trasmette ai pm le carte sull’azienda dei trasporti capitolina. Anomalie e sprechi nelle gare e nelle consulenze, aggirate anche le norme Ue, scrive Liana Milella il 4 agosto 2016 su “La Repubblica”. Le gare pubbliche, nel segno della concorrenza e della trasparenza, non sono di casa all’Atac, la municipalizzata dei trasporti che fa dannare i romani. Meglio ricorrere alle “procedure negoziate”, che è come dire scegliere chi gli pare per qualsiasi lavoro, ricambi, forniture. Perfino per le consulenze legali, quando pure ci sono gli avvocati in casa e invece si ricorre inopinatamente agli esterni. A certificarlo definitivamente, dopo un’indagine puntigliosa durata quasi dieci mesi, è l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Il quale mette la firma su un doppio dossier che da ieri è stato spedito ed è in bella evidenza sulla scrivania del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo omologo alla Corte dei Conti. Come più volte ha documentato Repubblica in questi mesi raccontando il malaffare dell’Atac, le carte di Cantone sono l’ultima e pesante denuncia contro un’azienda dove i comportamenti anomali, che sforano nell’illegalità, sono di casa. Sempre alla procura si sono già rivolti l’ex assessore ai Trasporti del Comune di Roma Stefano Esposito e il direttore generale dell’azienda Marco Rettinghieri. A questo punto, dopo l’ulteriore timbro di Cantone, non resta che attendere le conclusioni della magistratura. Cinque anni di gare, dal 2011 al 2015, che abbracciano (pressoché a metà) anni della giunta di Gianni Alemanno e di Ignazio Marino. Acquisti di ricambi, di forniture, lavori e servizi vari. Un importo complessivo che supera i due miliardi di euro. Per il 95,4% — come ammette la stessa Atac nelle controdeduzioni a Cantone — ricorrendo sempre alle “procedure negoziate”. Nessuna gara pubblica, solo la diffusione online, il cosiddetto e-procurement, che a detta di Atac garantisce «un larghissimo coinvolgimento degli operatori economici»), ma che per l’Autorità anticorruzione è del tutto insufficiente, «è un mero strumento che le stazioni appaltanti possono utilizzare per la gestione delle gare», ma di certo non mette al riparo l’azienda dal mancato rispetto delle regole sui contratti pubblici. È il trucco che Atac utilizza per evitare le gare e gli inviti a un’ampia platea di concorrenti. Anziché un solo appalto, eccone tanti spezzettati, quello che gli uffici di Cantone definiscono «un artificioso frazionamento degli acquisti e il conseguente utilizzo di procedure che non garantiscono adeguata pubblicità e competitività». Atac non si adegua neppure alle disposizioni Ue «sull’acquisto di beni che rientrino nella medesima categoria merceologica». Le aggira andando oltre il 95%. Lo scandalo dell’acquisto dei ricambi emerge con nettezza dalla relazione di Cantone. «Atac, se pur con un trend decrescente dal 2011 al 2015, ha annualmente affidato migliaia di procedure negoziate, per importi complessivi annui ben superiori alla soglia comunitaria». La verifica effettuata sulle differenti categorie di ricambi allinea 5.400 affidamenti per 27 milioni di euro nel 2011 e 40 per 3,3 milioni nel 2015. Nel dossier inviato alla procura di Roma Cantone sottolinea come dall’esame «sia emerso un grado di accentramento degli acquisti tra poche imprese». Il dato è del tutto dirompente: nei cinque anni presi in esame «quattro operatori economici si sono aggiudicati circa il 30% del valore economico di tutti gli acquisti di Atac». Con tre precisazioni tra dicembre 2015 e aprile 2016 l’Atac cerca di controbattere alle accuse di Cantone che boccia la municipalizzata anche nelle gare per la manutenzione dei software aziendali, affidati alla stessa azienda che ha fornito l’impianto originario perché «non sarebbe possibile fare altrimenti». Complessivamente un’operazione non vantaggiosa, rispetto alla quale Atac «avrebbe dovuto considerare non solo i costi immediati dell’acquisto, ma avere come riferimento l’intera vita del prodotto, che include manutenzione e aggiornamento». Le proroghe illimitate «hanno vincolato Atac per un numero indefinito di anni con la rinuncia ai benefici che sarebbero potuti derivare dal progresso tecnico». La proroga, che secondo Cantone «è un istituto utilizzabile solo in via eccezionale» è divenuto invece per Atac abitudinaria modalità di affidamento delle gare. Sempre negli stessi anni 2011-2015 l’Atac ha violato le regole anche nell’uso di avvocati esterni quando pur poteva contare su professionisti regolarmente assunti senza incorrere in spese ulteriori. Alcune cifre: nel solo 2013, secondo il dossier di Cantone, sempre ricorrendo ad affidamenti diretti e senza svolgere alcun avviso pubblico e conseguente gara con almeno cinque concorrenti, l’Atac ha fatto 16 contratti per oltre 345mila euro. Nessuna gara per altri 8 contratti, sempre nel 2013, per 207mila euro, né nel 2014 (un contratto per 3.120 euro). Peraltro i riscontri dell’Autorità anticorruzione sulle note di Atac svelano delle discrasie. Un contratto da 20mila euro risulta di 49mila, uno di 26mila sarebbe di 74mila, uno di 6mila sarebbe di 36mila. Toccherà adesso alla procura di Roma e a quella della Corte dei conti verificare le conseguenze penali e contabili degli illeciti segnalati da Cantone.
Atac, scandalo infinito. "Così è diventata il bancomat dei politici e dei sindacalisti". Dopo lo sciopero la sera della partita Italia-Belgio parla il direttore generale Rettighieri: "Da quando sono arrivato sono calati i furti nei depositi e si è ridotto di due terzi il consumo di gomme". Tra dipendenti e familiari la municipalizzata dei trasporti di Roma può valere 70mila voti, scrive Carlo Bonini il 16 giugno 2016 su "La Repubblica". Esiste un luogo della pubblica amministrazione dove la furbizia è la regola, lo sperpero e il saccheggio di risorse un mantra, il consociativismo clientelare della politica e dei sindacati il cemento che da quarant'anni li tiene insieme. È l'Atac, l'Azienda municipalizzata dei trasporti di Roma, tra le più grandi d'Europa. Numeri da tribunale fallimentare - 12 mila dipendenti, 1 miliardo e 500 milioni di euro di debito, 80 milioni di rosso nel 2015, un parco automezzi "teorico" di 1.980 veicoli ed effettivo di 1.410, con un'età media di dieci anni e qualche milione di chilometri - un livello di disservizio che non ha eguali in Italia, 11 sigle sindacali (alcune non raggiungono i 100 iscritti), ma una straordinaria forza. Da sola, Atac, con i suoi dipendenti, le loro famiglie e famigli, il suo indotto di fornitori, vale al mercato della politica tra le 60 e le 70 mila preferenze. Vale, per essere chiari, l'elezione di un sindaco al ballottaggio. Anche per questo, i tre sindacati maggiori - Cgil, Cisl, Uil - e con loro l'Ugl, da settimane, sono in fibrillazione. In un abbraccio contro natura tra sigle di destra e sinistra, con la sponda di un ex assessore ai trasporti e ora senatore di Forza Italia, Francesco Aracri, hanno deciso di dare la spallata al marziano che, da poco più di tre mesi, in assoluta solitudine, ha sfidato il moloch chiamando le cose con il loro nome. Un ingegnere per bene, Marco Rettighieri, nominato direttore generale dell'Azienda nel febbraio scorso e dipinto dalla narrativa aziendale come un padrone delle ferriere ostile alle "maestranze", un "liquidatore fallimentare". Nel passato di Rettighieri ci sono le Ferrovie (è stato direttore generale della Tav Torino-Lione e quindi responsabile del progetto della stazione Tiburtina a Roma) e la direzione generale dell'Expo. Nel presente, un'azienda che racconta così: "In Atac ho trovato il malaffare. Perché Atac è sempre stato il bancomat delle forze politiche e sindacali di questa città. Quando sono arrivato ho aperto i cassetti e quello che ho trovato l'ho portato alla Procura della Repubblica. Non me lo perdonano". In quattro mesi, Rettighieri ha rimosso quattro dirigenti di vertice. Ha scoperto che sull'azienda pesano 111 mila ore di distacchi sindacali non giustificate (solo la Cisl ne conta oltre 6 mila), con un danno di 5 milioni di euro l'anno. Ottenendo come risposta dal segretario dell'Ugl Fabio Milloch (tra i sindacalisti messi in mora e con la busta paga sospesa, dal momento che la sua di sigla sindacale ha 1.861 ore di distacchi non giustificati) uno sciopero la sera della partita Italia-Belgio. Rettighieri ha fatto di peggio. Ha messo il naso nel potentissimo "dopolavoro aziendale" che, in forza di un accordo sindacale del 1974, rinnovato nel 1978 e quindi nel 2010, ha da 42 anni la gestione, senza gara, delle mense aziendali (5 milioni di euro l'anno), oltre a uno stabilimento balneare in concessione ad Ostia e un centro di soggiorno di proprietà a Roccaraso. "In quel dopolavoro, tanto per dirne una, uno degli ultimi assunti è stato il cugino di un sindacalista della Cisl che è nel collegio dei sindaci", osserva Rettighieri. "E in quel dopolavoro - prosegue - tanto per dirne un'altra, fino al mio arrivo non era possibile avere il riscontro cartolare di quanti pasti venivano effettivamente serviti ogni giorno". Negli ultimi cinque anni, Atac ha bruciato 4 miliardi e mezzo di euro arrivati da Comune e Regione, ma nessuno sa come siano davvero stati spesi. È un fatto che dopo l'arrivo di Rettighieri e la decisione di mettere le telecamere a circuito chiuso in tutti i depositi di mezzi, il numero di furti di materiale è precipitato, consentendo di cominciare a riassorbire una voce di costo che ha sin qui pesato per circa 10 milioni di euro l'anno, perché a tanto ammontava il saccheggio. Così come è un fatto che, dal febbraio scorso ad oggi, improvvisamente il consumo di gomme che venivano sostituite sui mezzi si è ridotto di due terzi. Da 1.500 pneumatici a quadrimestre a 500. "Ho provato a fare qualche domanda sulle ragioni per cui ci fosse questa moria di pneumatici - dice Rettighieri - Nessuno mi ha saputo rispondere. Così come nessuno riusciva a spiegarmi per quale diavolo di ragione le ruote dei convogli della Metro A si usuravano inspiegabilmente più di quelli della Metro B. Da ingegnere, ho controllato i binari e ho scoperto che quelli della linea A richiedono delle rettifiche. Un controllo banale, l'Abc per chiunque lavori sul ferro. Ma non in Atac". Del resto, in azienda anche l'assenteismo è un mistero glorioso. Sulla carta, tutti presenti. In concreto, molti con il doppio lavoro. "Le racconto una storia per farle capire - dice ancora Rettighieri - Da quando sono arrivato ho due abitudini. Sono il primo direttore generale che va al lavoro con la propria macchina e sono il primo direttore generale che, in incognito, gira per depositi, uffici, mezzi. Bene, mi sono presentato a uno dei più grandi depositi che abbiamo in città. Vedo che la sbarra è alzata, cosa già di per sé non corretta, e noto una macchina di servizio con quattro dipendenti a bordo che esce. Vado alla porta carraia e chiedo all'addetto chi fossero quelli che erano usciti e quali fossero le ragioni di servizio. Mi viene risposto che chi è alla porta non è tenuto a fare domande". Nessuno sa se e per quanto tempo ancora Rettighieri resisterà. Chi al contrario scommette su cosa accadrà è il senatore piemontese del Pd Stefano Esposito, per tre mesi assessore ai trasporti nella fase terminale della giunta Marino, primo kamikaze di Atac prima dell'arrivo del nuovo direttore generale. Oggi dice: "Quando e se la Procura di Roma aprirà la botola di Atac, Buzzi, Carminati e Mafia capitale sembreranno dei dilettanti. È stata ed è il forziere della politica. Tutta. Nessuna esclusa. Vecchia e nuova".
Sciopero dei mezzi a Roma quando c'è la partita dell'Italia. Conducenti Ugl di autobus e metro hanno proclamato uno sciopero di quattro ore per lunedì dalle 20.30. Proprio quando l'Italia scende in campo contro il Belgio, scrive Ivan Francese, Venerdì 10/06/2016, su "Il Giornale". Alla coincidenza non crede più nessuno: perché quando si viene a scoprire che una delle sigle sindacali più importanti a livello nazionale organizza uno sciopero esattamente nelle ore della prima partita di calcio dell'Italia ai campionati europei viene davvero da domandarsi se per questo Paese ci sia ancora speranza. Che dire infatti quando apprendiamo, come scrive il Messaggero, che macchinisti e autisti Atac (l'azienda capitolina dei trasporti) aderenti all'Ugl hanno proclamato un'astensione dal lavoro proprio lunedì dalle 20.30 alle 00.30. Incredibile dictu, l'Italia esordirà agli Europei di Francia 2016 proprio lunedì alle 21, una mezz'ora dopo l'inizio dello sciopero: giusto il tempo di andare a casa. Furibondo il candidato sindaco del Pd Roberto Giachetti, che evidenzia giustamente come i romani non possano che "sentirsi presi in giro" da un atteggiamento così sfacciato. Gli scioperanti, dal canto loro, hanno spiegato con candore che lo sciopero dei conducenti di autobus e metropolitane avrebbe avuto un impatto limitato proprio perché tutti i romani sarebbero rimasti a casa a guardarsi la partita. E per quelli a cui il calcio non interessa (senza nemmeno menzionare i turisti), arrangiarsi.
Lo sciopero perfetto, scrive Massimo Gramellini il 10 giugno 2016 su “La Stampa”. Per la serata di lunedì 13 prossimo, a Roma, il sindacato Ugl degli autoferrotranvieri ha apparecchiato uno sciopero di quattro ore dei mezzi pubblici, dalle 20,30 alle 0,30. Si può immaginare che la decisione stia provocando tra gli utenti una certa indispettita curiosità, dal momento che proprio lunedì sera, a partire dalle 21, l’Italia giocherà contro il Belgio la prima difficile partita dei suoi Europei. Il candidato sindaco Giachetti ha sottolineato la «straordinaria coincidenza» tra i due avvenimenti, quasi a volere insinuare il sospetto che gli scioperanti abbiano per una volta anteposto meschini calcoli di bottega alle sacrosante esigenze dei cittadini. Ma solo un osservatore particolarmente malevolo potrebbe mettere in dubbio che i sindacalisti utilizzeranno il tempo dello sciopero per riunirsi in una sala orfana di televisori a dibattere animatamente i problemi della loro categoria, non meno gravi di quelli che angustiano il c.t. azzurro. Va semmai lodata la sensibilità di chi, per non gravare sul sistema nervoso della popolazione già piuttosto scosso, ha programmato lo sciopero in un orario in cui i mezzi pubblici sarebbero stati comunque vuoti. Così invece il tifoso potrà agevolmente recarsi a casa di amici con l’autobus delle otto, gustarsi con calma anche le interviste e i commenti del dopo-match, le moviole e i movioloni, per poi uscire in strada verso l’una di notte a sciopero finito, confidando che qualche sindacalista dell’Atac reduce dalla partita - pardon, dalla riunione - si degni di tirarlo su.
Suburra e la notte di Roma. Suburra, la Roma nerissima di Stefano Sollima: 5 cose da sapere. La Capitale è cupa e insidiosa, come la pioggia di notte, in un thriller metropolitano dove politica, Vaticano e mafia si intrecciano, scrive il 14 ottobre 2015 Simona Santoni su "Panorama". Roma e i suoi tormenti. Roma e quelle sue trame di pece nera, nerissima, nascoste e neanche tante nascoste. Roma e i suoi personaggi loschi che hanno già nei soprannomi (Rogna o Bacarozzo) tutta la sporcizia della città. La Capitale di Suburra di Stefano Sollima è cupa e insidiosa, come la pioggia di notte, tema visivo ricorrente del film. Politica, Vaticano e mafia si intrecciano avvinti da un malcostume che impregna tutto e tutti, come l'acqua piovana che infradicia vestiti, scarpe e calzini e tocca gelida la schiena. Grandi uomini di potere e piccoli, nuovi criminali e vecchi, si muovono pericolosi e coralmente in un thriller metropolitano che anticipa i fatti di Mafia Capitale e si ciba avido di corruzione, riciclaggio di denaro, droga e prostituzione. Ecco 5 cose da sapere su Suburra:
1) Suburra è tratto dall'omonimo romanzo del 2013 di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, già autore di Romanzo criminale, ma se ne scosta abbastanza, tanto da eliminare completamente alcuni personaggi (tra cui il poliziotto, protagonista del romanzo) e lasciare solo quelli negativi, per volontà dello stesso Sollima. "Una scelta radicale negativa che ci ha aiutato", spiega Sandro Petraglia, sceneggiatore insieme a Stefano Rulli. "Non c'è un eroe positivo", gli fa eco Rulli, "nessuno salva il mondo: abbiamo accettato questa sfida stilistica, raccontare il mondo dall'interno". Il film si svolge in una settimana, dal 5 al 12 novembre 2011, giorno dell'Apocalisse (caduta del governo Berlusconi), una trovata di sceneggiatura che vuole dare un punto di riferimento storico e temporale alla storia.
2) Se nessuno salva Roma, la Suburra di Roma non salva nessuno, né pescecani né pesci piccoli. Tutti si sporcano. Nell'antichità Suburra era un quartiere ai piedi del Palatino, un ghetto dove c'erano bordelli e taverne, un punto di incontro tra nobili senatori e gente di malaffare: qui mondi distanti e apparentemente inconciliabili tra loro entravano in stretto contatto. Nella Roma di oggi un parlamentare corrotto (Pierfrancesco Favino) è pilotato dal boss "padrone di Roma", il Samurai (Claudio Amendola), che ha in ballo una grandissima speculazione edilizia sul litorale romano. Anche il delinquente tatuato e violento Numero 8 (Alessandro Borghi) è coinvolto nell'affare, mentre lo "zingaro" Manfredi (Adamo Dionisi) vuole farne parte. Da una nottata di droga e sesso finita male si innesca un devastante domino che insudicia e mette in pericolo tutti, nell'arco di sette giorni prima dell'Apocalisse. Coinvolge anche il debole e vigliacco Sebastiano (Elio Germano), vaso di coccio tra vasi di ferro, la prostituta Sabrina (Giulia Elettra Gorietti), la tossica e passionale Viola (Greta Scarano), fidanzata di Numero 8. Il finale lascia qualche perplessità e una severa nota stonata in bocca: anche i più temibili e intoccabili sono in realtà toccabili? Sollima ci consegna una pia illusione poco credibile. O forse vuole dirci che, se tutti ci crogioliamo nella nostra impotenza, i pescecani sembreranno sempre inattaccabili?
3) Il ritmo di Suburra è incalzante per buona parte delle due ore di visione, aprendosi a qualche flessione solo nella parte finale. Stefano Sollima ha già firmato il buon ACAB - All Cops Are Bastards e le due serie tv di successo Romanzo criminale e Gomorra, tutti lavori molto maschi e crudi. Suburra conferma la strada intrapresa e quello stile nero e inclemente. I campi lunghi e la fotografia carica di Paolo Carnera accompagnano un'estetica noir ricercata e tesa e valide interpretazioni. Da segnalare il momento fortunato di Alessandro Borghi, viscerale e brutale, dallo sguardo spiritato da giovane perduto: il ventinovenne romano è stato recentemente protagonista anche di Non essere cattivo, alfiere dell'Italia per gli Oscar 2016. Anche il film postumo di Claudio Caligari inquadra un ritaglio di decadenza e delinquenza romana, ma in maniera più intima e per questo più potente, concentrandosi su fragilità e destini segnati di piccoli criminali qualunque. Suburra invece più che al cuore parla al gusto e all'effetto. "Suburra è un racconto sulla città e sul potere", ha detto il regista. "Abbiamo iniziato due anni e mezzo fa a lavorarci con l'idea di fare un film allegorico, simbolico e non cronachistico. Ho voluto fare una sorta di gangster movie, un noir metropolitano un po' spinto: un film di genere per cui ho anche usato la macchina da presa in un certo modo, con campi lunghi". E ancora: "Suburra è espressione di un 'realismo di genere' dove il 'genere' - inteso nella sua accezione più classica, quindi spettacolare, avvincente ma anche popolare - si coniuga a un preciso e circostanziato racconto del mondo che ci circonda, dando vita ad un quadro, dipinto con estrema attenzione, della realtà di oggi e della sua spaventosa pericolosità". Prima dei titoli di coda la dedica di Stefano a suo padre Sergio Sollima, regista e sceneggiatore morto nel luglio scorso.
4) Suburra era in lavorazione proprio nei giorni in cui scoppiava lo scandalo di Mafia Capitale. "Ho detto scherzando a De Cataldo che un giorno dovrà pagarci i diritti d'autore. So che il personaggio Samurai dovrebbe rievocare la figura di Carminati. La scelta di Amendola però non mi sembra azzeccata". A dirlo a Radio Cusano Campus è l'avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati, arrestato nel dicembre 2014 e affiliato all'organizzazione malavitosa romana Banda della Magliana. "Amendola è immediato, un po' grezzo, un po' greve. Carminati è più raffinato, più meditato, più fine, anche fisicamente. Da ragazzo era molto bello. Nell'interpretarlo avrei visto bene un Kim Rossi Stuart. Amendola nelle interpretazioni che va a fare è sempre un po' becero. Non credo però che un filmetto come Suburra possa influenzare i giudici nel processo. Non ho alcuna preoccupazione di tal genere".
5) Se Romanzo criminale si ispirava alla storia della banda della Magliana, Suburra non può che esserne il seguito ideale. E come per Romanzo criminale dopo il libro e il film ci sarà la serie tv. Sarà la prima serie tv originale Netflix italiana, realizzata dai creatori di Gomorra - la serie in collaborazione con la Rai. Sarà costituita da 10 episodi ed esordirà in tutto il mondo nel 2017 su Netflix, rete di Internet Tv con oltre 65 milioni di abbonati.
La notte di Roma di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Dove è Suburra, comincia la notte di Roma. Il giovane Sebastiano ci prova, a reggere le fila di un regno del crimine. Ma se il re è lontano, gli incidenti capitano. E il Samurai è molto lontano. Chiara ci prova, a ben governare. Ma se il cuore è troppo scoperto, magari ti innamori di chi nemmeno vorresti guardare in faccia. E gli incidenti capitano. Adriano Polimeni ci prova, con un monsignore di buona volontà, a guardare in faccia il pericolo. Troppo da vicino, forse. Si accende la guerra che tutti vedono, continua quella che non vede nessuno, la più feroce. La lotta stavolta è per salvare l'anima. «La notte di Roma» comincia dove finisce Suburra. Perché «la natura non tollera vuoti» e con il Samurai confinato al duro regime del 41 bis in un carcere del Nord, la sua successione è solo questione di tempo. E di uomini. In una città dilaniata dalle guerre di cani di strada e di squali di Palazzo, dove i confini fra il lecito e lo scandaloso si confondono pericolosamente, un nuovo Sindaco, un nuovo Papa lasciano immaginare che l’anno giubilare della Misericordia annunci su entrambe le sponde del Tevere un atteso riscatto. Ma nella «Notte di Roma», il buio nel quale è difficile intravedere il bagliore di un’esile speranza, i sentieri sono tortuosi, le lingue biforcute e nulla è come appare. Né il narcisismo delle buone intenzioni, né la furia iconoclasta di chi grida alla rivoluzione. Eppure, quella speranza esiste. Ha il volto tormentato di un vecchio politicante di sinistra «rottamato» che riflette sui suoi errori e i suoi limiti e che, tuttavia, non ha divorziato dalla passione civile. Ha l’espressione fiera di un giovane vescovo che non si rassegna. Ha il profumo di amori impossibili sognati nell’intersezione fra il mondo degli affetti, quello degli affari e dell’ambizione della “nuova politica”. Perché di notti come questa Roma ne ha conosciute tante, nella sua lunga storia. E ne è sempre venuta fuori.
Dopo "Suburra": viaggio senza termine nella notte di Roma. Bonini e De Cataldo raccontano in un sequel i nuovi intrighi della "capitale infetta". Legati al Giubileo, scrive Carlo Verdelli il 12 novembre 2015 su "La Repubblica". Il vero desiderio non è avere qualcosa ma essere qualcuno. E, potendo scegliere, esserlo a Roma. La prima è un'intuizione di René Girard, uno degli immortali dell'Académie française, scomparso pochi giorni fa. La seconda, una constatazione che ha radici antiche e un presente disarmante. Dai corvi in Vaticano agli avvoltoi di Mafia capitale, infilando con rispetto in voliera anche l'oca del Campidoglio spennata di fresco, c'è materia sovrabbondante per ogni tipo di indignazione, e anche di narrazione. Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo hanno inaugurato un genere: il romanzo profetico. Nel loro libro d'esordio insieme, Suburra del 2013, prima che la grande bellezza si trasformasse nella grande abbuffata, hanno disegnato il protagonista, nome di battaglia Samurai, sui lineamenti amorali di Massimo Carminati, "er cecato", imperatore dei tre mondi (di sotto, di mezzo, di sopra) e gran burattinaio del verminaio oggi a processo. Hanno pure anticipato, forti di una invidiabile conoscenza del territorio, la crescente potenza della corte pacchiana del clan degli zingari, quei Casamonica poi venuti al disonore delle cronache per un funerale un po' troppo esibito. Tanta lungimiranza, e altrettanta crudezza di racconto, hanno trasformato "Suburra" in un fenomeno a più stadi: quasi 80 mila copie vendute in libreria, un film che a sua volta diventerà una serie, la prima prodotta in Italia da Netflix, il gigante americano di video in streaming, e adesso una seconda puntata su carta, La notte di Roma, che a sua volta promette di partorire altro cinema (da sala, tv, schermi digitali) e di scoperchiare, prima che siano disvelate da magistratura e giornali, altre fosse comuni di brutalità e malaffare. Se in Suburra, la chimera che muoveva canaglie di professione e canagliume d'alto lignaggio era il progetto di trasformare la marina di Ostia in una specie di Disneyland, con La notte di Roma, in uscita in questi giorni, la posta si alza ancora: la preda diventa il Giubileo straordinario voluto da papa Francesco, con capibranco e mandrie di nuovi barbari impegnati per 300 pagine a scrivere un altro feroce capitolo di quel romanzo criminale da cui molto è cominciato e più non si è fermato. Suburra è nato da una domanda: chi ha preso le redini del male dopo la morte del Libanese e la fine della banda della Magliana? La risposta l'hanno cercata insieme un inviato da prima linea di Repubblica, Carlo Bonini, allergico per natura alle versioni ufficiali, e un magistrato, Giancarlo De Cataldo, che proprio con la saga del "Nero" e del "Freddo" si era scoperto nel 2002 una vena di scrittore. La coppia ha funzionato, l'investigazione comune ha prodotto, invece di un'inchiesta, una simulazione letteraria. E la finzione, stavolta, non ha superato la realtà, si è limitata ad anticiparla. Il gioco meritava di proseguire, come d'altronde è proseguita la dannazione della capitale. La notte di Roma, architettata con abilità in modo da poter essere avvicinata senza patemi anche da chi si è perso Suburra, comincia con un incendio neroniano e il massacro di un geometra incolpevole, una rarità in questo affresco corale di briganti, a opera di un orco con la scritta "non ho amici" tatuata sulle dita delle mani, dieci lettere per dieci dita. Il genere umano e romano che si nasconde dietro il fumo dei fuochi, e che commissiona omicidi a catena e a catenate, è appunto la suburra salita ai piani alti del potere, con la paradossale complicità di quello stesso potere che si illudeva di servirsene. Ma quello che conta davvero è il trono e lì ci si siede uno per volta, e per riuscirci bisogna buttare giù chi lo sta occupando, e una volta sbrigata la faccenda finalmente sei qualcuno. Sei il padrone. Sotto di te si agitano figure e figuranti, alcune facilmente riconoscibili, come il sindaco Martin Giardino, copiato a calco sul giubilato Ignazio Marino, altre meno sovrapponibili agli originali in circolo ma non meno credibili, come il politico di fasulla sinistra Temistocle Malgradi, quello che "è proprio vero che con la carità si guadagna meglio che con la droga", o la giovane deputata del Pd in vertiginosa ascesa e di altrettanto vertiginosa bellezza, Chiara di nome ma non di cuore, che forse si innamora un po' del bandito cattivo, certo ci fa sesso, calcola i vantaggi che potrebbe ricavarne, ma sguscia via prima che sia troppo tardi. Per lei, non per lui. A un vecchio compagno, l'incorruttibile Adriano, che la mette in guardia su certe frequentazioni, risponde con il programma della neo politica: "Milano ha avuto l'Expo, Roma avrà il Giubileo. Faremo le cose nel rispetto delle regole, per quanto è possibile. Non voglio morire innocente, non si governa con l'innocenza. Io voglio vivere". Chiara vivrà, altri un po' meno. La notte di Roma non fa prigionieri, non si concede neanche la comodità narrativa di un cavaliere bianco in lotta contro l'esercito dei cavalieri neri. E finirà come un ponte sospeso nel vuoto, su una città svuotata di senso, dove l'ultima bomba appena arrivata dal fronte del disonore è che Francesco Totti, l'unico ottavo re di Roma ufficialmente riconosciuto, avrebbe pagato in nero dei vigili di quartiere perché sorvegliassero uno dei suoi figli piccoli, minacciato di rapimento. Posto che sia vero e che il bambino fosse seriamente a rischio, perché non era protetto, e gratis, dalle autorità? Pur appena freschi di stampa, Bonini e De Cataldo hanno già davanti una prateria per un terzo episodio del loro viaggio al termine della notte interminabile di Roma.
"Nella notte di Roma. Un incontro casuale. Una città sospesa. I suoi vizi capitali" di Antonello Venditti. La cena romana è «un organismo ipertrofico che cresce e monta attorno alla tavola, finché non ricordi più chi era invitato e chi no». Antonello Venditti è diretto proprio a una di queste cene quando, parcheggiata l’auto su un Lungotevere inspiegabilmente deserto e privo delle immancabili buche, si imbatte in una sconosciuta, Laura, appena rimasta vittima di una tempesta di guano dai tratti mitologici. Prestarle soccorso e dare vita a una complicità basata sulla totale casualità dell’incontro è quasi tutt’uno. Anche perché è bello potersi trovare «prima che domani ricominci tutto. Roma lo fa, Roma lo concede questo senso di immobilità e di rinascita». Inizia così un viaggio a tappe dentro la città e dentro la sua notte, e dialogando con Laura, che romana non è, Venditti individua sette vizi capitali di Roma, non biblici ma peculiari, alcuni atavici, altri di nuova generazione. Dal vizio di Unicità (peccato originale che vede l’Urbe essere il centro del potere temporale e spirituale) a quello di Impero (retaggio dell’antica volontà di potenza sintetizzata oggi nello slogan da stadio ’ndo annamo dominamo); dal vizio di Illusione (ma quale futuro, «il futuro è tutto nel passato, e allora recupero, riconversione, ampliamento, adattamento») e di Memoria (corta) a quello di Neopaganesimo che porta a mettere sul trono imperiale calciatori ormai simili a semidei e infine ad accoltellarli, secondo il destino di ogni Cesare. Fino a due vizi paradossali, i più scandalosi, i più imperdonabili: quello di Bellezza e quello di Purezza. Nella notte di Roma è un’immersione nelle ricchezze (molte) e nelle bassezze (almeno altrettante) della capitale, alla quale Venditti rivolge il suo odi et amo senza risparmiarle niente. E, con lo stile ironico e incisivo, non esita a prendere posizione su questioni politiche, di cronaca, di costume: dal destino del prossimo sindaco a quello di Totti, dalla candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, alle infiltrazioni criminali di Mafia capitale.
Venditti deluso dai romani. «Invidiosi di Cesare e Totti». Il cantautore simbolo della Capitale: non ho votato alle primarie, scrive Pasquale Elia su "Il Corriere della Sera” il 27 aprile 2016. Grazie Roma. Ma non proprio per tutto. Perché va bene la maestà der Colosseo, e per carità niente da dire sulla santità der Cupolone. Ma il guaio è che tutta questa bellezza «ha allattato e reso spavaldo» il romano, «ma non orgoglioso. L’orgoglio è impegnativo, va difeso. L’orgoglio è per chi pensa di essere fatto per quel mestiere, per quella maglia, per quella città, e che lavorare, giocare, vivere lì sia un onore. Il romano, però, non pensa di essere fatto per Roma, ma che Roma sia fatta per lui». Pensieri e parole di Antonello Venditti, il cantautore di Roma Capoccia e dell’inno della squadra giallo-rossa, di Campo de’ fiori e di Sora Rosa, di Grazie Roma e di Circo Massimo. E uno che ha scritto tutti questi brani sulla sua città è difficile credere che sia in viaggio su un carroccio in direzione leghista. Ma essere nato nel quartiere Trieste e vivere a Trastevere non è garanzia di acriticità nei confronti di un luogo tanto amato. E allora per sferrare con malcelata misericordia il proprio j’accuse si può per esempio ipotizzare di buttare giù un libro (Nella notte di Roma, che esce oggi per Rizzoli) e immaginare di andarsene in giro (in compagnia di una ragazza, Laura, conosciuta per caso) imboccando strade e viali che costeggiano vecchi e nuovi vizi di una città il cui «futuro è tutto nel passato». Inoltrandosi a bordo di una piccola auto tra i mille monumenti della Capitale, Venditti scorge peccati che attecchiscono come l’erba cattiva. E ce n’è uno più di tutti che suona come un paradosso: la Purezza. Che «nella fisiologia romana» è un’aberrazione. «Il vizio è l’ordine, la regola... ha invaso ogni strato». Guidando Nella notte di Roma, Antonello pensa a «Mafia Capitale, alle primarie taroccate e non credibili del cosiddetto Pd. Ecco perché, qualche settimana fa, non sono andato a votare a quelle di Roma: votare per chi, votare perché?, non voglio essere usato per legittimare qualcosa che trovo illegittimo». Possibile che nella città eterna non ci siano più tracce di onestà e idealismo? All’ombra del Colosseo, per Venditti, sono «virtù eroiche». Il romano si è addirittura inventato «l’eroismo parlamentare, quando l’onestà dovrebbe essere all’ordine del giorno». E tutto questo è successo (forse) a causa della «caduta dei riferimenti. Per la mia generazione c’è stato Berlinguer. Il Padre politico. Ecco la questione: dove sono finiti i Padri? I Padri hanno fallito». Storica materia di discussione. «Adesso però c’è un’altra Storia in corso: quella dell’Italia toscanizzata, dei patti del Nazareno, del partito della nazione, l’Italia di Renzi e Verdini. E Roma scivola in subordine. Quando un corpo collassa la prima cosa a spostarsi è il baricentro». Sembra che quella lontana Roma Capoccia («la mia canzone più fraintesa») sia definitivamente spacciata, infestata anche dal vizio d’Invidia «di cui gli imperatori di Roma continuano a far le spese, da Cesare a Totti». Insomma, Bomba o non bomba, arrivando a Roma, Venditti direbbe: Benvenuti in paradiso o In questo mondo di ladri?
Venditti: «Un romano non va all'inferno, al limite ci fa un sopralluogo», scrive Silvia Bombino su “Vanity Faire” il 27 aprile 2016. Premessa: Venditti non si fa intervistare, fa l’intervista. E non si fa fotografare, fa le foto. Controlla il registratore, dice quando accenderlo, prende la macchina fotografica, suggerisce, intima, impera. «Il romano si sente il capo del mondo. E quanno more va in paradiso. All’inferno, al massimo, fa un sopralluogo». Quando arrivo nel giardino dove domina il megaschermo per vedere le partite della Roma, Antonello Venditti sta raccontando la serata precedente. Uscito di casa con poche certezze – due gocce di Yves Saint Laurent Pour Homme rosso del 1980 (introvabile, lo procura un amico), le Marlboro rosse (stessa marca da sempre, vari formati), gli occhiali a goccia (da vista, che però usa meno perché «sono migliorato») – è andato a una «cena romana». Alza gli occhi al cielo. «Lì tutto può succedere… in realtà, non succede mai un cazzo, e infatti esco poco». Sembra l’inizio del racconto che ha scritto e che uscirà in libreria il 28 aprile: Nella notte di Roma. Anche lì una cena: dove però non arriverà mai, ma girerà nella sua Smart, di notte, con Laura, incontrata per caso, per le vie di Roma. Città di cui racconta i vizi e la poesia. Perché non c’è solo Mafia Capitale e la monnezza. «Roma non è raccontata. Chi non è di qui, come Laura, ha uno sguardo ancora capace di meravigliarsi della bellezza. I romani dovrebbero vedere la città con gli occhi dei non romani».
Eppure l’ha cantata mille volte, la sua città, è un romanista doc, vive a Trastevere. Corrado Guzzanti ha fatto una caricatura sul suo ostinato raccontare Roma. Perché farlo ancora?
«Corrado… Non lo sento da un po’, ma che sta facendo? (Si accende un’altra sigaretta, è già al secondo pacchetto e sono le 11; alle 15 ne avrà abbandonate una decina sui bordi dei tavoli, nei posacenere, per poi ritrovarle e chiedere: di chi è?) Dicevamo? Ah sì, Roma… Di Roma non ci si stanca. Poi c’è stata quella serata che mi ha ispirato… Dovevo andare davvero a una “cena romana”, e davvero stavo cercando parcheggio, quando è arrivata una tempesta di guano. Per via degli storni, il Lungotevere è stato chiuso tre giorni: tonnellate di merda piovevano dal cielo su Roma. Mi è sembrato un simbolo dei tempi che vivevamo».
Si riferisce a Mafia Capitale?
«Certo».
Come sta metabolizzando lo scandalo?
«Come tanti sono rimasto stupito, triste. Va bene la “cena romana”, però se sei ministro devi sape’ con chi vai a cena. Anch’io vengo avvicinato da sconosciuti. Che poi un tempo c’era uno scambio: “Hai fatto parte della mia vita… Le tue canzoni…”. Adesso è solo un “Antone’, se famo un selfie?”».
Ma lei gira liberamente per Roma o è ostaggio dei fan?
«Certo, passeggio. Anche se devo stare attento, sennò mi fermano di continuo».
Nel libro, a Ostia citofona a uno sconosciuto e chiede: «Sono Antonello Venditti, mi può dare un paio di coperte?». Ma non le credono. Lo ha fatto davvero?
«Certo. Nel libro però non ho messo la risposta vera».
Quale?
«See, e io so’ Baglioni!».
Alla fine della notte, Laura le lascia il suo numero di telefono. Le è capitato anche questo?
«La cosa che mi tiene vivo è frequentare gente non della mia età. Non minorenni, eh, intendiamoci. L’amore con la ventiseienne del libro però non è improbabile, non è un’invenzione letteraria».
Quindi le succede?
«Succede. L’invidia di quello che ti vuole avvinto alla sua generazione è tremenda. Dice: ti tingi i capelli… Ma come? Me li tingo dall’86 e nun te ne sei mai accorto? O quelli che mi dicono: te sei rifatto. A me non me risulta: se invecchio bene, ma che cazzo vuoi da me? Gli uomini sono gelosi. Le donne invece si scusano: Antonello, so’ troppo vecchia. Ma amore mio, io so’ Antonello, te pare che discrimino?».
Adesso è single?
«No. Ma non è meglio parlare d’altro?».
D’accordo: tra un mese si vota il sindaco.
«La città non è pronta per le elezioni».
Se fosse sindaco lei, che farebbe subito?
«Avrei commissariato la città due anni per mafia, dato poteri straordinari a due commissari e non sarei andato proprio alle elezioni: siamo ancora frastornati, la situazione non è trasparente, non abbiamo certezze su chi finanzia i partiti, la metà dei candidati sono gli stessi del passato».
Andrà a votare?
«Ora parto in tour, forse suono quel giorno… Sicuramente al ballottaggio ci sono. Davvero non ho idea di che cosa votare, mi farò un’idea. Avevo votato Renzi alle primarie, ci avevo creduto. Ma oggi non mi sento rappresentato da nessuno».
Su Facebook ha fatto un post dal seggio del referendum sulle trivelle…
«Non mollo, mi interesso. Sto sul pezzo, anzi molti mi attaccano perché parlo chiaro».
Ha i suoi haters?
«Io mi incazzo, eh? Però mi controllo. Se mi dicono “zecca comunista” non rispondo “zecca fascista”. Inizio con “caro amico”. O “abbracciamoci”. Cerco di dialogare. Mi dicono: quando canti va bene, per il resto stai zitto. Evidentemente vedono in me una persona libera e tentano di ridurmi a un partito di destra, di sinistra…».
Si sente piuttosto un anarchico?
«Nel senso di non volere etichette, sì. Sa qual è la persona che politicamente mi ha fatto sentire più a mio agio?».
Veltroni?
«No, Pannella. A Walter voglio bene, ma con Marco ti senti a casa. Sono andato a trovarlo, a sigarette ce la battiamo ancora».
I suoi votavano Democrazia cristiana?
«No, Partito liberale».
Le hanno trasmesso la passione politica?
«No, quella nasce perché ero grasso. Per i miei compagni di classe ero un cicciabomba. Ho iniziato a interessarmi di politica per vedere se qualcosa poteva cambiare. È cambiato quando sono dimagrito. E quando ho capito che gli stupidi erano i bulli».
Ha militato in tanti movimenti di sinistra, e nel libro ricorda l’estate del ’79, in spiaggia a Ostia, con Allen Ginsberg.
«La gente arrivava da tutto il mondo per sentire i poeti beat. Il Partito comunista era un sogno di cultura e libertà. Anche oggi la gente ha fame di eventi culturali, ma non c’è il respiro del futuro. Dopo Berlinguer, a sinistra, non c’è stato più un riferimento di livello. Le unioni civili, il petrolio: le grandi questioni vanno spiegate da menti alte».
Suo padre, da viceprefetto, glielo spiegava il mondo?
«Non capivo che cosa facesse, in realtà. Un giorno je dico: a papà, ma che fai la domenica che nun ce stai mai? Hai l’amante? E lui mi fa: Antonello, vuoi vedere che faccio? Mi ha portato a Palazzo Chigi nella stanza dei bottoni, con dei monitor ancora rudimentali: se c’era qualche allarme in Italia andava mio padre. Non esisteva ancora la Protezione civile».
A proposito: Bertolaso è candidato come sindaco.
«Non voglio commentare».
Che cosa ha pensato quando ha detto a Giorgia Meloni di fare la mamma e basta?
«È una cosa troppo bassa per essere commentata. Solo a Bertolaso può venire in mente una cosa così».
Adinolfi?
«Non mi appassiona».
Nel 2013, alle scorse elezioni, andò a chiudere con un concerto la campagna di Alfio Marchini, che oggi corre da solo. Lo rifarebbe oggi?
«Oh, ora posso spiegare: quando arrivò… Come si chiama? Coso… L’ho rimosso…».
Marino?
«Eh, Marino. L’ex sindaco. Da parte del Pd c’era la presunzione di pensare: è chiaro che tu vieni a suonare a San Giovanni. Pacca sulle spalle. Io, però, di questa generazione di politici, non conosco nessuno. Ho visto una volta Marino, Giachetti non lo conosco, Renzi l’ho incrociato a Porta a porta. Nessuno mi ha cercato e io non cerco nessuno. Per cui per me il Pd è un oggetto misterioso. Se tagli i ponti e poi ti presenti, io ti dico: scusa, innanzitutto, chi cazzo sei?».
Invece che cosa ha detto?
«Scusate, sarei in tour con 70 persone che lavorano. Non stacco per venire a suonare Roma capoccia da te, solo, col pianoforte. Non me la sento. Non voglio niente per me, ma se mi vuoi, devi parlare con il mio impresario e pagare i miei collaboratori. Marchini l’ha fatto. Io non ho preso nulla, ma ho fatto lavorare tutti gli altri. Alfio era il candidato perfetto del Pd, allora».
Oggi lo rifarebbe?
«No, è diverso. Anche lui si è giocato l’autonomia. Io rispetto invece il Movimento 5 Stelle perché non fa parte di coalizioni, non è contaminato da altre forze. Perdo da solo o vinco da solo, questa è la sua forza».
Le piace Virginia Raggi?
«Non conosco neanche lei. Sono filo-movimento, però, e lo rispetto moltissimo, perché qualcosa deve accadere assolutamente. Posso dire che ci penserò».
Facciamo due passi per Trastevere, è una bella giornata di sole.
«A volte penso di vendere tutto e andarmene… Da tutto. Ho un catamarano, ci si sta benissimo».
Via da Roma? Scherza?
(Sorride) «Sì».
Roma, arrestati e indagati vigili: favorivano i ristoratori in cambio di cene e bottiglie di vino. In cambio di pasti gratis e consumazioni pagate alcuni agenti della polizia municipale avvertivano dei controlli i proprietari di noti locali del centro, da Trinità dei Monti a Campo de' Fiori, o li aiutavano ad evitarli. Così tutto era concesso: dai tavolini "selvaggi" in strada alle ristrutturazioni senza autorizzazione. E gli affari prosperavano, scrive Floriana Bulfon il 19 aprile 2016. “Sono arrivati i vigili, li aspettavamo, ma tutto a posto”, e ancora “falli andare via”. Non c’è nulla di cui preoccuparsi perché “questa mattina viene da te un amico. Io sono sempre a tua disposizione” perché “a me chi mi aiuta, lo aiuto. Ecco”. E’ il sistema svelato dalle indagini del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma che hanno portato oggi all’arresto di due imprenditori, Renato Salvatore Mercuri e Giovanni Pagliaro, e di un vigile urbano, Franco Caponera. Tra gli indagati anche altri appartenenti alla Polizia municipale e un noto immobiliarista romano. Pubblici ufficiali compiacenti che in cambio di bottiglie di vino, cene e consumazioni pagate e persino ticket restaurant avrebbero avvertito i due ristoratori calabresi dei controlli nei loro locali del centro storico, avvantaggiando così la crescita del loro impero capitolino. I due sono infatti titolari di un ristorante con affaccio sulla scalinata di Trinità dei Monti, di un locale alla moda nell’elegante quartiere Trieste, e poi di un wine bar vicino a Campo de' Fiori, di una gelateria davanti alla fontana di Trevi, e ancora di un bar all’interno della stazione Tiburtina, una guest house, un lussuoso b&b a due passi da via dei Condotti e persino di un centro benessere. Secondo l’accusa, grazie ai vigili infedeli tutto gli era concesso: dall’occupazione del suolo pubblico oltre i limiti, all’impianto acustico, fino all’esecuzione di lavori su immobili di interesse storico senza autorizzazione, con tanto di possibili danni strutturali. Per i concorrenti non c’era nulla da fare, la loro ascesa economica doveva essere inarrestabile. E così quando Mercuri e Pagliaro si interrogano su chi possano essere i ‘controllori’, per intercedere con la polizia municipale contattano “l’amico” Franco Caponera. Lui, in cambio della promessa di far assumere la compagna a Catanzaro, di tre casse di bottiglie di vino e un po’ di ticket restaurant, si sarebbe prodigato ad avvertirli dei controlli così da evitare che evidenziassero irregolarità o quanto meno da assicurare che fossero “condotti con elasticità”. Sarebbe arrivato persino a fare un accesso abusivo alla banca dati del sistema d’indagine delle forze di polizia. Del resto è proprio Caponera a sintetizzare in una conversazione con Mercuri il concetto alla base del rapporto: “a me chi mi aiuta l’aiuto, ecco”. Non è il solo a condividere l’’amicizia’. Nell’autunno del 2013 un altro vigile in servizio nel centro storico di Roma, oggi indagato, si sarebbe fatto offrire una cena in uno dei ristoranti dei due imprenditori. E pare abbia apprezzato, tanto che, dopo aver degustato un po’ di piatti ammirando le rovine della Capitale, si fa promettere di poter tornare almeno altre due volte. Gratuitamente, si intende, ma con riconoscenza. Violando i suoi doveri, avrebbe infatti rivelato atti segreti, avvertendo prima di un controllo e poi anche di un procedimento amministrativo per l’accertamento dell’impianto acustico. Un suo collega, a cui è stato notificato un avviso di garanzia, invece sembra amare di più i dolci. Secondo l’accusa ha garantito di non effettuare i controlli, pur di avere sempre il gelato pagato mentre passeggia davanti a fontana di Trevi. Del resto, quando c’è un problema con il cartellone pubblicitario della gelateria che viola le norme imposte dal Campidoglio, trova persino una soluzione: “sai che facciamo, quando ci sono ti faccio uno squillo e glielo faccio mettere e quando vado via gli dico: guarda leva”. A fare da intermediario tra gli imprenditori e i pubblici ufficiali infedeli anche un noto immobiliarista romano, molto attivo nel centro storico della Capitale. Sarebbe stato lui ad agevolare le autorizzazioni tanto da assicurare che anche laddove arrivassero dei vigili non corrotti riuscirebbe a far arrivare la relazione in altre mani. L’indagine che ha permesso di disarticolare il sistema corruttivo è partita a seguito di una informativa della Direzione Investigativa Antimafia: i due imprenditori sarebbero stati infatti segnalati perché in contatto con la famiglia Mancuso. La ‘ndrina più potente della provincia di Vibo Valentia ha investito molti dei suoi proventi illeciti in ristoranti, bar e immobili di pregio della Capitale e alcune quote delle società risultavano riconducibili, tra gli altri, proprio alle famiglie di Pagliaro e Mercuri. La Roma di Mafia capitale del resto è terreno fertile per riciclare soldi a buon mercato, tanto da poter corrompere un pubblico ufficiale persino con tre bottiglie di vino e qualche cono gelato. Solo ventiquattrore fa è stato rinviato a giudizio per corruzione e falso l’ex comandante della polizia municipale, Angelo Giuliani. Avrebbe fatto ottenere, senza alcun bando di gara, un appalto a Sicurezza e Ambiente, società che si occupa della pulizia delle strade, in cambio di una mazzetta sotto forma di sponsorizzazione per il circolo sportivo dei Vigili. A giudizio con lui anche la sua vice, Donatella Scafati e due segretarie. E ancora, il mese scorso, un agente della municipale è finito in manette con l’accusa di aver chiesto 5mila euro per chiudere un occhio sulla costruzione di alcune villette, dando il via libera ad un abuso edilizio. Dopo i vari episodi di corruzione s’era parlato quanto meno di procedere ad una rotazione dei vigili urbani, ma è saltato tutto. E’ bastato un cavillo: i sindacati non erano stati preavvertiti. Ora il commissario straordinario del Campidoglio Francesco Paolo Tronca ha chiesto di fare una ricognizione sui procedimenti disciplinari a carico dei dipendenti comunali. Ce ne sono più di duecento, tra questi anche uno che giace in un armadio da quindici anni. Riguarda proprio alcuni vigili. Coinvolti in un traffico di auto rubate, prima sono stati sospesi e subito dopo riammessi in servizio, senza mai essere stati trasferiti. Peccato che oramai il reato si sia estinto per “intervenuta prescrizione”.
I vigili che riciclavano auto rubate ancora al loro posto dopo 15 anni. Roma, sepolti negli armadi 212 provvedimenti disciplinari su dipendenti del Comune, scrive Sergio Rizzo il 17 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". In quale città del mondo un agente di polizia urbana pizzicato a riciclare auto rubate rimane imperterrito al proprio posto per quindici anni? A Roma, naturalmente. Immaginiamo che pure Alfonso Sabella, assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino, fosse cosciente di quanto ancora restasse da fare, dopo aver disposto la rotazione degli incarichi dirigenziali. Lo stato comatoso in cui ha trovato larghi strati dell’amministrazione capitolina è ben raccontato nel suo libro «Capitale infetta» scritto con Giampiero Calapà. E immaginiamo se ne sia fatto un’idea anche il presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che ha avvalorato anche la rotazione dei vigili urbani disposta dalla stessa giunta, misura contestatissima dai diretti interessati e poi fatta saltare dal giudice del lavoro in seguito a un ricorso sindacale azionato con il pretesto di un cavillo: i sindacati non erano stati preavvertiti. Sindacati, a quanto risulta, che non hanno mosso un dito negli anni perché chi ha sbagliato pagasse. Conosciamo la giustificazione: non tocca a loro punire i responsabili di corruzione e altri illeciti. Comprensibile. Ma il fatto è che non hanno provveduto nemmeno i responsabili, cioè gli uffici del Campidoglio. Il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, deciso evidentemente a lasciare un altro segno del suo passaggio dopo aver denunciato il buco nero del patrimonio immobiliare, ha chiesto agli uffici una ricognizione sui procedimenti disciplinari a carico di dipendenti comunali accusati di reati più o meno gravi. Che ha dato risultati sconcertanti. Negli armadi c’erano infatti 212 dossier relativi ad altrettanti procedimenti disciplinari ancora aperti. Alcuni relativamente recenti, se si pensa alle inchieste di Mafia capitale o alla cosiddetta operazione Vitruvio. Ma altri che risalivano addirittura alla fine degli anni Novanta. Fra questi ce n’è uno che riguarda un caso di quindici anni fa, quando alcuni vigili urbani furono coinvolti in un traffico di auto rubate. Sospesi in un primo momento e poi riammessi in servizio, non risultano essere mai stati trasferiti: e ora per la conclusione del procedimento disciplinare nei loro confronti che galleggia negli armadi comunali da tre lustri si sta aspettando la comunicazione del tribunale dell’estinzione del reato per «intervenuta prescrizione». Proprio così: prescrizione. E qui sono del tutto evidenti anche le responsabilità della magistratura. Il che però spiega solo in parte la situazione di lassismo generalizzato che la verifica ha fatto venire alla luce. Succede che dei 212 procedimenti disciplinari ben 189 siano tuttora sospesi, in attesa che la giustizia faccia il proprio corso. Per quanto assurdo possa sembrare, è ciò che prevedono le norme, compresa la famosa legge Brunetta. Ma non è vero che il Comune non possa fare nulla contro i presunti corrotti o responsabili di altri reati fino alla sentenza definitiva. Può infatti adottare provvedimenti cosiddetti cautelativi, come il trasferimento, ma c’è il riscontro che almeno in un centinaio di casi questo non sia mai avvenuto. Tanto per reati minori (c’è stato anche un dipendente del Comune trovato a fare contemporaneamente l’amministratore di condomini) quanto per fatti particolarmente gravi. Qualcuno è riuscito perfino a farla franca fino alla pensione: in 9 se ne sono andati dal Comune per raggiunti limiti di età senza che fosse stato preso alcun provvedimento nei loro riguardi. Quanto ai licenziamenti, si contano sulle dita di una mano e mezza: nel 2015 sono stati sette. Ragion per cui Tronca ha ora dato incarico ai capi del personale e della polizia municipale di riesaminare tutte le posizioni, una per una. Fra quei 212 ci sono 71 vigili urbani, ma soprattutto una quarantina di dipendenti e funzionari inquisiti per fatti che riguardano pratiche edilizie, uno dei settori più colpiti dalla corruzione. Ed è questo un aspetto considerato più preoccupante. Perché se il numero dei reati scoperti è rimasto pressoché costante negli anni, è la loro gravità a essere aumentata: tanto più che dai reati individuali si è passati a quelli di natura collettiva. Un altro benvenuto per il prossimo sindaco, chiunque sia.
Cantone accusa Roma: dagli asili alle strade, ecco tutti gli appalti illegali. Il documento dell'Anac approvato la scorsa settimana denuncia un metodo "sistematicamente" irregolare negli anni 2012-2014, scrive Liana Milella il 15 marzo 2016 su “La Repubblica”. Dalla manutenzione delle strade ai servizi per i disabili, dagli ospizi agli affitti delle case, dalla macellazione della carne alla tutela del verde pubblico, dall'acquisto di nuovi software alla gestione dei canili. Non c'è un solo capitolo in cui Roma Capitale, il grande Comune di Roma prima gestito da Alemanno e poi da Marino, abbia rispettato le regole della buona amministrazione. Raffaele Cantone, il presidente dell'Autorità anticorruzione, non ha dubbi. Ha firmato il 10 marzo l'ultimo capitolo della sua lunga ispezione su Roma, che copre gli anni dal 2012 al 2014 e attraversa le giunte degli ultimi due sindaci di destra e di sinistra, e chiude con un giudizio pesantissimo. "L'indagine - scrive Cantone - ha rivelato la sistematica e diffusa violazione delle norme. Ha palesato il ricorso generalizzato e indiscriminato a procedure prive di evidenza pubblica, con il conseguente incremento di possibili fenomeni distorsivi che agevolano il radicarsi di prassi corruttive". Inutilmente Roma Capitale, con i suoi numerosi dipartimenti, ha cercato di difendersi inviando a Cantone, dopo il primo rapporto del settembre 2015, altrettanti dossier "a difesa". Che però non intaccano l'analisi dell'Autorità anticorruzione. Il rapporto di 15 pagine conferma le indagini della procura di Roma su Mafia Capitale e sul malaffare come prassi abituale di comportamento ed è stato inviato sia alla procura che alla Corte dei conti. Contro la Costituzione. Proprio così. Cantone lo scrive nell'ultima pagina. "La gestione delle attività contrattuali di Roma Capitale, nei suoi molteplici aspetti e modalità, non è conforme ai principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione sanciti dall'articolo 97 della Costituzione". Le conseguenze sono inquietanti. Il rapporto dell'Anac le elenca: "Si riscontrano ricadute negative sulla qualità delle prestazioni e sull'incremento dei costi, nonché sulla lesione della concorrenza, come effetto della sottrazione alle regole di competitività del mercato di una cospicua quota di appalti, affidati per la maggior parte senza gara". I diciotto rilievi. Cantone conferma, punto per punto, i rilievi che aveva sottoscritto contro la gestione di Roma Capitale nell'ottobre scorso. A nulla sono valsi, come vedremo, i tentativi del Comune di dimostrare che ha le carte in regola. Resta il pesantissimo elenco di omissioni con cui la prossima amministrazione dovrà fare i conti. Ecco il vizio principale, il ricorso "facile" alla cosiddetta "procedura negoziata", che è il contrario di una gara pubblica a cui tutti possono partecipare. Qui invece si invita un numero limitato di imprese, con cui "si negozia" l'appalto. Ma, secondo Cantone, c'è un difetto di origine, perché ci sono "carenza o difetto di motivazione dei presupposti" per ricorrere a questo tipo di procedura. Non basta. C'è "il ricorso sistematico ad affidamenti allo stesso soggetto", ci sono "le proroghe", anch'esse ingiustificate e non motivate. C'è "l'improprio frazionamento degli appalti". Ci sono "le varianti non motivate". Le imprese invitate sono sempre le stesse, manca "l'obbligatoria rotazione". E come se non bastasse "non sono sufficienti neppure i requisiti". Ognuno ha il suo sistema. Cantone ha esaminato, nella prima fase dell'indagine, 1.850 procedure negoziate, il 10% del totale. Nella seconda fase ne ha messe a fuoco 36, tra appalti, lavori in economia, cottimi fiduciari, affidamenti a cooperative. Ha confermato "i rilevanti profili di criticità nei comportamenti delle strutture gestionali di Roma Capitale". Ha scoperto, non senza sorpresa, che nel Comune di Roma "ciascun dipartimento ha sistemi informativi diversi", che quindi non si parlano tra di loro. Per di più l'Ufficio contratti, incardinato presso il Segretariato generale, "è dotato di un sistema centralizzato esclusivamente per le gare ad evidenza pubblica". Tutte le altre, di conseguenza, sfuggono in mille rivoli incontrollabili. Il boom delle Coop. L'indagine dell'Anac rivela che, soprattutto per le cooperative che operano nel sociale, nel triennio 2012-2014 "c'è stato un esorbitante numero di affidamenti di cospicuo valore economico avvenuti in gran parte in forma diretta, a conferma del mancato rispetto dei principi basilari di concorrenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità". L'innovazione tecnologica. Il Dipartimento si difende dalle accuse di Cantone, scrive di "5 gare annullate", di proroghe obbligate "per la mancanza di personale", di imprese scelte senza nuove verifiche (per il Sistema informativo di riscossione e per la Gestione del Sistema Dorado 380) perché già state fatte in precedenza. Ma Cantone ribatte che ciò dimostra "l'omesso controllo dei requisiti sia generali che speciali". Disabili senza controlli. Sui 2milioni di euro per l'affidamento del servizio per i disabili Cantone ribadisce "l'uso improprio della procedura negoziata", "violazioni della pubblicazione della gara", un avviso di gara troppo ristretto, Nota che anche l'Atac, quando aveva gestito il servizio, non lo aveva fatto correttamente e si era rivolto a terzi senza avvisare il Dipartimento. Case ad anziani e rom. Anomalie anche in questo settore, con la beffa che il Dipartimento politiche sociali e abitative, a Cantone che critica l'assenza dei controlli, fa notare come "per immigrati e rom non vi siano regolamentazioni specifiche". Quindi perché rispettarle? Strade, canili e software. Cantone annuncia che il suo occhio si allargherà anche alla (contestata) gestione dei canili di Roma. Si stupisce che il Dipartimento Tutela ambientale vanti, come una novità, l'acquisto solo adesso di un software per monitorare gli appalti. Critica la proroga per gli affidatari della manutenzione stradale. Sul mondo della macellazione e della relativa conservazione a freddo critica il ricorso sempre alle stesse imprese.
Roma ha solo due padroni: la politica e i palazzinari. I documenti riservati del Campidoglio mostrano come siano i costruttori a decidere il futuro della Capitale. Tra affari antichi e nuovi progetti, alleanze e liti, ecco come continuano ad avere le mani sulla città, scrive Lirio Abbate e Gianfranco Turano il 4 febbraio 2016 su “L’Espresso”. La vera torta miliardaria di Roma, sfuggita finora alle indagini della procura, è l’urbanistica. È qui che i potenti allungano le mani. È qui che i palazzinari ingordi si lanciano per concludere affari di cemento grazie anche alla complicità di quei politici devoti e grati per il sostegno ricevuto durante le campagne elettorali. È nella Capitale che avviene il «sistematico abuso» di varianti urbanistiche. Nel numero in edicola da venerdì 5 febbraio, l'Espresso pubblica documenti riservati del Campidoglio da cui emergono gli affari dei costruttori ottenuti con la complicità politica e amministrativa. Dagli atti interni agli uffici viene sottolineato l’abuso «sistematico» alle varianti. Troppe volte, su pressione dei costruttori, i progetti vengono modificati. Con più cubatura, una diversa destinazione d’uso, meno oneri concessori. Nella città che tutto concede ai costruttori, dove alcuni impiegati “fedeli” del Campidoglio segnalano - prima dell’arrivo del commissario Francesco Paolo Tronca - il «sistematico abuso» di varianti urbanistiche e gli affari conclusi dietro le quinte, è sempre il mattone a dettare i compiti all’amministrazione. Oggi come ieri la Capitale ha solo due padroni. La politica e i palazzinari. Dalla loro alleanza Roma si è trasformata in ciò che ora è visibile: il grande spettacolo di un totale declino. Lo sviluppo urbano lo fanno da sempre gli imprenditori del mattone. Con i suoi 129 mila ettari di estensione, Roma è il comune più grande d’Europa. A distanza di quarant’anni il Campidoglio ha adottato, nel 2003, un nuovo piano regolatore generale, poi approvato nel 2008. Sovrapponendo la cartina di oggi della metropoli a quella disegnata nel piano regolatore, si può constatare che la situazione non combacia. Varianti su varianti hanno portato a modificare tutto, in silenzio. E a guadagnarci sono stati sempre i soliti. I costruttori intendono mantenere le mani sulla città. Non possono più contare su finanziamenti statali a fondo perso, come insegna la vicenda della metro C, un calvario di ritardi e interruzioni, o l’aborto della linea metropolitana D. I programmi di sviluppo residenziale e commerciale sono impiombati dalla crisi. Interi quartieri di recente inaugurazione sono in larga parte sfitti e producono solo costi. Che fare? I progetti sportivi possono essere la chiave per rianimare le acque stagnanti. I re del mattone puntano sul nuovo stadio della Roma, sul nuovo centro della Federcalcio e soprattutto sulle Olimpiadi 2024. Sono tutte operazioni che possono andare in porto grazie alla partecipazione finanziaria di partner privati, dal Cio (Comitato olimpico internazionale) alla squadra di business raccolta intorno all’As Roma. Ma il pubblico conserva un ruolo fondamentale, sia nella partita delle concessioni urbanistiche sia nel sostegno infrastrutturale dove la Capitale sconta ritardi storici. La vicenda del nuovo stadio dell’As Roma è lo specchio deformante dei rapporti di potere della capitale. Sull’operazione ci sono alcuni appunti riservati del Campidoglio, di cui è in possesso “l’Espresso”: «Il progetto è deficitario sotto molti aspetti», «il dipartimento ambiente e mobilità ha rilevato deficienze», soprattutto per la «relazione idrogeologica» e per il «codice appalti». Lo stesso documento riservato segnala poi che la proprietà dei terreni scelti è «in parte di Armellini». Armellini «quello di Ostia», si aggiunge, ricordando che la famiglia Armellini con il Comune ha molti affari, a Ostia nuova interi quartieri sono affittati per l’edilizia popolare. Altra partita che ha indispettito un po’ tutti, invece, è quella dei Caat, i Centri di Assistenza Abitativa Temporanei. Sono case - o meglio sono spesso uffici riconvertiti - per chi è in emergenza abitativa e non entra nelle graduatorie per le case popolari. Sono decine gli edifici affittati a caro prezzo dal Campidoglio con una spesa di 54 milioni all’anno. Il Comune - ed è uno dei suoi ultimi atti - ha sostituito il dispendioso sistema dei Caat con quello del contributo all’affitto. Scrive Luigi Ciminelli, direttore del dipartimento politiche abitative, in una relazione all’Autorità anticorruzione: «Tale sistema, che prevede la disponibilità di mille alloggi da destinare ad altrettanti nuclei familiari in assistenza alloggiativa temporanea, consente di ottenere un risparmio anno a regime di 13 milioni di euro». Chi ci ha rimesso? Sicuramente la cooperativa Eriches 29 che con Salvatore Buzzi incassava, nel 2012, più di 5 milioni di euro per i servizi, dalle pulizie alla guardiania. Poi si va dalla Immobiliare San Giovanni 2005 del costruttore Antonio Pulcini, che con una palazzina da 84 alloggi incassava 2,7 milioni di euro, all’immobiliare Ten di Francesco Totti, il capitano, amministrata dal fratello, che incassava 908mila euro per 35 unità abitative. Perché il sistema dei Caat venisse archiviato bisognava prevedere una serie di strutture per l’accoglienza degli sfrattati. Cambia l’acronimo, sono i Saat, e anche le caratteristiche: niente più uffici riconvertiti, ad esempio. La gara europea lanciata dall’assessore Danese va però stranamente deserta. Non risponde nessuno, a nessuno dei lotti, anche al più piccolo: difficile senza mettersi d’accordo. La Giunta poco dopo va a casa, e il commissario Tronca deve prorogare i Caat, ogni mese in più costa ai cittadini più di tre milioni di euro.
Roma e le case del Comune a canoni irrisori. «Noi, in affitto a pochi euro». Circa sessantamila beni del Campidoglio, tra musei, negozi, locali, sedi di associazioni o partiti politici, case popolari, appartamenti ai privati, scrivono Erica Dellapasqua ed Ernesto Menicucci il 3 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Borgo Pio, due passi da San Pietro, dove anche un monolocale può costare oltre mille euro al mese. La signora Giuseppina Tozzi, 77 anni, vedova, pensione sociale, abita in 27 metri quadrati e paga 8 euro al mese. Di fronte ai cronisti, sbotta: «Ma che volete da me? Ho la minima, mi devo curare, non mi possono certo aumentare l’affitto. Sa quanto prendo io di pensione?». No signora, non lo sappiamo: «400 euro al mese». E quindi? «Anche se me lo portano a cento euro, non me lo posso più permettere». Benvenuti nel mondo del patrimonio immobiliare del Comune di Roma. Circa sessantamila beni, tra musei, negozi, locali, sedi di associazioni o partiti politici, case popolari, appartamenti affittati a privati. Un vario mondo, nel quale c’è di tutto: canoni scaduti, contratti mai rinnovati, abusivi più o meno accertati. Ma anche persone indigenti che di più non potrebbero sborsare e che stanno lì, magari in zone di pregio perché in attesa di un alloggio popolare che non c’è. Un ginepraio sul quale più di un’amministrazione si è scontrata. Ora tocca al commissario Francesco Paolo Tronca, che si è lanciato in una «missione impossibile»: riuscire a fare, in appena quattro mesi (il tempo residuo del suo mandato), quello che non è riuscito in decenni. E alla Procura - che ha già gli elenchi degli inquilini - valutare eventuali reati compiuti dai funzionari che hanno gestito gli alloggi. Perché il «nuovo scandalo» degli appartamenti del Comune affittati a pochi euro (c’è anche chi paga 60 centesimi al mese) è in realtà vecchio come il mondo, oggetto di una serie di esposti ed interrogazioni presentati — solo per restare agli ultimi sotto la giunta Marino — dal Movimento Cinque Stelle, dalla Lista Marchini e persino dall’Unione inquilini. Risultati? Pochissimi. Il signor Benito Scarpetti, 80 anni, abita in via del Colosseo (non c’è bisogno di precisare dove si trova...), paga 97 euro al mese, «più 44 — precisa lui — di extra per gli oneri» e anche lui si arrabbia: «Questa casa — dice mostrando un tesserino — lo lasciarono a mia madre ai tempi di Mussolini. Ora che volete da me?». Altro giro, altro caso. A piazza del Grillo, su via dei Fori Imperiali, proprio di fronte a Palazzo Senatorio, sede del Comune, c’è il Corpo di soccorso dell’Ordine di Malta, «ospitato» dentro un palazzotto tutelato dai Beni culturali. Canone di affitto? «Paghiamo dodici euro. L’anno», dice il direttore Mauro Casinghini: «Nel 1946 l’Ordine mise a posto via Alessandrina e ottenne questa sede, ad un affitto simbolico. La convenzione è scaduta nel 1980, poi non abbiamo più sentito nessuno». Eppure, spiega l’ex assessora al Patrimonio (sotto Ignazio Marino) Alessandra Cattoi, «le lettere per i rinnovi dei canoni sono partite a luglio 2015». Un anno dopo la delibera, varata dalla giunta del sindaco/chirurgo (dal suo vice Luigi Nieri), che decideva il rinconteggio. E poi? «Ci sono state delle resistenze da parte della Romeo (la società che gestiva il patrimonio immobiliare, ndr)...». Solo che in alcuni casi le lettere non sono proprie arrivati. E, negli altri, meno di un terzo degli inquilini ha fornito i dati per regolarizzare la propria posizione. Degli altri, qualcuno ha fatto causa, altri non hanno proprio risposto. In tutto, le case in oggetto di verifica sarebbero «7-800». E dai primi riscontri delle indagini avviate da Tronca (574 immobili) risulta che solo nel 18 per cento dei casi esistono dei contratti regolari. Il commissario è per il pugno duro: chi non ha i requisiti, verrà sfrattato. Con buona pace anche di chi ha una pensione sociale.
Affittopoli a Roma, per le sedi di partito canoni da 12 euro al mese. In centro il Pd ha 170 mila euro di arretrati, scrive "L'Huffingtonpost" il 04/02/2016. Ci sono anche i partiti nello scandalo Affittopoli a Roma. Come documentano oggi alcuni quotidiani da molti anni le forze politiche beneficerebbero di canoni a prezzi stracciati per le proprie sedi. A due passi dal Colosseo - scrive il Messaggero - si troverebbero ad esempio due locali, uno occupato da Sel e l'altro da Fratelli d'Italia, concessi al costo record di soli 12,91 euro al mese. In centro, riporta sempre il quotidiano romano, in una delle sedi più famose della città, quella di via dei Giubbonari, il Partito democratico avrebbe un "arretrato" da pagare con il Comune di ben 170 mila euro. Solo una piccola parte di un debito nei confronti degli enti pubblici che ammonterebbe a circa un milione di euro. Si dirà magari i dem avranno pagato fior di quattrini per occupare 60 metri quadrati alle spalle di Campo de' Fiori? Sbagliato: anche qui prezzi popolari, appena 102 euro al mese. All'inizio partì da 320 lire nel dopoguerra, per arrivare a 12 mila lire negli anni '80.
Il Corriere della Sera aggiunge qualche dettaglio in più: Con l’avvento della giunta di centrodestra guidata da Gianni Alemanno, il canone «schizzò» a 1.200 euro mensili, il prezzo attuale. Solo che, a quel punto, furono gli stessi «compagni» della sezione a riabbassarsi (in piena autonomia) l’affitto a 102 euro al mese. Un pasticcio, proseguito sotto la giunta Marino, che decise di «stralciare» il palazzo di via dei Giubbonari dall’operazione di vendita del patrimonio immobiliare. Così, di lite in lite, un contenzioso dopo l’altro, polemica su polemica, si arriva ai giorni nostri. L’amministrazione Tronca, vista la pesante morosità arretrata, invia la lettera di sfratto esecutivo: la missiva arriva il 24 dicembre, come un bel regalo di Natale. La lista è lunga. In zona Esquilino un circolo del Pd - scrive il Messaggero - paga 667 euro al mese. Quella di Sel circa 700. A Tor Tre Teste invece l'associazione il Segno vicino a Sel paga 142 euro al mese. Sempre nella galassia delle associazioni il Corriere della Sera riporta anche il caso dell'associazione Imagine, in via dei Volsci, definita "la onlus di Ignazio Marino" e che "occupa ancora uno stabile comunale dove pagava 239,76 euro al mese".
Affittopoli Roma, Tronca: "Perdite per 100 milioni all'anno". Il commissario straordinario in tv parla delle case del Comune affittate a prezzi stracciati: "Andremo fino in fondo, scoveremo zone grigie. Quando siamo arrivati non c'era un censimento completo", scrive "La Repubblica" il 3 febbraio 2016. Alcune case del Comune di Roma affittate in centro a prezzi stracciati Circa una perdita per le casse comunali di 100 milioni all'anno e "forse, una volta terminato questo lavoro su tutto il patrimonio del Comune arriveremo a proiezioni ben superiori". E' la previsione del commissario di Roma Francesco Paolo Tronca che risponde a Uno Mattina sul caso delle case del Comune in affitto a prezzi stracciati. "Dobbiamo svolgerlo in tempi rapidissimi e con la tecnologia più avanzata", ha detto. "Il problema è di metodo e etica, per quanto riguarda l'etica noi questa volta dobbiamo andare fino in fondo, perché lo dobbiamo ai romani ma anche ai dipendenti dell'amministrazione: dobbiamo far vedere che certe cose si possono fare se si vogliono fare. Poi è un problema di metodo, come farle? Oggi abbiamo strumenti che non avevamo anni fa. Stiamo lavorando incrociando le banche dati, un sistema che deve essere implementato, magari con una piattaforma informatica dedicata", ha continuato il commissario Francesco Paolo Tronca a Uno Mattina su Rai 1. Interpellato sul caso di una anziana che paga di affitto 8,27 al mese ma prende solo 400 euro di pensione, ha risposto: "I casi vanno analizzati puntualmente anche da un punto di vista sociale. Ci sono situazioni che devono essere supportate. Le zone grigie secondo noi ci sono. Il censimento prevede decine di migliaia di appartamenti di proprietà del Comune, ma quanti sono quelli che non sono caricati nel censimento e sfuggono alla nostra attenzione? Questa è la sfida", continuato Tronca. Massimo impegno quindi da parte del commissario straordinario. "Abbiamo deciso di cominciare con una squadra ad occuparci di questo. Questa squadra si è raddoppiata ora probabilmente si triplicherà, perché dobbiamo individuare questi immobili. Vedremo tutti i municipi senza fermarci. I 574 casi riguardano il municipio I, ora partiranno delle squadre - ha aggiunto - che faranno accertamenti su pratiche delle singole locazioni, verifiche sul campo e poi vedremo di capire quali sono le reali dimensioni del fenomeno. Non sta a me accertare le responsabilità finali - ha chiarito Tronca - Dove rileverò situazione di anomalia, sarà la magistratura ordinaria e contabile a valutare caso per caso". Si riuscirà a vincere questa sfida i mesi che restano del commissariamento? "Proveremo a farcela in tutti i modi - ha risposto Tronca -, ce la dobbiamo fare perché si tratta di dare un segnale molto forte. Poi bisogna andare avanti. Io e il mio staff, quando siamo arrivati, siamo rimasti stupiti dal fatto che non ci fosse un censimento completo: francamente è un'anomalia per un'amministrazione e qualche dubbio te lo fa anche nascere".
Roma, non solo case con vista Fori. Ecco quali sono i grandi affari con gli immobili comunali. Francesco Paolo Tronca "scopre" l'affittopoli del comune di Roma, cerca i dirigenti responsabili e annuncia sfratti. Insieme ai fortunati inquilini delle case del centro, c'è di tutto, a cominciare da partiti e ambasciate. E però, a volte, anche veri presidi sociali, scrive Luca Sappino il 2 febbraio 2016 su "L'Espresso". Appartamenti vista Fori e non solo. Il commissario Francesco Paolo Tronca è ora alle prese con l’affittopoli romana, proseguendo un lavoro di mappatura - lui la chiama «verifica puntuale» - già avviato dalla giunta Marino o denunciato dai 5 stelle, in realtà, ma lasciato giocoforza in sospeso. Sono letteralmente migliaia gli immobili per cui il Comune riceve fitti bassissimi, spesso - ma non sempre - senza alcuna ragione sociale. Per ora il Commissario si è concentrato soprattutto su quelli del primo municipio, cerchiando di rosso un alloggio a Borgo Pio dato per 10,29 euro al mese, uno in Corso Vittorio Emanuele per 24 euro al mese, uno ai Fori Imperiali, appunto, per poco più di 23 e in zona Colosseo per 25. Tronca ha anche annunciato che con la sua segreteria tecnica punterà all’«individuazione dei dirigenti che si sono succeduti nella gestione del patrimonio e che hanno stipulato i contratti», omettendo «l’aggiornamento dei canoni di locazione». Dice di voler lavorare poi, il Commissario, alle pratiche per tornare in possesso di questi immobili. Che sono residenziali e non. Spesso di pregio. Il circolo della Pipa, per fare un esempio pescato dall’Espresso dai documenti ad uso interno del Comune, è ospitato in un villino di «squisito stile rinascimentale» del XIV secolo. Siamo tra la collina dei Parioli e Villa Borghese. Stabile di pregio, area di pregio, pipe di pregio. Per gli amanti del genere una vera chicca, nonostante la non densissima attività culturale collaterale: stando al sito, una sola serata di poesie nel 2014, due libri, un concerto e un dibattito con il vice direttore del Messaggero sulla politica romana nel 2013. Peccato però che l’immobile sia del Comune e che la concessione sia scaduta il 20 luglio 2007 e, scrive la Corte dei conti, «non più rinnovata né rinnovabile». Il Comune alla fine del 2014, sotto Marino, dunque, ha anche calcolato il canone annuo dovuto, aggiornato ai valori di mercato: sono 47.616 euro. Il Vice procuratore generale Guido Patti, invitando a recuperare la morosità pregressa e a tornare presto in possesso dell’immobile, ricorda l’ovvio al direttore del Dipartimento Patrimonio, l’architetto Pier Luigi Mattera che diligente i primi di novembre gira l’appunto al Segretario generale: «Anche in caso di concessione di beni pubblici, l’ente locale è tenuto a dare corso ad una procedura competitiva». Trasformare il richiamo della Corte dei conti in realtà è però cosa evidentemente complicata, e per dare una spinta alla pratica Tronca deve assegnare un altro dirigente al Dipartimento, con “poteri sostitutivi in caso di inerzia”. «Percepita l'urgenza», scrive il Comune in una nota, tocca all’ex vicesegretario cittadino Luigi Maggio. I beni in ballo sono però anche più prestigiosi del casino per le pipe, e sono centinaia tra appartamenti, uffici e negozi. Per alcuni c’è poco da fare, come per l’immobile che Gianni Alemanno ha dato in concessione alla Roma Capitale Investments foundation. Sono mille metri quadri con vista su piazza del Popolo. La Investments foundation, nata durante l’era del centrodestra, si propone di portare a Roma capitali stranieri su progetti come l’ampliamento del parco divertimenti di Valmontone. Meno entusiasta di Alemanno, Marino voleva stoppare il comodato d’uso stipulato dal predecessore nel 2012, ma l’operazione in questo caso è stata bloccata dal Tar che ha dato per il momento ragione alla Roma Cif. Sono molti però i motivi per cui il recupero degli immobili, dati a prezzi troppo bassi o gratuitamente a chi spesso non ha titolo, diventa spesso affare delicato. In alcuni casi - ma Tronca sembra non curarsene troppo, da tecnico - ci finiscono in mezzo presidi associativi che offrono reali servizi e che vantano convenzioni stipulate con il Comune, seppur con alcune morosità. Sta facendo discutere in città il caso dell’Esc di San Lorenzo, centro sociale tra le altre cose attivo con i migranti, con corsi di lingua e assistenza legale. Altre volte, più dei ricorsi conta l’opportunità politica. Due sono ad esempio le sedi di partito di cui il Comune dovrebbe tornare in possesso, una del Pd, una occupata da Fratelli d’Italia. Il Partito democratico occupa, auto riducendosi il canone da oltre mille euro a poco più di cento, alcuni locali in via dei Giubbonari, a due passi da Campo de’ Fiori. È una sezione storica. Gli uffici del Comune già il 30 marzo hanno però chiesto il pregresso al segretario del circolo. Dopo qualche mese hanno insistito: 170mila euro di arretrati o lo sfratto. Però non basta. Il circolo si difende, parla di «presidio democratico», e si affida prima alla mediazione della deputata toscana Elisa Simoni, commissario del partito nel primo municipio e poi direttamente a Matteo Orfini. Identica situazione per Fratelli d’Italia, che occupa un locale in via delle terme di Traiano. Sempre spulciando nelle carte del dipartimento, due numeri civici prima, al 13, c’è invece il Casino ex Gualtieri, al margine del parco di Colle Oppio. Il locatario moroso è in questo caso la repubblica d’Egitto. E anche in questo caso il dirigente del Comune, a novembre, segnala che bisognerebbe proprio chiedere la morosità pregressa, non accontentarsi delle poche decine di euro versate, e attivare il procedimento per tornare in possesso del bene. Cosa fare però ancora non si è deciso. Con la comunità ebraica, ancora, c’è poi un contenzioso aperto per tre appartamenti nel cuore del ghetto, interno 1, interno 3 e interno 9 di via Santa Maria del Pianto 10. Per tutti già a marzo sono stati chiesti gli arretrati e ora - sempre a novembre - il dirigente scrive che si dovrebbe procedere con la riacquisizione. Si dovrebbe.
Case comunali a canoni irrisori: chi ha firmato quei contratti? Questa indecenza viene ripetutamente denunciata da più di un quarto di secolo, senza che però dalle denunce scaturisca qualche cosa di serio. C’è una ragione: l’impunità che i responsabili contavano di avere assicurata, commenta Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” il 2 febbraio 2016. Che il Comune di Roma affitti il proprio patrimonio immobiliare, compreso quello di pregio, a prezzi assolutamente ridicoli non è affatto una novità. Questa indecenza viene ripetutamente denunciata da più di un quarto di secolo, senza che però dalle denunce scaturisca qualche cosa in più rispetto alla sacrosanta indignazione dell’opinione pubblica. Il muro di gomma ha resistito imperterrito a ogni offensiva, reale o presunta che fosse. C’è una ragione: l’impunità che i responsabili contavano di avere assicurata. E qui sta la novità dell’iniziativa del commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca. La nota con cui lunedì ha comunicato di aver avviato una verifica a tappeto sul patrimonio immobiliare si conclude annunciando l’intenzione di individuare anche le responsabilità di quanti, al Campidoglio, hanno firmato quei contratti assurdi da dieci o venti euro al mese nel centro storico, come pure quelle di coloro che avrebbero omesso in seguito di adeguare quei canoni ai prezzi di mercato. Dichiarazioni che spianano la strada a eventi mai visti. Perché sarebbe impossibile, una volta accertate le responsabilità dei singoli dirigenti, evitare che si producano le logiche conseguenze. Trasferimenti, sospensioni disciplinari, perfino licenziamenti: il clima politico, del resto, si presenta favorevole all’applicazione di misure radicali. Senza peraltro considerare i naturali risvolti penali, almeno se è vero che il commissario, come ha detto ieri pubblicamente, manderà le carte ai magistrati. È difficile ipotizzare che Tronca, nei pochi mesi che rimangono alla fine del suo mandato, riesca ad arrivare fino al fondo di questo pantano. Ma sarà altrettanto difficile, per il sindaco che verrà, ignorare i dossier che il commissario sta aprendo. Questa città ha un disperato bisogno di pulizia, non solo nelle strade. E per fare pulizia bisogna cominciare a metter in crisi il sistema di clientele, connivenze e complicità che da decenni soffoca la parte sana dell’amministrazione comunale. Alla quale è chiesto adesso uno scatto d’orgoglio, per liberarsi dal giogo di corruzione e illegalità. Servono azioni inflessibili e la massima trasparenza. Non solo vanno individuati i responsabili amministrativi di queste scorribande decennali sull’immenso patrimonio abitativo della capitale, ma anche coloro che hanno beneficiato di regalie, favori e omissioni alle spalle dei contribuenti. Di sicuro ne vedremo delle belle.
La cricca dei ricorsi tributari pilotati. Tre giudici in manette per corruzione. Roma, 13 arresti tra carcere e domiciliari: l’organizzazione garantiva la vittoria nei contenziosi con il fisco in cambio di mazzette. Tra gli indagati l’attore Massimo Giuliani: avrebbe pagato 65 mila euro per ottenere l’annullamento di cartelle esattoriali del valore di tre milioni, scrive "Il Corriere della Sera” il 9 marzo 2016. Una cricca che pilotava i ricorsi tributari a favore di coloro che avevano contenziosi con il fisco. Sono 13 le misure cautelari (dieci in carcere e tre ai domiciliari) firmate dalla gip Simonetta D’Alessandro; nove gli indagati (imprenditori, singoli contribuenti e l’attore Massimo Giuliani) pronti a pagare per ottenere uno sconto sulle tasse; altre 50 le posizioni al vaglio della procura di Roma. Associazione a delinquere, concussione e corruzione (anche) in atti giudiziari le accuse attorno a cui ruota l’inchiesta, che la Finanza ha battezzato «Pactum sceleris». L’ordinanza è stata girata, per la valutazione di eventuali danni erariali, alla procura della Corte dei Conti. In carcere sono finiti i giudici non togati della Commissione tributaria provinciale di Roma, Luigi De Gregori e Onofrio Di Paola D’Onghia, il collega della Commissione tributaria regionale Lazio Salvatore Castello, l’avvocato tributarista Giuseppe Natola, i commercialisti S. B. e Rossella Paoletti, ritenuta al vertice dell’organizzazione, il finanziere Franco Iannella, il funzionario dell’Agenzia delle entrate Tommaso Foggetti e gli ex dipendenti della stessa Sandro Magistri e Daniele Campanile. I domiciliari sono stati disposti per i commercialisti Aldo Boccanera e David De Paolis e il dipendente della Commissione tributaria regionale Alberto Bossi. Scrive D’Alessandro nell’ordinanza: «Si tratta di comportamenti eccezionalmente allarmanti» per dei colletti bianchi, tant’è che gli avvisi di garanzia sono stati ricevuti dagli indagati «con assoluta indifferenza», malgrado nel frattempo sia sopraggiunta «una legge (la Severino ndr) significativamente più gravosa». I capi di imputazione formulati dai pm Giuseppe Deodato e Stefano Rocco Fava sono 18: i primi nove riguardano il solo De Gregori, già arrestato nel 2013; gli altri si riferiscono a Di Paola D’Onghia, a Castello e allo studio di Paoletti, che gli inquirenti ritengono la base logistica dell’organizzazione. Alla professionista si sarebbe rivolto anche Giuliani, che per ottenere l’annullamento di cartelle esattoriali del valore di tre milioni avrebbe versato 50 mila euro ai giudici della Commissione tributaria regionale e 15 mila ai commercialisti. L’inchiesta ha rivelato, secondo gli investigatori, una rete in grado di sterilizzare l’attività di accertamento del fisco. I contribuenti, dopo aver pagato tangenti in denaro o sotto forma di regali alla cricca, ottenevano sgravi di imposte dall’Agenzia delle entrate o riuscivano a vincere i ricorsi promossi davanti alle commissioni tributarie. Ciascuno dei 13 arrestati aveva un ruolo preciso e il sistema era così rodato da garantire pieno successo a chi era disposto a versare la mazzetta. È stato un professionista a rompere il circolo vizioso: vessato dalle continue richieste, ha finito per rivelare ai finanzieri della compagnia di Velletri l’esistenza dell’organizzazione. Il resto lo hanno fatto le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Francesco Caporale. L’inchiesta ora prosegue sia per recuperare il denaro frutto delle tangenti, sia per “resuscitare” i provvedimenti tributari indebitamente annullati grazie all’intromissione della cricca. Il Codacons ha annunciato che si costituirà parte offesa «a tutela della collettività». Perché, spiega il presidente Carlo Rienzi, «gli illeciti commessi hanno prodotto un danno economico evidente ai contribuenti onesti, centinaia di migliaia di romani che hanno regolarmente pagato i propri debiti con il Fisco o perso ricorsi nelle commissioni tributarie».
Roma, ricorsi fiscali pilotati: 13 arresti e perquisizioni. Coinvolti anche tre giudici tributari. Uno era già stato arrestato e condannato nel 2013. Nel mirino dell'inchiesta una cricca in grado di far ottenere anche forti sgravi. Tra gli indagati a piede libero l'attore Massimo Giuliani, scrive il 9 marzo 2016 su "La Repubblica". Tredici persone sono state arrestate dalla Guardia di finanza del comando provinciale di Roma con l'accusa di far parte di una cricca in grado di pilotare ricorsi tributari e ottenere così sgravi fiscali. L'operazione, denominata Pactum sceleris ha portato alla luce una organizzazione criminale che, stando alle accuse, dietro lauto compenso, garantiva ai contribuenti colpiti dagli accertamenti del fisco di uscire vittoriosi nei ricorsi presentati innanzi alle commissioni tributarie o di ottenere consistenti sgravi di imposte dagli uffici finanziari. Le indagini, coordinate da un pool di magistrati della Procura della Repubblica di Roma ipotizza nei loro confronti le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla concussione e corruzione anche in atti giudiziari. I giudici tributari arrestati sono: Luigi De Gregori, che già nel 2013 ebbe una condanna a 4 anni e 4 mesi di reclusione per fatti identici a quelli contestati oggi con i nuovi provvedimenti, Onofrio D'Onghia Di Paola e Salvatore Castello. Le altre persone finite in carcere sono l'avvocato Giuseppe Natola, i commercialisti Rossella Paoletti e S. B., gli ex dipendenti di Agenzia delle Entrate Daniele Campanile e Sandro Magistri, il funzionario dell'Erario Tommaso Foggetti e il finanziere Franco Iannella. Ai domiciliari invece sono finiti i commercialisti David De Paolis e Aldo Boccanera nonché Alberto Bossi, dipendente della commissione tributaria regionale di Roma. Tra gli indagati a piede libero c'è anche l'attore e doppiatore romano Massimo Giuliani, al quale viene contestato il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso con il suo commercialista S. B., con la commercialista Rossella Paoletti, con il collaboratore di quest'ultima Daniele Campanile, già dipendente dell'Agenzia delle Entrate, e con il giudice tributario Onofrio D'Onghia di Paola. I cinque avrebbero "promesso e versato somme di denaro a giudici e ad altri componenti della commissione tributaria Regionale non identificati, per ottenere un atto contrario ai doveri d'ufficio" tra l'ottobre del 2012 e il gennaio del 2013. Il riferimento, in particolare, è alla sentenza del 5 novembre del 2012, depositata il 26 novembre dello stesso anno, che bocciava l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate in relazione alla sentenza emessa dalla commissione provinciale, "favorevole al contribuente Giuliani ed inerente cartelle esattoriali di diversi accertamenti tributari per altrettanti anni di imposta per un ammontare di circa 3 milioni di euro". Giuliani, ipotizzano i magistrati, "metteva a disposizione e versava la somma pari a 65mila euro, così suddivisa: 50mila per i membri del collegio e D'Onghia Di Paola, e 15mila tra Paoletti, B. e Campanile". Il percorso, spiegano gli investigatori, era noto solo agli addetti ai lavori ed era così rodato da garantire il pieno successo di tutti i ricorsi proposti contro gli atti di accertamento del fisco, anche dei più improbabili. Grazie, però, alle rivelazioni di un professionista, vessato dalle pressanti richieste della 'cricca', il muro di omertà ha cominciato lentamente a sgretolarsi e, tassello dopo tassello, è emersa una rete di losche relazioni tra alcuni infedeli giudici tributari, dipendenti, anche in quiescenza, dell'amministrazione finanziaria, civile e militare, avvocati, consulenti e commercialisti, finalizzata a sterilizzare, con ogni mezzo, l'attività di accertamento del fisco. Il giudice della commissione tributaria Provinciale della Capitale, Luigi De Gregori, nel novembre del 2013 era finito in manette in flagranza di reato: finì nei guai per aver incassato una 'mazzetta' da 6000 euro che gli era stata girata da un avvocato di 71 anni che De Gregori aveva appositamente convocato a casa sua, invitandolo a chiudere 'da gentiluomini' un contenzioso con il fisco che riguardava il figlio dello stesso difensore. Questi, che aveva registrato tutta la conversazione, mise il nastro a disposizione della polizia e su suggerimento degli agenti, si ripresentò da De Gregori con le banconote fotocopiate come prova dell'avvenuta concussione. Ed effettivamente quei soldi, pochi minuti dopo la consegna, furono trovati dai poliziotti in un cassetto della scrivania. In precedenza, nel maggio del 2011, De Gregori convocò telefonicamente a casa sua il commercialista Arturo Mascetti per "presunti problemi ostativi all'accoglimento di due ricorsi" che il commercialista aveva presentato in commissione tributaria per conto del Centro Equestre Chiara Piccola Scarl contro una serie di accertamenti emessi dall'Agenzia delle Entrate. Mascetti, durante l'incontro, si sentì chiedere da De Gregori il pagamento di 15mila euro per vedere accolti i suoi ricorsi e condannare la pubblica amministrazione al pagamento delle spese, quantificate in 6mila euro. Non solo, ma De Gregori spiegò al commercialista che la sentenza "poteva essere predisposta" dallo stesso diretto interessato. L'affare non andò in porto perché Mascetti si rifiutò di pagare e preferì denunciare tutto ai finanzieri della compagnia di Velletri, i cui accertamenti diedero così il via all'indagine della Procura di Roma. Inutile dire che anche i ricorsi di Mascetti vennero bocciati. De Gregori, due anni dopo, patteggiò la pena a 4 anni e 4 mesi di reclusione e, proprio in relazione a questa condanna, si trovava ancora agli arresti domiciliari quando gli è stato notificato il provvedimento in carcere del gip Simonetta D'Alessandro. I nove capi di imputazione che lo tirano in ballo fanno però riferimento a un arco temporale che va dal maggio 2011 al giugno 2013, quindi prima dell'episodio che ha determinato il primo arresto. Le indagini condotte dalle fiamme gialle della compagnia di Velletri, hanno rivelato come, grazie al pagamento di ingenti somme o alla consegna di regalie di vario genere, numerosi contribuenti riuscissero ad ottenere indebiti sgravi di imposte dagli uffici dell'agenzia delle entrate o ad uscire vittoriosi nei contenziosi promossi davanti alla commissione tributaria regionale e provinciale di Roma contro gli atti di accertamento conseguenti alle verifiche subite dal fisco. Le 13 persone arrestate, di cui otto uniti da un vincolo associativo agivano, secondo gli investigatori, all'interno degli organi di appartenenza in base a ruoli ben precisi e all'esclusivo scopo di vanificare il lavoro di contrasto all'evasione fiscale. Il lavoro degli inquirenti prosegue per recuperare, da un lato, i proventi dei reati e, dall'altro, per ripristinare, e rinvigorire, i provvedimenti tributari indebitamente annullati dall'intromissione del gruppo criminale.
PARLIAMO DELLA LIGURIA.
…DI IMPERIA. Barbara Bresci, la pm “sedotta” da Gabriel Garko, ora deve pure difendersi al Csm…scrive "Oggi" il 26 aprile 2016. Barbara Bresci rischia grosso per i suoi apprezzamenti sulla bellezza di Gabriel Garko…Le sue frasi, si difende il magistrato, erano in una bacheca privata. Ma dopo aver perso l’inchiesta sull’esplosione della villa che ospitava l’attore, il pm dovrà convincere il Csm di non aver ecceduto la propria “continenza”. Mentre altri giudici possono fare tutto quello che vogliono…Il caso della pm che fece apprezzamenti su Gabriel Garko continua a suscitare polemiche. Dopo aver perso l’inchiesta è costretta a difendersi davanti al Csm. Il pm Barbara Bresci era il magistrato cui era stato affidato il caso dell’esplosione della villa in cui era ospite Gabriel Garko, che si salvò per un pelo. Una donna morì. L’attore fu sentito ancora in pigiama e impolverato. Il magistrato aveva un profilo su Facebook. E lì, la curiosità delle amiche aveva avuto la meglio: “Ma è davvero così bello?” le chiese un’amica. “Sì”. E ancora: “Ti sei rifatta gli occhi?”. Risposta: “Sì”. E ancora: “É tanta roba anche se acciaccato e in pigiama”. Qualcuno ha però portato all’attenzione del procuratore capo di Imperia, Giuseppa Geremia, la conversazione. E l’indagine le è stata tolta perché l’apprezzamento nei confronti dell’attore potrebbe “interferire sul necessario equilibrio” del magistrato, impegnato nell’ascolto dell’attore come testimone. Inutile la difesa del pm, scritta al procuratore: “Era una conversazione sulla bacheca privata di Facebook, non un messaggio pubblico”. Non è bastato. Perché ora la situazione è al vaglio della commissione disciplinare del Csm, che deve valutare se abbia rispettato l’obbligo di “continenza”. E al Csm Bresci ha aggiunto: “Garko non è indagato ma persona offesa, i commenti poi erano stati sollecitati da altri e non riguardavano i fatti oggetto dell’indagine”. Il Corriere della Sera rivela un altro dettaglio, appreso da un magistrato vicino alla Bresci: “Pensa che qualcuno l’abbia tradita perché quella bacheca non la vedevano tutti, qualcuno che aveva interesse a incastrarla e ha fatto la spia”. Ora Barbara Bresci ha cancellato il profilo Facebook. E anche lo staff di Garko fa sapere che l’attore non ha nulla da commentare. Restano alcune domande: l’Italia è di gran lunga il Paese occidentale più condannato dalla Corte di Strasburgo per le violazioni dei diritti dell’Uomo avvenute nei processi. Gli errori giudiziari sono molti e le ingiuste detenzioni migliaia. Non risulta che qualche toga abbia mai pagato per fatti del genere. Possibile che lo scandalo nella magistratura lo desti una battuta su Garko? Possibile che a scatenare un procedimento disciplinare sia una vicenda come questa, dove, sollecitata da un’amica, una pm ha semplicemente detto ciò che pensano milioni di italiane?
PARLA BARBARA BRESCI. La pm degli elogi a Garko: «Mi ridanno il caso? Non lo voglio più». Indagine tolta per i commenti in Rete, la commissione del Csm le dà ragione. «Tengo solo alla mia dignità». Durante Sanremo il magistrato seguiva il caso dell’esplosione nella villetta dove l’attore era ospite, scrive Andrea Pasqualetto il 19 giugno 2016 su "Il Corriere della Sera". Quel giorno Gabriel Garko era in pigiama e malconcio. Ma lei l’aveva trovato comunque affascinante e lo scrisse con leggerezza alle amiche di Facebook. Imprudente, certo, considerato che l’attore era il testimone e lei il pm titolare dell’inchiesta. Ma la settima Commissione del Csm le ha dato ragione e ora, dopo due mesi di graticola, il pm di Imperia Barbara Bresci tira un sospiro di sollievo e dice di sentirsi sollevata perché il periodo è stato proprio nero. Iniziò il giorno in cui il procuratore d’Imperia, Giuseppa Geremia, le revocò l’inchiesta invocando «il necessario equilibrio» che sarebbe stato compromesso. «In ogni caso, quell’indagine, non la rivorrei», ha confidato Bresci ieri a una collega amica preferendo evitare i media. La questione è delicata perché i messaggi social le sono costati molto: al di là della perdita dell’indagine sull’esplosione della villetta di Sanremo dove Garko era ospite e dove morì la proprietaria, c’è in ballo il danno d’immagine e l’apertura di questo fascicolo al Csm che non è ancora chiuso. La Commissione dell’organo di autogoverno della magistratura, contraria alla revoca del fascicolo, ha infatti avanzato solo una proposta al plenum del Csm, in calendario mercoledì, a cui spetta l’ultima parola. Nel frattempo emergono le due ragioni del parere favorevole al pm. La prima: il «caso Bresci» non rientrerebbe fra quelli previsti per i provvedimenti di revoca. Seconda: il comportamento non andrebbe a incidere sul corso dell’indagine. Se ci sarà l’ok del plenum, il capo della Procura potrebbe essere invitata a tornare sui suoi passi. In ogni caso Bresci dice di non avere alcun interesse a riprendersi l’indagine, ora in mano ad altri. «Io tengo solo a tutelare la mia professionalità. Non nutro alcun attaccamento al fascicolo processuale», ha detto ai primi di maggio, sentita dal Csm. Nell’occasione aveva ribadito la sua intenzione di aver scritto quei messaggi su Garko a una platea limitata di amici: «Era la bacheca privata di Facebook, non quella “pubblica”». Il tenore della chat non era esattamente filosofico. «Ma davvero è così bello?», le chiedeva l’amica. «Sì». «Ti sei rifatta gli occhi». «Sì». «È tanta roba anche se acciaccato e in pigiama». Poche frivole battute. Che secondo alcuni sono state utilizzate come arma impropria nell’ambito dello scontro di potere che sta toccando Imperia e che coinvolgerebbe alcuni magistrati e avvocati del foro. Scontro sul quale sta indagando Torino, competente per territorio. Secondo questa ipotesi Garko è piombato in pigiama nel bel mezzo della battaglia, animandola.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
…DI BERGAMO. Le toghe a tavola fanno festa coi boss del narcotraffico. Spuntano le foto di tre magistrati bergamaschi con Patrizio e Massimo Locatelli: finiti in carcere dopo il papà per traffico di droga. Della famiglia di malavitosi parla Roberto Saviano nel suo ultimo libro "ZeroZeroZero", scrive Matteo Pandini il 9 aprile 2013 su “Libero Quotidiano”. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno». Lo scrive Roberto Saviano nel suo ultimo libro, ZeroZeroZero, in cui parla di cocaina e spiattella la storia del boss bergamasco Pasquale Claudio Locatelli. Attualmente è in carcere: poco dopo il suo arresto finirono in cella pure i due figli Patrizio e Massimiliano. Saviano si sorprende che nessuno, neanche nella provincia lombarda, avesse sentito puzza di bruciato quando i rampolli facevano fortune con un’industria edile come la Lopav Spa, mentre il papà-boss era già in galera con accuse pesantissime e il sospetto di legami con i clan di mezzo mondo, tra cui quello camorristico dei Mazzarella. Saviano ha ragione: nessuno sembrava sospettare. Neanche i magistrati bergamaschi. Tanto che alcuni di loro, tra i più seri e brillanti, facevano festa e pranzavano proprio con i figli del narcotrafficante. Facendosi addirittura fotografare per una rivista locale. Era infatti successo che poco prima di essere arrestati per ordine del gip di Napoli, i due ragazzi avessero organizzato un evento per riunire i 150 dipendenti e le relative famiglie. Era domenica 19 settembre 2010. Alle Ghiaie di Bonate, oltre ai titolari e agli operai, c’erano parecchi ospiti vip. Qualche politico. Alcuni religiosi, come l’arcivescovo Gaetano Bonicelli. E soprattutto tre magistrati: Carmen Pugliese, Angelo Tibaldi, Mario Conte. Non erano soli. C’era anche un ispettore di polizia in servizio in Procura. Questo dicono le fotografie. In più, alcuni dei presenti ricordano di aver visto pure il direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino e un sottoufficiale della Guardia di Finanza. Carceri e fughe - Circa un mese dopo, Patrizio e Massimiliano Locatelli finiranno in manette con l’accusa di concorso in traffico di stupefacenti e riciclaggio. Gli hanno sequestrato beni per circa 10 milioni. Già questo avrebbe dell’incredibile. Ma il peggio è che il padre, Pasquale Claudio, era un fuoriclasse della malavita. Saviano lo racconta bene nel libro. Quando aveva vent’anni si dedicava al furto di auto di grossa cilindrata. Locatelli - scrive Saviano - è furbo e inizia a imparare le lingue per allargare i suoi interessi. Austria. Francia. Poi Spagna. S’inventa parecchi soprannomi e si stabilisce in una villa nei dintorni di Saint-Tropez. Viene arrestato nel 1989. In casa gli trovano 41 chili di coca colombiana. Finito nel carcere di Grasse per scontare una decina di anni, si rompe un braccio. Gli agenti lo trasportano a Lione. Quando arriva a destinazione, un commando attacca la scorta e scappa col boss. È fuga. Va in Spagna e si fa chiamare «Mario di Madrid». Come racconta Saviano, è l’uomo di riferimento dei narcos colombiani in Europa e proprietario di una flotta navale per il traffico internazionale di cocaina. Non proprio un pesce piccolo, insomma. Lo scrittore lo definisce un «broker della polvere». E scrive: «Ha intuìto che l’eroina come mercato di massa stava finendo, mentre il mondo ne consumava ancora tonnellate». Nel 1991 riuscirà a scappare da una villa nel Bresciano, dove era andato dalla sua compagna Loredana. Pochi anni più tardi verrà pizzicato con un avvocato e il sostituto procuratore di Brindisi: nel processo il magistrato riuscirà a dimostrare di non sapere chi fosse Pasquale Locatelli e verrà prosciolto. Evidentemente, qualche boccone con le toghe sono un vizio di famiglia. Dopo anni di galera in Spagna, il boss torna nella prigione di Grasse (quella dell’evasione), ma nel 2004 devono estradarlo a Napoli. Una sentenza della Corte di cassazione gli ridà la libertà. E Locatelli senior torna in Spagna, dove fa dentro e fuori da galera distribuendo false identità. Intanto i due figli sono rimasti in Italia e mettono in piedi la Lopav Spa, che si occupa di pavimentazioni. Vincono pure un appalto da 500mila euro all’Aquila. Oltre a quello per il nuovo centro commerciale di Mapello, Bergamo, che a fine 2010 verrà scandagliato per la scomparsa della 13enne Yara Gambirasio, inghiottita nel buio di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo. Nel maggio 2010 Pasquale Locatelli finisce in carcere, dopo che gli inquirenti avevano pedinato proprio il figlio che lo stava raggiungendo in Spagna. Pochi mesi dopo, anche i rampolli subiranno lo stesso trattamento. Nel corso delle indagini su Yara, era emerso che il padre della ragazza, Fulvio Gambirasio, aveva avuto rapporti di lavoro con la Lopav. Per Saviano, aveva addirittura testimoniato in un processo contro Pasquale Locatelli. Ma la pista di un possibile collegamento con la scomparsa della 13enne è stata abbandonata in fretta. Sostituti procuratori - Erano tanto sicuri di sé, i rampolli Locatelli, da invitare a pranzo dei magistrati. Angelo Tibaldi fu tra i più giovani ed efficaci sostituti procuratori che indagarono sugli episodi di corruzione che, nell’era di Tangentopoli, riguardavano anche Bergamo. Da anni è giudice del tribunale civile. Carmen Pugliese è attualmente il sostituto procuratore di maggior anzianità della Procura orobica. Si è occupata di più settori: dallo spaccio di droga alla pedofilia. Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi giudice del tribunale civile, negli anni ’90 ha lavorato anche a Milano con Di Pietro. Recentemente è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti nel procedimento che lo vedeva imputato per i suoi rapporti con i carabinieri del Ros del generale Giampaolo Ganzer. Questa volta ha ragione Saviano. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno».
…DI COMO. Azouz Marzouk: "Rosa e Olindo innocenti, il vero assassino è libero", scrive di Francesco Borgonovo il 21 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. In quel teatro degli orrori conosciuto alle cronache come la «Strage di Erba», Azouz Marzouk è uno dei personaggi più disturbanti. Ambiguo, opaco, dotato di una carica negativa e ammantato di una luce nera. Una vittima, certo. Ma non solo. Senz' altro un protagonista, anche perché ha voluto a tutti i costi stare sotto i riflettori, a un certo punto ha provato anche a trarre profitto dalla sua condizione, e questo non ha giovato alla sua immagine. L'11 dicembre del 2006 - il giorno del sangue - era in Tunisia, dove è nato nel 1980, per far visita alla sua famiglia. Dunque, non è colpevole. Ma forse sa più di quel che dice, o forse millanta di sapere quello che non sa: decifrarlo non è semplice. Resta che le sue affermazioni aprono sempre voragini, spalancano interrogativi senza risposta. Nel maledetto giorno di dicembre di dieci anni fa Azouz non era in Italia. Intanto, nella corte di via Diaz a Erba, si manifestava uno scampolo di inferno. Quella sera, Azouz perse la sua compagna Raffaella Castagna e suo figlio, il piccolo Youssef, di appena due anni. Furono ammazzati a sprangate e coltellate, con furia bestiale. Assieme a loro, morirono anche Paola Galli, madre di Raffaella e suocera di Azouz, e Valeria Cherubini, una vicina di casa. Il tempo passa, i mesi si sommano ai mesi, e su quella carneficina gravano ancora tanti dubbi, in primis quello riguardante l'identità dei veri colpevoli. Già, perché i tribunali hanno indicato in Rosa Bazzi e Olindo Romano gli autori del massacro, eppure le sentenze non hanno illuminato tutti i luoghi oscuri. Ad Azouz, nel frattempo, ne sono successe di tutti i colori. Sono emersi i particolari torbidi del suo passato. Storie di droga e criminalità, l'espulsione dall'Italia, i tentativi raccapriccianti di procacciarsi un po' di celebrità sfruttando la mattanza dei suoi cari. Infine il matrimonio, nel 2009, con l'italiana Michela Lovo. Ora Azouz vive in Tunisia, per sbarcare il lunario, dice, fa il fotografo ai matrimoni. Sorte beffarda, per lui che voleva vedere stampate le sue, di foto, sui giornali di gossip. Non potendo mettere piede qui, si fa raggiungere dalla moglie appena possibile. Sono una famigliola felice, pare. Hanno due figlie, una terza in arrivo. Ma qualcosa turba Azouz: i mostri del passato. Le macchie che non riesce a lavare via tornano a perseguitarlo, e gli fanno temere per la sua sorte e per quella dei suoi cari. Il tunisino, dopo mesi di silenzio, ha deciso di parlare con i cronisti di Telelombardia. Lo ha fatto via Skype, e la sua intervista integrale andrà in onda questa sera nel corso della trasmissione Iceberg Lombardia condotta da Marco Oliva. Libero è in grado di anticipare i dettagli della conversazione, per molti versi inquietanti. Marzouk, infatti, da tempo si dice convinto che sulla strage di Erba non sia emersa la verità. Secondo lui, insomma, i colpevoli non sono Rosa e Olindo. Non solo non lo convince il romanzo horror dei vicini di casa assassini del profondo Nord. «Non sono convinto di tutto il processo», spiega. «Ancora ho dei dubbi, secondo me gli assassini sono ancora fuori». Poi sospira: «La mia vita è iniziata in salita ed è rimasta in salita». I mostri sono ancora lì, incubi che non se ne vogliono andare. Dal suo Paese Natale, Azouz esibisce il suo italiano non proprio perfetto, e parla di indagini e processi. «Ci sono dei punti che non sono chiari, quindi a uno gli viene il dubbio. Io vorrei togliermi questi dubbi», dichiara. Già, i dubbi. Per esempio quelli sulla confessione di Olindo e Rosa. Per Marzouk, non regge alla prova dei fatti, contiene troppi «non lo so o boh o non ricordo». Poi c' è la questione della vicina di casa. I soccorritori hanno detto di aver udito i suoi lamenti, quell' 11 dicembre. Ma forse qualcosa non torna. Secondo Azouz, il punto da chiarire riguarda «la testimonianza dei Vigili del fuoco». «Sentivano Valeria Cherubini che gridava "aiuto! aiuto!"», ricostruisce, «e il medico legale dice che il taglio che ha sulla gola non le permette nemmeno di parlare. Quindi c' è qualcosa che non va anche lì». Ma, soprattutto, al tunisino non va giù che non siano «stati analizzati gli indumenti di Youssef». Quella è stata «una sciocchezza», dice. Sui vestitini del suo bimbo che non c' è più potrebbe esserci la chiave di volta di tutta la vicenda, almeno di questo è convinto Azouz. «Sento che c' è qualcuno che ci sta ostacolando», racconta ai microfoni di Telelombardia. E aggiunge parole sibilline: «Se uno veramente si sente onesto, di aver fatto il suo lavoro bene, non gli cambia niente nel fare gli esami sui vestiti di Youssef, su quel famoso pelo che è stato trovato. Potrebbe essere dell'assassino». Ma chi è questo assassino che ancora si muove «la fuori»? Da dove viene? Marzouk non lo dice. Fa capire, però, di essere terrorizzato. «Temo sicuramente per la mia nuova famiglia», spiega. Racconta di provare terrore ogni volta che non è assieme alla moglie e alle sue bambine. «Ho paura», ripete. Forse non vorrebbe aggiungere altro, ma il cronista lo incalza, e lui si lascia sfuggire un'altra dichiarazione strana. «Ho paura che magari succede ancora quello che era successo nel 2006». Ha paura che accada di nuovo, Azouz. Teme che qualcuno possa accanirsi sulla sua compagna e le sue piccole. «Piuttosto di fargli del male prima devono eliminare me», ruggisce. Prima di chiudere il collegamento via Skype, Azouz afferma di essere disposto «a depositare la mia testimonianza». Altro non aggiunge. Ma i suoi timori parlano per lui. La luce ancora non illumina i luoghi oscuri di Erba.
Rosa e Olindo, la nuova prova. Il dettaglio che li può scagionare, scrive “Libero Quotidiano” il 6 dicembre 2015. È appesa a una manciata di "materiale pilifero" la possibilità che il caso di Olindo Romano e Rosa Bazzi possa essere riaperto. I due sono stati condannati all'ergastolo per aver ammazzato quattro persone ferendone gravemente un'altra a Erba, nel 2006. La traccia di capelli in questione è stata trovata sul corpo di una delle vittime e per l'inizio del 2016 sono previste nuove analisi che gli avvocati difensori Luisa Bordeaux e Nico D'Ascola sperano di usare come prove per scagionare i loro assistiti. Intanto Rosa e Olindo sono in attesa della Corte di Giustizia di Strasburgo, che dovrà chiarire se i due hanno avuto un giudizio equo dalla giustizia italiana. Gli avvocati, quindi, si affidano agli ultimi sviluppi scientifici perché convinti che anche vecchi reperti possono fornire dettagli finora ignorati per la ricostruzione della vicenda.
Strage di Erba. Ecco Olindo privatissimo: gli incubi, la cella. E su Bossetti..., scrive Matteo Pandini il 14 dicembre 2015 su “Libero Quotidiano”. «Tra me e Rosa non è cambiato nulla, ma vorrei passare più tempo insieme a lei. È la cosa che mi manca». Olindo Romano è ancora innamorato di sua moglie Rosa Bazzi, nonostante si possano vedere solo tre volte al mese. Sei ore in tutto. Lui, classe 1962, faceva lo spazzino. Ora è rinchiuso nel carcere di Opera. Lei, di un anno più giovane, era una donna delle pulizie. È in cella a Bollate. Sono stati condannati all'ergastolo per aver ucciso quattro persone - ferendone gravemente un'altra - a Erba, l'11 dicembre 2006. Secondo le sentenze, dopo anni di liti condominiali hanno stroncato con coltelli e spranga la loro vicina Raffaella Castagna (30 anni), suo figlio Youssef Marzouk di 2, sua madre Paola Galli di 60 e un'altra residente del palazzo: Valeria Cherubini, 55. Mario Frigerio, 65 primavere, è riuscito a sopravvivere per miracolo (poi è morto per malattia). Ora gli avvocati di Olindo e Rosa (Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D' Ascola) sperano di poter riaprire il processo. Facendo analizzare del «materiale pilifero», probabilmente capelli, trovato sul corpo del piccolo Youssef. Olindo - ciabatte, pantaloni della tuta blu e maglietta azzurra - crede di poter essere scagionato. Lo confida in una lettera, dove risponde a delle domande di Libero.
Signor Romano, come sta?
«Come salute sto abbastanza bene, mentalmente sono provato ma guardo avanti. A tempi migliori».
Ci descriva la sua giornata tipo.
«Mi sveglio verso le 8, faccio colazione e terapie per la pressione. Dalle 9 alle 11 lavoro. Tengo pulito fuori dal fabbricato dove mi trovo: strada, parcheggio e giardino».
Poi?
«Verso le 13 pranzo, con un'ora per andare nel locale cucina se voglio prepararmi qualcosa. Poi a volte vado all' ora d' aria con gli altri, mi occupo del giardino, taglio l'erba, se mi avanza tempo mi occupo dell'orto. Dalle 16 alle 19 faccio doccia e bucato».
E si arriva all' ora di cena.
«Non mi perdo mai Il segreto! (Una soap opera spagnola, ndr). Ma nei fine settimana non c' è, quindi vado in una saletta a giocare a carte, poi ceno. Mi piace preparare piatti veloci: spaghetti col sugo, carni, cibi surgelati. Alle 23 vado a dormire, magari sbrigo le faccende domestiche e rispondo alla corrispondenza».
Chiuda gli occhi. Che profumo c' è in carcere?
«C' è un po' di odore di fumo, nel bagno di Lysoform con il detersivo che uso per il bucato».
Com' è la sua cella?
«Entrando a destra, c' è un mobiletto con le ruote dove tengo le scarpe e sul ripiano le cose di cartoleria. Alle pareti ho tre calendari compreso quello di frate Indovino».
E che se ne fa di tre calendari?
«Sono indispensabili per non dimenticarmi cosa ho da fare!».
Diceva della cella.
«C' è un vecchio letto da ospedale con materasso e cuscino da campeggio che ho acquistato un paio di anni fa. Lì vicino ho il campanello per le emergenze e una lampadina che mi permette di scrivere. Ho una finestra, sulla sinistra c' è un piccolo bagno con lavabo, wc e una vaschetta attaccati insieme in acciaio, con i rubinetti da giardino. Poi ho un armadietto in metallo e un tavolino dove tengo quello che mi serve per cucinare. Tutto è tinteggiato di arancione col soffitto bianco».
Ha mai diviso la cella con qualcuno?
«No».
Può leggere i giornali e navigare in Internet?
«Leggo un po' di tutto, la tv la guardo poco, a Internet non si può accedere».
È interessato anche alla cronaca nera?
«Non la seguo molto».
Si è fatto un'idea di Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso Yara Gambirasio?
«Anche su Bossetti hanno fatto un grande pasticcio, non ho idea di come andrà a finire».
Riceve molte lettere?
«Sì, se fossero di più farei fatica a rispondere perché non ne avrei il tempo. Ho degli amici di penna che per qualche ora mi aiutano a dimenticare questo brutto luogo».
Lei è considerato un mostro.
«Mi sento come un pesce di lago finito in una palude».
E come la trattano gli altri detenuti?
«C' è chi mi parla e chi no e io mi comporto di conseguenza, non ho mai avuto grossi problemi».
C' è qualcosa che le ha dato particolarmente fastidio?
«Il modo, o la maniera, con cui tanti giornalisti della carta stampata e della tv, estrapolando da atti e documenti, sono stati colpevolisti a prescindere perché non hanno guardato tutto il contesto. Evidentemente non faceva notizia. Così hanno rovinato tanta gente, influenzando chi è chiamato a giudicare».
Qual è il momento più bello e più brutto che ha avuto in carcere?
«Diciamo che i momenti, belli o brutti, qui hanno un sapore diverso. Anche perché non mi manca qualcosa in particolare, qui mi manca sempre tutto!».
E in particolare le manca sua moglie Rosa...
«Il nostro rapporto non è cambiato, ma si è ridotto alle poche ore che abbiamo a disposizione».
Ha più sentito qualcuno della famiglia Castagna, per esempio il signor Carlo che nella strage ha perso figlia, moglie e nipote?
«Non ho più sentito nessuno, se poi loro considerano esaurienti i processi e sono convinti di aver ottenuto nel suo insieme un giusto processo al di là di ogni ragionevole dubbio, be' non c' è niente da dirgli».
E cosa pensa di Azouz, il marito di Raffaella Castagna e del piccolo Youssef?
«Azuz ha capito che le cose non tornavano, ma ormai è andata così. Guardiamo avanti. C' è ancora Strasburgo (la corte di giustizia europea che dovrà stabilire se i Romano hanno avuto un giusto processo, ndr) e la revisione del processo».
Ha incubi?
«No, dato che vivo un incubo. Quando mi sveglio non ricordo cosa ho sognato».
Lei e sua moglie prima vi siete autoaccusati e poi vi siete professati innocenti. Perché avete confessato, se non avete commesso la strage?
«È successo il 10 gennaio (2007, ndr), quando un carabiniere della scientifica di Como è venuto per prendermi delle impronte. Con lui ce n' era un altro, che non doveva essere lì e mi chiedo: chi l'ha mandato?».
E cos'è successo?
«Soprattutto lui, con insistenza, mi ha prospettato la migliore via d' uscita dalla mia situazione, e a Rosa hanno detto la stessa cosa».
Scusi, signor Romano: lei e sua moglie Rosa eravate accusati di reati gravissimi. Come potevate credere che la migliore via d' uscita fosse confessare un crimine mai commesso?
«Sul momento mi è sembrato il minore dei mali, non avevo capito che ero finito in qualcosa di più grande di me. Chiamatela come volete: manipolazione, trappola psicologica… L'avvocato d'ufficio è stato travolto pure lui».
Poi avete cambiato idea.
«Grazie a persone che ci erano vicine abbiamo capito che stavamo sbagliando e abbiamo ritrattato, ma quando sono arrivati gli avvocati che abbiamo tuttora il disastro era già stato fatto. Il giudice non ci ha ascoltati».
Cosa ricorda della sera della strage, quando siete tornati da Como e avete trovato la vostra palazzina zeppa di carabinieri, pompieri, giornalisti e curiosi?
«Ricordo quasi tutto, ma sono ricordi poco piacevoli e sfuocati dal tempo trascorso».
Ma se non siete stati lei e Rosa, chi ha ammazzato quelle persone?
«Non saprei».
Si sente una vittima?
«Vittima o capro espiatorio, la differenza è poca».
Cosa pensa della giustizia italiana?
«Va cambiata, lo sanno e lo dicono quasi tutti, il problema è che non lo fa mai nessuno. Per il momento».
Nei momenti difficili cosa l'ha aiutata?
«La speranza. E tante brave persone che ci hanno sostenuto a partire dai nostri legali e da altri che non conosco ma che a suo modo ci hanno aiutato».
Va a messa?
«Posso andarci ogni quindici giorni, Dio è sempre di conforto come lo sono i cappellani che ci sono nelle carceri».
S' immagini fuori di qui.
«La prima cosa che farei è abbracciare Rosa!».
Le capita di pensare alla vostra vecchia casa di Erba?
«Qualche volta, anche se non è più nostra».
Non si distrae col calcio?
«Non lo seguo».
Ascolta musica?
«Sì ma non ho preferenze: ogni cantante o gruppo ha dei brani che mi piacciono. Italiani e non».
Segue la politica?
«Non mi pongo il problema: mi hanno tolto il diritto di voto».
Ultima domanda: crede davvero di poter tornare libero, dimostrando la sua innocenza?
«Certo che ci credo, e non sono il solo a crederci».
…DI MILANO. E' stato condannato a 2 anni e 4 mesi l'ex pm di Milano Ferdinando Esposito, figlio del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset nel 2013, scrive "L'Ansa" il 6 luglio 2016. L'udienza del processo, con rito abbreviato, si è celebrata in mattinata al Tribunale di Brescia. Ferdinando Esposito era accusato di aver tentato di indurre l'avvocato Michele Morenghi e una dirigente immobiliare a sottoscrivere un contratto di affitto della sua abitazione attraverso una società facente capo ai due, dunque a pagargli l'affitto di casa. Esposito ha risposto anche dell'accusa di induzione nei confronti di un commercialista al fine di ottenere un prestito di denaro, allettandolo con la possibilità di presentargli magistrati che potessero poi affidargli incarichi come consulente. ''E' stata una decisione inattesa - ha dichiarato il legale di Esposito, l'avvocato Gian Piero Biancolella - perchè confligge con due decisioni emesse dal Gip e dal Tribunale del Riesame di Brescia, che avevano escluso nelle condotte tenute dal dottor Esposito un abuso della propria funzione e avevano ritenuto i fatti per cui oggi è stata emessa condanna penalmente irrilevanti. Leggeremo e poi presenteremo impugnazione''. Per il legale, l'ex pm di Milano sarebbe ''rimasto basito. Proprio in considerazione delle precedenti pronunce, non riteneva potesse essere pronunciata una sentenza di condanna''.
La commedia dei due Esposito. Gli altarini familisti di una sentenza berlusconicida, scrive Giuliano Ferrara il 25 Marzo 2015 su "Il Foglio". Il figlio pm del giudice di Cassazione che ha elaborato e letto il verdetto di condanna contro Berlusconi (parliamo dei due Esposito, come nelle commedie di Totò) soleva andare dall’imputato giudicato da suo padre a chiedergli di fargli fare carriera in politica, anche in pendenza del giudizio medesimo. La frode fiscale attribuita al padrone di Mediaset e statesman e outsider italiano, ma non ai suoi amministratori, come prezzo per un rifiuto o un’incapacità a promuovere il cursus honorum del figliolo? Ma no. Non vogliamo dire tanto. Ci vogliono le prove. Ci sono delle cravatte regalate dal Cav. al giovane Ferdinando, esplicite, durante i ripetuti colloqui eleganti ad Arcore, prima della condanna paterna, ma non c’è un Rolex. Ci sono le sue ammissioni esplicite, quelle di Ferdinando figlio di Antonio Esposito: volevo i pantaloni del politico e li ho chiesti a don Berlusconi, ma non se ne può inferire assolutamente che “poi ha provveduto paparino a vendicarmi” Quindi è tutto a posto. Salvo che noi in solitario su questo giornale abbiamo sempre chiamato quella sentenza, che contribuì alla storia politica italiana più della farsa detta processo Ruby, risoltasi in pochade voyueuristica, la “sentenza Esposito”. Et pour cause, miei cari. ARTICOLI CORRELATI C'è un giudice a Strasburgo La visita fiscale del giudice Esposito Nutro poche speranze nella stampa nazionale e nel funzionamento della giustizia, che stanno correndo appresso agli scatoloni pieni di soldi dell’ingegner Incalza e all’arsenale, un taglierino per il pesce giapponese, della mafia de Roma. A chi possiamo rivolgerci, noi del Foglio, che meriteremmo la presidenza della Cassazione honoris causa? Alla stampa straniera per esempio. Quei pecoroni se la sono bevuta tutta. Visto che l’Italia è borbonizzante, è molto diversa dalla giustizia newyorkese, dove te la puoi cavare se non ci sono prove stracerte anche se una cameriera ti denuncia per stupro e ti trovano il dna del tuo seme dieci minuti dopo nella tua stanza d’albergo, allora tutto è possibile. Così il culetto rotondo e ordinario e privato della signora El Marough e le ambizioni di un Ferdinando Esposito, bello a papà, vengono messe in secondo piano: c’era un delinquente a palazzo, e non si dica che la giustizia italiana è politicizzata. A parte i colleghi del Wall Street Journal, pochi si sono accorti di come è veramente fatta l’Italia o hanno fatto finta di non accorgersene perché in fondo è più comodo remare nelle galere con la canaglia degli schiavi. Dunque il primo di agosto di un anno e mezzo fa, regnante Enrico Letta con il conforto di Alfano e Lupi, Berlusconi viene condannato per frode fiscale (ed è se Dio vuole pendente un giudizio alla Corte europea di giustizia), condannato in simili illustri circostanze, da una magistratura figliante e paterna e cuginante. Il Cav. risorto dal caso Ruby e dal caso Fini-Montecarlo aveva quasi rivinto le elezioni del febbraio 2013, e impedito agli avversari di vincerle, aveva varato un secondo mandato al Quirinale e un governo di larga coalizione con il nipote del suo numero due. Ed ecco che già in agosto trovano il modo di dargli un altro colpo, che pensano decisivo, a lui e all’autogoverno degli italiani. Il gruppo della sussidiarietà, Letta e soci lupeschi, decide che di Berlusconi si può fare a meno, una squadretta ristretta è meglio di una maggioranza con lui. Ma hanno fatto i conti senza il Matteo, che li sgomina vincendo le primarie del Pd e andando a Palazzo Chigi con il patto per le riforme detto del Nazareno. Tutto, ma proprio tutto, dalla cacciata del capo del governo eletto nel 2011 allo sfascio della maggioranza possibile nel 2013, tutto è stato architettato da politici complici di una magistratura cugina e ferocemente personalizzata e politicizzata. Ora sono sconfitti i pregiudizi sulla furbizia orientale di Ruby e vengono allo scoperto gli altarini della sentenza Esposito, senza voler pensare male, senza per carità stabilire relazioni improprie. Il figliolo del Signor Giudice di Ultima Istanza aveva chiesto qualcosa che il Cav. non gli ha dato: una svolta politica e di carriera nella sua vita, da ottenere a mezzo di ripetute visite con cravatte in regalo. Chissà se i tanti cialtroni che hanno commentato gli eventi si sveglieranno dal torpore della loro intelligenza e della loro morale.
CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.
Malasanità anche in Lombardia: pazienti fantasma, protesi 14 volte, scrive il 15 settembre 2016 la Redazione Blitz Quotidiano. Malasanità anche in Lombardia: pazienti fantasma, protesi 14 volte. Pazienti fantasma che esistono solo per giustificare fatturazioni inventate, ticket imposti a esenti ignari di esserlo, protesi applicate anche 14 volte, medicazioni refertate per interventi mai eseguiti… L’elenco delle malefatte negli ospedali di mezza Lombardia, escludendo la grassa corruzione nel sistema degli appalti, è scritto nero su bianco sul rapporto che l’ex generale della Finanza Mario Forchetti ha redatto per incarico di Roberto Maroni: oggetto, i troppi casi di malasanità in Lombardia, proprio la regione che negli anni si è guadagnata una altissima reputazione per la gestione della salute pubblica. Pubblica fino a un certo punto: se vuoi curarti i denti, prenoti all’ospedale ma vieni visitato in ambulatori privati, quasi sempre di proprietà di Paola Canegrati, la “zarina dei denti” lombarda, ci informano Simona Ravizza e Gianni Santucci sul Corriere della Sera. “A titolo esemplificativo – scrive Forchetti – sono stati individuati in un solo ospedale (in un anno) 338 pazienti con esenzione per patologia che hanno ricevuto prestazioni in solvenza. Non è chiaro se i pazienti fossero consapevoli di avere diritto al trattamento con il Servizio sanitario nazionale con il pagamento del solo ticket”. C’è chi, rimbalzato come una pallina da ping pong tra Vimercate e Niguarda, s’è visto inserire per quattordici volte la stessa protesi provvisoria. Ai malati numero 22, 58 e 164 sono state fatturate medicazioni delle ferite chirurgiche in assenza di un’estrazione del dente (ma com’è possibile disinfettare una ferita se non c’è stata un’incisione?). Ad altri sono stati messi ponti con una sola corona (quando il minimo sono tre). (Corriere della Sera) La cosa grave, anche rispetto ai clamorosi scandali di corruzione esplosi negli ultimi anni, riguarda la qualità delle cure, cioè l’impatto reale di certi maneggi sulla pelle dei pazienti. Scrive l’ex generale: “È evidente che i controlli non sono stati efficaci (…). Il sistema di compartecipazione da parte dell’ospedale (che prende una percentuale sul fatturato, ndr) ha sicuramente attenuato l’interesse-dovere allo svolgimento di puntuali controlli”.
«La protesi messa 14 volte e i ticket chiesti a chi è esentato». Lombardia, il dossier voluto da Maroni sui casi di corruzione nella sanità, scrivono Simona Avizza e Gianni Santucci il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. Nei meandri della sanità corrotta, lì nell'ospedale modello alle porte di Milano, nell'edificio nuovo di zecca di Vimercate, in un solo anno ben 338 pazienti sono stati costretti a pagare pesanti parcelle per le cure ai denti anche se avevano il diritto di curarsi gratis in quanto malati cronici. E c'è chi, rimbalzato come una pallina da ping pong tra Vimercate e Niguarda, s'è visto inserire per quattordici volte la stessa protesi provvisoria. Ai malati numero 22, 58 e 164 sono state fatturate medicazioni delle ferite chirurgiche in assenza di un'estrazione del dente (ma com'è possibile disinfettare una ferita se non c'è stata un'incisione?). Ad altri sono stati messi ponti con una sola corona (quando il minimo sono tre). Una storia di scandali I casi sono messi uno in fila all'altro in un verbale di 75 pagine firmato dall'ex generale della Finanza Mario Forchetti, oggi uomo forte del governatore Roberto Maroni e da lui incaricato di passare al setaccio il sistema sanitario lombardo, troppo spesso travolto da scandali giudiziari. L'ultimo è quello che lo scorso 16 febbraio ha portato in carcere (e poi al patteggiamento) il leghista Fabio Rizzi, padre della riforma della Sanità. L'inchiesta della Procura di Monza, partita dalla denuncia di un revisore dei conti, Giovanna Ceribelli, ha portato alla luce appalti truccati per un valore annuo di 34 milioni nel business delle cure dentarie. Coinvolti gli ospedali di mezza Lombardia. Sulla pelle dei malati te evidenziato dalla Procura. Le carte mostrano, per la prima volta, come la corruzione può danneggiare direttamente i malati. Succede che i pazienti pensano di entrare in un ospedale pubblico, ma in realtà gli ambulatori dove vengono curati sono privati, in mano sempre alla stessa imprenditrice, Paola Canegrati, la cosiddetta «zarina dei denti» (che si trova ancora agli arresti per corruzione). E così, malati con il diritto di curarsi gratis per patologie croniche vengono invece dirottati su interventi a pagamento; i preventivi di spesa sono artefatti; i ticket possono essere pagati inutilmente; le prestazioni sono ripetute allo scopo di fare cassa; i materiali scadenti. Pazienti fantasma? Lo scenario della corruzione è duplice, ma in entrambi i casi allarmante: o negli ospedali di mezza Lombardia per anni sono stati curati pazienti fantasma, inventati al solo scopo di fatturare a danno delle casse pubbliche; oppure ai malati sono state fatte prestazioni inutili, eseguite per guadagnare sulla loro pelle. Si scoprono porcherie d'ogni tipo: «A titolo esemplificativo scrive Forchetti tariffa più vantaggiosa rispetto a quella prevista per il Servizio sanitario: una prima visita costa 24 euro contro 28 euro. Tale scelta tariffaria ha consentito probabilmente di dirottare prestazioni dal Sistema sanitario al regime di solvenza con conseguente danno erariale per la Regione e un maggiore incasso per il service e l'ospedale». Le prestazioni vengono ripetute sullo stesso malato in ospedali diversi, ma sempre a guida di società di Paola Canegrati: «Può essere utile un controllo dettagliato sulle prestazioni erogate a questi utenti. Su un codice fiscale scelto casualmente si riscontrano (...) prestazioni in quantità ripetute (14 inserzioni di protesi provvisorie in un paziente esente per patologia)». Addio qualità delle cure Per curare bene i malati ci deve essere un obiettivo irrinunciabile: «Bisogna tutelare Il caso Fatturate medicazioni di ferite chirurgiche, ma non era mai stato fatto l'intervento il cittadino che accede ai servizi sanitari, tanto più se esternalizzati (...). Il paziente che accede al service è convinto di entrare in uno degli ospedali prestazioni in solvenza. Non è chiaro se i pazienti fossero consapevoli di avere diritto al trattamento con il Servizio sanitario nazionale con il pagamento del solo ticket». C'è chi paga anche se non deve e chi paga più del dovuto: «Ci si può chiedere se il ticket è stato calcolato in modo corretto, scrivendo su ogni ricetta otto prestazioni (più ricette vengono fatte, più ticket vengono pagati, ndr)». Le visite a pagamento Ogni metodo è buono per incassare: «Per le visite si riscontra nel listino solventi una del Servizio sanitario regionale e a esso si affida con una certa sicurezza». Un principio che è stato dimenticato: «E evidente si legge nei documenti che i controlli non sono stati efficaci (...). Il sistema di compartecipazione da parte dell'ospedale (che prende una percentuale sul fatturato, ndr) ha sicuramente attenuato l'interesse-dovere allo svolgimento di puntuali controlli». Alla faccia della qualità delle cure.
Scandalo sanità, le intercettazioni: il pianto della dirigente per l’assunzione del figlio. Tra soldi nascosti in mansarda e appalti «esclusivi» per i«lumbard», i protagonisti dell’inchiesta che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Canegrati e Rizzi e quello che si sono detti al telefono, scrive Cesare Giuzzi il 17 febbraio 2016 su "Il Corriere della Sera".
1. Paola Canegrati, la Mandrake della Sanità. Nata a Monza, 54 anni. Partita come impiegata, viene nominata amministratore delegato della società per la quale lavora. In pochi anni fonda un impero di aziende odontoiatriche e si aggiudica la maggior parte degli appalti della Sanità lombarda. È la mattina del 16 aprile 2014, Paola Canegrati parla al telefono con il dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano, il fedelissimo Massimiliano Sabatino. Il «Gruppo Canegrati» vuole mettere le mani sugli Icp di Milano e Sabatino, che dovrebbe controllare la regolarità delle procedure d’appalto in realtà tiene aggiornata la manager e si confronta costantemente con lei, anche sulle procedure per evitare i controlli. L’imprenditrice deve rispondere ad una lettera di chiarimenti sull’attività delle sue aziende. La preoccupazione è massima: «Bisogna fare una roba che abbia un senso».
Paola Canegrati: Senti, allora due cose....la prima cosa è: stamattina io ho telefonato a una certa dottoressa Restelli perché ieri mi chiama il dottor Ortaglio.....fregola che gli devo mandare l’elenco di tutte le attrezzature di Cusano, Cologno...non mi ricordo più quali...mi pare questi due...stamattina arrivo in ufficio, vedo la lettera...che mi è arrivata ieri pomeriggio...consegna per oggi!...ho chiamato e gli ho detto...allora...va bene che io sono brava e che sono Mandrake...ma neanche...cioè...sulle acque non mi viene ancora molto bene...camminare...ci sto provando ma affondo...capisci? e quindi...
Sabatino: Sì è lui che vuole accelerare per poter produrre il capitolato che non so a chi caz... deve farlo vedere.
Canegrati: Io capisco perfettamente ma non mi può chiedere la roba la sera per la mattina..perché...
Sabatino: E tu gliela mandi quando puoi....gliela mandi quando...
Canegrati: esatto cioè...te lo volevo dire cioè che non è cattiveria ma la lettera è mandata ieri ore dodici con scadenza per oggi....anche perché io gli devo fare un lavoro serio, gli voglio allegare tutte le fatture con tutti i valori...pipi e pipà...cioè fare una roba che ha un senso!
2. Fabio Rizzi, l’uomo di Maroni e i soldi in mansarda. Varesino di Cittiglio, medico anestesista, ex senatore della Lega Nord, Fabio Rizzi 49 anni, è il plenipotenziario del governatore Roberto Maroni. Viene nominato presidente della commissione Sanità ed è a lui che il governatore affida la stesura della nuova legge regionale sulla Sanità. È la mattina del 17 gennaio 2015, Fabio Rizzi viene intercettato in un’ambientale mentre parla con la compagna Lorena Pagani, 43 anni, ora ai domiciliari, di 15 mila euro nascosti in soffitta. Denaro che, durante le perquisizioni eseguite martedì mattina dai carabinieri, però non sarà ritrovato.
Pagani: Tu come fai i pezzettoni da cinquecento che hai su...in mansarda?
Rizzi: Perché?
Pagani: E’ un casino adesso versarli.
Rizzi: Perché è un casino versarli?
Pagani: E non li prendono in banca eh!
Rizzi:I cinquecento?
Pagani: Neanche i duecento!
Rizzi:I duecento! I duecento perché ......c’è stato una roba di...falsificazione.
Pagani: Va beh!, a me quando salgo in Banca...
Rizzi: Vabbè c’ho anche qualche duecento mi sa.
Pagani: Uhe!!! Un botto ne hai di duecento.
Rizzi: No! Cinquecento e cento.
Pagani: Ah! te li ho rimessi su eh i quattrocento Fabio!, il giorno dopo, ...te li volevo mettere su già la sera stessa.
Rizzi: Terribile! Quei soldi lì probabilmente finiranno...nell’arredamento (i due devono arredare la nuova casa, ndr).
Pagani: : Quant’è che c’è su, quindicimila euro? E che ci fai con quindicimila euro?
Rizzi: Beh!!.... (La donna ride, ndr).
Pagani: Prendi la cucina!
3. Mario Longo, in Lombardia lavorano i lombardi. Mario Longo, 50 anni, già consulente della società Eupolis, riconducibile a Regione Lombardia, imprenditore nel settore odontoiatrico, è nello staff del presidente della Commissione Sanità, Fabio Rizzi. È lui a tenere i rapporti con l’imprenditrice Paola Canegrati, è lui ad intervenire quando bisogna «aggiustare» le cose. È il 14 gennaio 2015. Mario Longo e il presidente Fabio Rizzi vengono intercettati mentre parlano dell’affare Stomatologico. I dirigenti dell’ospedale vogliono rivolgersi ad un’azienda svizzera. La «cricca» interviene sui vertici dell’Azienda ospedaliera. La regola? Gli appalti devono rimanere in Lombardia.
Longo: Il messaggio per lo Stomatologico forte e chiaro!
Rizzi: recepito o no?
Longo: Tu pensa che il presidente manco lo sapeva!
Rizzi: A posto siamo! Molto bene.
Longo: Sai chi è che faceva il furbo tanto per cambiare? Seghezzi.
Rizzi: Bella testa di caz...!
Longo: Che ti manda tanti saluti...io l’ho ricambiato e gli ho detto: vieni a farti vedere, però! Che ti spiego un paio di dettagli.
Rizzi: Bravissimo.
Longo: Hai capito? E io gli ho detto chiaramente che in Lombardia lavorano i lombardi!Rizzi: e beh è chiaro cazzo!
Longo: E che siccome noi siamo azionisti di quella struttura privata perché come Regione Lombardia gli diamo un puttanaio di soldi...
Rizzi: no ma al di là di tutto, voglio dire...se stiamo portando avanti il discorso della rete del chilometro zero e tutto il resto, voglio dire...si fa quello e basta! punto.
Longo: no no gliel’ho detto...
Rizzi: l’importante è che lui abbia recepito forte e chiaro!
Longo: forte e chiaro, l’ho perd...l’ho battezzato e perdonato per la questione Bruccoli...perché lui, sai, già era molto sulla difensiva ...gli ho detto guarda, sbagliano tutti...tu sappi che noi siamo qui e ascoltiamo tutti, hai un problema? chiamami io ti ricevo, lo risolviamo! sei nella nostra...se ovviamente possibile per noi. E poi gli ho detto: tu l’hai letta la riforma?...ah no a dirti la verità...ho detto, guarda, adesso te la mando...
Rizzi: (ride).
Longo: leggitela bene...e capirai che il chilometro zero è il...la colonna portante...
4. Roberto Maroni e la riforma della Sanità targata Rizzi. Roberto Maroni, governatore lombardo dal 2013, ex ministro e leader della Lega Nord. Varesino, è lui a scegliere la nomina di Rizzi alla guida della commissione Sanità lombarda. Attualmente Maroni, dopo l’arresto dell’ex assessore Mario Mantovani, detiene proprio le deleghe sulla Sanità. È il 7 luglio 2014. Paola Canegrati è diretta in Svizzera insieme a Luca Galli. In auto parlano della nomina di Rizzi, della sua ascesa voluta dal governatore Roberto Maroni in vista della riforma della Sanità in Lombardia. Canegrati: Ho sentito Longo stamattina... m’ha detto... “allora...il Senatore Rizzi è stato ufficialmente nominato come l’interlocutore per la sanità dal presidente Maroni”...g’ho dit (gli ho detto, ndr) “congratulazioni”... Luca... (inc)... adesso questo qui s’è fatto fare questa.... progetto dentiere pazienti anziani... el ciapa utantamila euro l’anne (prende ottantamila euro l’anno, ndr).
Galli: Il Mario?
Canegrati: Si... per non fare un caz...
Galli: Sì, lo so, tu devi vedere cosa (inc) conviene fare ... le cazzate...
Canegrati: Che poi il lavoro g’al fu mi ne (lo faccio io, ndr).
Galli: Si comunque... se puoi tienilo buono... che comunque sono quelle persone pericolose...
Canegrati: Quello sì, figurati... lo tengo altro che buono... più buono di così... lui prende i soldi e io lavoro...ascolta...cosa fa?
Galli: Purtroppo.
Canegrati: Non va bene... non è sufficiente tenerlo buono così?...
Il nome del governatore Maroni sbuca anche in un’altra intercettazione, quella tra Longo e Paolo Enzo Brusini, dirigente ospedaliero del 12 maggio 2014. Ecco il sunto dei carabinieri: Longo e Brusini parlano del progetto di cui fa parte Longo agli Icp, dicendo che è stato fortemente pubblicizzato da Rizzi e dallo stesso Maroni. In tal senso Longo si lamenta della poca collaborazione (del Dg degli Istituti clinici di perfezionamento, ndr).
Longo: tu sai che lui l’ha osteggiato in tutti i modi possibili e immaginabili... Fabio (Rizzi, ndr) ha fatto una prova di forza e gliel’ha messo lì in modo inconfutabile (il progetto, Ndr) e lui adesso vuol far fare una figura di mer...a Fabio... perché quello è... poi io gli sto sul culo di riflesso...
Brusini risponde che lui (il Dg) è un direttore e non deve fare politica. Longo aggiunge che lui non comprende che è lì dov’è (il Dg di Icp) in quanto scelto dalla politica. Longo e Brusini continuano a commentare la figura del Dg e poi iniziano a parlare di altre vicende e di una riunione che ha convocato Maroni per l’indomani con tutti i direttori generali. Brusini si aspetta che Maroni li esorti a fare attenzione e Longo afferma che si tratterà di una riunione operativa in quanto gli è stato spiegato in un incontro con Fabio (Rizzi, ndr) che le aziende (ospedaliere) sono tutte ferme. Longo dice che dopo li fatti giudiziari Maroni deve dare un segno di controllo. Brusini teme che per far vedere che Maroni controlla, blocchi gli spostamenti dei Dg.
5. Pietrogino Pezzano, il dottor Dobermann e la Canegrati. Nato a Palizzi (Reggio Calabria) 68 anni fa, ex direttore dell’Asl di Monza, allevatore di dobermann, al tempo dell’indagine è il compagno di Paola Canegrati e direttore sanitario delle sue aziende. L’indagine viene avviata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano seguendo proprio le vicende di Pietrogino Pezzano. Il manager della sanità viene fotografato durante l’inchiesta Infinito-Crimine sulla ‘ndrangheta in Lombardia, insieme ad alcuni esponenti dei clan di Desio. La vicenda provoca molte polemiche culminate poi nel 2011 nella rivolta di 19 sindaci dell’hinterland milanese contro la sua nomina a direttore dell’Asl Milano 1. La nomina viene bloccata e Pezzano si ritira. Va in pensione ma non abbandona il business della Sanità e diventa direttore sanitario delle aziende della compagna Paola Canegrati. I carabinieri seguono i movimenti del «dottor dobermann» come viene soprannominato dagli amici e scoprono la rete di aziende del «Sistema Canegrati». L’indagine, partita dai legami con la ‘ndrangheta al Nord, finisce per concentrarsi sulle vicende di corruzione in Lombardia. Intercettati dai carabinieri Paola Canegrati e il commercialista delle sue società Giancarlo Marchetti parlano della vendita di una parte dell’azienda. Canegrati commenta che ha dato un sacco di soldi a un sacco di gente. Dice anche di aver dato un sacco di soldi anche a Pietro. La conversazione termina con i due che si chiedono cosa ne faccia Pezzano di tutti quei soldi e che commentano come la storia d’amore tra il Pezzano e la Canegrati stia volgendo al termine. Marchetti si poneva il problema di giustificare agli aspiranti acquirenti il costo del suo esorbitante stipendio (nel 2013 risulta avere percepito 210.999 euro da Elledent e 50.000 euro da Servicedent).
Marchetti: il dottor Pezzano...non sta facendo assolutamente…non è assolutamente un direttore generale, ma neanche lontanamente lo è.
Canegrati: dobbiamo giocarci…dobbiamo pensare in questo tempo come gli vendiamo Pezzano… questo sì… non posso dirgli che non ha mai fatto niente...
6. Massimiliano Sabatino, il «controllore» e la «cucciola». Massimiliano Sabatino è il dirigente della struttura “Gestione e controllo dei processi organizzativi e marketing sanitario” degli Istituti clinici di perfezionamento. Grande amico della manager Paola Canegrati, secondo i magistrati non solo è al suo servizio ma CP. Massimiliano Sabatino, scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, «si è dimostrato avere una relazione più che amicale (oltre che professionale) con Canegrati, finanche appellata ‘cucciolo’, ‘amore’; la frequentava in occasioni extralavorative e si prodigava di darle consigli e informazioni anche su futuri controlli da parte della Asl nei centri dalla stessa gestiti, così da permetterle di trovarsi preparata o di regolarizzare per tempo eventuali situazioni critiche”. Prosegue il giudice per le indagini preliminari: «La sua vicinanza a Canegrati è tale che la propria funzione di dirigente pubblico preposto anche alla vigilanza della corretta gestione dei centri, è totalmente svilita ed assoggettata a favore del pressoché quotidiano interessamento e intervento in via riservata al fine di favorire Paoletta, mettendola al corrente di informazioni riservate, concordando con la stessa condotte e strategie da tenere nell’ambito della gestione dei centri e scagliandosi contro i suoi più solerti colleghi. Intercettata è la stessa Canegrati a spiegare, chiaramente, il ruolo del dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento nel sistema di corruzione: Canegrati: chel bagai chi (questo ragazzo qui, in dialetto, ndr) gli voglio bene davvero...è un ragazzo...direzione generale degli Icp... quello col quale sto facendo la “marchetta dell’Opt”.
7. Pietro Caltagirone, una carriera ai vertici della Sanità. Pietro Caltagirone, 56 anni, direttore generale dell’ospedale di Desio e Vimercate. Ex socialista craxiano, uno dei manager di punta dell’era formigoniana. Per lui, il giudice ha disposto l’obbligo di dimora. Pietro Caltagirone, nel suo ruolo di Direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, si occupa della nuova gara per i servizi Odontostomatologici dell’ospedale. Bando che secondo gli inquirenti viene «costruito su misura» sulle esigenze del gruppo Canegrati. Scrive il gip: «Gravi indizi della responsabilità penale derivano proprio in ragione della carica da ciascuno rivestita e dell’attiva partecipazione nella formazione di siffatto bando illegittimo e farcito di clausole e di termini palesemente pregiudizievoli e univocamente orientati a favorire Canegrati». E Caltagirone non è nuovo a vicende di corruzione: «Quanto ai precedenti penali, va, in particolare evidenziato che Caltagirone è stato condannato, tra l’altro, per i reati di cui agli artt. 323, 479 c.p. (falso e abuso d’ufficio, ndr)».
8. Patrizia Pedrotti e il pianto per l’assunzione del figlio. Patrizia Pedrotti, 53 anni, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate. È finita ai domiciliari. Era già stata coinvolta in un’indagine per reati analoghi e sospesa dalle funzioni in seguito ad un’indagine della Procura di Milano. In un’intercettazione scoppia in lacrime quando la manager Canergati le annuncia l’assunzione del figlio Davide. È l’aprile del 2014, Patrizia Pedrotti, direttore amministrativo dell’ospedale di Desio e Vimercate, parla al telefono con l’imprenditrice Paola Canegrati. La manager le comunica l’avvenuta assunzione del figlio Davide presso una delle sue aziende, la Servicedent srl. «La gratitudine di Pedrotti, commossa fino alle lacrime, era infinita», scrivono gli inquirenti. Ecco la telefonata:
Pedrotti: Paola...(piangendo).
Canegrati Eh... cosa c’hai?
Pedrotti: Scusami...
Canegrati: Non piangere, hai un bellissimo ragazzo...
Pedrotti: Oh Paola, tu non sai...
Canegrati: Hai un bellissimo ragazzo, veramente proprio un...
Pedrotti: Era felicissimo, mi ha detto mamma finalmente qualcosa di positivo anche per...
Canegrati: Allora, hai un bellissimo ragazzo, mi sembra una persona molto seria... Pedrotti: Sì lo è.
Canegrati: Io sono stata molto determinata...
Pedrotti: Me l’ha detto, m’ha detto mi sembrava di parlare con te, vi assomigliate un casino...
Canegrati: Eh... io sono stata molto determinata, venerdì viene firma il contratto, lunedì comincia, io gli ho detto per me non ci sono... cioè... figli e figliastri, tu fai il tuo mestiere...
Pedrotti: Esatto, guarda davvero devi dirglielo, riprendilo, sgridalo, perché deve capire nel mondo del lavoro quanto si fa fatica, però guarda, ti giuro Paola... poverino...
Canegrati: Mi è sembrato, mi è sembrato veramente un ragazzo che ha valore, l’unica cosa che gli ho detto, gli ho detto lei comincia da questo posto che è il Cup, tra virgolette dopodiché se io valuterò che lei ha le capacità e le possibilità, di spazio e di tempo per migliorare ce n’è per tutti.
Successivamente Canegrati dice a Pedrotti che farà togliere il piercing all’occhio al figlio dell’interlocutrice e la stessa la ringrazia più volte piangendo.
Canegrati: Venerdì alle 11 viene firma il contratto lunedì comincia.
Pedrotti: Madonna guarda, veramente mi hai reso la donna più felice della terra in questo momento ti giuro...
Canegrati: Sono felice per te.
Pedrotti: No davvero guarda...
Canegrati: Ti abbraccio.
Pedrotti: Anch’io, non sai quanto guarda, potessi ti... ti... ti farei un monumento ti giuro.
Sanità lombarda: 20 anni di scandali giudiziari. L'arresto di Rizzi è soltanto l'ultimo capitolo. Da Poggiolini a Poggi Longostrevi fino a Mantovani: i casi di appalti pilotati, corruzione e malaffare in Regione, scrive di Francesca Buonfiglioli il 16 Febbraio 2016 su “Lettera 43”. Appena il tempo di spiegare la portata della riforma - o, meglio, «evoluzione» come la preferisce definire Roberto Maroni - del Sistema socio-sanitario lombardo, «perché 'riforma'», spiegava il governatore il 18 gennaio 2016, «evoca qualcosa che non funziona, mentre il Sistema socio-sanitario in Lombardia è una eccellenza» - che ecco piombare sul Pirellone un nuovo scandalo. Tra i 21 arresti spiccati il 16 febbraio nell'ambito dell'operazione Smile su presunte irregolarità in appalti odontoiatrici presso aziende ospedaliere lombarde c'è pure Fabio Rizzi, presidente della Commissione Sanità e Politiche sociali del Consiglio regionale nonché braccio destro di Bobo e padre di quell'«evoluzione» della Sanità più volte decantata dal governatore. L'accusa nei confronti del leghista è pesante: associazione per delinquere. L'indagine della procura di Monza è però solo l'ultimo capitolo del libro nero della Sanità lombarda. Che va dall'arresto di Duilio Poggiolini, il Re Mida della Sanità o il boss della malasanità, e arriva fino alle manette scattate ai polsi di Mario Mantovani, console berlusconiano, ras della sanità regionale ed ex vice presidente lombardo. In mezzo ci sono mazzette, truffe, vacanze e viaggi sospetti, turbative d'asta. Ma anche emoderivati infetti e cliniche degli orrori.
1993: Tangentopoli scoperchia gli affari di Poggiolini. Nella bufera milanese di Tangentopoli finì nel 1993 Duilio Poggiolini, presidente della Commissione per i farmaci dell'allora Comunità economica europea e iscritto alla P2. Secondo il pool di Di Pietro, Poggiolini era a libro paga delle case farmaceutiche per fare inserire i farmaci nei prontuari manipolandone i prezzi. A riscuotere le mazzette delle multinazionali era la moglie Pierr di Maria, anch'essa arrestata e morta nel 2007. Quando venne catturato latitante sotto falso nome in una clinica di Losanna, gli inquirenti trovarono su un conto svizzero intestato alla consorte 15 miliardi di vecchie lire. Nulla in confronto al cosiddetto 'tesoro Poggiolini': lingotti d'oro, gioielli, quadri, monete antiche, rubli e banconote nascoste perfino nei puff e nei materassi della sua abitazione all'Eur. Il boss della malasanità è poi tuttora sotto processo nell'ambito dell'inchiesta napoletana sul plasma infetto fornito dal Gruppo Marcucci. Secondo l'associazione politrasfusi, tra il 1985 e il 2008 le vittime di trasfusioni sono state 2.605. Ironia della sorte, l'ottobre 2015 l'87enne Poggiolini è stato trovato in una casa di riposo abusiva alle porte di Roma, tra anziani maltrattati, ammassati e confezioni di sedativi.
1997: Poggi Longostrevi e lo scandalo delle prescrizioni d'oro. Per un Re Mida della Sanità nazionale, ce n'era uno di quella lombarda: Giuseppe Poggi Longostrevi, medico e proprietario di una rete di cliniche private nel Milanese. Nel 1997 un'inchiesta mise con le spalle al muro centinaia di medici di famiglia che prescrivevano scintigrafie presso le strutture convenzionate di proprietà di Longostrevi dietro compenso (dalle 50 alle 100 mila lire) più il 15% del valore degli esami di laboratorio e regali da parte del manager. Secondo l'accusa, molti esami non vennero nemmeno effettuati. In compenso fioccavano i rimborsi da parte della Regione. La Corte dei conti stimò i danni causati all'erario in 60 miliardi. Ma c'è di più: Poggi Longostrevi tra il '96 e il '97 aveva pagato una mazzetta da 72 milioni di lire a Giancarlo Abelli, allora presidente della Commissione Sanità in Regione Lombardia. «Una consulenza», spiegò Abelli, già braccio sanitario di Roberto Formigoni. «Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione», confessò invece Longostrevi, che dopo nove mesi agli arresti si tolse la vita con una overdose di barbiturci. «Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto... Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore». Ciò che accadde ad Abelli che dopo lo scandalo delle ricette ottenne la poltrona alla Sanità. Alla fine se la cavò con un processo per false fatture. Ma visto che non si dimostrò la volontà di evadere le tasse, fu assolto dall'accusa di frode fiscale, continuando la sua carriera al Pirellone al fianco del Celeste e poi come fedelissimo di Silvio Berlusconi a Roma. È scomparso il 26 gennaio 2016.
2011: Daccò e l'impero del Celeste. In piena era formigoniana la sanità regionale è stata sconvolta da un altro scandalo: il crac della Fondazione San Raffaele, centro d'eccellenza di Don Verzé. Nel mirino nel novembre 2011 è finito Pierangelo Daccò, uomo vicino a Comunione e liberazione, accusato di distrarre milioni dall'ospedale: avrebbe ricevuto denaro in contante dal vice di Verzé, Mario Cal, poi finito suicida. Tra l'altro fu lui a gestire l'acquisto del nuovo aereo privato del prete-manager, intascandosi una consulenza da un milione di euro. Affare che provocò 10 milioni di buco nel bilancio dell'ente. Il nome di Daccò però è legato anche all'inchiesta sui fondi neri del Pirellone alla clinica Maugeri in cui è accusato di aver distratto circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e finti appalti. Vicenda che vede imputato anche l'amico ed ex governatore lombardo Formigoni con cui il faccendiere condivideva feste, cene, vacanze e viaggi. Che, secondo l'accusa, in realtà erano benefit per ottenere favori dalla Regione. Il Celeste è stato così rinviato a processo per associazione a delinquere e corruzione assieme, tra gli altri, all'ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone e allo stesso Daccò. Nel 2012 Formigoni si difese parlando di quelle vacanze in Sardegna come «scambi tra persone amiche» e «viaggi di gruppo in cui alla fine si conguagliano le spese», negando di aver mai ricevuto «regalie». Ferie a tre che la moglie di Simone Carla Vites - accusata di riciclaggio - aveva invece definito «weekend “romantici” a cui mio marito non mi portava. Daccò trascinava in vacanza gente che aveva fatto voto di castità, povertà e obbedienza, facendoli ballare come bambini deficienti».
2015: bufera sul ras della Sanità lombarda Mantovani. I guai della Sanità lombarda dall'impero del Celeste passano alla gestione di Roberto Maroni, colui che brandendo una ramazza aveva promesso di disinfestare la Lega dagli scandali bossiani. Eppure il Barbaro sognante si è dovuto arrendere alla realtà dei fatti. A ottobre del 2015 è infatti finito in manette il suo vice ed ex assessore alla Sanità, il forzista Mario Mantovani con l'accusa di corruzione e concussione per appalti nella sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. In carcere sono finiti pure il collaboratore del berlusconiano, Giacomo di Capua, capo di gabinetto dell'assessorato e mente dei manifesti «Via le Br dalla procura», e Angelo Bianchi, ingegnere del provveditorato alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria, già rinviato a giudizio per presunti appalti truccati in Valtellina. Tra i 12 indagati compare anche il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e vicinissimo a Maroni. Avrebbe agito per turbare la gara «per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico». Mantovani - signore di Arconate di cui è stato sindaco per quasi 15 anni, badante di Mamma Rosa, la madre di Berlusconi, che ha assistito fino all'ultimo e organizzatore dei pullman di anziani in occasione delle manifestazioni di Silvio - è un altro dei ras della Sanità lombarda: alla sua famiglia fanno capo la società Immobiliare Vigevanese che realizza residenze socio assistenziali e la Fondazione Mantovani che gestisce alcune di queste strutture. Come slogan ha: «Il valore della vita, il calore della famiglia, la forza della solidarietà».
2016: Rizzi, Longo e il legame tra imprenditoria e politica. E ora con l'arresto di Rizzi, medico anestesista e rianimatore, segretario provinciale del Carroccio di Varese dal 2006 al 2008, e dal 2008 al 2013 senatore, Bobo deve fare fronte a un nuovo terremoto. L'indagine, coordinata dalla procura di Monza, ha ricostruito l'operato di un gruppo imprenditoriale accusato di aver corrotto funzionari delle gare di appalto pubbliche lombarde, bandite da diverse aziende ospedaliere per la gestione esterna di servizi odontoiatrici, riuscendo ad aggiudicarsele. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, alla corruzione e alla turbativa d'asta per i servizi odontoiatrici esternalizzati in Lombardia. Con Rizzi è finito in carcere l'imprenditore Mario Valentino Longo, componente dello staff del consigliere. I due sarebbero stati pagati dal gruppo imprenditoriale al centro dell'inchiesta con il finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali del 2013. E successivamente con versamenti tra cui una tangente di 50 mila euro e una serie di finte consulenze, per 5 mila euro al mese, fatturate dalla moglie di Longo. Al centro dell'inchiesta c'è l'imprenditrice Maria Paola Canegrati, considerata il «vertice» del sistema corruttivo. Secondo gli inquirenti, le società a lei riferibili tra cui la Elledent e la Service Dent (del gruppo Odontoquality con sede ad Arcore-Monza), in 10 anni avrebbero preso il monopolio dei servizi odontoiatrici appaltati in esterno dagli ospedali lombardi. Rizzi e Longo avrebbero favorito l'imprenditrice in gare di appalto bandite dalle Aziende Ospedaliere Istituti Clinici di Perfezionamento (del 2015, da 45 milioni di euro) e Ospedale di Circolo di Busto Arsizio (del 2014, da 10 milioni di euro). Gare che secondo l'accusa erano puramente formali. Canegrati stessa, dal 2013, avrebbe tessuto una rete di azione a livello amministrativo con funzionari pubblici corrotti, i quali erano a libro paga del suo gruppo imprenditoriale. Si parla di un giro di affari di 400 milioni di euro.
2007: non solo tangenti, anche i morti della clinica Santa Rita. Ma la malasanità lombarda non è solo fatta di mazzette, benefit e appalti truccati. È fatta anche di morti. Nel 2007 un'operazione della Guardia di finanza e della procura di Milano hanno portato alla luce gli orrori della clinica Santa Rita di Milano dove venivano effettuate operazioni chirurgiche senza che fossero necessarie solo per incassare i rimborsi della Regione. Il primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone è stato condannato all'ergastolo anche in Appello con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e 45 casi di lesioni.
Expo, l'inchiesta per mafia arriva dopo la vittoria di Sala. Le mani di Cosa nostra sugli appalti e sull'allestimento degli stand: 11 in cella e c'è l'ombra di Messina Denaro, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 7/07/2016, su “Il Giornale”. Le mani di Cosa nostra sull'Expo. Sul padiglione della Francia, sulla passerella, sui presidi della Guinea Equatoriale, del Qatar, di altri Paesi e sponsor. Pare una fiction è la realtà che sfregia il tanto celebrato modello Milano. E non tanto per il risvolto penale, pure corposo, con l'arresto di 11 persone, tutte però estranee al circuito di Fiera-Expo. Ma per il contesto, per l'assenza disarmante di controlli, per il fatto, sottolineato dal pm Paolo Storari in conferenza stampa, «che i codici etici fossero solo carta e ancora carta che rimaneva lì». E Ilda Boccassini, che ha coordinato l'inchiesta in cui si contesta l'associazione a delinquere con l'aggravante della finalità mafiosa, rimarca con un sorriso disincantato che «nella storia della repubblica italiana non è cambiato mai nulla». E così alla fine della catena troviamo gli affidamenti diretti, come li chiamano i magistrati, che la Nolostand, società controllata da Fiera Milano spa, dà all'oscuro consorzio Dominus Scarl per montare e smontare alcuni padiglioni di Expo. E ci imbattiamo in un lessico conosciuto da chi scava nei rapporti fra criminalità organizzata e criminalità economica: le cartiere che producono false fatture, i prestanome, i doppi fondi a casa degli indagati per nascondere il denaro nero. E lo sconcertante scivolone dell'avvocato Danilo Tipo, stimato ex presidente della Camera penale di Caltanissetta oggi in manette, che viene fermato con 300mila euro e si giustifica serafico: «È una parcella in nero che non c'entra con questa storia». Il consorzio Dominus, specializzato sulla carta nell'allestimento di stand, fattura 20 milioni in tre anni, soldi che i due protagonisti di questa storia, Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, fanno girare, dopo aver evaso tutte le tasse possibili, anche verso i forzieri siciliani di Cosa nostra. E le famiglie di Pietraperzia e Castelvetrano, il «regno» del boss dei boss Matteo Messina Denaro. «Un fenomeno inquietante», lo definisce il procuratore capo Francesco Greco. Vengono i brividi e ci si chiede cosa sarebbe successo se l'inchiesta fosse emersa prima del ballottaggio fra Stefano Parisi e Giuseppe Sala che di Expo è stato il commissario unico. I tempi però non c'erano. La Boccassini aveva chiesto le manette tre-quattro mesi fa, ma una malattia del gip ha allungato i tempi di qualche settimana. L'inchiesta è partita su segnalazione dei carabinieri di Rho più di un anno fa e non ha portato, ripete Boccassini, almeno per ora, a individuare «responsabilità penali all'interno dell'ente Fiera e nella società Expo». E però è evidente il disagio del procuratore aggiunto che parla di «sciatteria, superficialità, negligenza». I dirigenti di Nolostand trattavano a occhi chiusi con Pace e Nastasi ed evidentemente ignoravano tutti i segnali che avrebbero consigliato molta, molta prudenza. «Fra l'altro - spiega Storari - in Fiera era arrivata una lettera anonima che diceva senza tanti giri di parole: Nastasi è un mafioso. Ma la lettera finì nel cestino». E così, dettaglio che oggi appare surreale, Nastasi aveva tranquillamente un ufficio in Fiera. E lui e Pace riuscirono nel luglio dell'anno scorso a incontrare il nuovo amministratore delegato di Fiera Milano Corrado Peraboni. Sarebbe stato sufficiente seguire il codice etico: «L'amministratore legale di Dominus è il padre di Nastasi, Calogero, che ha 71 anni e vive a Pietraperzia ma i dirigenti di Nolostand trattavano con il figlio che non è neanche un dipendente della società». È un quadro davvero deprimente quello che esce dalle indagini. Anche se gli intercettati sembrano temere il presidente dell'Anac Raffaele Cantone: «Li ha messi tutti in fila». Le infiltrazioni mafiose vanno avanti come e più di prima. I cronisti vorrebbero capire meglio, ma Greco li stoppa: «State facendo politica». E congeda tutti quanti.
Quella tempistica che favorisce la sinistra. Quello che tutti temevano è successo. Puntuale, a differenza della procura di Milano, scrive Giannino Della Frattina, Giovedì 7/07/2016, su "Il Giornale". Quello che tutti temevano è successo. Puntuali come i treni al tempo di Mussolini, le mani delle famiglie mafiose si sono allungate sul mega business dell'Expo. Molto meno puntuale, forse, è stata la procura di Milano che prima di disporre 11 arresti per associazione a delinquere finalizzata a favorire gli interessi di Cosa nostra, ha aspettato che l'allora commissario Expo Giuseppe Sala, poi candidato dal centrosinistra a sindaco di Milano (e i cui più stretti collaboratori sono da tempo finiti in carcere), vincesse la sua sfida elettorale. Di pochi voti, tanto che viene ora da chiedersi come sarebbe andata a finire la partita con Stefano Parisi se le manette per gli appalti sui padiglioni Expo fossero scattate 15 giorni prima del voto e non 15 giorni dopo. Nervo scoperto per i magistrati, visto che ieri dopo aver convocato una conferenza stampa per raccontare le meraviglie dell'indagine, se ne sono andati seccati quando è stato chiesto loro conto di una tempistica quantomeno sospetta e di un «modello Milano» che non ha saputo tenere di fronte alle infiltrazioni della mafia. Il solito brutto atteggiamento di magistrati che non vedono come la libertà di informazione non preveda domande buone o domande cattive, ma solo buone risposte a domande comunque legittime. A meno che ancora una volta la corporazione non abbia voluto chiudersi a riccio per difendere il collega Raffaele Cantone, quel commissario dell'Autorità nazionale anticorruzione che era stato chiamato al capezzale dell'Expo dopo la raffica di arresti e che era stato presentato come l'unico taumaturgo capace del miracolo di un grande evento mafia free. E, invece, non è stato così. Per Expo e Fiera non ci sono responsabilità penali, precisa la procura. Ma è un fatto che i controlli non abbiano funzionato e che le responsabilità ci debbano essere se la mafia è arrivata nel cuore dell'Expo, a costruire i suoi padiglioni più importanti come quello della Francia. E vien da chiedersi dentro quale baratro sia finito il Paese se le cosche di Pietraperzia e Castelvetrano, che dette i natali a Giovanni Gentile e oggi ricorda i Messina Denaro, possono permettersi di far scorrere «un fiume di soldi in nero» dentro l'evento più importante e più sorvegliato degli ultimi decenni. Facendo diventare, alla faccia del «Modello Milano» tanto vantato da Sala e da Renzi, Expo e Fiera Milano il bancomat di Cosa nostra. Ma gettando qualche ombra anche sulla magistratura sospettata, come fatto intravedere in un'intervista l'ex procuratore Bruti Liberati, di aver concesso all'Expo una «moratoria» che ha congelato chissà quante indagini. Alla faccia dell'obbligatorietà dell'azione penale e del «non poteva non sapere». Moratoria prolungata alla chiusura di Expo a ottobre dalla decisione di Renzi di candidare Sala sindaco. E adesso? Finisce qui o ci sono altri fascicoli nel congelatore dei magistrati da tirar fuori?
La lettera anonima sull’ “amministratore mafioso” cestinata in Fiera Milano. Com’è possibile che una società leader mondiale negli allestimenti fieristici non si accorga di fare affari con due tizi sedicenti amministratori di un consorzio che sono in realtà poco più di Totò e Peppino alla prese con la vendita della fontana di Trevi? Per la Procura di Milano è potuto accadere per sciatteria, ma non ci sono reati (almeno per il momento), scrive Manuela D’Alessandro il 6 luglio 2016 su “Giustiziami”. “Ora state facendo politica”, ha ammonito il fresco procuratore capo Francesco Greco i cronisti che insistevano durante la conferenza stampa sulle presunte responsabilità penali di Fiera Milano nel non accorgersi che la sua controllata Nolostand spa aveva affidato in violazione dei codici etici la costruzione dei padiglioni di Expo a Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, arrestati per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali aggravata dalla finalità mafiosa. I due si presentavano come amministratori del consorzio Dominus ma sarebbe bastata una visura camerale per constatare che maneggiavano milioni di euro senza alcun titolo. I codici etici della Fiera prevedono che i contatti coi collaboratori esterni avvengano “con la persona fisica o giuridica che rappresenta la parte”. Di Liborio Pace si poteva sapere che era stato imputato in un procedimento per mafia, concluso con la sua assoluzione. Ma ancor di più sconcerta quello che si sarebbe potuto sapere su Giuseppe Nastasi. Il 16 marzo arriva in Fiera una lettera che viene cestinata in cui viene definito un “mafioso”. Ebbene: se vi arrivasse la soffiata che una persona a cui state affidando dei lavori per voi molto preziosi cosa fareste? Enrico Mantica, il direttore tecnico di Nolostand (non indagato), telefona a Nastasi e lo informa che qualcuno va raccontando che lui è un mafioso. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione che hanno commissariato Nolostand: “Nastasi e Mantica discutono della lettera anonima ricevuta dal dirigente di Fiera Milano (“è arrivata una lettera che poi quando passa gliela faccio vedere…”). Mantica appare a quel punto restio nel proseguire telefonicamente l’argomento (“No, eh, ci sono altre cose che poi meglio che ne parliamo di…Quando può…meglio evitare di parlarne al telefono dai!)”. I due poi effettivamente si incontrano e, stando a quanto racconta Nastasi a un’amica, Mantica non è apparso turbato dal contenuto della lettera anonima: “Mi ha detto stia sereno…e mi è apparso serenissimo, tranquillo”. E così, chiosano i giudici, “per nulla scalfiti dal contenuto della lettera i rapporti tra Giuseppe Nastasi e i vertici operativi di Fiera Milano – Nolostand spa divengono sempre più fitti con il passare dei giorni, al fine di ottenere la proroga del contratto di servizi con Nolsotand spa per il triennio 2016 – 2028 (…)”. Nolostand è stata commissariata: la legge prevede che per questa misura non è necessario che l’azienda abbia commesso reati, basta solo che il libero esercizio di un’attività economica, a causa di una condotta dei sui dirigenti censurabile sul piano colposo, abbia l’effetto di agevolare persone indagate per gravi reati”.
Trattativa Pd-pm milanesi: presto cadranno tutti i segreti. Dopo il plauso di Renzi ai giudici che hanno salvato Expo e Sala, il procuratore smentisce: "Nessuna moratoria". Bruti va in pensione, se ripartono le inchieste sarà la controprova, scrive Luca Fazzo, Giovedì 12/11/2015, su "Il Giornale. Procuratore, cosa c'è nei vostri cassetti? La domanda rimane senza risposta. Edmondo Bruti Liberati scivola via, inghiottito nel nugolo di agenti che scortano, pochi metri più in là, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per Bruti è il giorno dell'addio. Nell'aula magna del tribunale il Procuratore ha tenuto il suo ultimo discorso. Tra tre giorni andrà in pensione. È un addio amaro. Non solo perché Bruti se ne va anzitempo, sull'onda delle polemiche furibonde che hanno lacerato la Procura milanese, e che lo esponevano al rischio di essere esautorato dal Csm. Ma anche perché, manco a farlo apposta, alla vigilia del suo addio gli è piombato addosso un ringraziamento che somiglia a un killeraggio: quello del presidente del Consiglio. «Voglio ringraziare i magistrati di Milano per il rispetto rigoroso della legge ma anche del sistema istituzionale», aveva detto Matteo Renzi. Parole che a chiunque (compresi numerosi magistrati) sono suonate come la conferma ufficiale di quanto da mesi si dice nel Palazzo di giustizia milanese, e che solo un vecchio reporter iconoclasta come Frank Cimini aveva osato scrivere: l'esistenza di una moratoria tacita, un accordo tra potere politico e procura milanese per consentire a Expo di svolgersi al riparo da retate e avvisi di garanzia. «Nessuna moratoria - dice ieri Bruti - io sto ai fatti: le indagini su Expo sono state fatte». Se un riguardo c'è stato, dice il procuratore, è consistito nella «celerità dell'indagine» perché non si bloccassero i lavori dell'esposizione». Nient'altro. E il ministro Orlando prova anche lui a smosciare, spiegando che il «rispetto istituzionale» dimostrato dalla Procura milanese ha significato soltanto «fare ciò che impone la legge»: frase evidentemente priva di significato. E dunque? Di cosa parla davvero Renzi, quali accordi taciti o espliciti sono intercorsi in questi mesi perché non si disturbasse l'Expo di Giuseppe Sala? Per capire la portata di questi interrogativi bisogna andare indietro, alla nomina di Bruti alla guida della Procura cinque anni fa, conquistata grazie ad un accordo bipartisan in Csm fortemente voluto da Giorgio Napolitano: e a come il Quirinale abbia sempre vegliato su Bruti, considerandolo un magistrato non ottusamente chiuso nei codici ma aperto anche alle esigenze della società e della politica, e poi difendendolo apertamente anche nel momento più difficile, lo scontro con il suo vice Alfredo Robledo. Di questa interpretazione «politica» del suo ruolo, Bruti ha beneficiato a volte anche il centrodestra: come quando evitò il carcere a Alessandro Sallusti, o aprì la strada all'affidamento ai servizi sociali di Silvio Berlusconi. Ma è oggettivo che il caso più eclatante, l'inchiesta Sea dimenticata in cassaforte, ha tolto una rogna dal cammino della giunta rosso-arancione di Milano. Ed è altrettanto evidente che le inchieste su Expo che ieri Bruti rivendica si sono fermate tutte alla vigilia dell'esposizione. Dopo le retate del 2014, le indagini si sono fermate. Solo nelle prossime settimane, chiusa Expo e pensionato Bruti, si capirà se davvero, come si dice da tempo in tribunale, le notizie di reato relative all'esposizione siano continuate ad arrivare, e siano tenute sotto nomi di copertura in attesa della fine della moratoria.
La guerra in Procura termina con la “condanna” di Robledo. Milano, dopo la querelle con Bruti Liberati il Csm ha deciso: sarà aggiunto a Torino ma perde di sei mesi di anzianità, scrive Paolo Colonello l'1 giugno 2016 su "La Stampa". La triste guerra Bruti-Robledo finisce come finiscono tutte le guerre: nel modo peggiore. Soprattutto per Alfredo Robledo, l’ex capo dell’anticorruzione milanese, già trasferito cautelarmente a Torino e da ieri «condannato» dalla sezione disciplinare del Csm alla perdita di 6 mesi di anzianità e all’allontanamento definitivo dall’ufficio di Milano, con però la restituzione delle funzioni di procuratore aggiunto sempre a Torino (decisione presa sulla base di una sentenza delle sezioni riunite civili di Cassazione che avevano bocciato la retrocessione di un altro magistrato). Magra consolazione per un magistrato che ancora l’altro ieri, davanti ai membri della commissione disciplinare si era difeso con forza sottolineando di «aver vissuto 39 anni limpidi in magistratura. Per me questa accusa è atroce. L’accusa di scambio di favori è per me infamante». Ieri il magistrato, davvero amareggiato, non ha voluto commentare gli ultimi avvenimenti che lo hanno visto suo malgrado protagonista. La vicenda è quella delle carte che Robledo avrebbe chiesto all’avvocato della Lega Nord, Domenico Aiello, per conoscere in anticipo le mosse dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini in una causa per calunnia aggravata. Il pg della Cassazione nella sua requisitoria aveva chiesto una pena più severa con la perdita di un anno di anzianità. Ieri il collegio ha accolto parzialmente le richieste avanzate dai pg Alfredo Viola e Pietro Gaeta che contestavano a Robledo di essere venuto meno «ai doveri di imparzialità e riserbo», nonché di «aver usato la propria qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé». In sostanza, secondo l’accusa, l’ex pm avrebbe messo in atto uno «scambio di favori» con l’avvocato della Lega Nord che in quel momento difendeva gli interessi del partito proprio davanti a Robledo, il quale indagava sul Carroccio per i rimborsi facili. Di più: secondo i pg, Robledo avrebbe addirittura scambiato con il legale notizie riservate sulla sua inchiesta. I dialoghi tra Robledo e il legale vennero registrati in alcune un’intercettazioni della procura di Reggio Calabria che stava indagando su una storia di criminalità organizzata che vedeva coinvolto un cliente dell’avvocato Aiello. E proprio questo rappresentò il colpo definitivo per Robledo che proprio in quel periodo aveva accusato il suo ex capo Bruti Liberati di una gestione opaca dell’ufficio giudiziario e in particolare di aver dimenticato in un cassetto un’inchiesta sulla vendita di un pacchetto azionario della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi. Indagine successivamente archiviata dallo stesso tribunale, Robledo è stato però assolto da altre accuse: quella di aver recato «un indebito vantaggio» all’avvocato della Lega, suggerendogli di inviargli un’istanza poi non accolta; e soprattutto di aver tenuto un comportamento scorretto nei confronti di altri colleghi dell’ufficio giudiziario e dello stesso procuratore Bruti Liberati.
Robledo incompatibile a Torino. Lo scivolone del Csm nel verdetto. La sezione disciplinare lo nomina pm nella città dove era giudice. Ma la legge non lo consente, c’è incompatibilità tra le due funzioni, scrive Luigi Ferrarella il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato che stia esercitando le funzioni di giudice in un tribunale può passare a esercitare le funzioni di pm nella Procura della medesima sede? Certo che no: per le norme sull’ordinamento giudiziario ormai da molti anni non è più possibile, c’è incompatibilità tra le due funzioni, nella stessa sede il giudice non può diventare pm, e viceversa. Eppure è l’errore commesso proprio dal Consiglio superiore della magistratura (Csm) una settimana fa quando, decidendo nel processo disciplinare di merito di condannare alla perdita di 6 mesi di anzianità l’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo per i suoi contestati rapporti con l’avvocato della Lega Domenico Aiello, ne ha disposto il trasferimento alla Procura di Torino con le stesse funzioni di vicecapo dei pm: dimenticando che il futuro pm torinese Robledo già da un anno sta esercitando proprio nel tribunale di Torino le funzioni di giudice alle quali nel febbraio 2015 il Csm lo aveva obbligato allorché lo aveva rimosso d’urgenza da Milano nella fase cautelare dell’azione disciplinare. Trasferimento che di fatto aveva risolto lo scontro con il procuratore Bruti Liberati, di cui Robledo nel 2014 aveva denunciato al Csm l’asserita violazione dei criteri di lavoro della Procura. Poiché non si è mai creata una situazione analoga, è difficile prevederne le conseguenze o le toppe che il Csm potrà mettervi. Tanto più che le motivazioni di questo errato dispositivo di sentenza — ormai votato martedì scorso dalla camera di consiglio (dopo oltre 3 ore) e letto in udienza — devono ancora essere scritte dai giudici disciplinari Leone-San Giorgio-Palamara-Clivio-Pontecorvo: gli stessi che nel 2015 nel giudizio cautelare avevano già trasferito d’urgenza Robledo da Milano e che, richiesti perciò dal difensore Antonio Patrono di astenersi per opportunità nella causa di merito, hanno invece ritenuto di restare in forza della giurisprudenza sulla specificità della giustizia disciplinare. Al netto di tesi e antitesi sulle 4 imputazioni (due concluse con assoluzione, due sfociate in condanna su presupposti di fatto che la difesa lamenta travisati), il pasticcio finale nel verdetto è l’ultima peculiarità di un procedimento disciplinare già singolare per come ad esempio era maturata nella prima udienza in aprile l’audizione dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. I procuratori generali di Cassazione, Gaeta e Viola, avevano infatti chiesto al collegio di acquisire una lettera inviata da Albertini dopo che questi (i pg ipotizzavano in qualità di «parte offesa» dalle condotte disciplinari contestate a Robledo) era stato ammesso dal presidente Csm Giovanni Legnini ad accedere agli atti. I giudici disciplinari, sorpresi, avevano ordinato l’espunzione della lettera dagli atti del disciplinare, escludendo che Albertini potesse esserne ritenuto «parte offesa»: a posteriori si è peraltro saputo che Legnini aveva autorizzato l’accesso di Albertini agli atti non come «parte offesa» nel giudizio disciplinare su Robledo, ma come parte «interessata» in cause bresciane penali e civili con Robledo (anche se ad esempio proprio il gip di Brescia aveva risposto no all’analoga richiesta di Albertini di accesso alle intercettazioni dell’archiviazione penale di Robledo). I pg avevano allora proposto al Csm l’audizione di Albertini; la difesa aveva obiettato che Albertini non era inserito nella lista testi dell’accusa, i cui tempi erano scaduti da tempo; ma i giudici disciplinari si erano richiamati ai propri poteri di convocare chiunque ritenessero utile per l’istruttoria. E così Albertini, uscito dalla porta come lettera, era rientrato dalla finestra come audizione al Csm: non esattamente neutra, posto che di Albertini la Procura di Brescia mesi fa aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio (il processo finirà dopo l’estate) con l’accusa di aver in precedenza calunniato proprio Robledo.
Vendevano verdetti a 5mila euro. Presi altri due giudici tributari. Si allarga l'inchiesta milanese, nuovi arresti. La cricca aggiustava sentenze in cambio di mazzette. Il mercato svelato dai messaggi conservati al computer, scrive Cristina Bassi Luca Fazzo, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". Spudoratamente e spensieratamente, si raccontavano per mail l'andazzo delle camere di consiglio «aggiustate» a suon di euro: «Ho dovuto lottare, tenere a bada l'aggressività picchiosa del rappresentante dell'ufficio, la testardaggine del giudice relatore». Così la cricca della giustizia tributaria celebrava i suoi successi, con messaggi rimasti nei computer: e che ieri a Milano spediscono agli arresti altri due magistrati, accusati di avere incassato tangenti - modeste e quasi miserabili nel loro importo - per decidere sui ricorsi contro l'Agenzia delle entrate. L'indagine partita il 17 dicembre con l'arresto del primo giudice, Luigi Vassallo, non accenna a placarsi. Dopo Vassallo era finita in galera la sua collega Marina Seregni, ora tocca a Luigi Pellini e Gianfranco Vignoli Rinaldi, in servizio rispettivamente presso la commissione tributaria regionale e provinciale. Ma nelle carte asciutte dell'ordinanza di custodia a finire sotto accusa è l'intero sistema della giustizia tributaria, doppio lavoro ben retribuito per giudici di professione, avvocati, commercialisti: che in queste vicende si fanno passare sotto il naso un mercato a cielo aperto delle sentenze. Per scoperchiare il tombino è servita dapprima la denuncia di uno studio legale, che a dicembre permise l'arresto di diretta di Vassallo con una tangente di 5mila euro: nella sua cassetta di sicurezza erano poi saltati fuori 267.250 euro in contanti, separati e catalogati mazzetta per mazzetta. Ma poi è arrivata la gola profonda: Mirella Orbani, da ventott'anni segretaria di Vassallo, che ha messo nero su bianco gli episodi cui le era toccato assistere. «Invernizzi (anche lui arrestato, ndr) venne in studio con una busta contenente 60mila euro in contanti (...) ricordo che erano tutte banconote da 500 euro». Del malloppo, Vassallo (che secondo il mandato di cattura aveva una pubblica e notoria fama di «aggiusta processi») ai suoi colleghi incaricati della sentenza distribuiva poi le briciole: 5mila euro a testa in buste intestate dentro i cesti natalizi. C'è da dire si prendeva anche «la briga» di preparare la sentenza favorevole che poi veniva materialmente stesa dai colleghi. I quali si preoccupavano di inoltrargli il provvedimento finale prima ancora che venisse depositato. Nello studio di Vassallo viene trovata la bozza di lavoro della sentenza a favore di Invernizzi, con la firma di un solo giudice e senza i timbri del protocollo. A fare da tramite c'era pure un ex finanziere, Agostino Terlizzi, indagato a piede libero. E a colpire è la spensieratezza, il senso di impunità con cui i giudici della cricca si muovevano (agli atti c'è persino un pranzo a tre tra Vassallo, Pellini e l'imprenditore in cerca di aiuto), testimoniata anche dal materiale trovato senza sforzo dalla Gdf nello studio del giudice regista dei verdetti comprati. Tra l'altro c'è l'elenco dei componenti di tutte le sezioni della commissione tributaria, con evidenziati quelli destinati a occuparsi delle cause care agli amici: un asterisco per il presidente Gabriella D'Orsi, che non si accorgerà della combine; un doppio asterisco per il relatore, il ragionier Rigoldi, che cercherà in ogni modo di opporsi; una croce per il giudice Vignoli Rinaldi, quello che in camera di consiglio eseguirà alla lettera i suggerimenti della cricca.
Tangenti Milano, arrestati altri due giudici tributari: "60mila euro nei cesti di Natale". Nell'inchiesta coinvolto anche un ex militare della guardia di finanza e Luigi Vassallo, già arrestato insieme nel principale dell'inchiesta. Nel settore, annotano gli investigatori, aveva la fama di "aggiusta processi", scrive Franco Vanni il 14 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ancora arresti per tangenti, altri due giudici tributari che finiscono in manette con l'accusa di aver intascato mazzette per annullare accertamenti tributari del valore di milioni di euro. Dopo Luigi Vassallo - filmato dagli investigatori mentre intasca il denaro - e la collega Marina Seregni, gli uomini della guardia di finanza che seguono l'inchiesta dei pm Eugenio Fusco e Laura Pedio sono tornati in azione. E non è detto che all'inchiesta non si aggiungano nuovi capitoli tanto che il procuratore facente funzione, Pietro Forno, scrive in un comunicato che le indagini hanno consentito di delineare "un sistema corruttivo ramificato e ben conosciuto in certi ambienti che verosimilmente interesserà anche altre persone, giudici tributari, imprenditori e altri che a vario titolo fungono da mediatori e che approfittano della propensione di alcuni soggetti a ricorrere a scorciatoie e a sistemi illeciti per sistemare le proprie pendenze verso il fisco e non si fanno scrupolo di ricevere somme di denaro per corrompere coloro che sono disposti a farsi corrompere". I due giudici arrestati per corruzione in atti giudiziari sono il commercialista Luigi Pellini e l'avvocato Gianfranco Vignoli Rinaldi (tutti e due ai domiciliari), insieme all'imprenditore Matteo Invernizzi. Mentre un'altra ordinanza (è la terza nel giro di tre mesi) è stata notificata a Vassallo. Gli investigatori annotano che "il carattere sistematico e professionale delle condotte criminose poste in essere gli ha fatto meritare, tra i professionisti del settore, la fama di "aggiusta processi" presso le Commissioni Tributarie". Al centro dell'indagine c'è una tangente da 60mila euro che sarebbe stata consegnata divisa in banconote da 500 euro e nascosta all'interno di pacchi natalizi. La presunta corruzione riguarderebbe due sentenze, una della commissione tributaria provinciale, l'altra quella regionale. In questa tranche dell'inchiesta è indagato anche un ex militare della guardia di finanza, Agostino Terlizzi. Secondo le accuse sarebbe stato il tramite tra Vassallo e l'avvocato di Invernizzi. Per questo ruolo di intermediazione Terlizzi avrebbe percepito delle somme dallo stesso Vassallo. "Vassallo riceveva da Matteo Invernizzi, amministratore di fatto di Eurocantieri Srl, la somma di oltre 60mila euro, con l'impegno di garantire al contribuente provvedimenti favorevoli". È quanto si legge nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Milano Emanuela Cannavale. E ancora: "Vassallo consegnava 5mila euro a Luigi Pellini, perchè accogliesse il ricorso pendente davanti alla 50esima sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia". Il pagamento della tangente, secondo quanto accertato dalla Procura, risalirebbe al 20 dicembre 2013. Cinquemila euro, sempre parte della tangente da 60mila pagata da Invernizzi, sarebbero stati corrisposti anche al giudice tributario Gianfrano Vignoli Rinaldi. "Vassallo - si legge nell'ordinanza - consegnava la somma di 5mila euro a Vignoli Rinaldi perchè accogliesse il ricorso pendente di fronte alla II sezione della Commissione Tributaria Provinciale". L'ordinanza ricostruisce anche i risultati delle perquisizioni fatte a casa e negli uffici dello stesso Vassallo dopo che il 17 dicembre 2015 fu arrestato in flagranza di reato per avere intascato una tangente di 5mila euro da personale della multinazionale Dow Europe Gmbh, che collaboravano con gli inquirenti. Furono proprio i dirigenti della multinazionale a decidere di denunciare Vassallo. E a quell'incontro, durante il quale il giudice intascò la tangente, parteciparono uomini della guardia di finanza. "Presso il domicilio di Vassallo - si legge ancora nell'ordinanza - sono state rinvenute due buste contenenti denaro contante per complessivi 12.500 euro". Altro contante "per complessivi euro 17.500" è stato trovato presso la sede dello studio legale di Vassallo. Ma il sequestro più consistente è avvenuto nella sua banca: "Sono state rinvenute due cassette di sicurezza intestate a Vassallo contenenti numerose banconote raccolte in buste... per complessivi 267.250 euro". E le annotazioni che Vassallo accompagnava al contante portano proprio a Matteo Invernizzi. "Risultano riferimenti a 'Matteo' e 'Inv'" scrive il gip. Presso lo studio di Vassallo è inoltre stata sequestrata "ampia documentazione riferibile a contenziosi tributari di Invernizzi". E' la segretaria ventennale di Vassallo a spiegare in che modo il denaro, presunto frutto della corruzione, venisse veicolato a chi si prestava ad 'aggiustare' le sentenze. L'escamotage, stando al racconto di M.O., sarebbe stato quello dei cesti natalizi. "Mi mostrate una fotocopia dell'elenco dei cesti natalizi - afferma la donna, sentita come teste - da consegnare per l'anno 2013 dove tra i destinatari dei cesti individuati come 'Grande' c'è il nominativo di Pellini oltre a un appunto manoscritto di Vassallo che indica la dicitura 'Ok. Luigi 20.XII'. Effettivamente il documento che mi mostrate consiste nell'elenco dei cesti natalizi da consegnare che io stessa ho preparato sempre su indicazione dell'avvocato Vassallo (...)". Nello scambio di mail fra i giudici tributari indagati, emerge il modo chiaro il modo in cui venivano "aggiustate" le sentenze. Sul caso Invernizzi, nell'ottobre 2010, Vassallo scrive a Vignoli Rinaldi: "Caro Gianfranco, è con certo imbarazzo che ti scrivo ... Confido in te e negli stimatissimi colleghi ... certo che ci sarà il giusto riconoscimento delle buone ragioni della parte". Risponde Vignoli Rinaldi: "Dopo ampie discussioni, ho convinto Presidente e Relatore ad accogliere il ricorso". Gli indagati si lamentano anche dell'atteggiamento del resto del collegio, estraneo alla corruzione.
Tangenti ai giudici tributari nei cesti dei regali di Natale. Marina Seregni è coinvolta nello stesso giro di tangenti che ha portato in carcere a dicembre il giudice tributario Luigi Vassallo. La società Swe-Co Sistemi al centro delle nuove indagini: una parte dei 65 mila euro sarebbe stata girata da un giudice all’altro, scrive Giuseppe Guastella il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". È «certa l'esistenza di ulteriori episodi illeciti posti in essere dagli indagati, nonché il coinvolgimento di altri soggetti», scrive il gip Manuela Cannavale ordinando ieri l'arresto del giudice tributario Marina Seregni e notificando l'ordinanza in carcere all'avvocato Luigi Vassallo, giudice tributario di secondo grado già arrestato a dicembre. Le indagini della Procura rischiano di allargarsi a macchia d'olio nelle commissioni tributarie. Seregni, commercialista 69enne di Monza, era stata già indagata con l'arresto di Vassallo il quale, chiedendo una tangente da 30mila euro dalla multinazionale tedesca Dow Europe per aggiustare un processo in cui la professionista era relatrice, aveva detto che avrebbe dovuto girare a lei parte della tangente. A mettere le manette a Vassallo mentre intascava la mazzetta erano stati i militari della Gdf avvertiti dai legali della società. Le indagini hanno travolto anche Marina Seregni collegando sempre più la sua attività giudiziaria a quella di Vassallo, dentro e fuori le aule. La Gdf ha scoperto che il legale aveva ottenuto un'altra mazzetta, stavolta da 65mila euro, da Luciano Ballarin, titolare (indagato) della Swe-Co sistemi srl, un'azienda di elettronica di Milano. In ballo c'erano 1,9 milioni di euro che la società avrebbe dovuto pagare al termine di un processo tributario in cui la Seregni era giudice. La sentenza, depositata l'11 gennaio, quasi un mese dopo l'arresto di Vassallo, dava ragione alla società e cancellava le richieste dell'Agenzia delle entrate, ma il documento risultava scritto con il computer del legale e controfirmato dalla Seregni che, in questo modo, confermava «la volontà di continuare impunemente a porre in essere il reato, sebbene sapesse di essere attenzionata» dagli inquirenti, scrive il gip. Perquisendo l'abitazione, lo studio e le cassette di sicurezza di Vassalli, la Gdf ha trovato 265mila euro in contanti che, per i pm, non sono compatibili con la sua attività di legale. La conferma arriva dalla sua segretaria che, dopo aver dichiarato che Vassallo seguiva pochissimi processi, ha aggiunto che nello studio c'era chi portava denaro in contante: «Giustificava le somme di denaro che chiedeva ai clienti - ha dichiarato - con la necessità di corrispondere un parte di quelle somme ai giudici per ottenere sentenze favorevoli». Aveva anche un «tariffario» che era «ripartito per i vari gradi di giudizio» e una contabilità «nera» delle mazzette, che teneva in buste con sopra ancora il nome dei corruttori, che per gli investigatori non sarà difficile identificare. Il «carattere sistematico e professionale» delle «condotte criminose» di Vassallo gli «ha fatto meritare tra i professionisti del settore, la fama di "aggiusta processi"».
Tangenti per addomesticare sentenze: arrestato a Monza giudice tributario. Con l'accusa di corruzione in atti giudiziari è finita al carcere di San Vittore la commercialista Marina Seregni, 70 anni, di Monza. Secondo le indagini della Procura di Milano la donna era complice di Luigi Vassallo, già arrestato a dicembre 2015 in un sistema collaudato di mazzette per garantirsi decisioni favorevoli, scrive Ersilio Mattioni il 28 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Intascavano tangenti per addomesticare le sentenze sui contenziosi fiscali e poi si dividevano i soldi. Con questa accusa, stamattina all’alba, è stata arrestata dalla Guardia di finanza Marina Seregni, commercialista 70enne di Monza, giudice tributario di primo grado e collega di Luigi Vassallo, anche lui giudice tributario ma in Appello, finito in carcere il 17 dicembre 2015 (e tuttora detenuto a Opera, dove oggi gli è stato notificato un altro ordine di custodia cautelare per il nuovo episodio corruttivo) per essere stato colto in flagranza mentre incassava 5mila euro, prima tranche di una mazzetta da 30mila. Seregni, accusata di corruzione in atti giudiziari, è stata portata nel carcere milanese di San Vittore. L’inchiesta, denominata ‘Dredd’ (come il celebre film del 2012, diretto da Pete Travis, uscito in Italia col sottotitolo ‘La legge sono io’), è stata condotta dai pubblici ministeri Eugenio Fusco e Laura Pedio, coordinati dal procuratore aggiunto Giulia Perotti. La giudice Seregni era già stata interrogata nel dicembre 2015, per via di una telefonata di Vassallo registrata sulla sua segreteria. Il collega le diceva di avere urgenza di parlare con lei a proposito di due processi, per poi aggiungere: “Anche di una pratica che mi interessa”. La commercialista monzese aveva respinto ogni addebito e si era anzi dichiarata “vittima” di una millanteria. Così era tornata a casa senza capi di imputazione. Le indagini della Procura di Milano però avrebbero portato a conclusioni decisamente diverse. Dall’analisi dei documenti sequestrati nello studio di Vassallo sarebbe infatti emerso un collaudato sistema di corruttele: Vassallo, per conto di privati e aziende che avevano guai con il fisco, avrebbe agito in qualità di giudice per ‘aggiustare’ le sentenze o in qualità di intermediario rivolgendosi ad altri giudici compiacenti. Fra questi, secondo i pm Fusco e Pedio, ci sarebbe stata anche Seregni, con la quale Vassallo avrebbe poi diviso i proventi delle tangenti, versate in contanti oppure ‘mascherate’ da false fatturazioni di consulenza. Da ciò le accuse, per Vassalli e Seregni sia di “corruzione in atti giudiziari” sia di “induzione indebita a dare o promettere utilità”, in base agli articoli 319 ter e 319 quater del codice penale. Accuse formulate dalla Procura e avallate dal Gip Manuela Cannavale, che ha firmato l’arresto in carcere. In particolare, i magistrati contestano una tangente di 65mila euro da parte di Luciano Ballarin, amministratore unico della Swe-co Sistemi Srl, versata a Vassallo e da quest’ultimo divisa con Seregni, per ‘addolcire’ una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, la quale aveva mosso contro la Swe-Co Sistemi Srl, per conto dell’Agenzia delle entrate, una contestazione fiscale di circa 14 milioni di euro. La vicenda – che ricorda ‘Mani Pulite’, con tanto di bustarelle e arresti in flagranza grazie a militari in borghese e banconote ‘segnate’ – ha origine nel novembre 2015 con la denuncia della Dow Europe Gmbh, multinazionale della chimica che fattura 58 miliardi di dollari l’anno, che vanta 53mila dipendenti in tutto il mondo e che aveva in corso un contenzioso fiscale. I rappresentanti della società, contattati da Vassallo, non si erano però piegati alla logica corruttiva e avevano denunciato il giudice tributario in Procura, pur fingendo di stare al suo gioco. Il giorno della consegna del denaro, nello studio della società Crowe Horwath Saspi di Milano, fra gli impiegati si erano infiltrati i militari della Fiamme Gialle, poi intervenuti per arrestare Vassallo per “induzione indebita a dare o promettere utilità”, mentre incassata la prima tranche della tangente. Il ruolo di Seregni, che non era emerso con sufficiente chiarezza allora, appare agli inquirenti oggi più che evidente: per la Procura i due giudici tributari erano d’accordo e agivano “in concorso tra loro”. Fa una certa impressione che Vassallo, avvocato cassazionista, professore a contratto all’Università di Pavia e da anni giudice nelle controversie fiscali, abbia lavorato in tempi recenti, nel 2013, con enti pubblici come Regione Lombardia (nell’Osservatorio della mediazione tributaria per conto dell’Agenzia delle Entrate) e sia stato presidente di organismi di vigilanza di grandi gruppi industriali (come per esempio la Bracco Real Estate) con un incarico preciso: prevenire i reati societari. Secondo i magistrati inquirenti l’inchiesta sul finora inesplorato mondo delle commissioni tributarie potrebbero aprire scenari inediti, degni di nuova Tangentopoli.
Così l'ex sindacalista Cgil tramava con "Lady dentiere". L'intreccio nelle intercettazioni: liste pilotate per favorire i privati. Oggi l'interrogatorio del leghista Rizzi: "Chiarirò tutto". Il Pd vuole sfiduciare il governatore Maroni. Lui attacca: "Difenderò la riforma", scrivono Cristina Bassi e Maria Sorbi, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". «Cucciola» e «amore»: così l'ex sindacalista e paladino della buona sanità pubblica si rivolge alla manager dell'odontoiatria, perno dello scandalo che ha portato in carcere tra gli altri il consigliere lombardo della Lega Fabio Rizzi. Massimiliano Sabatino e Maria Paola Canegrati sono finiti nell'inchiesta «Smile» della Procura di Monza. Anche loro sono in cella. Sabatino è noto nella sanità milanese, per anni sindacalista della Cgil e oggi dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento. A lui sono dedicate decine di pagine nell'ordinanza di custodia del gip Emanuela Corbetta. Secondo gli inquirenti, Sabatino aiutava l'amica a ottenere appalti. E si poneva «sistematicamente a servizio» della Canegrati, garantendole «ogni informazione utile interna all'amministrazione, così asservendo la funzione pubblica agli interessi imprenditoriali e personali» della donna. In cambio di denaro e altri vantaggi. «Senti tesorino, ci vediamo nei prossimi?», chiede lei. Risposta: «Ho bisogno di fare il punto su Niguarda, perché... noi siamo un po' in ritardo cucciola». Sabatino poi non si scompone quando l'amica gli spiega come dirottare i pazienti sui servizi a pagamento. «Sposteremo la maggior parte dell'attività sulla solvenza», dice al telefono la «Mandrake» (così si autodefinisce) delle dentiere. Faremo liste d'attesa per il Servizio sanitario, aggiunge, «che vanno alle calende greche». Conclude il gip: la funzione pubblica dell'ex sindacalista «è totalmente svilita e assoggettata a favore» di «Paoletta». A casa di Rizzi i carabinieri hanno trovato quasi 17mila euro in contanti (1.900 in un congelatore) e una busta con 5mila franchi svizzeri. E sempre dalle intercettazioni emergono altri dettagli sui suoi affari. Come che dalla costruzione di un ospedale pediatrico in Brasile contava di ricavare «un paio di milioni a testa», dice al telefono alla compagna indagata, e di «estinguere i mutui». C'è poi un riferimento della Canegrati all'ex vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, ai domiciliari per un'altra inchiesta, che vorrebbe «entrare a far parte di questa grande famiglia». Immediata la reazione del legale di Mantovani, Roberto Lassini: «Mai nessun rapporto è intercorso tra lui e le società coinvolte nell'indagine monzese». Intanto oggi alle 12 Rizzi e il suo braccio destro Mario Longo saranno interrogati nel carcere di Monza. «Voglio chiarire tutto quanto prima e difendermi dalle accuse» (di associazione per delinquere e corruzione), ha dichiarato l'ex senatore attraverso il difensore Monica Alberti. E mentre lui scalpita per raccontare la sua versione dei fatti, in Regione monta il «processo» politico. Non solo Rizzi è stato scaricato dalla Lega (il leader Matteo Salvini lo ha subito estromesso dal partito) ma lo scandalo dell'odontoiatria rischia di paralizzare i lavori sulla riforma della sanità, che lui stesso ha scritto. Pd e Patto civico questa mattina depositeranno una mozione di sfiducia contro la giunta Maroni. Fino a che il provvedimento non verrà discusso nell'aula del Consiglio regionale (si presume il primo marzo) non si presenteranno ai lavori della commissione sanità, dove si sta lavorando al testo bis della riforma. «Difenderò la riforma con l'aiuto degli onesti, ho passato mille tempeste» annuncia Roberto Maroni. «Emergerà presto che su Maroni non c'è nulla di storto» è sicuro Umberto Bossi. «Dobbiamo mettere anticorpi forti nel sistema sanitario che è quello più aggredibile perché c'è la cassa - sostiene il ministro alla Salute Beatrice Lorenzin - Lo scandalo non fa bene alla sanità lombarda che è una delle migliori del nostro paese».
Tangenti e pochi controlli. "Le protesi fatte coi piedi". Nelle intercettazioni il business dell'odontoiatria. Il gip: "Politica mezzo per accumulare ricchezze", scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Mercoledì 17/02/2016, su "Il Giornale". Una manager nel campo dell'odontoiatria, Paola Canegrati, che per ottenere appalti nelle aziende ospedaliere lombarde corrompe un politico e un suo stretto collaboratore: il consigliere regionale della Lega Fabio Rizzi e Mario Longo. E una serie di dirigenti sanitari «al servizio» dell'amica fornitrice, con cui si accordano sulle gare. È il sistema descritto dal gip di Monza Emanuela Corbetta. Rizzi e Logo «abusando dei propri ruoli e poteri, inducevano i funzionari pubblici preposti alla gestione dei servizi di odontoiatria» e «gli amministratori delle strutture private e private convenzionate» a favorire la Canegrati. Coinvolte anche le compagne di Rizzi e Longo, Lorena Pagani e Silvia Bonfiglio, prestanome in alcune società e usate per «ricevere il prezzo della corruzione». La Canegrati voleva espandersi anche in Toscana. Rizzi, le dice Longo in un'intercettazione, «in questo è veramente bravo», nel «progetto di estensione. Di estensione del modello Lombardo dentro casa di chi ci ha insegnato come si faceva il sociale fino a ieri e gli facciamo vedere come il modello lombardo invece funziona e funziona molto bene, anche tra i comunisti». C'è un côté brasiliano. L'affare della costruzione di un ospedale pediatrico nella regione del Goias. «Dobbiamo puntare sulla politica estera», dice Longo a Rizzi. E il consigliere alla compagna: «Dall'ospedale in Brasile potrebbero venir fuori un paio di milioni a testa». Lei risponde: «Ne basterebbe uno... No? Facciamo uno... Anche mezzo basta! Non ti risolve la vita ma ti alleggerisce tutto». La Canegrati dal 2004 ottiene affari per 400 milioni di euro. Longo e Rizzi - «a libro paga», per gli inquirenti - molti vantaggi. Il primo, tra l'altro, soldi «a fronte di fatture relative a prestazioni inesistenti emesse dalla Bonfiglio nei confronti della Servicedent», una delle società della Canegrati. Che spiega a Longo: «Facciamo una consulenza di 80mila euro all'anno (...) in modo che nessuno dice niente e siamo tutti belli e a posto». Inoltre «il pagamento della somma di euro 7.978,8 relativa all'esecuzione di opere di imbiancatura» di casa e studio. Il consigliere invece «parte delle spese della campagna elettorale» del 2013. Scrive il gip: «Le prime elargizioni economiche dell'indagata Canegrati risultano risalire al pressoché totale (stando alle dichiarazioni di Longo) finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali lombarde». Dice Longo a un interlocutore: «Ti dico una cosa riservatissima, la campagna elettorale di Fabio l'ha sostanzialmente finanziata al 100% la dott.ssa Canegrati». Entrambi poi avrebbero incassato quote societarie e una mazzetta da 50mila euro. Spesso le prestazioni e il materiale della Canegrati sono «di pessima qualità». I responsabili dei controlli negli ospedali lo sanno, ma «omettono i doverosi rilievi» e attribuiscono alle aziende dell'amica «il massimo punteggio». Nelle intercettazioni si parla di «corone protesiche» che sono «normalmente fatte con i piedi». Ammette un indagato: «Mediamente Elledent (un'altra società della zarina dell'odontoiatria, ndr) lavora grossomodo con il cu...». L'allarme del gip: Rizzi e Longo «hanno fatto del potere politico lo strumento per accumulare ricchezze, non esitando a strumentalizzare le idee del partito che rappresentano, a intimidire facendo valere la loro posizione chi appare recalcitrante alle loro pretese». La Pagani infine pone una questione a Rizzi, ha sentito che le banconote da 500 euro sono difficili da usare: «Tu come fai i pezzettoni da cinquecento che hai su in mansarda?». Lui: «Perché?», risposta: «È un casino adesso versarli» e poi: «Quant'è che c'è su, quindicimila euro?».
Primarie Milano, polemiche su voto cinesi. Pd: “Accuse discriminatorie”. Salvini: “Che pena”. Il voto degli stranieri il primo giorno ha rappresentato il 4 per cento (su un totale di 7mila e 750 persone). Il Partito democratico, dal deputato Fiano al segretario milanese Bussolati, cerca di respingere le accuse in merito a gruppi di cinesi alle urne per Giuseppe Sala. Il leader del Carroccio: "Povera città", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2016. “Il voto dei cinesi per Sala alle primarie di Milano? Polemiche irricevibili e disgustose”. “Gli stranieri al voto? E’ un successo della democrazia”. Mentre la metropoli inizia il secondo giorno di votazioni per la scelta del candidato sindaco di centrosinistra, il Partito democratico cerca di rispondere alle accuse di “operazioni sospette” ai seggi con gruppi di cinesi che vanno alle urne per votare Giuseppe Sala. Dal deputato dem Emanuele Fiano al segretario Pd di Milano Pietro Bussolati, dall’establishment si difende l’iniziativa. Il fantasma per tutti è quello di Genova esattamente un anno fa e Napoli nel 2011 quando proprio il voto degli stranieri creò casi controversi alle primarie e polemiche senza fine. All’attacco il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Che pena, povera Milano e povera sinistra”. A raccontare a ilfattoquotidiano.it quello che è successo nelle scorse ore è stato il presidente di seggio della sezione Lama Carlo Bonaconsa: “Non sembra un voto consapevole. Non sanno leggere l’italiano e aprono le schede per chiedere dove votare”. Nel primo giorno di votazioni, in cui erano aperti solo 9 dei 150 seggi previsti per oggi, si sono presenti 7mila e 750 elettori. Il voto straniero ha rappresentato il 4 per cento. Poco prima del silenzio elettorale la comunità cinese aveva espresso il proprio endorsement per il candidato Sala con un annuncio in lingua mandarina, come raccontato dal Fatto Quotidiano. Nel quartiere cinese di Milano (zona Paolo Sarpi) è stato allestito un gazebo dove i rappresentanti della comunità spiegano come andare a votare e si offrono per accompagnare gli elettori alle urne”. Il primo a replicare alle accuse è stato il deputato Pd Emanuele Fiano, ex candidato alla primarie che si è poi ritirato per sostenere Sala: “È inaccettabile”, ha detto, “che chi manifesta contro il razzismo si scagli oggi contro nostri concittadini e connazionali di origine straniera che hanno deciso di partecipare direttamente e coscientemente alla scelta di chi sarà il candidato sindaco”. Fiano, che è anche responsabile sicurezza del Partito democratico, ha aggiunto: “Trovo irricevibili e disgustose le polemiche di alcuni noti e notissimi ‘compagni’ della piazza milanese, alcune che insinuano brogli, altre con chiare venature diciamo discriminatorie, per non dir di peggio. Ancor più a fronte dei dati di affluenza rivelati oggi che parlano di clima di regolarità e correttezza e che indicano nel 4% la partecipazione di cittadini stranieri. Chi oggi alimenta queste polemiche, e magari ieri come noi insorgeva contro la destra dei caterpillar e dei respingimenti in mare, non si vergogna di non gioire oggi che il centrosinistra di Milano nelle sue primarie dimostra che il futuro è già qui, che noi siamo già una città aperta, che l’unico modo di avere integrazione vera è che tutti siano protagonisti della loro vita scegliendo direttamente chi li governa o rappresenta?”. Tutto regolare anche per il segretario metropolitano del Pd di Milano Pietro Bussolati: “L’affluenza ai seggi delle primarie anche di residenti di origine straniera va considerata un successo della democrazia, non un problema. Significa che questi concittadini (che a Milano rappresentano quasi il 15% della popolazione, ed oggi alle primarie hanno votato per il 4% del totale) si sentono parte integrante della vita milanese e vedono in queste consultazioni una grande occasione di partecipazione”.
Boom di cinesi ai seggi per votare Sala, è polemica. Troppi stranieri per Mr. Expo, protesta Sel. Alle urne oltre 7mila persone, il 4% sono immigrati, scrive Chiara Campo, Domenica 7/02/2016, su "Il Giornale". La Cina non è mai stata così vicina (alle primarie del Pd). Per tutto il week end gli elettori del centrosinistra scelgono il candidato sindaco per Milano, ma già ieri si sono già accese polemiche per i troppi cinesi in fila ai seggi. Sembra una fotocopia del caso Liguria: il candidato alle regionali Sergio Cofferati un anno fa denunciò brogli («un voto inquinato da marocchini e cinesi») e rifiutò l'esito a favore della renziana Raffaella Paita. La storia sembra ripetersi, per tutta la giornata c'è stato un clima di sospetti e accuse dirette ai sostenitori di Giuseppe Sala. I quattro in corsa a Milano - la vicesindaco Francesca Balzani supportata da Pisapia e Sel, il commissario Expo dai renziani, l'assessore Pierfrancesco Majorino e l'outsider Antonio Iannetta - hanno votato tutti ieri mattina. Sala, residente in centro, ha dovuto attendere 40 minuti in coda. Anche lì, elettori con gli occhi a mandorla. «Sono anche loro milanesi, se vincerò spero che entro la fine del mio mandato non verranno più chiamati immigrati ma italiani, sono parte della popolazione». Dovrebbe avere il dente avvelenato: giorni fa ha ammesso che dei crediti milionari che la società Expo deve ancora riscuotere all'estero, la quota maggiore (e ad alto rischio) riguarda proprio la Cina. Ma qui sembra avere molti fan. In qualche negozio della Chinatown milanese ieri venivano mostrati facsimile della scheda elettorale con la croce sul nome Sala («ci hanno detto che è buono per noi cinesi»). Nel quartiere è stato allestito anche un gazebo per dare informazioni sul voto, all'inizio con i manifesti dei candidati (con una sproporzione pro Sala), poi dopo le prime proteste al comitato dei garanti sono spariti. In zona Isola, stesso tifo per Mr. Expo: alcuni cinesi a domanda negano di essere elettori Pd «siamo qui per votare Sala, tutti i cinesi votano Sala». In viale Monza viene allontanato un orientale che distribuisce ai connazionali in fila il «santino» con il nome di Mr. Expo. Si creano momenti di tensione nel pomeriggio quando arrivano a gruppi e vogliono compilare collettivamente i moduli. Un rappresentante di lista riferisce che «c'erano persone che indirizzavano i votanti cinesi, gente portata qui in maniera evidentemente organizzata. Abbiamo visto una donna con una busta che conteneva passaporti e permessi di soggiorno. Movimenti che non si capivano». Viene convocato il segretario milanese del Pd, il renziano Pietro Bussolati, che difende la correttezza delle operazioni: «La comunità cinese ha espresso la volontà di partecipare alle primarie, proprio Sel aveva chiesto di aprire il voto agli immigrati e ora non comprendo le proteste». Matteo Salvini della Lega ha commentato: «Che pena, povera Milano e povera sinistra!». In serata Sel ha provato a gettare acqua sul fuoco ma le comunità straniere di Milano sono intervenute parlando di pregiudizi. L'affluenza ieri è stata di 7.750 elettori (il Pd ne attende almeno 67mila), il 4% stranieri. I seggi rimarranno aperti oggi dalle 8 alle 20.
Salvini: "Cinesi alle primarie del Pd. Povera Milano, povera sinistra". "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Così il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini sulle primarie democratiche, scrive Luca Romano, Sabato 6/02/2016, su "Il Giornale". Milanesi in coda per la prima giornata di primarie del centrosinistra, che decideranno chi sarà il candidato sindaco della coalizione tra Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino e Giuseppe Sala. Ad attendere l'esito è anche il centrodestra che poi scoprirà le sue carte e, soprattutto, il nome del suo candidato sindaco. Ma la prima giornata della consultazione popolare per scegliere il candidato sindaco è stata segnata dalle polemiche sul voto degli immigrati. Ad attaccare è il segretario della lega Matteo Salvini, che se la prende con l'afflusso di cinsesi nei gazebo: "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Il Pd respinge le critiche: il responsabile sicurezza Emanuele Fiano le bolla come "irricevibili e disgustose". I cittadini stranieri che hanno votato, sottolinea, sono stati il 4 per cento, e tutti regolarmente residenti a Milano. Intervengono anche le associazioni delle varie comunità straniere: somali, cinesi e sudamericani hanno diffuso una nota congiunta in cui smentiscono che ci sia stato "voto di scambio". Oggi i seggi allestiti erano 9, uno per ogni zona della città, aperti dalle 8 alle 18. I votanti sono stati 7.750. Le code ai seggi sono iniziate poco dopo l'apertura e, sempre in modo ordinato, sono proseguite per raggiungere il picco in tarda mattinata. Come hanno sottolineato gli organizzatori delle primarie le file di oggi sono dovute al fatto che i cittadini di ogni zona avevano a disposizione solo un seggio per il voto, mentre domani saranno 150 quelli aperti in tutta la città, dalle 8 alle 20. In coda per votare si sono messi questa mattina anche i quattro candidati. Il primo è stato Iannetta che ha votato ad un circolo Pd di Porta Genova verso le 10. Stesso orario, le 11, per i due candidati e colleghi nella giunta Pisapia, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino. La prima ha votato al circolo Pd Molise-Calvairate in Zona 4, accompagnata da marito e figli. "Speriamo che tanti milanesi vadano alle urne - ha commentato la vice sindaco - per arrivare così al cuore delle primarie, che è il protagonismo dei cittadini". Stessa impressione positiva per l'assessore alle Politiche sociali del Comune, Majorino, che ha votato in Zona 5: "Mi pare una grande festa democratica e popolare - ha detto - e a quanto ho visto tutto sta procedendo bene". Alle 12 si è presentato al seggio della zona 1, quella del centro città, anche il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, accompagnato dalla moglie. Per lui la coda è durata circa 40 minuti. "In coda forse mi toglierò un po' di ansia - ha spiegato ai cronisti - del resto per me è la prima volta come candidato. Se le code ci sono c'è da aspettarsi una bella affluenza". Mentre il centrosinistra sceglie il suo candidato il centrodestra attende ma ancora "per pochi giorni". "Se non è questione di ore è questione di giorni - ha spiegato il consigliere politico di Forza Italia, Giovanni Toti, parlando della scelta del candidato a margine di un incontro del partito a Milano -. Subito dopo le primarie arriverà la nostra scelta". Se il candidato sarà l'ex city manager del Comune di Milano, Stefano Parisi, "immagino dovrà essere lui ad accettare definitivamente l'investitura", ha concluso.
Affitti in Galleria, resistono cinque furbetti, scrive Massimiliano Mingoia il 4 febbraio 2016 su “Il Giorno”. In Galleria Vittorio Emanuele 5 «furbetti» resistono ancora con affitti scontatissimi, ma hanno il contratto scaduto e lo sfratto in mano. Se a Roma si parla ancora di Affittopoli, a Milano la situazione è un po’ diversa. Nel Salotto, il cuore del capoluogo lombardo, lo scandalo di Affittopoli c’è stato eccome. Negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere, gli inquilini con affitti da privilegiati erano 83. Trent’anni dopo, sono rimasti in 5. Vip nei paraggi? Non risulta. Si tratta di inquilini che negli anni Ottanta sono entrati nel Salotto con affitti a equo canone o assegnazioni dirette con un unico minimo denominatore: canoni d’affitto irrisori. Tutto merito delle amicizie con i politici dell’epoca. Quanto incassa attualmente il Comune da questi cinque contratti d’affitto? Appena 35 mila euro all’anno, poco meno di 600 euro al mese per appartamento, circa 7 mila euro all’anno. Poco, pochissimo, considerando che sono case a pochi metri da Piazza Duomo. In Galleria c’era anche un’altra casta di privilegiati: le associazioni amiche dei politici del Comune. Per loro uffici prestigiosi vista Galleria e poche lire da sborsare ogni mese per il canone. Anzi, pochi euro. Perché fino a un paio d’anni fa una ventina di associazioni aveva ancora sede nel Salotto con affitti ultra-scontati. L’operazione trasloco, avviata dall’ex assessore al Demanio Lucia Castellano e completata dall’attuale assessore Daniela Benelli, ha portato al trasferimento delle associazioni in un immobile di via Duccio da Boninsegna. Missione compiuta. Tra gli inquilini della Galleria, però resistono ancora cinque «furbetti». La Benelli commenta: «Sì, è vero, ci sono ancora 5 inquilini che pagano canoni di affitto bassi, ma la procedura di sfratto nei loro confronti è già stata avviata». L’assessore ripete i numeri: «Negli anni Ottanta c’erano 83 contratti d’affitto a prezzi scontatissimi, adesso siamo scesi a 5. C’è una bella differenza. Negli ultimi anni la lotta contro i privilegi a Milano c’è stata». Ogni riferimento alla situazione di Roma, naturalmente, è puramente voluto. La Benelli sottolinea che l’operazione più importante portata avanti dal Comune in questi anni è stata il trasloco delle sedi delle associazioni dalla Galleria a via Duccio da Boninsegna: «Ci ha permesso di fare bandi anche per i piani alti del Salotto e di valorizzare in verticale l’immobile. I numeri parlano chiaro: la redditività della Galleria è passata dagli 11 milioni di euro del 2011 ai quasi 30 milioni di euro del 2015».
Pisapia "apre" la sua casa, è quella di Affittopoli, scrive Massimiliano Mingoia il 25 febbraio 2011 su “Il Giorno”. Su "Oggi" il candidato sindaco e la sua compagna fotografati nell’appartamento in corso di Porta Romana. «Giuliano Pisapia ci apre in esclusiva le porte di casa sua, con la compagna Cinzia Sasso». È l’11 gennaio scorso. Il settimanale Oggi presenta così una lunga intervista nella dimora del candidato sindaco del centrosinistra Giuliano Pisapia, avvocato ed ex parlamentare di Rifondazione comunista. A corredo del servizio vengono scattate 12 fotografie, che si possono tuttora vedere nella versione on line del settimanale. Pisapia in cucina che beve un caffè e naviga su Internet. Pisapia in salotto insieme alla compagna, la giornalista di Repubblica Cinzia Sasso, tra un divano bianco, tende arancioni e un tavolo con una tovaglia rossa. Fin qui nulla di strano. Peccato che la dimora che il candidato sindaco presenta come quella in cui vive, almeno a dar retta al servizio di Oggi, sia la casa di corso di Porta Romana 116/A di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Sì, parliamo proprio dell’appartamento di 118 metri quadrati affittato alla Sasso per un canone annuo di 6.864 euro. Pochini, 6.864 euro all’anno, per una casa in pieno centro e di quella metratura. Non a caso la dimora è tra quelle finite nello scandalo di Affittopoli. La Sasso, quando il suo appartamento è stato citato tra quelli del Pat, si è difesa così in una lettera inviata ai quotidiani: «Vivo da 22 anni in quell’appartamento. Il primo contratto di affitto era del 1989, quando ancora non conoscevo Giuliano (...) Dal 2008 il mio contratto è scaduto; nel frattempo ho trovato un’altra casa e ho mandato al Pat una lettera di disdetta del contratto di affitto. Giuliano, da oltre trent’anni, è residente e abita in un’altra casa di sua proprietà». Una domanda sorge spontanea: allora perché il servizio per Oggi è stato realizzato nell’appartamento di corso di Porta Romana 116/A? Perché il candidato sindaco ha deciso di aprire all’occhio della giornalista e agli scatti del fotografo proprio quella dimora? Lui, Pisapia, per commentare il caso Affittopoli, a caldo ha parlato di «fango». Qualche giorno fa invece ha aggiunto: «Se leggerezza c’è stata è stata di non aver chiarito velocemente alcune questioni». E ha concluso così: «Non tollero che colpiscano il mio affetto più grande per colpire me». E ora ecco spuntare il servizio e le foto di Pisapia che «ci apre in esclusiva le porte di casa sua, con la compagna Cinzia Sasso». Un’altra leggerezza?
Cos’è la storia di “Affittopoli”. L'ennesima vicenda di affitti a prezzi vantaggiosi e persone molto poco bisognose. Il Pio Albergo Trivulzio è l'ente che nel 1992 diede inizio a Tangentopoli, scrive “Il Post” il 20 febbraio 2011. Da giorni le pagine dei giornali, soprattutto quelle della cronaca di Milano, sono invase dall’ennesimo “scandalo” politico descritto con l’ennesimo neologismo che finisce in -poli, come Tangentopoli, Vallettopoli, Bancopoli, Calciopoli, Parentopoli, eccetera eccetera. Stavolta il neologismo è “Affittopoli”, già utilizzato altre volte in passato per storie simili a questa. Il tema è sempre lo stesso: affitti a prezzi molto favorevoli offerti a personaggi tutt’altro che bisognosi, spesso orbitanti intorno alla politica locale. Di cosa parliamo. A Milano il Comune, il Policlinico e il Pio Albergo Trivulzio – tra un po’ vi spieghiamo cos’è – possiedono un patrimonio di 3700 case, negozi, locali gestiti in modo poco trasparente. Da settimane i giornali pubblicavano racconti di affitti ridicoli pagati per immobili che, per dimensione e collocazione, sul mercato avrebbero comportato rette doppie o triple. Quattro stanze vista Duomo a 450 euro al mese, quando sul mercato con 450 euro si affitta, forse, un monolocale sgangherato fuori città. Settanta metri quadri in via Bagutta, a due passi da via Monte Napoleone, a 330 euro al mese. Non solo: poca chiarezza nei criteri per l’assegnazione di questi appartamenti, voci su bandi “riservati”, racconti di facoltosi professionisti subentrati ad affitti vantaggiosi sottoscritti da genitori e parenti vari. Il Pio Albergo Trivulzio nasce come ospizio per anziani, a Milano, fondato nel Settecento da un nobile – Tolomeo Trivulzio, appunto – che decise di donare il suo intero patrimonio alla fondazione di un ospizio per anziani poveri. Nel Novecento il Pio Albergo Trivulzio è diventato un ente che gestisce moltissimi immobili, il cui nome ufficiale è infatti Azienda di servizi alla persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio. Ora, il Pio Albergo Trivulzio ha conosciuto il suo momento di maggiore notorietà nel 1992: in particolare quando il suo presidente, Mario Chiesa, viene colto in flagrante mentre intasca una tangente da sette milioni di lire. Su di lui indaga un pm della procura di Milano, Antonio Di Pietro. È l’inizio di Tangentopoli. Il Comune quindi nei giorni scorsi ha chiesto al Trivulzio di rendere noti i nomi degli inquilini e criteri di assegnazione dei 1400 appartamenti proprietà dell’ente. A un certo punto Fabio Nitti, direttore generale del Trivulzio, viene chiamato a relazionare davanti alla commissione casa del Comune. La riunione si tiene a porte chiuse, come richiesto dallo stesso Trivulzio, ma alcuni consiglieri raccontano alcune delle parole di Nitti, che avrebbe detto che il Trivulzio dà le case «a chi ha più soldi». La consigliera comunale Ciabò, presidente della commissione, ha detto che «il criterio del massimo reddito è assurdo, e crederci non è facile. La verità potrebbe essere peggiore, ossia che le case vadano agli amici, senza tanti criteri. Vogliamo vederci chiaro». Poi arriva la smentita degli avvocati del Trivulzio, che dicono che il reddito non è ilcriterio ma uno dei criteri per l’assegnazione degli immobili. Anche sull’identità degli inquilini il Trivulzio è molto opaco. Come «per ragioni di privacy» avevano chiesto di tenere l’audizione a porte chiuse, «per ragioni di privacy» non intende diffondere l’elenco degli inquilini. «Mi batterò perché gli inquilini non siano dati in pasto alla morbosità del pubblico», dice Emilio Trabucchi, presidente dell’ente. Il Comune però preme, il sindaco Moratti chiede «la massima trasparenza» e nel frattempo fornisce i dati sulle sue proprietà. La stampa continua a chiedere i dati. I sindacati degli inquilini si oppongono, «preoccupati dalla possibile gogna mediatica». Poi arriva il garante della privacy a dirimere la questione, e dice che i dati devono essere consegnati al Comune, che ne ha fatto richiesta. Inoltre non c’è alcuna norma che impedisca la pubblicazione di quegli elenchi: sono dati pubblici, non esiste nessuna privacy da tutelare. E quindi i dati vengono consegnati al Comune. L’elenco completo degli inquilini viene reso pubblico e dopo poche ore è sui giornali, qui si può scaricare il pdf. In mezzo c’è di tutto: Daniele Cordero di Montezemolo, stilista e fratello del più celebre Luca, la giornalista di Mediaset Claudia Peroni, la presidente dell’ordine degli architetti Daniela Volpi, il politologo Giorgio Galli (910 euro al mese per 127 metri quadrati), la compagna di Aldo Brancher, il direttore generale del Milan Ariedo Braida, l’attrice Gaia Amaral, Carla Fracci. Poi molti politici del PdL o del centrodestra: il presidente del consiglio comunale di Peschiera Borromeo, consiglieri comunali di Milano, l’ex tesoriere di Forza Italia. Solo alcuni di questi pagano affitti in linea con le quote di mercato: molti pagano rette molto al di sotto. Il caso di cui si è parlato di più, in questi giorni, è quello che coinvolge indirettamente il candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. La sua compagna, Cinzia Sasso, giornalista di Repubblica, è infatti una degli inquilini delle case del Trivulzio: 118 metri quadri in corso di Porta Romana a circa 900 euro al mese, molto al di sotto dei prezzi di mercato. È stata la stessa Sasso a descrivere la sua condizione scrivendo al Corriere della Sera: «Sento il ronzio delle api attorno al miele, preferisco violare la mia privacy e raccontare i fatti miei». Sasso scrive che il primo contratto col Trivulzio risale al 1989, «quando ancora non conoscevo Giuliano», e che le spese di manutenzione e ristrutturazione sono a suo carico. Precisa che Pisapia risiede da un’altra parte, che il suo contratto è scaduto nel 2008 e che non è mai stato rinnovato. Sasso dice a Libero di non ricordare come era entrata in contatto col Trivulzio, Filippo Facci ha ricostruito la vicenda a partire dalle parole di Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. Negli ultimi giorni sia la procura di Milano che la Corte dei Conti hanno aperto delle inchieste per verificare la gestione del patrimonio immobiliare da parte del Pio Albergo Trivulzio. La Lega ha chiesto a Pisapia di ritirare la sua candidatura, questo ha detto di non averne alcuna intenzione. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, starebbe facendo pressioni sul presidente dell’ente assistenziale, Emilio Trabucchi, perché questo lasci l’incarico e permetta così al sindaco di nominare un commissario straordinario.
PARLIAMO DEL MOLISE.
…DI CAMPOBASSO. Indagò sull’Asl, ora ne diventa direttore: strano caso in Molise, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. L’ascesa di Forciniti, da capitano dell’arma a manager della sanità regionale. Anche nell’Arma dei carabinieri deve essere iniziata la “rottamazione”. Non dei vertici, ci mancherebbe altro. Ma di tutti quei regolamenti di stampo ottocentesco che “condizionavano” la vita degli uomini (e da qualche anno pure delle donne) con gli alamari, come usava dire il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, cuciti sulla pelle. Norme stringenti che entravano fin dentro la vita privata, stabilendo addirittura quale attività potesse svolgere la consorte del militare. Un minuzioso elenco di “incompatibilità” applicato con zelo non comune. La tutela del prestigio e dell’immagine dell’amministrazione con le stellette, forte di oltre due secoli di storia, veniva sempre prima di tutto. Non erano previste deroghe o eccezioni. Questa rincorsa verso la “modernità” ed il “cambiamento” ad ogni costo, rischia però di creare situazioni che sollevano più di una perplessità. Soprattutto sotto l’aspetto dell’opportunità. Uno degli ultimi casi riguarda, infatti, l’Azienda regionale per la sanità del Molise, dove il direttore generale Gennaro Sosto, un ingegnere 47enne calabrese, ha appena nominato come direttore amministrativo il capitano dei carabinieri Antonio Forciniti, attuale comandante del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità di Campobasso, il reparto speciale dell’Arma preposto ai controlli per la tutela della salute. Forciniti, calabrese come Sosto, dal 2011 era al comando del Nas di Campobasso. E proprio nei confronti dell’Azienda regionale per la sanità del Molise aveva svolto in questi anni numerose indagini. A lui si devono le inchieste più “scottanti” che hanno terremotato la sanità molisana. Abuso d’ufficio, corruzione, truffa, peculato: c’è quasi tutto il codice penale, nelle condotte dei vari medici e operatori sanitari dell’Azienda finiti nel mirino di Forciniti. Tutti soggeti che, dal prossimo primo settembre - data prevista per l’insediamento del carabiniere e direttore in pectore - si troveranno ad averlo come capo. In una sorta di “corto circuito amministrativo” dagli esiti imprevedibili. Con Forciniti, già capitano dei carabinieri, nella veste di probabile testimone dell’accusa - avendo condotto le indagini, nei processi a loro carico; e sempre con Forniciti, nel ruolo di direttore amministrativo, nella veste di dirigente che verosimilmente dovrà valutare i predetti professionisti anche sotto l’aspetto disciplinare, al termine del giudicato penale. Visto che tale mansione, e non solo, normalmente rientra nei compiti della direzione amministrativa. Forciniti, qualche settimana fa, prima di essere autorizzato dai vertici dell’Arma a ricoprire tale incarico, aveva evidenziato come la sanità molisana avesse bisogno di un’azione rapida ed efficace. «Non è il momento di pensare, valutare – aveva dichiarato – perché non c’è tempo. Questo è il momento di agire, essere operativi». C’è solo da capire se il desiderio di agire contempli anche “l’opportunità”.
PARLIAMO DELLA PUGLIA.
…DELLA BAT. Accertamenti del Consiglio Superiore della Magistratura sulla Procura di Trani. Il Consigliere togato di Magistratura Indipendente, Lorenzo Pontecorvo: “non delegittimare pm che indagano su scontro treni”. E presto il Csm si occuperà anche di qualche altra Procura pugliese…scrive “Il Corriere del Giorno” il 25 luglio 2016. Il Csm sta svolgendo accertamenti preliminari sulla Procura di Trani, che sta conducendo l’inchiesta sullo scontro di due treni in Puglia in cui sono morte 23 persone. La pre-istruttoria della Prima Commissione di Palazzo dei Marescialli non riguarda le indagini sull’incidente ferroviario, ma vicende, tutte da accertare, segnalate da “parecchi” esposti a carico di alcuni pm, alcuni su presunte frequentazioni non corrette con avvocati. L’esistenza del fascicolo è emersa ieri nel dibattito sulla delibera che ha disposto l’archiviazione della pratica sul procuratore di Arezzo, Roberto Rossi. Criticando il modo di procedere della Prima Commissione in questo come in altri casi, uno dei suoi componenti – il togato di Magistratura Indipendente, Lorenzo Pontecorvo– ha citato la pratica su Trani e le audizioni svolte in mattinata dell’ex procuratore Carlo Maria Capristo e del Pg di Bari Anna Maria Tosto, avvertendo che “così si sta pregiudicando la serenità di un ufficio giudiziario impegnato nelle indagini sul grave disastro ferroviario”. A sollecitare l’intervento del Csm non sono stati solo “parecchi esposti, tanti dei quali anonimi” su alcuni pm, ma anche un romanzo scritto da un ex gip di Trani, Roberto Oliveri del Castillo: “Frammenti di storie semplici”. Si tratta del diario di un giudice che racconta fatti e misfatti dell’ambiente giudiziario. Nel romanzo si legge per esempio la storia di un masseria comprata da un pm che Oliveri del Castillo chiama “Cricco”. “Non c’è alcun riferimento alla realtà”, ha giurato Oliveri del Castillo, ma il pm Antonio Savasta, uno dei magistrati che coordina l’indagine sul disastro ferroviario, possiede una masseria ed è sotto processo a Lecce per concussione per induzione nei confronti di un imprenditore, indotto a vendere un terreno adiacente. Solo delle strane coincidenze? Un tentativo di stoppare le interpretazioni, riprese e pubblicate anche su un quotidiano nazionale che ha sovrapposto la figura di pm molto noti della Procura di Trani ai protagonisti di “fantasia” del libro. Il magistrato-scrittore quando è stato ascoltato per primo dal Csm ha dichiarato che “è frutto di pura fantasia”. Ma che in realtà non sia esattamente così lo pensa più di qualcuno, e non soltanto perché in quelle pagine ci sarebbe un’eco di qualche fatto di cronaca, ma anche perché ci sarebbe un’affinità con alcune delle vicende riferite negli esposti presentati al Csm, a partire da quelli su frequentazioni ritenute non propriamente corrette tra magistrati e avvocati. Giovedì scorso l’organo di autotutela della magistratura ha ascoltato il procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, e Carlo Maria Capristo, fino al marzo scorso alla guida della Procura di Trani ed attualmente procuratore capo a Taranto. La Prima Commissione del CSM intende accertare e capire attraverso le audizioni se i fatti, segnalati dagli esposti anonimi, siano credibili o meno. Al momento un dato di fatto è certo: un giudice che ritiene di essere stato danneggiato da un riferimento contenuto nel libro ha citato il gip-scrittore Oliveri del Castillo in sede civile.
Andria, il legale del capostazione bacia i piedi del pm che indaga. Una foto per alimentare i veleni. Non c’è pace per la procura di Trani, alle prese da quasi un mese con la delicata indagine sul disastro ferroviario del 12 luglio, scrive Massimo Malpica, Venerdì 05/08/2016, su "Il Giornale". Una foto per alimentare i veleni. Non c’è pace per la procura di Trani, alle prese da quasi un mese con la delicata indagine sul disastro ferroviario del 12 luglio scorso nel quale hanno perso la vita 23 persone. La prima commissione del Csm ha aperto un procedimento sui magistrati pugliesi a fine luglio e la notizia è trapelata per l’intervento del togato di MI Lorenzo Pontecorvo che aveva messo in guardia dal rischio di pregiudicare «la serenità di un ufficio giudiziario impegnato nelle indagini sul grave incidente ferroviario». Alle attenzioni di palazzo dei Marescialli ci sarebbe in particolare il pm Antonio Savasta, al centro di alcuni degli esposti pervenuti al Csm. Come pure il controverso romanzo dell’ex gip di Trani Roberto Oliveri del Castillo (già ascoltato dal Csm), «Frammenti di storie semplici», che dietro nomi di fantasia racconta storture ed episodi di malagiustizia che sembrano riferirsi proprio alla procura della città a nord di Bari. Ma secondo i rumors, il procedimento si concentra anche sui rapporti tra magistrati e avvocati del distretto giudiziario, che secondo alcuni degli esposti non sarebbero sempre contenuti nei limiti della correttezza. In uno degli ultimi esposti spediti al Csm, l’imprenditore barlettano Giuseppe Dimiccoli, da tempo impegnato in un braccio di ferro giudiziario con il pm Savasta (per una questione relativa a una masseria sfociata in diversi strascichi giudiziari), allega al testo della denuncia una foto (qui a destra) scattata a una festa. La donna a sinistra è la pm tranese Simona Merra, nel pool di magistrati che indaga sull’incidente ferroviario. L’uomo che le fa il «baciapiede» è l’avvocato Leonardo De Cesare, legale del capostazione di Andria Vito Piccarreta, che dell’inchiesta è uno degli indagati. Nel suo esposto Dimiccoli collega l’immagine all’ipotesi sostenuta dal gip nel suo romanzo «che la scelta dei legali da parte degli indagati venga pilotata dalla convinzione che taluni avvocati siano legati da rapporti di amicizia e frequentazione con alcuni pm». Ovviamente Trani è una piccola città, e l’immagine sembra provare solo una certa familiarità tra il pm che indaga e il difensore di un indagato. Ma nel clima rovente della procura tranese anche l’istantanea di una festa può alzare la temperatura.
Scontro fra treni, spunta una vecchia foto della pm col legale dell'indagato: il caso al Csm. Lo scatto di tre anni fa pubblicato dal Giornale ha scatenato l'indignazione della figlia di una delle vittime. La magistrata: "Un gioco durante una festa". E l'avvocato: "Un momento di goliardia", scrive Gabriella De Matteis il 5 agosto 2016 su "La Repubblica". La pm Simona Merra con l'avvocato Leonardo De Cesare Daniela Castellano, figlia di Enrico, uno delle 23 vittime della strage ferroviaria di Andria, è la prima a commentare la foto, pubblicata sul Giornale. "Come possiamo pensare di avere giustizia per i nostri cari", scrive postando su Facebook l'immagine che in poche ore fa il giro del web per finire anche sulle scrivanie del Csm. L'avvocato Leonardo De Cesare, legale del capostazione Vito Piccarreta, principale indagato dell'inchiesta sullo scontro fra treni in cui hanno perso la vita 23 persone, finge di baciare il piede alla pm Simona Merra, nel pool dei magistrati di Trani che indaga sul disastro. "Quella foto risale al 2013", prova a difendersi la sostituta procuratrice nell'occhio del ciclone. "Vogliamo chiarezza e verità", dice ancora Daniela Castellano parlando anche a nome dei familiari delle altre vittime dello scontro tra i treni. "Siamo scioccati, allibiti e arrabbiati, la logica vorrebbe che la pm abbandonasse il caso perché noi parenti non possiamo vivere con l'incubo che le indagini possano essere influenzate da qualcos'altro". La polemica è accesa, ma il magistrato cerca di ridimensionare la portata della fotografia. Simona Merra ha avuto un colloquio con il procuratore facente funzioni Francesco Giannella: si dice serena, pronta a continuare l'indagine, parlando di "una conoscenza limitata con l'avvocato". "Non ritengo di dover formulare alcuna richiesta di astensione - aggiunge - perché non ci sono gravi motivi di opportunità. Ma se il procuratore riterrà di sollevarmi da questo incarico, chiaramente mi adeguerò". La foto è stata scattata all'inizio dell'estate del 2013, a un compleanno di una comune amica. "Lo scatto coglie in un momento di goliardia", dice l'avvocato De Cesare. Durante un gioco alla presenza di altri invitati, Simona Merra era stata schizzata con acqua e con quel gesto il legale voleva farsi perdonare. "Non ho nulla da nascondere - spiega il magistrato - De Cesare difende Piccarreta, che noi abbiamo interrogato tutti e cinque insieme alla presenza anche del procuratore. Non c'è stata alcuna attività che io ho svolto in autonomia. È un fascicolo molto delicato in cui ogni provvedimento viene firmato almeno da due sostituti. Non ho fatto nulla e non avrei motivo di favorire nessuno perché il mio compito è accertare la verità. Non comprometterei mai il mio ruolo per nessuno: avvocati, indagati e chicchessia". E anche De Cesare assicura: "Alla luce della volontà del mio assistito di collaborare con la magistratura, non si ritiene vi siano state e vi siano attualmente esigenze tali da rendere incompatibile l'esercizio dei rispettivi ruoli, anche in considerazione della delicata indagine condotta da un pool di magistrati". Nel pomeriggio, però, è lo stesso Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, a spiegare che gli atti che riguardano il caso del pm Marra "sono già in possesso della Procura Generale della Cassazione per la valutazione degli eventuali profili disciplinari". Sul caso una prima relazione è stata trasmessa dal procuratore generale di Bari Anna Maria Tosto. "Il Csm dunque - spiega Legnini - nel rispetto delle procedure e delle garanzie previste dalla legge proseguirà la sua attività istruttoria e non mancherà di esercitare tempestivamente le sue prerogative". Del resto, nei giorni scorsi, la foto era stata inviata al Consiglio Superiore della Magistratura, allegata ad un esposto, firmato da un imprenditore pugliese che ha già denunciato un altro pm di Trani Antonio Savasta (anche lui nel pool che indaga sul disastro). La prima commissione del Csm ha così aperto un procedimento per verificare se nell'ufficio giudiziario pugliese vi siano casi di incompatibilità: procedimento nel quale, ora, dovrà essere approfondito questo nuovo esposto. Alla fine di luglio il Csm ha ascoltato il procuratore generale Anna Maria e Carlo Maria Capristo, ora procuratore a Taranto ma fino a marzo procuratore di Trani. Prima di loro, dinanzi ai componenti della prima commissione era arrivato Roberto Oliveri del Castillo, ora gip a Bari, ma in passato con le stesse funzioni a Trani, autore del libro Frammenti di storie semplici: alcuni passaggi del romanzo, per l'autore frutto di "pura fantasia", a detta di qualcuno sono sovrapponibili a episodi citati negli esposti.
Avvocato «bacia» i piedi alla pm. Foto sul Giornale. «Una goliardata». Il quotidiano pubblica l’immagine del legale del capostazione indagato e del magistrato che indaga sulla strage del treno. Il caso finisce all’attenzione del Csm, scrive Michele De Feudis il 5 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. «E’ una foto di una festa di compleanno degl’inizi dell’estate 2013. Il party di una amica comune. Ovviamente si tratta di un momento di goliardia»: così l’avvocato Leonardo De Cesare, legale del capostazione di Andria Vito Piccarreta (indagato per lo scontro tra treni che ha causato 23 morti sui binari della Bari Nord), ha commentato la foto pubblicata da Il Giornale nella quale mima di baciare i piedi al pm della Procura di Trani Simona Merra, componente del pool che cura l’inchiesta sulla strage della Ferrotramviaria. La prima reazione del procuratore di Trani: «Sto verificando». La reazione su Facebook. «Gogliardata ha detto lui...peccato che le foto pubblicate sulle loro bacheche dicano altro». Così ha scritto Daniela Castellano, la figlia di una delle vittime quando ho visto la fotografia. Ed aggiunge: «Ora vogliamo chiarezza». Tanti i commenti negativi che sono seguiti al suo post. Il vice presidente del Csm ha disposto la trasmissione alla I Commissione dell'esposto con allegata la foto del pm di Trani, Simona Merri, pubblicata da alcuni quotidiani. Lo fa sapere lo stesso Legnini, ricordando che la commissione da diverse settimane «lavora ad un'istruttoria preliminare per verificare se sussistano o meno le condizioni per promuovere la procedura di incompatibilità ambientale e funzionale in relazione ai fatti narrati e ai magistrati della Procura di Trani menzionati in diversi esposti. Ho contattato - dice ancora Legnini - anche il procuratore della Repubblica facente funzioni di Trani, il dottor Giannella, che mi ha assicurato che provvederà a fare le sue valutazione nell'ambito dei poteri propri di Capo dell'Ufficio, e il Procuratore Generale di Bari, la dott.ssa Tosto, la quale mi ha informato che a breve invierà al Consiglio e ai titolari dell'azione disciplinare una prima relazione sulla vicenda. «Il Csm dunque - conclude Legnini - nel rispetto delle procedure e delle garanzie previste dalla legge proseguirà la sua attività istruttoria e non mancherà di esercitare tempestivamente le sue prerogative». È «serena» e non ritiene di dover abbandonare l'indagine sull'incidente ferroviario. «Non ritengo di dover formulare alcuna richiesta di astensione perché non ci sono gravi motivi di opportunità - ma se il Procuratore riterrà di sollevarmi da questo incarico chiaramente mi adeguerò». La pm spiega che la foto «risale a luglio del 2013», e precisa di aver «avuto una conoscenza limitata» a quel periodo «con l'avvocato De Cesare». Merra ricorda che erano a una festa e durante un gioco fatto alla presenza degli altri invitati lei era stata schizzata con acqua e l'avvocato le stava solo chiedendo scusa. La pm precisa di aver gestito il fascicolo, di cui è coassegnataria insieme ad altri colleghi, «serenamente e senza condizionamento». «Ho fatto una relazione al procuratore facente funzioni - evidenzia - e gli ho rappresentato come stanno le cose. Dopodiché sono serena. È tutto alla luce del sole». Merra ribadisce di non aver «nulla da nascondere: ho una vita trasparente», dice. «De Cesare - sottolinea - difende Piccarreta che noi abbiamo interrogato tutti e cinque insieme alla presenza anche del procuratore. Non c'è stata nessuna attività che io ho svolto in autonomia. È un fascicolo molto delicato dove ogni provvedimento viene firmato almeno da due sostituti. Mai singolarmente». «Non ho fatto nulla - prosegue - e non avrei motivo di favorire nessuno perché il mio compito è accertare la verità. A prescindere da quelli che possono essere gli avvocati che difendono gli indagati». «La posizione di Piccarreta - rileva la pm - tra l'altro si è cristallizzata da subito e c'è poco da discutere». «Io - rimarca Merra - devo dare conto al mio capo e se quel capo riterrà che io debba rinunciare a gestire questo fascicolo, ancorché è un fascicolo mio perché io ero di turno quel giorno e sono il pm tabellarmente competente, mi adeguerò. Però rispondo in prima persona degli atti che firmo e non comprometterei mai il mio ruolo per nessuno: avvocati, indagati e chicchessia». «I miei fascicoli sono qui - conclude - mai nessuno ha potuto fare considerazioni sul mio operato. Ci sarà una ragione».
"Baciapiede" tra pm e avvocato. Spuntano altre foto, indaga il Csm. I familiari delle vittime: siamo avviliti, si faccia da parte. Spuntano nuove foto, scrive Massimo Malpica, Sabato 6/08/2016, su "Il Giornale". La foto del «baciapiede» tra il pm tranese Simona Merra e l'avvocato Leonardo Di Cesare -, la prima nel pool che indaga sul disastro ferroviario del 12 luglio scorso, il secondo difensore del capostazione di Andria indagato per l'incidente - finisce trasmessa, insieme all'esposto al quale era allegata, alla Prima Commissione del Csm. L'iniziativa è stata del vicepresidente di Palazzo Marescialli, Giovanni Legnini, che conferma in una nota come la Prima Commissione stia da tempo lavorando a «un'istruttoria preliminare per verificare se sussistano o meno le condizioni per promuovere la procedura di incompatibilità ambientale e funzionale in relazione ai fatti narrati e ai magistrati» tranesi coinvolti «in diversi esposti». Molti dei quali riguardano proprio i rapporti tra magistrati e avvocati del distretto. Anche la denuncia con la foto del pm Merra, ha aggiunto Legnini «confluirà pertanto nella procedura in corso e nell'ambito della stessa sarà valutato». Foto ed esposto sono stati già trasmessi anche alla Procura Generale della Cassazione per valutare eventuali profili disciplinari, insiste Legnini, che ha anche parlato con il procuratore capo facente funzioni di Trani - e coordinatore del pool che indaga sull'incidente - Francesco Giannella, che «mi ha assicurato che provvederà a fare le sue valutazioni», mentre il procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, «a breve invierà» al Csm «una prima relazione sulla vicenda». Si dice invece «serena» la pm Merra, che spiega di non voler astenersi dall'incarico «perché non ci sono gravi motivi di opportunità», pur rimettendosi alle valutazioni del procuratore: «Se riterrà di sollevarmi da questo incarico chiaramente mi adeguerò». La foto, spiega il magistrato, venne scattata durante un gioco a una festa nell'estate 2013, unico periodo nel quale la pm avrebbe avuto una «conoscenza limitata» con l'avvocato (ma di foto ce n'è almeno un'altra, come vedete qui a fianco), che da parte sua ha confermato la «datazione» dello scatto, derubricato a «goliardata». Che però ha mandato su tutte le furie la figlia di una delle vittime dello schianto tra i treni della Ferrotramviaria, Daniela Castellano, «scioccata, avvilita e arrabbiata». «Noi parenti non possiamo vivere con l'incubo che le indagini possano essere influenzate da qualcos'altro», commenta la donna, chiedendo un passo indietro alla pm Merra.
La pm lascia l’inchiesta sulla strage. «Ma essere bella non è un peccato». Il magistrato Simona Merra rinuncia dopo il caso delle foto con l’avvocato Leonardo De Cesare che difende uno degli indagati: «Era la mia festa in discoteca e mi ha fatto gli auguri», scrive Fabrizio Caccia il 7 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". «Ci ho riflettuto tutta notte, perché a caldo anzi avrei voluto continuare. Mi dicevo: Simona, tu non hai nulla da nascondere, tu non hai fatto niente di male. Perché, dopo tanto lavoro, dovresti lasciare? Tu quella maledetta mattina del 12 luglio eri già lì dall’inizio, a fare il sopralluogo. Perché?». La pm di Trani Simona Merra è un fiume in piena. Alla fine del giorno più lungo — in cui ha deciso di lasciare l’inchiesta sulla strage del binario unico in Puglia — si sfoga senza più freni con una persona amica. Ha visto le due nuove foto pubblicate ieri mattina dail Giornale che la ritraggono sempre in lieta compagnia dell’avvocato Leonardo De Cesare, non uno qualunque ma il difensore del capostazione di Andria, Vito Piccarreta, uno degli indagati. La foto in cui lui faceva finta di baciarle un piede risale al luglio 2013 e ha fatto indignare moltissimo i familiari delle 23 vittime della strage. Queste due nuove foto, forse, sono state la goccia. «Ah la foto in cui ho il vestito di pizzo bianco. Anzi, color panna? E l’altra è quella in cui porto il soprabito, vero? Sì, sono del 9 febbraio 2014, il mio compleanno di due anni fa — si sfoga la pm —. Avevo organizzato una festa alla discoteca Chiascia, frazione di Palombaio, Bari. Il proprietario è mio amico. Sapevo che la sera dell’8 era in programma un evento con Umberto Smaila, così ho pensato di far coincidere la mia festa con la fine dello spettacolo e fare tutti insieme il brindisi a mezzanotte. E al Chiascia quella sera c’era anche l’avvocato Leonardo De Cesare, eh, che ci posso fare?, ma non l’avevo invitato io! Lui stava lì per conto suo con altri amici, ma noi ci conoscevamo e così mi ha abbracciato per farmi gli auguri. Tutto qua. Però, lo giuro perché adesso me lo chiedono in tanti, tra noi non c’è mai stato un flirt! Poi a me piacciono gli uomini bruni, mentre lui è biondo e predilige una fascia d’età che di sicuro non è la mia. Comunque per ragioni sentimentali due anni fa io ho cambiato giro e non ci siamo più frequentati». Già, però al Csm non devono aver gradito neppure quei brutti scivoloni sul suo profilo Facebook, in cui la Merra si definisce «beata tra gli uomini», svela dettagli intimi come «puoi dire a billy che il perizoma non lo uso più». Scherzava probabilmente, ma ora anche l’uso spregiudicato dei social le sarà contestato. Da sabato, comunque, la pm di Trani non si occupa più della strage dei treni: «L’ho fatto per restituire serenità ai miei due figli e all’intera Procura. Questa mattina (ieri, ndr) alle 8 mi sono blindata in ufficio e ho deciso di preparare la richiesta di astensione. Il mio capo, Francesco Giannella, ha apprezzato molto, lodando il mio senso di responsabilità. Da domani lavorerò su nuovi fascicoli con lo stesso impegno di sempre. Spero almeno che i familiari delle vittime ora siano contenti. Hanno chiesto che facessi un passo indietro e io l’ho fatto. Mi auguro però che d’oggi in poi finiscano tutti questi pettegolezzi infondati, questo fastidioso chiacchiericcio da mercato». A farle male — dice — son state soprattutto le cattiverie sui social: «Essere una bella donna non è mica un peccato!». Anche l’avvocato De Cesare appare indignato: «Son tutte foto vecchie! Eppoi io sono un mattacchione, mi piace scherzare con tutti, faccio il maestro di surf, il maestro di sci... Se avessi avuto un flirt con la dottoressa Merra, non avrei accettato l’incarico dall’inizio! Sono molto addolorato. Mi dispiace perché è una persona integerrima. Eppoi io con il mio assistito da subito abbiamo scelto la strada della piena collaborazione con i magistrati: il processo è bell’e segnato! Piccarreta si è assunto subito la responsabilità nel primo interrogatorio. Ne abbiamo chiesto un altro: produrremo un plastico dei treni per provare a spiegare le concause del disastro». Daniela Castellano, figlia di Enrico, una delle 23 vittime, anche dopo il passo indietro della pm, resta diffidente: «Speriamo non ci siano altri errori in futuro».
Caso Merra, parla l'avvocato: “Era il pegno di un gioco e io alle feste divento un molestatore seriale”. De Cesare: “Mi spiace per i parenti di chi è morto in quell'incidente ferroviario, ma è normale scherzare con i magistrati”, scrive Gabriella De Matteis il 7 agosto 2016 su “La Repubblica”. "La dottoressa ha lasciato l'inchiesta? Mi dispiace. Non credo sia giusto". Leonardo De Cesare, 45 anni, è appena tornato da Gallipoli. "Io sono molto sportivo. Stavo facendo surf. Poi mi hanno chiamato per dirmi quello che stava succedendo".
La foto di lei che fa finta di baciare il piede del pm Merra ha suscitato molte polemiche.
"Ho già spiegato il senso di quell'immagine. Io sono molto allegro, mi piace scherzare, sono un molestatore seriale in senso positivo si intende. Era l'estate del 2013, ad una festa di compleanno. Avevo fatto qualche gavettone e un po' di acqua ha schizzato il vestito della dottoressa. Gli amici mi hanno detto che come penitenza avrei dovuto baciarle i piedi. Ecco tutto. Ma io sono fatto così: quando sono in compagnia sono goliardico. Avrei baciato anche i piedi a un procuratore, ma non per il suo ruolo. Chi mi conosce lo sa. Era un debito d'onore e io l'ho pagato e dopo tutte queste polemiche sto continuando a pagarlo".
Le famiglie delle vittime, però, hanno protestato.
"E di questo sicuramente mi dispiace perché qualcuno ha voluto dare una interpretazione maligna a quella foto. Con la dottoressa Merra, che io conosco, i rapporti sono sempre stati improntati alla massima correttezza professionale. Io difendo Vito Piccarreta, il capo stazione che, sin dall'inizio, ha deciso di collaborare alle indagini, di dire tutto quello che sa perché qui siamo di fronte ad un disastro costato la vita a 23 persone. Abbiamo appena depositato la richiesta di un nuovo interrogatorio perché Piccarreta vuole essere utile, in ogni modo".
Intanto, però, la dottoressa Merra ha lasciato l'incarico. Dopo la foto del finto bacio sono spuntate anche altre immagini.
"Guardi, io neanche me lo ricordavo quello scatto perché se vado a una festa è normale che si facciano delle fotografie, non ho nulla da nascondere. Il mio carattere è quello, non ho segreti".
La dottoressa Merra ha parlato di "una conoscenza limitata".
"Ma certo. Conosco la dottoressa, come conosco altri magistrati, anche perché io ho ricoperto l'incarico di vice procuratore onorario".
E le feste?
"Può capitare che ad una festa di compleanno incontri magistrati, giudici, o avvocati, ma non mi chieda chi perché, scherzando le dico, che faccio fatica anche a ricordare le ragazze con cui esco. Trani è un piccolo centro. Abbiamo studiato insieme al liceo, all'università di Bari, qualcuno ora fa il magistrato, anche fuori città, qualcun altro, invece, il legale. L'ambiente è quello. Che cosa dovremmo fare? Girarci dall'altra parte quando ci incontriamo per strada? Ma questo non significa che siccome un magistrato lo incontro ad una festa o è un mio amico, poi in Tribunale gli chiedo un favore o lui lo fa a me".
Ha letto il libro del giudice Del Castillo. Qualcuno dice che ci siano riferimenti non positivi all'ambiente giudiziario di Trani.
"No, ho di meglio da fare".
Il caso della foto, quindi, secondo lei, è stato ingigantito?
"Certo. Sto ricevendo molte attestazioni di solidarietà in queste ore. Io intanto sto preparando le querele".
A chi?
"A chi ha voluto dare interpretazioni fuorvianti. Io non ho nessun interesse a uscire sui giornali. Con una battuta potrei dire che sono abituato ai cartelloni (l'avvocato è stato testimonial del brand Mascalzone Latino, ndr).
La toga non fa il santo. Durante l'ultimo ventennio la stampa di sinistra li ha resi tutti vergini e intoccabili in chiave antiberlusconiana. Sarebbe ora che li riportassero sulla terra, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 7/08/2016 su "Il Giornale". Il pm Simona Merra ieri si è dimessa dall'inchiesta sul disastro ferroviario di Andria. Le foto, pubblicate da questo giornale, che la ritraggono in atteggiamenti sconvenienti con l'avvocato Leonardo De Cesare, difensore di alcuni imputati dell'inchiesta stessa, hanno scoperchiato un intreccio di relazioni incompatibile con un corretto corso della giustizia al di sopra di ogni sospetto. Non sappiamo se il Csm - l'organo di autogoverno delle toghe - che sul caso ha aperto un'inchiesta, andrà oltre sul piano disciplinare. La cosa non ci riguarda. Per noi il punto è un altro, e va oltre il palese conflitto di interesse insito nell'intimità tra un pm e un avvocato controparte in una indagine su venti morti. E cioè aver dimostrato che i magistrati non sono degli dei immacolati appartenenti a una casta superiore priva dei vizi e delle debolezze di noi comuni mortali. Le foto di Simona Merra e Leonardo De Cesare sono le stesse - lui che le bacia inginocchiato un piede e che le sfiora provocante il ventre - che si possono trovare sui social e sui telefonini di molti uomini e donne di mezza età come ricordo di una festa o serata nella quale si è bevuto un bicchiere di troppo. Nulla di male, la sconvenienza e il decoro, così come il senso del pudore, se non costituiscono reato, sono parametri soggettivi e non saremo certo noi a dare pagelle morali. E chissà di quanti altri magistrati si potrebbero documentare situazioni simili se solo si potessero aprire i loro telefonini e computer con la stessa leggerezza con la quale loro aprono i nostri. Perché questi signori, che ci guardano dall'alto, che a volte irrompono nelle nostre vite oltre il lecito, che mettono alla berlina le nostre vite private e sputano sentenze morali manco fossero sacerdoti, in realtà sono esattamente come noi, con le nostre stesse pulsioni, passioni, ambizioni. Come in qualsiasi categoria, anche nella loro ci sono santi e peccatori, geni e cretini, onesti e mascalzoni, incorruttibili e venduti, asceti e sessuomani, depressi, alcolizzati e via dicendo. Durante l'ultimo ventennio la stampa di sinistra li ha resi tutti vergini e intoccabili in chiave antiberlusconiana. Sarebbe ora che li riportassero sulla terra. Che indaghino seriamente e la smettano di fare i maestrini, perché in quanto a vita privata e a costumi morali non possono certo scagliare la prima pietra.
Trovato il fotografo del bacio del piede: è un magistrato! Scrive Giovanni M. Jacobazzi il 12 ago 2016 su "Il Dubbio". Lo svela una nota dell'Anm, che lo redarguisce perché "spione". «È preciso obbligo denunciare, ma senza scegliere forme comunicative anomale e che possano creare discredito». È proprio un clima "sereno" ed "idilliaco" quello che contraddistingue il palazzo di Giustizia di Trani. Questa "serenità" la si percepisce chiaramente dalla lettura del comunicato diramato l'altro giorno dalla locale sottosezione dell'Associazione Nazionale Magistrati. Una nota che fa seguito alle polemiche scatenatesi dopo la pubblicazione su alcuni quotidiani della foto che ritraeva la pm tranese Simona Merra intenta a farsi baciare il piede dall'avvocato Leonardo De Cesare. La prima, ricordiamolo, nel pool di magistrati che indaga sull'incidente ferroviario della tratta Bari-Barletta dove il 12 luglio scorso persero la vita 23 persone, il secondo, legale del capostazione di Andria Vito Piccaretta, uno dei principali indagati per il disastro ferroviario. Si legge nella nota del sindacato delle toghe: "È preciso obbligo del magistrato denunciare, in modo formale e nelle sedi previste per legge, i comportamenti deontologicamente scorretti o illeciti di cui egli abbia avuto conoscenza nell'esercizio delle sue funzioni, senza scegliere forme comunicative anomale e che, anche per la sua genericità insidiosa possano creare discredito anche ai colleghi che svolgono la funzione giurisdizionale con onore e autorevolezza". Tradotto, il "colpevole" del clamore mediatico suscitato dalla scatto dal sapore fetish è stato scoperto. È un collega della Merra, reo di aver creato, appunto, "discredito ai colleghi che svolgono la funzione giurisdizionale con onore e autorevolezza". Le generalità di questo magistrato ai più non sono al momento note, ma ai diretti interessati sicuramente sì, avendo costui preso parte alla festa di compleanno della pm, luogo dove sarebbe avvenuta la foto incriminata, oltre che come ospite anche come fotografo involontario. Senza dover scomodare il Consiglio Superiore della Magistratura che era prontamente intervenuto sul punto, "ho disposto - aveva detto il Vice Presidente Giovanni Legnini - la trasmissione alla I Commissione (competente sui profili di incompatibilità, ndr) della foto della dottoressa Merra. Gli atti, inoltre, sono già in possesso della Procura Generale della Cassazione per la valutazione degli eventuali profili disciplinari", la vicenda per l'Anm tranese è dunque risolta. Inutile quindi, che Legnini abbia contattato anche il procuratore della Repubblica facente funzioni di Trani, il dottor Giànnella, che gli ha "assicurato che provvederà a fare le sue valutazione nell'ambito dei poteri propri di Capo dell'Ufficio", e il Procuratore Generale di Bari, la dottoressa Tosto, che lo ha informato che "a breve invierà al Consiglio e ai titolari dell'azione disciplinare una prima relazione sulla vicenda". Tutto tempo perso. È il magistrato "fotografo" quello che deve essere oggetto del "pronto e rigoroso accertamento" presso gli organi di garanzia e controllo. Questa presa di posizione dell'Anm legittima pienamente le parole dell'avvocato De Cesare. Che, tranchant, dichiarò ad una giornalista che lo intervistava: "Può capitare che ad una festa di compleanno incontri magistrati, giudici, o avvocati, ma non mi chieda chi perché, scherzando le dico, che faccio fatica anche a ricordare le ragazze con cui esco. Trani è un piccolo centro. Abbiamo studiato insieme al liceo, all'università di Bari, qualcuno ora fa il magistrato, anche fuori città, qualcun altro, invece, il legale. L'ambiente è quello. Che cosa dovremmo fare? Girarci dall'altra parte quando ci incontriamo per strada?" Neppure lontanamente si fa, dunque, menzione della parola "opportunità" e, per le toghe, al "dovere di astensione". In certe realtà del Paese il sistema giustizia è gestito in maniera autoreferenziale senza controllo alcuno. Al di sopra della legge e della deontologia. Con tanti saluti ai principi cardine di terzietà ed imparzialità. Eppure esiste l'art. 1 comma 2 del decreto legislativo 109 del 2006, "Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati": "Il magistrato, anche fuori dall'esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria". E poi il successivo art. 3 che elenca gli illeciti disciplinari fuori dell'esercizio delle funzioni: "ogni comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza". Il Consiglio di Stato, a proposito dei criteri di comportamento che un giudice amministrativo deve avere nella vita sociale, scrive in un suo regolamento, "i rapporti di amicizia con gli avvocati sono espressioni di esercizio delle libertà della vita di relazione. Nella certezza che mai l'avvocato li dichiarerà con clienti o possibili clienti. Ove questo dovesse accadere è tenuto ad interrompere tali rapporti". Per la cronaca, dopo l'iniziale sua difesa, la Merra ha fatto richiesta di astensione dalla trattazione del procedimento sul disastro ferroviario.
Pretendiamo trasparenza anche dalla Giustizia, scrive Annalisa Chirico, Sabato 6/08/2016 su "Il Giornale". Questa non è una foto, è molto di più. Dopo l'imbarazzante «baciapiede», ecco l'abbraccio, con la mano dell'avvocato Leonardo de Cesare che sfiora la pancia del pm di Trani Simona Merra. Un gesto che tradisce confidenza e amicizia, le ragioni per le quali il magistrato Merra avrebbe dovuto astenersi dall'inchiesta che annovera tra gli indagati un capostazione difeso, guarda caso, dal biondo De Cesare, avvocato e testimonial del brand Mascalzone latino. Con lui, ha sostenuto Merra, ho avuto «una conoscenza limitata a quel periodo», luglio 2013. Peccato che questa seconda foto, pubblicata in esclusiva dal Giornale, risalga ai primi mesi del 2014. Le foto imbarazzanti sono sparite dal profilo Facebook del magistrato, ma non dalla memoria di qualcuno. Viene da chiedersi se qualcuno possa poi stupirsi se la fiducia dei cittadini italiani nella giustizia sia tra le più basse in Europa. Non c'entra la politica, non c'entrano i salvacondotti o la querelle sulla prescrizione. Le foto in questione sono il ritratto del piccolo mondo incantato e autoreferenziale di magistrati e avvocati di provincia, che gestiscono un sistema di relazioni e potere fuori da ogni controllo. La trasparenza resta un miraggio, incarichi e consulenze vengono assegnati quotidianamente senza un meccanismo effettivo di accountability. Pretendiamo la trasparenza totale dalla politica, dovremmo fare altrettanto con chi amministra la giustizia in nome del popolo italiano.
Quella masseria "magica" del pm indagato per truffa. Denunciato dall'amico con cui aveva acquistato l'immobile, avrebbe moltiplicato i vani della casa e imbrogliato il socio con artifici e raggiri, scrive Massimo Malpica, Giovedì 06/12/2012, su "Il Giornale". Non vanno in archivio i guai giudiziari per il pm di Trani Antonio Savasta, indagato a Lecce per truffa aggravata, appropriazione indebita ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Tutta «colpa» della bella masseria nelle campagne di Bisceglie, comprata nel 2005 insieme all'imprenditore barlettano Giuseppe Di Miccoli, ma intestata solo al magistrato per motivi fiscali. La storia della società - raccontata da questo quotidiano a marzo 2011 - finisce male. Nonostante in una scrittura privata, su carta intestata della procura di Trani e firmata da Savasta a giugno 2006, il pm si impegnasse a vendere all'imprenditore la quota già peraltro pagata (circa 400mila euro), nei fatti Di Miccoli si ritrova nel giro di pochi anni fuori dalla società, e anche dalla masseria. Savasta sostiene, in barba alla sua stessa scrittura privata, che i soldi incassati dall'ex amico erano solo un prestito. E dona la masseria ai fratelli, con un atto in cui i vani dell'immobile risultano moltiplicati rispetto alla compravendita di pochi anni prima. Di Miccoli non ci sta, e denuncia il pm a Lecce, procura competente per Trani. Un mese dopo la pubblicazione sul Giornale della querelle, ad aprile 2011, il pm che indaga sul collega, Giovanni De Palma, chiede al gip di archiviare. L'imprenditore fa opposizione, il gip accoglie, la procura delega i carabinieri a indagare e gli uomini dell'Arma, nell'informativa, danno ragione a Di Miccoli. Su tutto: chiavi cambiate, comproprietà della masseria negata, mobili spariti, scrivono i militari. Che ritengono «del tutto inverosimile» che i 400mila euro fossero un «prestito filantropico» offerto da Di Miccoli a Savasta. Sembra un preludio al rinvio a giudizio per la toga, e invece lo scorso 12 aprile al gip arriva una seconda richiesta di archiviazione, firmata da De Palma e dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. Per le toghe, le indagini dei carabinieri «non apportano alcuna sostanziale modifica al quadro probatorio». Di Miccoli si oppone ancora e il 12 ottobre scorso si arriva al confronto in udienza davanti al gip Vincenzo Brancato tra gli ex soci-amici, il pm e l'imprenditore. Come sia andato il faccia a faccia, lo si intuisce dall'ordinanza con cui il 28 novembre scorso il giudice per le indagini preliminari ha rigettato anche la seconda richiesta di archiviazione, chiedendo ai pm l'imputazione coatta del collega Savasta per truffa aggravata, appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il documento, un preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, per il magistrato amante delle masserie è devastante. Il gip rimarca anche come gli «artifizi e raggiri» con cui Savasta avrebbe truffato l'imprenditore, «si sono realizzati anche per effetto dell'influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica» dell'uomo. E proprio «la qualità di pm» di Savasta giustifica le aggravanti, scrive il gip. Che prima dell'imputazione coatta, sintetizza la vicenda: «lucida e compiuta ideazione di un articolato disegno criminoso integralmente realizzato». Di certo, i colpi di scena non sono mancati. I legali di Di Miccoli tra le carte del fascicolo d'indagine hanno trovato la fotocopia di un procedimento avviato contro l'imprenditore su querela di una donna che diceva di essere stata minacciata dall'uomo perché dichiarasse il falso e si unisse alle accuse contro Savasta. Di Miccoli, però, aveva imparato a fidarsi poco. E aveva videoregistrato l'incontro con quella donna, che aveva in passato lavorato nella masseria al centro della contesa, procurandosi un alibi spettacolare: niente minacce. Ora, però, è Di Miccoli che ha denunciato la donna. Per capire «se è stata indotta da qualcuno, e da chi, a denunciare il falso nei miei confronti». Accuse boomerang? Toccherà ai pm di Lecce stabilirlo.
E poi ancora. Inchiesta imbarazzante. Agli atti dell’inchiesta ci sono decine di messaggi e mail di «fuoco» che i due magistrati si sono scambiati mentre la loro relazione terminava, pare, in modo piuttosto modo burrascoso. Parole pesanti, minacce e denunce reciproche che il 28 maggio 2013 approderanno davanti al Tribunale di Lecce. Sul banco degli imputati, citati direttamente a giudizio dal pm salentino Carmen Ruggiero, due magistrati già in servizio presso il Tribunale di Trani. Il giudice M.G.C., ex gip di Trani (trasferita dal Csm a Matera, a seguito della vicenda) che deve difendersi dalle accuse di lesioni e atti persecutori nei confronti del magistrato M. N.. Quest’ultimo, oggi in servizio presso il Ministero della Giustizia, è imputato, invece, per minacce nei confronti della stessa Caserta.
Il giudice M.G.C., ex GIP di Trani, è stata trasferita a Matera e per questo motivo è balzata agli onori della cronaca, anche se a suo dire, gli articoli a lei dedicati sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro. Stesso trattamento, d'altronde, riservato ai poveri cristi, che non si possono nemmeno lamentare. Gogna e mancato ristoro in caso di assoluta estraneità ai fatti.
Fin qui la sintesi della vicenda, che da sè sarebbe già allarmante e poco etica. Ma c'è un seguito. Il resoconto è il coordinamento sintetico di articoli pubblicati da vari giornali (di destra e di sinistra, locali e nazionali) con il link di riferimento. Nell'occasione si è omesso il nome della protagonista, che si trova sugli articoli originali, e si sono saltate le questioni più scabrose. Nonostante ciò, con spirito di rivalsa e di censura, la signora, anziché far oscurare le pagine dei quotidiani che riportano gli articoli ha pensato di inviare alla nostra redazione questa diffida: «Spett.le Redazione "ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE" ONLUS C. F. 90151430734 SEDE LEGALE: AVETRANA (TA), VIA PIAVE 127 in persona del responsabile del SITO WEB dott. GIANGRANDE ANTONIO, Ad ogni effetto, la sottoscritta, dott.ssa M.G.C., Magistrato Ordinario, nel proprio interesse e con riferimento agli articoli di cui all’oggetto, comparsi sui siti web in indirizzo; considerato che gli articoli riportati nei suindicati siti web sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro; impregiudicata ogni azione a tutela della propria onorabilità nella sede penale e civile DIFFIDA Il responsabile del sito web in indirizzo affinché provveda all’immediata rimozione dal web degli articoli di cui all’oggetto. Rappresenta sin d’ora che in difetto, si vedrà costretta a convenire in giudizio il responsabile per inibire con urgenza la detta pubblicazione, con ogni conseguenza e riserva, anche a fini di rettifica. Addì, 03 aprile 2012 Dott.ssa M.G.C».
Ed in quest’ottica, non potendo operare azione di censura nei confronti di tutte le altre testate, continuo la mia opera di rettifica ed integrazione sui miei scritti, così nei modi e nei tempi come in precedenza, omettendo il nome del giudice e pubblicando ulteriore sollecito di rimozione da parte del giudice in oggetto. “Ho ricevuto mandato dalla dott.ssa M. G. C., Magistrato, al fine di assisterla nella tutela legale per l’intrapresa di azioni a ristoro dei danni cagionati alla sua immagine personale e professionale dalla permanenza sul web di articoli di contenuto diffamatorio e non conforme agli accertamenti giurisdizionali effettuati nei suoi confronti. Allo scopo, segnalo che sul motore di ricerca Google risultano indicizzate le pubblicazioni sopra indicate e contenenti circostanze non veritiere e manifestamente offensive nei confronti della Dott.ssa M. G. C., da me assistita. Il contenuto di quegli articoli è smentito dagli accertamenti giurisdizionali medio-tempore compiuti in quanto la dott.ssa C. è stata assolta da ogni addebito con sentenza del novembre 2013 e, in quanto, con distinto provvedimento del 19/12/2014, il Consiglio Superiore della Magistratura ha prosciolto la mia assistita dagli addebiti mossi in sede disciplinare. Per di più ella risulta attualmente persona offesa dai reati di calunnia, diffamazione e false informazioni al P.M. I procedimenti pendono dinanzi alla Procura della Repubblica di Lecce. La permanenza sul web dei detti articoli (che riportano notizie smentite da una sentenza definitiva) determina una incalcolabile lesione della immagine professionale della dott.ssa C. e ove essi non vengano immediatamente rimossi, mi vedrò costretta ad adire l’autorità giudiziaria per il ristoro dei danni patiti dalla mia assistita. Confido che rimuoverà sollecitamente dal web i pezzi richiamati in oggetto e tutti quelli ad essi collegati. Cordialmente Avv. R. M.”
Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica. Non è certo il tono usato, però, che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conoscono i miei libri, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta e i nostri canali you tube. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato alla signora per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è la signora che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta a livello istituzionale letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. Gli articoli citati dalla signora sono inseriti in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per la signora siano inveritieri e diffamatori, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono frutto di ricerca e di didattica su materiale altrui su cui va indirizzata la volontà repressiva. In questo caso gli articoli citati sono:
La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 novembre 2011
La Repubblica del 15 novembre 2011
“Il Giornale” del 16 novembre 2011 di Gian Marco Chiocci
“Il Giornale” del 5 febbraio 2012
"Il Giornale" del 5 febbraio 2012
"Il Giornale" del 6 febbraio 2012
A questi si aggiungono gli aggiornamenti.
Trani, toghe a luci rosse: sms piccanti e minacce tra pm e gip. La Procura di Lecce indaga per stalking e molestie reciproche. Lei scriveva: "I tuoi figli sono str... come te". Lui: "Io ti distruggo".
Lui è il pm M. N., lei il gip M.G.C.. Nei verbali conversazioni durissime e scenate di gelosia. Una storia d'amore (finito) e di coltelli (volati) all'ombra della Procura di Trani, quella per intenderci che vuole alla sbarra le agenzie di rating Fitch e Standard&Poor's. Protagoniste due toghe, lui pm e lei giudice per le indagini preliminari, ex amanti con contorno di sms proibiti, minacce, colluttazioni, schiaffi e aggressioni in pubblico. Un dossier scottante già preso in carico dalla Procura di Lecce, nel quale erano finiti anche dettagli ancora più caldi ma fin qui senza riscontri: video hard, rapporti lesbo, membri del Csm coinvolti. La vicenda la riporta Gian Marco Chiocci sul Giornale e ripresa da “Libero Quotidiano” e la definizione data al Tribunale, "boccaccesco", è decisamente azzeccata. Il pm M. N. e il Gip M.G.C. sono entrambi imputati e parti lese. La giudice risponderà di "minacce e molestie" nei confronti dell'ex amante sposato: lei, trasferita in provincia di Matera per "carenza di equilibrio", avrebbe procurato a Nardi un "perdurante e grave stato di ansia" generando "timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli". Sì, anche dei figli, visto che negli sms di fuoco inviati dalla Caserta ci sarebbero accuse anche nei loro confronti: "I bambini? - scriveva al cellulare la Gip - Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te". E ancora, riferendosi alla figlia 11enne del pm: "Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa da quanti sarà colto". A verbale, Nardi ha poi parlato di "cinquanta o sessanta aggressioni fisiche": "All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone". E poi, riporta Chiocci, il fattaccio in strada a Sassari, quando la Caserta avrebbe colpito violentemente alla testa l'ex amante con una borsettata in fronte. Altri magistrati e un avvocato generale dello Stato avrebbero cercato di fermare la donna, ricevendo una brusca risposta: "Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip". Nardi parla di vero e proprio stalking, con la collega che lo avrebbe addirittura "pedinato in vacanza", soggiornando nello stesso albergo della sua famiglia. Dal canto suo, la Caserta ribatte sostenendo di essere stata minacciata dall'uomo, "anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms". Per esempio, il gip cita un messaggio piuttosto pesante inviatole da Nardi: "Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò".
Quegli ex amanti in toga che imbarazzano il Csm, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Odio e amore a Trani, nel Tribunale delle grandi inchieste. Nelle stanze giudiziarie più gettonate dai media, in origine fu il gossip, poi la passione, dopodiché subentrò la gelosia e dunque l'odio. Seguirono minacce, ripicche, sms irripetibili, pedinamenti e appostamenti sotto casa. Quindi i due amanti in toga, perché di questo si tratta, passarono agli schiaffi, alle urla, i pestaggi. Col tempo arrivarono traumi e ferite, ricoveri in ospedale accompagnati da denunce e controdenunce. Di contorno al regolamento di conti venne volantinato anche un esposto anonimo dove si favoleggiava di presunti video hard, mentre nell'inchiesta finivano i pettegolezzi su presunti rapporti «ravvicinati» di un certo tipo con membri del Csm, chiacchiericcio che potrebbe divenire pubblico a breve. Per non parlare di quel che man mano usciva a margine degli accertamenti disposti dall'imbarazzata procura di Lecce: i veleni su storie lesbo, carabinieri amanti di giudici, molestie tra giudici e giudici, tra questi ultimi e avvocati: tutto questo nel boccaccesco tribunale di Trani dove però, scava scava, alla fine non s'è trovata prova di quel che un Corvo raccontava con dovizia di particolari. È da brividi la lettura delle migliaia di carte dell'inchiesta di Lecce che ha portato alla citazione diretta a giudizio di due magistrati protagonisti di una lite sentimentale senza precedenti: di qua il gip M.G.C., di là il pm M. N.. Oggi i due sono reciprocamente imputati e parti lese di un intreccio giudiziario che a maggio esploderà pubblicamente in Tribunale. La giudice, trasferita d'urgenza dal Csm da Trani in provincia di Matera per «carenza di equilibrio», deve rispondere di aver «minacciato e molestato» l'ex amante (sposato), reo di aver voluto interrompere la relazione, procurandogli «un perdurante e grave stato di ansia» tale da «ingenerare in lui fondato timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli». Anche e soprattutto per effetto della valanga di sms reciproci - trascritti nel procedimento leccese - dove la giudice a sua volta ha riversato perizie tese a dimostrare che in realtà era lui che la martellava e che «le esternazioni erano per lo più reciproche, espresse nell'ambito di una litigiosità ad armi pari». Nardi a verbale fa ripetutamente presente come i messaggi prendevano di mira non solo lui ma anche e soprattutto i suoi più stretti congiunti («I bambini? Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te». Oppure: «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (la figlia di 11 anni, ndr) da quanti sarà colto». A leggere i reati contestati, il pm è stato aggredito verbalmente e pure picchiato tre volte. «All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone» e in strada, a Sassari, «colpito alla fronte con la borsa da passeggio» (per quest'ultima ferita, testimonieranno la furia della gip altri magistrati presenti e un avvocato generale dello Stato che racconterà di essere intervenuto per fermare la donna, ricevendo in cambio il seguente complimento: «Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip»). A verbale il magistrato ferito preciserà di aver subito «cinquanta o sessanta aggressioni fisiche». L'ira della toga- stalker, continua Nardi, era incontenibile e improvvisa. Esplodeva nelle più impensabili circostanze, a qualsiasi ora del giorno e della notte, tant'è che, dice, «sono stato costretto a pagare un vigilantes per prendere mia figlia a scuola». Non solo: a imperitura memoria, «temendo le azioni vendicative e criminali della Caserta» il poveretto fa presente di essersi mandata una mail al suo indirizzo di posta elettronica: «Non so che fare - scriveva - che Dio mi aiuti e illumini la mente di questa folle». In una di queste mail viene riportata anche una dissertazione della gip sul «Berlusconi dittatore». E ancora. Leggendo gli atti si scopre che la gip l'ha addirittura seguita in vacanza, la famigliola del pm, «soggiornando nel medesimo albergo e pedinando lui e i suoi familiari». Un pressing asfissiante. A cui Nardi decise di porre fine denunciando l'ex amante. Solo che, controquerelato a sua volta dalla Caserta, pure lui è finito alla sbarra per «eccesso di legittima difesa». Le risposte piccate di quest'uomo stravolto sono state ritenute «condotte intimidatorie» nei confronti dell'ex amante, minacciata «anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms» del tipo: «Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò». Al pm che l'ha interrogato, Nardi ha parlato del desiderio di troncare la relazione quando si è reso conto che il rapporto non era poi così rose e fiori, e che poteva finire male per i suoi figli. Di segno opposto, ovviamente, le dichiarazioni rese a verbale dalla Caserta, che agli investigatori ha raccontato di un Nardi «ossessivo e opprimente», che le impediva «le frequentazioni con colleghi e amici» per cercare così di isolarla. Aggiungendo pure quello che, a suo dire, sarebbe stato un doppio gioco sulla reale situazione con la sua famiglia. «Troppe bugie, così ho deciso di troncare». E sul pestaggio di Sassari? La gip la mette così: «È vero, gli ho dato un calcio, avevo una borsa e la tiravamo quando l'ho mollata, e l'ho colpito (involontariamente) al volto. Ma poi lui, successivamente, mi ha detto che è inciampato probabilmente urtando contro un cassonetto». Sia come sia, è finita male. Laconica la «chiusa» di Nardi in ogni memoria presentata: «È questo un magistrato che può rappresentare lo Stato e lo può amministrare con autorevolezza?» (Ha collaborato Simone Di Meo).
Relazioni pericolose tra magistrati, gip e pm sott'inchiesta: ascoltateci. L'amicizia finita in stalking, minacce e lesioni, con accuse reciproche dei protagonisti finiti indagati, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. Se ne sono dette di tutti i colori, dopo la fine della loro amicizia molto intima. Il giudice M.G.C. e il sostituto procuratore M. N. si sono minacciati reciprocamente di morte, poi querelati a vicenda, sono finiti sui giornali e i loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati, persino il Csm ha deciso di occuparsi di loro, ma hanno ancora voglia di parlare. Questa volta, però, davanti agli inquirenti salentini nel corso di formali interrogatori che saranno effettuati nei prossimi giorni dai carabinieri. A chiedere di essere sentiti sono stati gli stessi protagonisti di una brutta vicenda, iniziata come lite personale e sconfinata in farsa che ha avuto come palcoscenico d'eccezione il tribunale di Trani, dove entrambi prestavano servizio fino a pochi mesi fa. Nardi e la Caserta, che qualche giorno fa hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal pm Carmen Ruggiero, hanno sollecitato l'interrogatorio per tentare di discolparsi dalle accuse di minacce aggravate contestate a lui e di stalking e lesioni addebitate a lei. Il loro ascolto potrebbe modificare il quadro accusatorio, migliorando o peggiorando la posizione degli indagati (che risultano anche parti offese), e aprendo nuovi scenari investigativi relativi a presunti illeciti che potrebbero essersi consumati negli uffici giudiziari di Trani. Proprio Nardi, infatti, nelle sue denunce aveva ventilato la possibilità che la Caserta fosse venuta a conoscenza di notizie riservate nell'ambito dell'inchiesta sul caso Berlusconi-Agcom-Annozero, per cui non è escluso che gli inquirenti leccesi vogliano approfondire tale aspetto. Di sicuro gli interrogatori imprimeranno una veloce accelerazione all'indagine di cui Nardi e la Caserta sono attualmente protagonisti, nata da denunce incrociate dopo la burrascosa fine di un'amicizia molto stretta. Il primo a denunciare è stato il pm, all'epoca in servizio a Trani oggi a Roma, che ha raccontato di liti furibonde e di colpi di borsetta sferrati in faccia, allegando alla querela sms della Caserta dai toni inequivocabili ("ci penseranno gli altri a fartela pagare", "non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango". Il giudice, dal canto suo, ha risposto tirando fuori le presunte minacce subite da Nardi ("se ti incontro per strada ti devo murare viva") e le prove di vere e proprie aggressioni fisiche. I messaggi al veleno e le testimonianze di diverse persone informate sui fatti sono finiti all'attenzione del pm Ruggiero, che ha ritenuto di formulare contestazioni precise nei confronti di entrambi. Dopo gli interrogatori il magistrato dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio oppure l'archiviazione della posizione dei due colleghi. Le determinazioni della Procura di Lecce dovranno essere inviate anche alla Procura della Cassazione, che ha avviato il procedimento disciplinare nei confronti dei due querelanti-indagati. La Caserta è già stata trasferita da Trani a Pisticci "per aver leso l'immagine della magistratura", ma dopo il trasferimento cautelare potrebbero arrivare ulteriori sanzioni, dalle quali anche Nardi potrebbe non essere immune.
I Savonarola di Trani. Come una piccola procura che s’è esibita nell’accusare il mondo ha fatto più che altro buchi nell’acqua, scrive Luciano Capone il 6 Giugno 2016 su “Il Foglio”. Illustrazione per “Il castello di Otranto”, del 1764, considerato il primo romanzo gotico: storia di spiriti e fantasmi, come quelli che sembrano aleggiare, poco più a nord, negli uffici giudiziari di Trani. Nel 1764 Horace Walpole, figlio del primo premier britannico sir Robert, pubblica un romanzo destinato a fare storia, “The Castle of Otranto”. L’intricata trama gira attorno a una profezia che incombe sugli usurpatori del castello di Otranto, su cui aleggia lo spirito del principe Alfonso il Buono. Nel castello accadono cose inquietanti, sbocciano amori, si compiono uccisioni e appaiono spiriti misteriosi, in una serie di scene che diventeranno stereotipi letterari del genere horror. Il libro di Walpole è considerato il primo romanzo gotico, fonte d’ispirazione per la letteratura che va dal Dracula di Bram Stoker al Frankenstein di Mary Shelley, passando per i racconti di Edgar Allan Poe fino ad arrivare ai romanzi di Stephen King. Ma anche la realtà ha preso ispirazione da Walpole. Poco più a nord di Otranto c’è un’altra fortezza, teatro di scene da horror giudiziario, nelle cui mura vaga smarrito lo spirito della Giustizia: il Tribunale di Trani. Gli uffici sembrano stregati, infestati da strani demoni. Negli ultimi anni la procura tranese è salita agli orrori delle cronache per una serie d’inchieste contro l’universo mondo, poi smarritesi in qualche cunicolo sotterraneo o finite nascoste dietro qualche botola segreta. I magistrati accalappiafantasmi, guidati dal procuratore Carlo Maria Capristo (da pochi giorni trasferito a Taranto), con le loro reti vanno a caccia di spettri malvagi che però, come per maledizione, una volta acciuffati si trasformano in persone innocenti. In questi anni i ghostbusters tranesi hanno inquisito presidenti del Consiglio, banchieri, agenzie di rating, sindaci, imprenditori, gente comune e praticamente mai hanno beccato un colpevole. Cosa accade in quel tribunale lo ha scritto in un libro Roberto Oliveri del Castillo, per diversi anni giudice per le indagini preliminari a Trani. Il libro del magistrato “Frammenti di storie semplici” – in cui sono contenuti i contributi di due importanti magistrati progressisti come Domenico Gallo e Armando Spataro – è ispirato dalla cronaca ma è di pura fantasia. Anche se sfogliandolo si riconoscono facilmente fatti e protagonisti reali, a partire dalla location, un tribunale “davanti al mare, in mezzo al castello e alla cattedrale”. Proprio come a Trani. Il racconto si sviluppa sotto forma di diario, in cui un giudice racconta la sua impotenza di fronte alle ingiustizie di cui sono vittime gli sventurati cittadini, la sete mediatica che anima le inchieste dei magistrati (“pieni di se stessi e basta, ansiosi di finire sui giornali per quel famoso quarto d’ora di notorietà”) e la corruzione diffusa tra le toghe: “I due colleghi erano conosciuti nell’ambiente come organizzatori di truffe e corruzioni di alto livello. Uno faceva il pubblico ministero, l’altro il giudice: la tattica preferita era l’intesa, il mettere in mezzo, sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo”. Tra le tante inchieste clamorose evaporate o sospese, ce n’è stata realmente una nei confronti del vescovo di Trani, accusato di usura per aver comprato un palazzo che secondo la procura avrebbe dovuto pagare il doppio. Il procuratore e i suoi sottoposti vengono descritti come boss che taglieggiano la comunità. Nel romanzo di Oliveri del Castillo c’è la storia di un immaginario “Salvatore Granello”, titolare di un famoso pastificio, arrestato per la vendita di grano contaminato: “Un mese di carcere, poi la scarcerazione, e dopo alcuni anni di attesa, con il processo che non si sapeva che fine avesse fatto, finalmente l’archiviazione... I dati anomali sembravano scomparsi. Intanto Granello era stato arrestato e la sua immagine pubblica compromessa”. Nel racconto l’imprenditore sarebbe stato costretto a sborsare centinaia di migliaia di euro, finiti in gran parte nelle tasche dei magistrati: “C’era solo da incriminare Cricco (il pm, ndr) e i suoi amici per concussione, e risarcire i danni a Granello, che per sua fortuna e capacità era riuscito a rimettersi in piedi e continuare a lavorare”. La storia di fantasia ricalca – concussione a parte – la disavventura di Francesco Casillo, imprenditore leader nella commercializzazione del grano, incarcerato e processato per aver importato secondo il pm Antonio Savasta grano contaminato e cancerogeno. Gran clamore e prime pagine sull’incarcerazione dell’imprenditore-avvelenatore, ma dopo sette anni di processo Casillo viene prosciolto dallo stesso pm che l’aveva sbattuto in galera: le analisi sul grano erano sbagliate. Nei “frammenti” di Oliveri del Castillo, il pm “Cricco” compare in un’altra vicenda, quella di una “masseria acquistata con modalità poco chiare e costata anni di indagini a suo carico, e concluse con una dubbia archiviazione pilatesca”. La storia rievoca i problemi sorti attorno alla masseria San Felice a Bisceglie, di proprietà del pm Savasta e oggetto di diversi processi. Inizialmente Savasta è stato accusato, e poi assolto, di truffa e appropriazione indebita ai danni del socio. Ora è rinviato a giudizio per concussione per aver indotto un imprenditore, su cui aveva indagato, a vendergli un terreno vicino alla masseria sottocosto, facendo leva sul timore che da pm avrebbe potuto riaprire il fascicolo a suo carico. In un altro processo è stato condannato a due mesi per non aver dichiarato la costruzione di una piscina nel relais. Mentre in un procedimento è indagato per abuso d’ufficio il sindaco di Bisceglie, per aver approvato una variante che ha consentito l’ampliamento della masseria-relais del magistrato e il cambio di destinazione del suolo da agricolo a turistico. In questa intricata trama, oltre ai problemi alberghiero-giudiziari, Savasta ha anche un ruolo da comprimario nei processi contro la finanza internazionale. Si può dire che è il Sancho Panza del Don Chisciotte Michele Ruggiero, il pm che sfida i mulini a vento finanziari che complottano contro l’Italia. Ruggiero debutta sul palcoscenico nazionale con il Tranigate: mentre lavora a un’inchiesta sulle carte di credito, tra un’intercettazione e l’altra, arriva ad ascoltare le chiamate dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E così scattano per il Cavaliere le accuse di concussione e minacce per alcune telefonate in cui avrebbe fatto pressioni sulla Rai e l’Agcom per censurare Michele Santoro. Le intercettazioni finiscono sui giornali e Ruggiero finisce davanti al Csm per aver aperto il fascicolo sul premier senza aver avvisato il procuratore Capristo, mentre l’inchiesta finisce per competenza territoriale a Roma, dove si sgonfia e viene archiviata su richiesta della stessa procura. Dal Tranigate in poi sarà un crescendo di inchieste con diversi elementi costitutivi comuni: hanno un forte impatto mediatico per il coinvolgimento di nomi eccellenti, non riguardano la circoscrizione giudiziaria di Trani e si perdono nel nulla. Le prime tracce risalgono al 2004, quando Savasta indaga per favoreggiamento il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex presidente della Consob Luigi Spaventa, chiedendone poi l’archiviazione. Da lì parte l’assalto al cielo della finanza mondiale, con i pm tranesi che mettono sotto inchiesta American Express, banche come Mps, Bnl, Unicredit, Credem e Intesa, la Banca d’Italia, le principali agenzie di rating del pianeta – Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s – accusate di aver ordito un complotto e pure Deutsche Bank, che ha fatto impennare lo spread. L’attivismo su vicende molto lontane dal proprio perimetro d’azione sembra anomalo anche ai colleghi magistrati. Dopo l’apertura a Trani di un terzo filone di indagini su Mps, l’allora procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati sarcasticamente sbotta: “Ci sono uffici di procura dove sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional: c’è stata al riguardo una gara tra diversi uffici, ma sembra che la new entry abbia acquistato una posizione di primato irraggiungibile”. L’insopportabile limite territoriale viene brillantemente superato da Ruggiero negli altri processi su istituzioni finanziarie estere, grazie al fatto che si occupa di ipotesi di reati commessi da stranieri residenti all’estero la procura che per prima apre il fascicolo. Uno spiraglio che consente alla procura di Trani di non avere più confini. Ma come si fa a spiegare questa cosa all’estero? L’ad italiana di S&P’s, intercettata mentre tenta di far capire ai capi americani cosa diavolo sta succedendo e dove dovrebbero andare, la mette giù così: “Trani? E’ una specie di piccolo paese dell’Oklahoma”. Può darsi che a Washington abbiano iniziato a immaginare di che roba si tratta, ma più difficile sarà stato spiegare che l’inchiesta è ispirata dalle intuizioni di Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. C’è in Oklahoma un equivalente di “ospite di Barbara D’Urso e Massimo Giletti”?. Chissà. Intanto le inchieste sulle tre sorelle del rating non hanno portato a nulla. Quella su Moody’s è finita con un’archiviazione. Il processo contro Fitch è diviso in due tronconi, con quello spostato a Milano già archiviato, e quello a S&P’s è avviato allo stesso destino visto che la Corte dei conti ha archiviato un procedimento parallelo. Però è appena iniziato il filone contro Deutsche Bank e la giostra può ripartire. A Trani sono stati chiamati a testimoniare ex ministri come Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ex presidenti del Consiglio come Romano Prodi e Mario Monti, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, il presidente della Consob Giuseppe Vegas. Ruggiero ha anche chiesto di visionare un rapporto di Barack Obama sulle agenzie di rating ed era pronto a volare a Washington per far testimoniare il Nobel Paul Krugman, ma poi non se n’è fatto nulla. Durante le deposizioni nell’incantato Tribunale di Trani si sono verificati fenomeni paranormali e presagi funesti. Dopo un’attesa di ore prima di testimoniare, si è addirittura visto un Romano Prodi seccato, lui, il semaforo guzzantiano, il simbolo della calma e della pacatezza. Non era mai accaduto prima. Peggio è andata a Vegas, a cui poco prima dell’udienza qualche spirito ha rubato l’auto parcheggiata vicino al tribunale. Ruggiero ha trovato anche il tempo di aprire un’inchiesta che punta al cuore di Big Pharma: la ricerca del nesso tra i vaccini e l’autismo. Sono le teorie spacciate anche da Red Ronnie, ma se hanno creato scalpore le idiozie di un attempato dj in televisione, nessuno si è preoccupato che quelle stesse cose erano materiale di studio di una procura. L’inchiesta di Ruggiero parte dalle teorie di Massimo Montinari, un personaggio screditato che vende a caro prezzo alle famiglie dei bambini malati cure farlocche contro l’autismo. Ruggiero e Montinari si conoscono a Trani in un convegno in cui il “luminare” spiega che i vaccini causano l’autismo, l’opposto di quanto afferma la comunità scientifica mondiale. Ruggiero, con il dovuto equilibrio che caratterizza un magistrato, afferma dal palco del convegno: “Dopo questa sera i vaccini facoltativi non li faccio fare più”. Applausi del pubblico, che assiste anche a una lezione giuridico-scientifica in cui il magistrato illustra il metodo tranese: “I processi sono in gran parte indiziari, non c’è la prova di chi è stato preso con le mani nella marmellata, ma noi facciamo un percorso logico-deduttivo che ci porta a dire queste cose”. Ed è grazie a questo “percorso logico-deduttivo” che un mese dopo, il convegno “Vaccini e autismo” si trasforma in un’indagine condotta da Ruggiero. Dopo qualche anno, proprio pochi giorni fa, Ruggiero scopre ciò che si sapeva, non c’è alcuna correlazione tra vaccini e autismo. Caso archiviato, ancora una volta. Oltre ai problemi di scienza e di finanza, a Trani ci si occupa anche di cose locali. Ma anche in questi casi accadono cose paranormali. Dopo una certosina operazione di intelligence, Ruggiero scova una falsa cieca che percepiva indebitamente una pensione d’invalidità da sei anni. Immediatamente scattano l’accusa di truffa aggravata e il sequestro di 80 mila euro. L’anno dopo però la signora viene assolta, il fatto non sussiste, la donna è davvero cieca e quella di Ruggiero è stata una svista. Non mancano le incursioni nella politica locale, con indagini contro due ex sindaci di centrodestra. L’ex primo cittadino Giuseppe Tarantini viene coinvolto in due inchieste, una sul degrado al cimitero condotta da Ruggiero e l’altra per concussione condotta da Savasta, e in entrambi i casi è stato assolto. Più complicata è la vicenda di Luigi Riserbato, successore di Tarantini alla poltrona di primo cittadino. Il 20 dicembre 2014 Riserbato viene arrestato con l’operazione “Sistema Trani”: sei persone arrestate e altre sette indagate con l’accusa di associazione a delinquere, concussione, corruzione elettorale e altro ancora. L’inchiesta, condotta sempre da Ruggiero, ha una grande eco nazionale, tra l’altro pochi giorni dopo l’esplosione di Mafia Capitale a Roma. Alcuni arrestati passano il Natale in carcere e Riserbato viene liberato solo dopo aver rassegnato le dimissioni, la giunta cade e l’anno dopo si va alle elezioni in cui vince il centrosinistra. La vicenda ha alcuni aspetti particolari. Innanzitutto il giudice che conferma gli arresti, il gip Francesco Messina, è il fratello di Assuntela Messina, all’epoca vice-segretario regionale (ora presidente) del Partito democratico, scelta in quota rosa dal governatore pugliese Michele Emiliano (collega magistrato del di lei fratello). Ma non è l’unica anomalia, perché a distanza di due anni dalla maxi operazione non sono state ancora chiuse le indagini, i termini sarebbero scaduti e non si hanno notizie di proroghe. Semplicemente non si sa cosa fare di un’inchiesta in cui mancano le prove. In questo horror giudiziario, non poteva mancare una storia d’amore da brividi. E’ quella che unisce due magistrati in servizio a Trani, il giudice M.ria G.zia Caserta e M. N., prima amanti e poi travolti dalla loro stessa passione in un vortice di ricatti, minacce, molestie, violenze verbali e aggressioni fisiche. La vicenda finisce in tribunale con Nardi che denuncia l’ex amante per stalking e lesioni (la giudice gli ha spaccato la faccia con una borsettata) e la Caserta che ha risposto accusando il collega di averla minacciata di morte. Alla fine entrambi vengono assolti. Tutto è bene quel che finisce bene. Non si chiude con un lieto fine il romanzo di Walpole, quello di cui si parlava all’inizio. Al termine di una trama intricata, per punire gli usurpatori lo spirito di Alfonso il Buono scuote il Castello di Otranto, lo fa crollare fino alle fondamenta e appare maestoso e immenso sulle rovine. Si spera che il tanto maltrattato spirito della Giustizia non si vendichi allo stesso modo con il Tribunale di Trani. Pochi giorni fa, in occasione di una visita a Trani, sono giunti sulla piazza del tribunale a bordo della stessa auto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e il pm Michele Ruggiero. I muri hanno retto.
Csm, prosciolto il giudice Caserta del Tribunale di Trani. Fu trasferita a Matera per un procedimento disciplinare a suo carico, scrive TraniViva Mercoledì 31 Dicembre 2014. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha prosciolto la dottoressa M.ria G.zia Caserta, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani, e ha, conseguentemente, revocato il suo trasferimento al Tribunale di Matera. Il Csm ha, dunque, posto la parola fine al procedimento a carico del giudice Caserta, prosciogliendola dai residui addebiti contestati a seguito delle diverse denunce sporte da un collega. Perciò l'organo autogoverno dei magistrati ha revocato il trasferimento provvisorio al Tribunale di Matera disposto il 20 Ottobre 2011. La decisione della sezione disciplinare del Csm segue di tredici mesi quella del Tribunale Penale di Lecce che aveva assolto Caserta con la formula "perché il fatto non sussiste", escludendo, dunque, le contestazioni a suo carico. Ciò aveva determinato anche il ridimensionamento dell'incolpazione disciplinare, con esclusione degli iniziali e più gravi addebiti. Il procedimento disciplinare era sorto per effetto delle numerose denunce di un altro magistrato, poi indagato per calunnia, diffamazione e false informazioni al pubblico ministero, nonché per la redazione di alcuni esposti anonimi diffusi contro il Gip Caserta. Quest'ultimo procedimento pende dinanzi al Tribunale Penale di Lecce.
Il libro-scandalo del giudice che fa tremare tutta la Bat, scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini l'11 giugno 2015. C’è un libro che da alcune settimane sta facendo parlare - e molto - gli ambienti giudiziari di Bari e Trani. È uscito per un piccolo editore di Reggio Calabria ad ottobre 2014, e finora trovarne una copia in Puglia è stato molto, molto difficile: se ne parla tanto, ma in pochi sono riusciti a leggerlo, almeno fino ad oggi (è stato presentato ieri sera alla Laterza di Bari). L’autore è un giudice, Roberto Olivieri del Castillo, il titolo è «Frammenti di storie semplici». Racconta storie di processi, ma soprattutto di magistrati che ad un lettore attento potrebbero apparire familiari. Perché se anche Del Castillo, 50 anni, giudice delle indagini preliminari prima a Trani e poi a Bari, prende in prestito una celebre frase di Camilleri («Fatti e nomi sono di pura fantasia. Chi vi si volesse riconoscere commetterebbe solo un inutile peccato di vanità»), tra le sue pagine ci sono alcuni riferimenti che stanno alimentando la fantasia e tante voci. Voci che l’autore, ovviamente, considera infondate. Il protagonista è un giudice con la passione per il calcio e per il rock degli anni ’70, che dopo gli inizi in Calabria arriva in una terra «dove il sole sorge dal mare» e la gente sul treno parla in dialetto barese. Al governo c’è il Cumenda, padrone di canali tv e presidente dei Custodi della Libertà, di cui un giorno si occupa anche il suo ufficio, un Tribunale «che si affaccia sul mare e sulla cattedrale». Qui ci sono il presidente Catino, che per mesi gli ordina di «non arrestare e non scarcerare nessuno» a seguito di un esposto anonimo sul suo conto (che poi verrà archiviato), il procuratore Clammis, i pubblici ministeri Spelli («Sfruttava qualunque occasione, come l’indagine su una nave affondata a Pantelleria, solo perché si era firmata in un posto qui vicino per acquistare grano, ipotizzando chissà quale coinvolgimento della mafia che faceva contrabbando di scorie radioattive, prima di essere costretto a rimettere l’indagine al giudice competente per l’intervento della Corte Suprema»), Cricco (che presentava «richieste taroccate con la copertura di Clammis») e Magno, amico del giudice Biscardi. Cricco e Biscardi «erano conosciuti nell’ambiente come organizzatori di truffe e corruzioni di alto livello»: «La tattica preferita era l’intesa, il mettere in mezzo, sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo». Il giudice racconta di un mondo autoreferenziale tra magistrati, forze dell’ordine e avvocati, dove tutti sono amici di tutti e le inchieste si fanno e si disfano a tavolino, con una trattativa su nomi e numero delle persone da arrestare. Una «tela di ragno», la chiama: un sistema marcio con una avvocatura compiacente rappresentata dall’avvocato Granchio. «Da pochi mesi si era sposato, e la cerimonia, con ospiti politici e industriali del posto, era avvenuta, con tutti i notabili del luogo, compreso il procuratore Clammis, presso la masseria del pm Cricco, acquistata con modalità poco chiare e costata a questo anni di indagini a suo carico, e conclusa con una dubbia archiviazione pilatesca». Anche Granchio aveva avuto problemi con la giustizia: difeso da Mamello «imparentato, sempre casualmente, col pubblico ministero Cricco» che poi «ne chiedeva l’archiviazione» sottoscritta anche da Clammis: tanto che «ormai nella zona si parlava ironicamente dello “studio associato Mamello-Cricco”». E così racconta dell’archiviazione delle accuse a carico di Salvatore Granello, «il titolare del pastificio omonimo», arrestato «dal gip Biscardi, su richiesta del pm Cricco» con l’accusa di «alterazione di sostanze alimentari con grano contaminato». Granello, racconta il romanzo, «si diceva che avesse sborsato parecchio - chi diceva tre, chi quattro, chi cinquecentomila euro - a degli “amici” che avrebbero curato il buon esito della vicenda». Ce n’è anche per i giornalisti come Mario Lomastro, direttore di una tv locale, che «confezionava articoli politici mistificatori, per lo più al servizio del suo padrino-padrone politico, l’on. Densi, suo concittadino, plurinquisito, fedelissimo figlioccio del Cumenda». Una stampa, secondo il giudice, compiacente con il pm Cricco: «Due volte l’anno fa trapelare notizie sul giornale locale, una notifica, un interrogatorio finto, o un altro motivo qualsiasi. Chi deve leggere la notizia sa che quello è il segnale che significa che una somma di denaro deve essere destinata ad un commercialista amico, che poi farà pervenire la somma a Cricco. E il fascicolo continua a vegetare nei cassetti della Procura».
…DI BARI. Esame avvocati a Bari, otto indagati per plagio alle prove del 2013. Chiuse le indagini, il pm chiederà il rinvio a giudizio. Mercoledì l’interrogatorio di garanzia per tre arrestati per l’inchiesta sulla prova del 2014, scrive “Il Corriere della Sera” il 18 aprile 2016. La Procura di Bari ha chiuso le indagini nei confronti di otto aspiranti avvocati che durante le prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione forense del dicembre 2013 avrebbero copiato i propri elaborati. Stando agli accertamenti del pm Marcello Quercia, gli otto candidati, residenti nelle province di Bari, Bat e Foggia, avrebbero copiato da altri colleghi oppure direttamente da siti internet giuridici. Gli otto furono subito esclusi dalla selezione e a denunciare i presunti illeciti alla Procura fu il presidente della Commissione d’esame. I membri della commissione si accorsero dei plagi durante le correzioni degli elaborati, perché individuarono compiti in parte identici gli uni agli altri. Agli indagati la Procura di Bari contesta il reato di «falsa attribuzione di lavori altrui», cioè l’articolo 1 della legge 475 del 1925. Il pm si appresta a chiederne il rinvio a giudizio mentre prosegue l’altra indagine della Procura di Bari sull’esame da avvocati dell’anno successivo che venerdì scorso ha portato all’arresto di tre persone. Durante gli scritti del dicembre 2014 sette candidati avrebbero ricevuto dall’esterno gli elaborati da consegnare alla commissione per passare l’esame. Nell’ambito di questa vicenda tre persone sono finite agli arresti domiciliari, l’ex funzionaria dell’Università di Bari Tina Laquale, sua figlia Innocenza Losito, responsabile dell’ufficio legale dell’Adisu, e l’avvocato barese Giuseppe Colella (altre 15 persone, tra i quali due docenti universitari e i sette candidati sono indagate a piede libero). L’interrogatorio di garanzia dei tre è stato fissato per mercoledì dinanzi al gip del Tribunale di Bari Sergio Di Paola. Il pm che coordina l’inchiesta, Luciana Silvestris, sta valutando se avviare ulteriori accertamenti sulla base delle dichiarazioni di un ex collega di Tina Laquale, con riferimento ad altre vicende risalenti ad alcuni anni fa, in particolare a presunti esami universitari registrati ma mai superati dagli studenti e tesi di laurea fotocopiate alla facoltà di Giurisprudenza.
«Tranquì, tra mezz'ora avrai». Il compito viaggiava su whatsapp. Dalle intercettazioni telefoniche e dall’analisi del contenuto dei telefoni cellulari sequestrati, gli investigatori baresi hanno potuto ricostruire le tre giornate d’esame, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 15 aprile 2016. «Stai tranquì me la vedo io», «tra mezz'ora avrai», «adesso vai a posto ti avviserò io quando sto per arrivare», «stai al posto tuo serena e non ti preoccupare», "come sempre vi preoccupate inutilmente, io do con tutte le indicazioni, ieri quello che si è verificato non è mai successo ma l’ansia fa fare i figli ciechi, oggi andrà meglio». Sono solo alcuni dei messaggi scambiati via whatsapp fra Tina Laquale, ex funzionaria dell’Università arrestata oggi nell’ambito dell’inchiesta sull'esame da avvocato del dicembre 2014, e i candidati con cui ci sarebbe stato l’accordo illecito per ottenere gli elaborati delle prove scritte. Dalle intercettazioni telefoniche e dall’analisi del contenuto dei telefoni cellulari sequestrati, gli investigatori baresi hanno potuto ricostruire le tre giornate d’esame e i continui contatti fra il «gruppo di lavoro» a casa di un avvocato barese, il 38enne Giuseppe Colella (anche lui agli arresti domiciliari), incaricato di svolgere le tracce, e i candidati. Laquale risponde, tranquillizzandoli, alle continue richieste degli aspiranti avvocati: «ciao Tina, non si è presentato nessuno, c'è stato tanto tempo come mai? Ti prego aiutatemi». Nell’ordinanza di arresto a firma del gip del Tribunale di Bari Sergio Di Paola c'è poi una lunga nota dedicata a decine di prelievi bancari nelle settimane precedenti e successive alle tre prove d’esame per complessivi 9mila euro circa, emersi da una perquisizione effettuata a casa di una candidata nel gennaio 2015.
Bari, esami da avvocato truccati: arrestati legale ed ex funzionaria dell'Università con la figlia. Una prova d'esame da avvocato (non quella incriminata) alla Fiera del Levante. Ai domiciliari Tina Laquale, sua figlia Innocenza Losito e Giuseppe Colella. La corruzione tra le accuse. Quindici gli indagati tra avvocati, componenti della commissione, funzionari pubblici e aspiranti avvocati, scrive Gabriella De Matteis il 15 aprile 2016. Svolta nelle indagini sulle presunte irregolarità nel concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato, le cui prove scritte si sono effettuate nel dicembre del 2014. I carabinieri hanno arrestato Tina Laquale, 63 anni, ex funzionaria della facoltà di Giurisprudenza, sua figlia Innocenza Losito, responsabile dell’Unità di controllo dell’Adisu Puglia (Agenzia regionale per il diritto allo studio universitario) e l'avvocato barese Giuseppe Colella. Tutti sono ai domiciliari. Le indagini coordinate dal pm Luciana Silvestris hanno permesso di scoprire una vera e propria centrale operativa, organizzata nello studio dell'avvocato, in cui venivano preparati gli elaborati consegnati ai candidati del concorso durante le tre prove scritte. Come è accaduto per i test di accesso alla facoltà di Medicina, anche quella che ruotava attorno a Tina Laquale, potente ex funzionaria di Giurisprudenza, era una macchina organizzativa ben collaudata. Il sistema era molto semplice: nello studio dell'avvocato civilista, nei tre giorni della prova scritta, sono stati redatti gli elaborati, anche su suggerimento di due componenti della commissione (entrambi docenti dell'Università di Bari) che davano consigli su come formulare correttamente i temi delle tre tracce. Nella centrale operativa oltre all'avvocato e alla sua segretaria, secondo la ricostruzione della Procura, era presente Tina Laquale. L'ex funzionaria, andata in pensione dopo lo scandalo, avrebbe avuto il compito di portare gli elaborati alla Fiera del Levante, dove si sono svolte le prove scritte. I due docenti indagati sono Giuseppe Salvatore Simone e Daniele Vittorio Piacente, entrambi componenti aggiunti della commissione di esame, e sono accusati di aver "fornito a mezzo di comunicazioni telefoniche opportune indicazioni quanto alla corretta redazione degli elaborati". Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d’appello, così come documentato dall'intervento dei carabinieri nel dicembre del 2014, avrebbe invece introdotto gli elaborati all'interno delle aule. Almeno 15 le persone coinvolte nell'inchiesta: tra loro alcuni aspiranti avvocati che avrebbero ricevuto i compiti. Indagato anche Angelo Lapolla, autista dell'Ateneo. L'avvocato e l'ex funzionaria dell'Università hanno trascorso di fatto tre giorni impegnati nella formulazione dei compiti. Difficile pensare che lo abbiano fatto senza pretendere in cambio denaro: nel fascicolo viene contestata anche la corruzione. Nell'ordinanza di custodia cautelare a firma del gip Sergio Di Paola sono riportati i numerosi messaggi fra Laquale e i candidati per concordare tempi e modi di consegna delle tracce e poi degli elaborati. "Ciao Tina, non si è presentato nessuno. C'è stato tanto tempo: come mai? Ti prego aiutatemi", scriveva una ragazza a Laquale. "Stai tranquì, me la vedo io", "tra mezz'ora avrai", "adesso vai a posto ti avviserò io quando sto per arrivare", "stai al posto tuo serena e non ti preoccupare", rispondeva la donna alle continue richieste di aiuto. Dalle intercettazioni telefoniche e dall'analisi del contenuto dei telefoni cellulari sequestrati gli investigatori hanno così potuto ricostruire le tre giornate d'esame, compresi i piccoli intoppi per foto poco leggibili o tracce consegnate alla persona sbagliata. "Come sempre vi preoccupate inutilmente, io do con tutte le indicazioni, ieri quello che si è verificato non è mai successo, ma l'ansia fa fare i figli ciechi, oggi andrà meglio", rassicurava Laquale al termine del primo giorno. Sulla vicenda l'Università di Bari ha avviato un'indagine interna sui docenti coinvolti e l'Ordine degli avvocati aprirà nei prossimi giorni i procedimenti disciplinari nei confronti dei legali indagati.
Esame avvocati Bari: in atti anche false dichiarazioni Isee, scrive "L'Ansa" il 15 aprile 2016. Ci sarebbe stato un accordo illecito fra l'avvocato barese 38enne Giuseppe Colella e Innocenza Losito, figlia della ex funzionaria dell'Università di Bari Annunziata Laquale (tutti e tre arrestati oggi nell'inchiesta sugli esami da avvocato del dicembre 2014). La Losito, infatti, responsabile dell'unità di controllo dell'Adisu Puglia, era "in grado di individuare gli studenti sottoposti a verifiche di accertamento e conseguente irrogazione di sanzioni per l'indebito ottenimento di borse di studio da parte dell'Università" sulla base di false dichiarazioni Isee. Avrebbe quindi "suggerito agli studenti universitari - è scritto nel provvedimento cautelare - di rivolgersi all'avvocato Colella rappresentando loro che tale professionista aveva individuato un'eccezione al sistema sanzionatorio tale da consentire l'archiviazione del procedimento amministrativo". In cambio Colella avrebbe non soltanto collaborato al gruppo di lavoro per truccare l'esame da avvocati, ma anche corrisposto alla Losito una somma proporzionale alla sua parcella, pari a 500 euro per ogni incarico procuratogli. Secondo il giudice che ha emesso l'ordinanza di arresto accogliendo le richieste del pm Luciana Silvestris, "il pericolo che gli indagati, ove lasciati liberi, possano determinarsi ad iniziative idonee ad alterare il quadro delle prove, è elevatissimo e del tutto attuale" tenuto conto della "spregiudicatezza e capacità di attivare sistemi di ostacolo e copertura delle attività illecite". A questo proposito il gip ricorda l'episodio che ha dato avvio all'inchiesta, la scoperta da parte dei carabinieri, il giorno della terza prova scritta, del passaggio di una busta con gli elaborati fra Laquale e Santamaria, funzionario della Corte di Appello, che avrebbe poi avuto il compito di distribuirli ai candidati. Quando i due vennero fermati dai militari, partì subito un giro di telefonate per cancellare i messaggi, resettare i cellulari, "alterare e occultare definitivamente le tracce dei reati commessi".
Uricchio: presto uno sportello onestà. Verranno anche avviate iniziative formative e di promozione dei valori e di regole comportamentali con il coinvolgimento dell’Osservatorio etico di Ateneo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 18 aprile 2016. Dopo gli arresti dei giorni scorsi per i presunti esami pilotati per l’abilitazione alla professione forense del dicembre 2014, l’Università di Bari ha deciso che tutelerà la propria immagine «istituendo uno sportello dell’onestà presso il Garante degli Studenti» ed «avviando iniziative formative e di promozione dei valori e di regole comportamentali con il coinvolgimento dell’Osservatorio etico di Ateneo». Lo scrive in una lettera il rettore dell’Università di Bari Antonio Felice Uricchio. «Sarà la magistratura, nella quale riponiamo tutta la nostra fiducia, che accerterà i fatti e le eventuali responsabilità dei singoli nel rispetto delle garanzie della difesa», scrive il rettore riferendosi all’arresto di un ex funzionario dell’ateneo, di sua figlia, dipendente dell’Adisu, e di un avvocato. Nell’indagine sono indagati a piede libero anche un funzionario della Corte d’appello di Bari e due docenti universitari baresi.
FERROVIE SUD EST. Ferrovie del Sud Est, l’ad con il contratto co.co.co da 2,4 milioni. La relazione del ministero sul dissesto dell’azienda pugliese. Spesi 132 milioni di euro solo per le consulenze, scrive Sergio Rizzo il 20 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Come sia stato possibile che al ministero delle Infrastrutture nessuno, per anni, si fosse accorto dell’andazzo, appartiene alla sfera dei misteri italiani. Eppure una spesa per consulenze che in un decennio supera allegramente 132 milioni di euro, per un’azienda pubblica che ne incassa, sì e no, 150 l’anno, e ha 311 (trecentoundici) milioni di debiti, non può non saltare all’occhio dell’azionista. Perché il ministero è appunto il padrone della ditta in questione: Ferrovie del Sud Est, con sede a Bari. È la società che gestisce in Puglia mille chilometri di binari più autobus per i pendolari. Così disastrata che quando il nuovo presidente Andrea Viero, nominato dal ministro Graziano Delrio nel tentativo di rimettere le cose in sesto, ci ha ficcato il naso, ha capito che il commissariamento era inevitabile. E non soltanto perché oltre 1.400 cause di lavoro in un’azienda con 1.393 dipendenti rappresentino un elemento indiscutibile di sofferenza. L’agghiacciante relazione che lo stesso Viero, ora commissario, ha appena finito di scrivere, consegna alla cronaca fatti inimmaginabili. L’amministratore unico Luigi Fiorillo, che ha trascorso nell’azienda ben 23 anni, nel periodo intercorso fra il 2006 e il 2012 aveva percepito per quel ruolo 48 mila euro l’anno. Per un totale di 240 mila euro. Ma il suo compenso effettivo aveva raggiunto 13 milioni 750 mila euro: un milione 145 mila euro in media per ognuno di quei 12 anni. Al confronto, la retribuzione dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato era una bazzecola. Come si spiega? Al compenso da amministratore si aggiungevano altre sorprendenti prebende, come un contratto da co.co.co (!!!), che nei soli tre anni dal 2004 al 2006 gli avrebbe fruttato 7 milioni 161 mila euro: al ritmo di circa 2,4 milioni l’anno. Molto meno, ma pur sempre una somma considerevole (220 mila euro l’anno) percepiva invece il capo del personale, che però non lavorava a Bari ma nell’ufficio di Roma (perché c’era anche una sede a Roma). Per trasferirsi in seguito direttamente a casa sua. E ogni volta che andava a Bari, ecco l’indennità di trasferta: 98 euro l’ora. Quindi le consulenze. La relazione dedica un passaggio ai 12 incarichi in tre anni, di cui sei in un solo giorno del 2014, per un totale di 294.550 euro, attribuito allo studio Vernola. Un prestigioso studio barese, famoso anche perché uno dei suoi soci, Marcello Vernola, è stato presidente della Provincia di Bari e parlamentare europeo di Forza Italia. Ma si tratta di briciole, rispetto ad altre voci. Un esempio? «A quanto risulta dalle schede contabili gli onorari liquidati allo studio Schiano a far data dal 2001 a oggi sono stati pari a circa 27 milioni di euro. Tali rilevanti corresponsioni non hanno impedito che si creasse nei confronti dello studio un notevole scaduto che ammonta, secondo quanto rilevato nel corso della due diligence a circa 15,8 milioni di euro». Totale: circa 43 milioni. Per non parlare dei costi siderali delle forniture. La rinegoziazione di quella del gasolio per la ferrovia ha fatto risparmiare 200 mila euro al mese. Quella delle polizze assicurative, invece, oltre un milione l’anno. Di proroga in proroga, le aveva gestite per una dozzina d’anni sempre lo stesso broker con la medesima compagnia. E quando due anni fa l’appalto era stato incidentalmente vinto da un’altra compagnia, l’amministratore unico aveva annullato la gara e aveva riaffidato l’affare alla solita ditta. Il tutto in un caos contabile e operativo indescrivibile. La relazione racconta di servizi indecenti, un’evasione tariffaria mostruosa e senza «sostanziale attività di contrasto». Intanto ai pendolari, furibondi, venivano destinati treni con un età media di oltre vent’anni e locomotori del 1959. E un parco autobus con 90 mezzi su 325 inutilizzabili. Mentre tre treni Stadler, comprati per 5,6 milioni otto anni fa, non hanno mai trasportato neanche un passeggero.
Ferrovie Sud-Est, dal contratto co.co.co milionario per l’ad fino agli incarichi ai parenti: tutti gli sprechi. A rivelarlo è la relazione elaborata dall’agenzia di consulenza Deloitte incaricata dal commissario straordinario della società Andrea Viero. Nelle 103 pagine del documentato depositato presso il ministero delle Infrastrutture si ricostruiscono tutti i contratti, gli sprechi e i compensi per i dirigenti che hanno portato l’azienda ad accumulare 311 milioni di debiti e 1400 contenziosi. Renzi: "Faremo pulizia", scrive Luisiana Gaita il 20 marzo 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Ferrovie Sud Est ha progressivamente smarrito la propria missione, il trasporto pubblico locale”. Negli ultimi dieci anni l’azienda ha speso 42 milioni di euro nella manutenzione di treni e autobus e 272 milioni in esternalizzazione di servizi, spese legali e consulenze. Che hanno mandato in fumo circa il 18 per cento dei ricavi, arricchendo famiglie amiche, studi legali e consulenti. Una ‘casta’ selezionata dal vertice. “L’azienda era l’amministratore unico” Luigi Fiorillo, che tra il 2004 e il 2005 ha ricevuto compensi per oltre 13,7 milioni di euro. C’è anche questo nella relazione elaborata dall’agenzia di consulenza Deloitte incaricata dal commissario straordinario della società Andrea Viero. Una due deligence contabile, fiscale e legale di 103 pagine depositata presso il ministero delle Infrastrutture in cui si ricostruiscono tutti i contratti, gli sprechi e i compensi per i dirigenti che hanno portato l’azienda ad accumulare 311 milioni di debiti e 1400 contenziosi. “Sulla vicenda squallida di Ferrovie Sud Est andremo fino in fondo. Abbiamo commissariato. E faremo pulizia totale. Il Sud cambia verso” ha scritto il presidente del Consiglio Matteo Renzi su Twitter. Mentre il ministro dei Trasporti Graziano Delrio ha annunciato: “Valuteremo l’azione di responsabilità e consegniamo ufficialmente le carte alla Procura”. Nell’attesa di un piano industriale serio “alle Ferrovie Sud Est sono già stati revocati incarichi e ridotti i costi”. Nel frattempo, però, resta l’amarezza per le cause che hanno condotto al disastro. L’avvocato tarantino Luigi Fiorillo ha ricoperto diversi ruoli al vertice dell’azienda per poi diventare nel 2001 amministratore unico della Ferrovie Sud Est. Gli analisti ammettono che “non è possibile ricostruire tutti i compensi entrati nelle tasche di Fiorillo nei 23 anni trascorsi in azienda”, ma dalle verifiche è emerso che tra il 2004 e il 2005 l’ex amministratore unico ha portato a casa certamente 13,7 milioni di euro. Non c’era un sistema di controlli e formalizzazione delle procedure aziendali che potesse bilanciare il suo potere. “Oltre ai compensi in qualità di organo amministrativo – si legge nella relazione – Fiorillo ha percepito nel tempo diverse e non irrisorie forme di remunerazione. Basti pensare che come amministratore guadagnava 48mila euro, ma tra il 2004 e il 2005 gli sono stati corrisposti – attraverso un contratto co.co.co – oltre 7 milioni di euro. A questi vanno aggiunti i compensi come responsabile unico del procedimento (quasi 5 milioni dal 2008 al 2015) e quelli pagati da Trenitalia come dirigente distaccato di Ferrovie Sud Est (circa un milione). Parti importanti del funzionamento aziendale erano ‘fisicamente’ al di fuori di Fse: “Il direttore del personale svolgeva la propria attività in telelavoro da Roma”, mentre alcune attività fondamentali per la gestione erano in toto appaltate all’estero. Nel corso degli ultimi dieci anni esternalizzare i servizi è costato 272 milioni, 26 solo nel 2015. La spesa per la gestione contabile ammonta a 83 milioni percepiti da Centro Calcolo per le buste paga (42 milioni), Bit per i biglietti (30 milioni) ed Eltel (10). Sono stati pagati, invece, 116 milioni a società esterne per i sistemi informativi, mentre per spese legali, amministrative e di consulenza Ferrovie Sud Est ha sborsato circa 73 milioni. Fra il 2013 e il 2015 le spese legali sono passate da 1,9 fino a 8,1 milioni. Crescendo insieme ai debiti. Il caso più rappresentativo è quello dello studio legale Schiano a cui la società si è affidata totalmente, tanto che “nonostante la gigantesca mole di contenziosi – rilevano gli analisti – non c’è alcuna traccia di una direzione affari legali o almeno di un ufficio che sia stato capace di rapportarsi con i legali esterni”. Lo studio Schiano (a cui sono stati liquidati onorari per 27 milioni dal 2001 a oggi) vanta crediti con l’azienda per circa 15 milioni. L’avvocato Angelo Schiano ha fatto anche parte dell’Organo di vigilanza dell’azienda. Fa capo all’ex presidente della Provincia di Bari Marcello Vernola e al fratello Massimo, l’omonimo studio associato al quale dal giugno 2013 al febbraio 2015 sono stati corrisposti oltre 294mila euro. In tre anni, infatti, sono stati affidati 12 incarichi, sei dei quali in uno stesso giorno, il 22 gennaio 2014. Le consulenze riguardano programmi di valorizzazione con studi di fattibilità di diverse stazioni ferroviarie, ma anche una relazione sul possibile trasporto dei rifiuti degli Ato pugliesi sulla rete ferroviaria Fse. Nel giro di 24 ore, tramite affidamento diretto lo studio ha intascato circa 110mila euro. All’esterno era affidata anche la gestione dell’archivio storico. Fiorillo ha firmato contratti per incarichi a tre Rita Giannuzzi, Franco Cezza e Gianluca Cezza, rispettivamente madre, padre e figlio. Per un ammontare di 5 milioni di euro, dei quali ad oggi sono stati pagati 2,9 milioni. Il primo contratto se l’è portato a casa l’archivista Rita Giannuzzi, per un compenso mensile di 8.950 (oltre a spese generale forfettarie) poi salito a 9.500. Nel 2005, il marito dell’archivista, Franco Cezza ha ottenuto un’altra consulenza per curare l’archivio storico per un compenso di 6.650 euro al mese fino al dicembre 2012. Sono seguiti aumento e proroga. Nel frattempo è spuntata un’altra consulenza per il figlio Gianluca Cezza, che nel 2009 ha proposto a Fse di dotarsi di un sistema informatico che consente di semplificare e snellire il sistema di archiviazione dei dati attraverso i codici a barre. Tra gli esempi ricordati nel documento quello degli immobili che l’azienda aveva a Roma. Più volte il collegio sindacale aveva sottolineato l’inopportunità di spendere notevoli risorse economiche nel mantenimento di un ufficio nella Capitale, dato che là aveva sede operativa a Bari (mentre l’amministratore unico risiedeva a Roma). Per non parlare del direttore del personale che, al momento dell’insediamento del commissario, aveva abbondantemente superato i termini per l’accesso alla pensione, ma che “per motivi di salute svolgeva la propria attività da Roma”. E percepiva annualmente 220mila euro e una indennità di trasferta (per ogni volta che andava a Bari) pari a 98 euro all’ora. Un’indennità, ed ecco il paradosso, “non per recarsi fuori dall’azienda, ma per raggiungere la propria azienda”.
Ferrovie Sud Est, la voragine degli sprechi. L'ira di Renzi: "Vicenda squallida, faremo pulizia". Le cifre sconcertanti della cattiva gestione pubblicate nella relazione del ministero: 14 milioni di stipendi a Fiorillo, 27 a uno studio legale di Roma. E poi c'è l'indennità speciale per l'archivio a marito, moglie e figlio, scrive Antonello Cassano il 20 marzo 2016 su "La Repubblica". Compensi stellari per i dirigenti, archivi d’oro e consulenze costose e ingiustificate. C’è questo e molto altro nella relazione che il commissario delle Ferrovie Sud Est, Andrea Viero, ha consegnato nelle ultime ore e che il ministero dei Trasporti ha già pubblicato. Una relazione di poco più di 100 pagine da cui emerge con chiarezza che le Fse sono una macchina mangia soldi e produttrice di scandali. Ora quella relazione mette tutto a nudo, a partire dalle incredibili remunerazioni dei dirigenti. Primo fra tutti quel Luigi Fiorillo che ha fatto il bello e cattivo tempo al vertice dell’azienda come amministratore unico dal 2004 al 2015. In questo arco di tempo, l’ingegnere ha percepito qualcosa come 13,7 milioni di euro. Tutto ciò accadeva «senza che il socio o il collegio sindacale — scrive Viero nella sua relazione — assumessero alcuna determinazione» in merito ai compensi di Fiorillo. E su questa storiaccia all'italiana interviene anche il premier: "Sulla vicenda squallida di Ferrovie Sud Est andremo fino in fondo. Abbiamo commissariato. E faremo pulizia totale. Il Sud cambia verso". Lo scrive il presidente del Consiglio Matteo Renzi su Twitter, commentando la relazione del commissario. "Alle Ferrovie Sud Est sono già stati revocati incarichi e ridotti i costi". E' quanto invece afferma il ministro dei trasporti, Graziano Delrio che su twitter preannuncia: "presto il piano industriale". Il ministro ricorda che nella società ci sono anche "tanti lavoratori per bene". "Il Sud - conclude - #cambiaverso". Ma monta anche la polemica politica. "Le squallide notizie che leggiamo sulla situazione di Ferrovie Sud Est ne nascondono una positiva: finalmente c'è una politica che ha deciso di andare a fondo in vicende di malcostume e malaffare a danno dei cittadini. La decisione del governo e del ministro Delrio di fare piena luce su una vicenda evidentemente losca testimonia la volontà del governo di risollevare il Sud partendo dal settore chiave delle infrastrutture che possono non solo migliorare la qualità della vita dei cittadini ma sono anche strumento di accesso e scambio commerciale, nonché opportunità reale di uno slancio economico per le regioni più depresse d'Italia". Lo afferma il presidente dei senatori del Pd Luigi Zanda. "Era ora! Per anni e anni, purtroppo inascoltati abbiamo denunciato l'opacità e le criticità delle Ferrovie Sud Est e dei suoi vertici, e i governi, proprietari di quell'azienda, che si sono succeduti hanno fatto sempre orecchie da mercanti. Per anni Palazzo Chigi e i ministri competenti hanno taciuto, di fronte alle denunce di Vendola e della Regione Puglia il silenzio o la sottovalutazione dei ministri berlusconiani, di Passera, di Lupi sono eloquenti. Ora si può e si deve aprire una pagina nuova. Era ora che i responsabili del dissesto e delle ruberie venissero perseguiti, ed era ora di permettere a quelle ferrovie di rilanciarsi". Lo dice l'esponente di Sel Nicola Fratoianni. "Ma non si dica che il Mezzogiorno così è alla svolta, altrimenti si ricade nella propaganda. Serve anche altro di fronte all'abbandono di ogni politica nazionale di valorizzazione del Sud: investimenti, risorse, progetti che dalle parti di Palazzo Chigi latitano..." La malagestione parte da lontano. Neanche per i commissari è stato possibile ricostruire la remunerazione corrisposta da Fse all’avvocato Fiorillo per tutti i 23 anni trascorsi in azienda. Quel che è certo è che tra il 2004 e il 2015 l’amministratore unico ha percepito una remunerazione totale lorda pari a 13 milioni 750mila euro. Gli “anni d’oro” per Fiorillo sono quelli che vanno dal 2004 al 2007, quando arriva a percepire quasi due milioni e mezzo all’anno. In questo triennio “risultano corrisposti, attraverso un contratto di collaborazione co.co, importi complessivi pari a 7,6 milioni di euro”. Un compenso, fa notare il commissario, che è stato stabilito dall’assemblea dei soci di Fse. Non va dimenticato che Fiorillo ha percepito un altro milione di euro in qualità di dirigente distaccato di Trenitalia. Nel suo ruolo di assistente al Rup, Fiorillo ha percepito compensi lordi per 4,9 milioni di euro. Ma in merito a questi incarichi conferiti dal Rup a Fiorillo la relazione fa notare che si rileva “un palese conflitto di interessi sia tra quest’ultimo quale Au e Fse, quale società appaltante e sia tra il Rup e il medesimo Fiorillo, in quanto il secondo nomina il primo, il primo nomina il secondo assistente del Rup”. Ma gli scandali nella più grande ferrovia concessa d’Italia non hanno mai fine. Dalla relazione emerge un altro caso eclatante. È quello riguardante l’archivio aziendale e la costituzione dell’archivio storico di Fse. “L’affidamento del servizio avviene mediante l’individuazione diretta del fornitore, in questo caso tre persone fisiche, incaricate separatamente”. Si parte dall’incarico dell’archivista Rita Giannuzzi, poi si passa al commercialista Franco Cezza (incidentalmente — si fa notare nella relazione — si osserva che questi è marito della Giannuzzi) e si amplia l’incarico all’avvocato Gianluca Cezza, “figlio della Giannuzzi e di Cezza”. Un archivio tutto in famiglia dai costi considerevoli. Il compenso mensile per la Giannuzzi veniva fissato in 8,9mila euro, poi rivisto al rialzo fino a 9,5mila euro al mese. Contratto che sarebbe stato esteso fino al 2021 se non fosse intervenuta la revoca del commissario nel gennaio 2016. La stessa dinamica si ripete sui contratti degli altri due, padre e figlio. Fino a oggi ai tre sono stati erogati compensi pari a 2,9 milioni di euro. “Ove non fosse intervenuta la revoca del commissario — è scritto nella relazione — il costo totale per la realizzazione dell’archivio sarebbe giunto alla cifra di 5,4 milioni di euro. Corrispondente al costo di un treno e mezzo (Atr)”.
Non dimentichiamoci…
24 aprile 2015. Un autobus della Sud Est, proveniente da Taranto e diretto a Martina Franca, nel pomeriggio di oggi ha preso fuoco mentre si trovava all’altezza del semaforo di San Paolo, sulla statale 172. Un cittadino che si trovava a bordo del mezzo pubblico, al momento dell’incendio, ha raccontato la sua esperienza e dell’odissea dei passeggeri iniziato sin a Taranto, quando erano stati costretti a scendere dal primo pullman per un’avaria. Saliti a bordo del secondo automezzo delle Ferrovie Sud Est, quest’ultimo ha fuoco all’altezza di San Paolo. Guasti e malfunzionamenti agli autobus della compagnia che serve la provincia di Taranto ed i paesi della Puglia non sono però una novità.
21 ottobre 2015. Un bus delle Ferrovie Sud-Est carico di pendolari ha preso fuoco a Torre Santa Susanna mentre viaggiava sulla tratta tra Brindisi ed Erchie. L'autista, accortosi del guasto, è riuscito a far scendere tutti i passeggeri, che sono rimasti illesi. Le fiamme si sono sviluppate in paese, in piazza Matteotti. I vigili del fuoco sono intervenuti a spegnere le fiamme che avevano avvolto parte del mezzo. A quanto accertato la causa del rogo sarebbe imputabile a un corto circuito.
20 novembre 2015. Un autobus della Sud Est in sosta ad una fermata di via Di Palma, a Taranto, ha preso fuoco per cause in corso di accertamento. Accortosi del principio di incendio, sviluppatosi dal vano motore, l'autista ha subito invitato a scendere dal mezzo gli studenti. Solo spavento, ma nessun ferito tra i passeggeri. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, che hanno spento le fiamme e avviato gli accertamenti per comprenderne l'origine. Il bus, a quanto si è appreso, proveniva da Avetrana.
Il 21 settembre 2015 un pullman della Sud Est prese fuoco ad Avetrana nella tratta tra Manduria e Avetrana. L'autista fiutò il pericolo è fasce scendere i passeggeri, anche in quella occasione studenti pendolari. Il mezzo andò completamente distrutto.
In contralto alla parte viaggiante logora e pericolosa c’è…. Lo scandalo carrozze d'oro delle Sud est: costate 22 milioni e sono ferme, scrive Massimiliano Scagliarini il 27 gennaio 2015 su “La Gazzetta del Mezzogiorno. Sono state comprate di seconda mano in Germania, e sono state ristrutturate in Croazia con l’intermediazione di una società polacca. Secondo la Finanza, in questo giro d’Europa sono state pagate il doppio rispetto al valore di mercato. E ora salta fuori che 21 delle 25 carrozze Silberling che le Ferrovie Sud Est hanno acquistato nel 2009 non sono utilizzate. Alcune non hanno mai percorso nemmeno un chilometro con passeggeri a bordo: e, viste le condizioni in cui si trovano ora, non lo faranno per molto tempo. Le 25 carrozze ex Db sono un pezzo del fascicolo di cui la Procura di Bari sembra essersi dimenticata: è dal 2013 che la Finanza ha consegnato al pm Isabella Ginefra un’informativa in cui ipotizza corruzione e truffa allo Stato per l’acquisto di materiale ferroviario, denunciando 5 persone e chiedendo il sequestro per equivalente di circa 11 milioni di euro. Ma da allora nulla si è mosso. Nel frattempo, gran parte delle 25 carrozze giacciono inutilizzate: soltanto 4, quelle su cui è stato montato un sistema di sicurezza modificato per la chiusura delle porte, circolano nell’hinterland barese. Le altre, per quanto sottoposte a revisione nello scorso aprile, sono ferme: alcune hanno ruggine che cola dal tetto, graffiti sulle fiancate, vetri rotti e sostituiti alla meno peggio. Non un bello spettacolo visti i 22 milioni di soldi pubblici che sono stati utilizzati. «Quattro carrozze circolano regolarmente - conferma il direttore delle Sud Est, Luciano Rizzo -, e vengono fatte ruotare secondo le esigenze del servizio. Il sistema di apertura modificato è una miglioria, ma non significa che le carrozze su cui non c’è non possano essere utilizzate». Fonti interne all’azienda segnalano problemi di circolabilità delle Silberling: «È tutto superato - dice Rizzo -: dopo un’indagine sulla rete abbiamo scoperto che l’unica curva troppo stretta era quella di accesso all’officina, che è stata modificata». Fatto sta che gran parte delle carrozze è ferma sui binari, e non sembra in condizione di circolare: «Questo non è vero - risponde il direttore tecnico -: le abbiamo portate a Bari proprio perché fossero sorvegliate, perché ce le stavano vandalizzando, ma le rimetteremo a posto». A questo proposito, Rizzo dice che «a giorni» verranno messi in esercizio in Salento anche i tre treni Stadler Gtw comprati di seconda mano in Svizzera e fermi dal 2010 per un problema di peso assiale troppo elevato. Resta da capire perché siano state prese 25 carrozze Silberling se, a quanto pare, ne sarebbero bastate molte meno. Le Sud-Est, di proprietà del ministero delle Infrastrutture, le hanno comprate dalle ferrovie tedesche allo stato di rottame spendendo 912mila euro, e le hanno subito dopo vendute alla Varsa di Varsavia per 280mila euro ciascuna. Varsa le ha poi fatte ristrutturare nella fabbrica croata Gredelj, e le ha a sua volta rivendute a Sud-Est a 900mila euro l’una: la spesa totale è di 22,5 milioni. Ma secondo un consulente della Procura il valore delle carrozze ristrutturate è di 448mila euro l’una, cioè 11,2 milioni in totale, mentre Sud Est le ha pagate (al netto della prima plusvalenza) 16,4 milioni, cioè quasi il 50% in più del reale valore di mercato. Siccome 7 delle 25 carrozze sono state finanziate dalla Regione, il Nucleo di polizia tributaria di Bari ipotizza la truffa ai danni dello Stato: le Sud-Est hanno ricevuto 5,36 milioni di contributo pubblico (l’80% del costo delle 7 carrozze), cioè 2,8 milioni in più rispetto al valore reale di quelle carrozze oggi in gran parte inutilizzate.
Ferrovie Sud Est, ecco gli uomini che gestivano la cassa: 50 milioni di euro all'ingegnere di Gallipoli. I nomi più citati nella documentazione sulle origini del dissesto. Vito Antonio Prato ha percepito 50 milioni in 15 anni per la redazione di alcuni studi sul materiale rotabile o l’elettrificazione della rete, scrive Antonello Cassano il 23 marzo 2016 su “La Repubblica”. Dal Berlusconi di Gallipoli all’uomo del collegamento Helsinki-Bari. Dal commercialista con la passione per la scrittura al dipendente distaccato in ambasciata macedone per realizzare una linea autobus Bari-Tirana. Fino allo studio romano che, secondo alcuni, reggeva le fila del sistema messo in piedi da Luigi Fiorillo, l’avvocato da 13 milioni di euro alla guida di Ferrovie Sud Est (Fse) per vent'anni. Sono questi alcuni dei personaggi più citati nella relazione sul dissesto delle ferrovie concesse più lunghe d’Italia che il subcommissario Domenico Mariani ha consegnato in Procura a Bari. L'ingegnere d'oro. A Gallipoli lo hanno soprannominato “Berlusconi”. C’è chi giura che una delle barche più grandi ormeggiate nel porto della città salentina sia di sua proprietà. Quel che è certo è che l’ingegner Vito Antonio Prato ha percepito da Fse nell’arco di un quindicennio circa 50 milioni di euro. Da una visura camerale emerge che la Prato Engineering srl ha una sede legale in via Imbriani a Lecce in cui lavorano 11 dipendenti, una a Milano e anche un distaccamento in Bulgaria. La nota dell'ex ministro Lupi. La relazione della Deloitte, richiesta dai commissari di Ferrovie Sud Est per fare chiarezza sui conti dell'azienda, analizza anche le remunerazioni dei dirigenti. Ma è su Sandro Pacella che si soffermano gli analisti. Strettissimo collaboratore di Ercole Incalza, grand commis del ministero dei Trasporti, è proprio lì, al dicastero romano, che di fatto lavora, nonostante Fse gli paghi uno stipendio di 173mila euro all’anno. Quando gli analisti hanno chiesto informazioni su di lui, dagli uffici è stata fornita «esclusivamente — segnala la Deloitte — una comunicazione del 15 maggio 2013 del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi» con cui quest’ultimo segnalava la presenza di Pacella al gabinetto del ministero fin dal 2003 come componente dei seguenti gruppi: Alto Livello diretto da Karel Van Miert, gruppo di lavoro relativo al Corridoio 8. Nella stessa comunicazione di Lupi si fa notare la necessità per Pacella di continuare a seguire questi progetti, «in quanto sia nel corridoio Helsinki-La Valletta sia nell’area Balcani il ruolo del nodo di Bari è rilevante e quindi, di converso, anche quello di Fse che opera in tale nodo». Insomma, fondamentale per collegare Helsinki a Bari. Arrestato nell’ambito dell’inchiesta di Firenze sulle grandi opere, Pacella ha lasciato Fse a fine febbraio. Beltramelli e la Filben. Un altro capitolo della due diligence riporta i legami tra Fse e Filben srl, controllata da una società di Carlo Beltramelli, l’uomo che ha fornito a Fse le 20 carrozze polacche della Varsa. Ma la Filben controlla per intero anche la Sil, che per Fse ha effettuato vari servizi al costo di 402mila euro. Gli analisti della Deloitte fanno notare che la Sil «nella propria opera di monitoraggio degli acquisti ha privilegiato società alla stessa collegate, operando in totale conflitto di interessi». Il commercialista di Maglie. Nel romanzo sugli sprechi messo a punto dai commissari spicca anche il personaggio di Franco Cezza. Per questo commercialista di Maglie la famiglia è tutto. Non è un caso se si ritrova a lavorare gomito a gomito assieme alla moglie e al figlio per mettere a punto l’archivio delle Sud Est. I tre hanno percepito 3 milioni di euro in un decennio di lavoro, fino all’arrivo dei commissari che hanno bloccato tutto. Ma Cezza ha anche la passione per la scrittura: è autore, insieme con il figlio Gianluca, del volume La liquidazione coatta amministrativa. Lo studio Schiano. Un ruolo importante è svolto dallo studio legale romano Schiano, che negli anni si è occupato del contenzioso di Fse. Gli nonorari dello studio ammontano a 27 milioni di euro, senza considerare i 15 ancora dovuti da Fse. Deloitte rimarca che Fse è sovente costituita in giudizio con il patrocinio di più avvocati, addirittura in aggiunta i sopradetti procuratori generali con una «moltiplicazione dei compensi». Il software utilizzato per archiviare pratiche e relative fatture, seppure di proprietà di Fse, che ne paga il canone e manutenzione, è installato «esclusivamente presso l’associazione Schiano». Il Macedone. Forse il personaggio più curioso del romanzo delle Sud Est è Giovanni Sabato, dipendente distaccato presso l’ambasciata della Repubblica di Macedonia a Roma. Perché? «Dai documenti — scrive Deloitte — emerge lo svolgimento di inizative relative al Corridoio 8». L’obiettivo era accorciare le distanze tra Fse e Macedonia. Nel 2013 per questo dipendente le Sud Est hanno sostenuto costi totali pari a «133mila euro (di cui 16mila per premi) e altri 133mila nell’anno fiscale 2014». Al loro arrivo, a gennaio scorso, i commissari hanno convocato in sede a Bari anche Sabato. Oggi il dipendente e è tornato a lavorare nella sede leccese di Fse. Ma non rinuncia ai suoi progetti, uno dei quali illustrato anche ai commissari: una linea autobus tra la Puglia e l’Albania.
Il disastro Sud-Est aperto il quarto fascicolo. In Procura a Bari la relazione sui 270 milioni sperperati. «Cercheremo i soldi anche in Vaticano», scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 23 marzo 2016. La Procura di Bari verificherà i contenuti della relazione sullo scempio delle Sud-Est, puntando dritta sui 270 milioni che negli ultimi anni sono usciti dalla più grande ferrovia concessa d’Italia per spandersi in mille rivoli tra consulenze e appalti d’oro. Da ieri i documenti sono anche nelle mani della magistratura ordinaria: il subcommissario Domenico Mariani è stato per oltre un’ora a colloquio con il procuratore Giuseppe Volpe e con l’aggiunto Lino Giorgio Bruno, che coordinerà il nuovo fascicolo già delegato alla Finanza per gli approfondimenti di indagine. Nel mirino, dunque, finiranno le procedure e le modalità con cui le Sud-Est sono state gestite fino a causare un buco da 310 milioni che, anche questo mese, vede l’azienda nell’impossibilità di pagare in tempo gli stipendi. Un approfondimento investigativo che dovrà riguardare, oltre che i manager, anche i destinatari degli incarichi d’oro firmati dall’ex amministratore unico Luigi Fiorillo. Dunque una caccia ai soldi: i magistrati baresi non hanno infatti escluso la possibilità di verificare, tramite una rogatoria, se l’avvocato tarantino risulta titolare di conti presso lo Ior, la banca vaticana. Una buona parte dei consulenti, in particolare l’avvocato romano Angelo Schiano, sembrerebbero infatti collegati con i centri del potere vaticano, anche per motivi storici. Le Sud-Est furono fondate dal marchese Bombrini, un banchiere genovese che ai primi del ‘900 scese in Puglia per finanziare i lavori dell’Acquedotto Pugliese: e, del resto, le società che fino all’anno scorso hanno gestito la contabilità della Sud-Est erano le stesse che si occupavano delle aziende di Bombrini. Quello sulla relazione di Viero è il quarto fascicolo aperto a Bari sulle Sud-Est. È già approdata in udienza preliminare l’indagine sui treni d’oro in cui si ipotizza l’acquisto a prezzi gonfiati di vagoni di seconda mano e dei convogli polacchi Atr-220: una parte delle accuse (quelle relative alla corruzione) va verso la prescrizione. Altre due indagini, sempre affidate alla Finanza, riguardano poi aspetti fiscali: la prima è relativa alla polacca Varsa, la società intermediaria dei treni, che secondo gli investigatori sarebbe in realtà riconducibile all’imprenditore bolognese Carlo Beltramelli. La seconda indagine è nata dalle risultanze della verifica compiuta dalla Finanza sui bilanci del 2013, ed ipotizza reati fiscali. Sulla relazione di Viero ha già aperto un fascicolo la procura regionale della Corte dei Conti. Il ministro Graziano Delrio ha fatto sapere che i documenti sono stati trasmessi anche all’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone.
Ferrovie Sud Est, nel mirino gli sprechi per il personale: in 180 negli staff, boom di permessi. Fra 2013 e 2014, come ha certificato la Deloitte nella due diligence sui conti richiesta dai commissari, i costi per il personale ammontavano a circa 73 milioni di euro (pari al 47 per cento del valore della produzione), scrive Antonello Cassano il 24 marzo 2016 su "La Repubblica". Contenziosi in tribunale, spese elevate per gli straordinari e per contrattazione di secondo livello, permessi e distacchi sindacali. Non ci sono soltanto gli sprechi in appalti e consulenze. Una parte della relazione dei commissari delle Ferrovie Sud Est è dedicata anche alle spese sui circa 1.300 dipendenti delle più grandi ferrovie concesse d’Italia. È anche su questa partita che si gioca il piano di risanamento aziendale. Tre i temi su cui le parti dovranno discutere nei prossimi giorni: il contenzioso con i dipendenti sul trattamento di fine rapporto non corrisposto, l’aumento dell’efficienza sul posto di lavoro e la rinegoziazione dei permessi sindacali. Si parte dalle cifre: fra 2013 e 2014, come ha certificato la Deloitte nella due diligence sui conti di Fse richiesta dai commissari, i costi per il personale ammontavano a circa 73 milioni di euro (pari al 47 per cento del valore della produzione). È sempre Deloitte a segnalare che una parte significativa del costo del personale era costituita dal costo connesso alla contrattazione di secondo livello, che mostra un’incidenza sul totale del costo pari al 25 per cento nel 2014. Su questo fronte i commissari sono già intervenuti con la disdetta degli accordi sindacali di secondo livello. Ma la relazione dei commissari evidenzia anche alcune inefficienze: si segnala una elevata incidenza di risorse adibite ad attività di supporto operativo «presso le funzioni centrali cosiddette “di staff” (complessivamente oltre 180 addetti pari al 15 per cento dell’organico aziendale) oltre che di personale non idoneo a svolgere le mansioni assegnate (circa 60 risorse)». Inoltre al loro arrivo i commissari hanno anche constatato una pesante incidenza di tempi cosiddetti non produttivi sul totale del tempo di lavoro (tra cui trasferimenti a vuoto e soste intermedie) cui l’azienda ha sopperito con un importante ricorso al lavoro straordinario. Un caso a parte è rappresentato da quei cinque dipendenti di Fse che hanno lavorato negli anni scorsi dalla loro sede di Roma. Non a caso la due diligence della Deloitte dedica loro un capitolo a parte. Per mantenere quegli uffici nella capitale l’azienda ha speso nel 2014 circa 1,6 milioni di euro, che si riferiscono principalmente a costi per il personale (1,4 milioni). Ma la partita più delicata è forse quella legata ai permessi sindacali. Al momento non ci sono dati precisi riguardanti il numero di permessi e distacchi concessi ai dipendenti con funzioni sindacali. Quel che è certo è che i permessi saranno destinati a ridursi, così come previsto dalle nuove regole del contratto nazionale. È invece già avviata la partita per chiudere il contenzioso con i dipendenti legato alla mancata erogazione del tfr. Il primo incontro fra le parti è avvenuto nei giorni scorsi. Da una parte Fse con i suoi avvocati e dall’altra 30 legali dei sindacati. L’azienda ha dichiarato di essere disponibile a transare con i dipendenti, mettendo sul tavolo una cifra non superiore a 8 milioni di euro. Per soddisfare tutte le richieste, in realtà, ci vorrebbe almeno il doppio di quella cifra. Ma l’azienda ha chiarito ai legali che la disponibilità economica per chiudere la partita è limitata. In questo modo Fse punta a chiudere in tempi rapidi le cause perse e tentare, per tutte le controversie che rimarranno in piedi, di trovare punti di incontro. L’obiettivo è quello di tornare ad avere un numero fisiologico di contenziosi. Le parti torneranno a incontrarsi nei prossimi giorni per cercare una soluzione più adeguata e meno dolorosa per tutti. Intanto prosegue la polemica sul fronte politico. Andrea Caroppo, capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, attacca: «Fse è un carrozzone clientelare e inefficiente che brucia annualmente centinaia di milioni di euro dei pugliesi, offrendo servizi da terzo mondo. È giunto il momento di chiudere e indire quanto prima più gare a evidenza pubblica, affidando i servizi ad altri».
Donato Ceglie, pm ex icona Antimafia sospeso dal Csm da funzioni e stipendio. La decisione è legata all’indagine che la Procura di Roma ha aperto sul magistrato. Sostituto procuratore generale a Bari, Ceglie si era occupato del processo d'appello dell'ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto e anche di uno stralcio della vicenda escort. Da pm a Santa Maria Capaua Vetere aveva indagato sulla Terra dei fuochi. A gennaio, sempre in relazione all’indagine penale a suo carico, il Csm aveva deciso di aprire nei suoi confronti la procedura per il trasferimento d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 marzo 2016. Un magistrato simbolo dell’Antimafia, un’icona della lotta alle ecomafie. Questo era il pm Donato Ceglie fino a due anni fa. Per lui oggi è arrivata la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e collocamento fuori ruolo dal parte del Consiglio superiore della magistratura. Il magistrato era stato ascoltato dal collegio disciplinare, presieduto dal vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Il provvedimento è passato quindi alla firma del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. La decisione è legata all’indagine che la Procura di Roma ha aperto sul magistrato. Sostituto procuratore generale a Bari, Ceglie si era occupato del processo d’appello dell’ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto e anche di uno stralcio della vicenda escort. Da pm a Santa Maria Capaua Vetere aveva indagato sulla Terra dei fuochi. A gennaio, sempre in relazione all’indagine penale a suo carico, il Csm aveva deciso di aprire nei suoi confronti la procedura per il trasferimento d’ufficio. Ceglie è indagato dai colleghi romani per vari reati, tra cui abuso d’ufficio, una presunta violazione fiscale, ma anche per corruzione aggravata, reato quest’ultimo caduto però in prescrizione. Dall’inchiesta, condotta dal pm Barbara Sargenti e dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, emergerebbero però anche contatti con un imprenditore legato al clan dei Casalesi. Non a caso, quando sollecitò il Csm ad aprire una pratica, il consigliere di Area, Antonello Ardituro, fece riferimento anche a quanto segnalato dal Fatto.it, in cui si citavano, disse, “fatti molto gravi, tra cui quello già prescritto di corruzione in atti giudiziari con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, in concorso con Sergio Orsi, l’imprenditore nel ramo dello smaltimento dei rifiuti, noto per il suo stabile collegamento con il clan dei Casalesi”. In sostanza il magistrato avrebbe invece agevolato imprenditori legati ai clan camorristici. Dalle intercettazioni, inoltre, sono emerse frasi choc ed offensive contro diverse persone, dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone al presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, ai magistrati di Napoli Alessandro Milita, pubblica accusa nel processo Cosentino, e Antonello Ardituro, oggi al Csm. Dalle indagini sarebbero, infatti, emersi anche contatti con un imprenditore legato al clan dei Casalesi, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno del 4 marzo 2016. Non a caso, quando il consigliere di Area, Antonello Ardituro, magistrato a Napoli, sollecitò il Csm ad aprire una pratica, fece riferimento anche a «fatti molto gravi», rilevati dagli organi di stampa, «tra cui quello già prescritto di corruzione in atti giudiziari con l'aggravante dell'agevolazione mafiosa, in concorso con Sergio Orsi, l'imprenditore nel ramo dello smaltimento dei rifiuti, noto per il suo stabile collegamento con il clan dei Casalesi». I fratelli Orsi (uno dei quali è stato ucciso dalla camorra) erano titolari della Eco 4 e sono tra i nomi al centro delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto anche l'ex sottosegretario Nicola Cosentino. Dalle intercettazioni, inoltre, sono emerse frasi choc ed offensive contro Pignatone, il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, il pm di Napoli Alessandro Milita e lo stesso Ardituro. C'è poi il capitolo, pure agli atti dell'inchiesta, che riguarda le frequentazioni femminili, da presunti incontri con alcune studentesse di Giurisprudenza, al legame con la moglie di un imprenditore: quando era pm a S.Maria Capua Vetere abusando del suo potere avrebbe costretto la donna, sposata col principale imputato di un'inchiesta, a rapporti sessuali prospettando una serie di benefici. Storia in realtà intricata e poco chiara, che gli è valsa però il rinvio a giudizio nel febbraio 2014 di fronte al Tribunale di Roma per concussione per costrizione e violenza sessuale.
…DI BRINDISI. Arrestato il sindaco di Brindisi Consales: accusa corruzione e abuso d'ufficio. Eletto con il Pd, si era autosospeso dal partito nel 2013 per le inchieste giudiziarie in cui era coinvolto. L'ordinanza per la gestione dei rifiuti, scrive il 6 febbraio 2016 “La Repubblica”. Il sindaco di Brindisi, Mimmo Consales, è stato arrestato dalla polizia per abuso d'ufficio e corruzione nell'ambito di un'indagine relativa alla gestione dei rifiuti. L'operazione della Digos, scattata all'alba, ha portato all'arresto anche di un imprenditore e un commercialista. Arresti domiciliari per il primo cittadino e il commercialista. Mentre per l'imprenditore Luca Secreti il gip di Brindisi ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. I tre sono accusati, in concorso, di abuso d'ufficio, corruzione, concussione e truffa. Mimmo Consales, il cui nome all'anagrafe è Cosimo, è nato a Brindisi nel 1959. È stato eletto nel maggio 2012 nelle file del Pd ed è al vertice di una coalizione di centrosinistra. Dal momento in cui è emersa l'esistenza di inchieste giudiziarie a suo carico, nel 2013, si è autosospeso dal partito e non vi è mai rientrato. Gli altri due coinvolti nella vicenda sono l'imprenditore Luca Secreti, nato a San Pietro Vernotico (Br) nel 1969, già amministratore della azienda 'Nubile s.r.l.', incaricata dal Comune di Brindisi per il trattamento, biostabilizzazione e produzione Cdr-Css dai Rifiuti Solidi Urbani. E il commercialista (libero professionista) Massimo Vergara, nato a Lecce. L'inchiesta, particolarmente articolata e complessa, iniziata nell'anno 2013, è stata coordinata dalla Procura ordinaria di Brindisi. Sono in corso numerose perquisizioni personali e domiciliari, nonché il sequestro dell'impianto di biostabilizzazione e produzione CDR-CSS dai Rifiuti Solidi Urbani sito nella zona industriale di Brindisi. Tutto il materiale sequestrato sarà oggetto di ulteriori approfondimenti investigativi.
Mazzette sui rifiuti, arrestato il sindaco di Brindisi Consales, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 6 febbraio 2016. Il sindaco di Brindisi Cosimo Consales, un imprenditore e un commercialista, sono stati arrestati dalla polizia nell’ambito di un’indagine relativa alla gestione dei rifiuti. Nei confronti del primo cittadino e del commercialista Massimo Vergara sono stati disposti gli arresti domiciliari mentre per l’imprenditore, Luca Screti (della Nubile) il Gip ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. I tre sono accusati, in concorso, di abuso d’ufficio, corruzione, concussione e truffa. La polizia sta eseguendo una serie di perquisizioni finalizzate all’acquisizione di documentazione utile all’indagine e ha sequestrato l’impianto per la produzione di Cdr e Css nella zona industriale di Brindisi. Sulla vicenda dei rifiuti a Brindisi, il Governatore Michele Emiliano, è intervenuto qualche mese fa commissariando l'Aro sottraendo di fatto la regìa a Consales. Consales era stato eletto a maggio del 2012 con il centrosinistra ma a novembre del 2013 si è autosospeso dal Pd in seguito ad un’indagine sull'affidamento del servizio di comunicazione istituzionale e della rassegna stampa. La società Nubile di Luca Screti è l’azienda incaricata dal comune di Brindisi per il trattamento, biostabilizzazione e produzione di Cdr e Css dai rifiuti urbani recentemente affidato all'amin Puglia di Bari su provvedimento della Regione. Il commercialista leccese Massimo Vergara, è colui che avrebbe curato personalmente il versamento di un debito (di Consales) in contanti ad Equitalia, vicenda per cui il primo cittadino è attualmente sotto processo a Brindisi. Proprio ieri Consales era ii tribunale per un’udienza: la vicenda, in cui è imputato insieme ad altre tre persone per abuso d’ufficio truffa e concussione, riguarda l’affidamento del servizio di rassegna stampa e call center da parte del Comune alla News Sas, società di cui aveva detenuto la maggioranza delle quote fino a pochi mesi prima dell’elezione. Risponde di concussione in concorso con l'ex direttore di Brindisi dell’ufficio di Equitalia per aver costretto - questa l’ipotesi accusatoria - i dipendenti dell’ente di riscossione a mettere a disposizione i propri conti correnti bancari per trasformare i contanti in busta chiusa (in un caso 4.550 euro, è stato detto in aula) in assegni circolari da versare per saldare le rate della porzione di 20mila euro su 315mila di debito da pagare. Il processo è stato rinviato al 20 maggio prossimo. Le inchieste che riguardano il sindaco di Brindisi, Mimmo Consales, sono dei pm Giuseppe De Nozza e Savina Toscani. Consales è il terzo sindaco di Brindisi arrestato negli ultimi 23 anni dopo Marchionna (negli anni Novanta, poi assolto) e Antonino. Il nuovo sindaco di Brindisi affronta una crisi di governo della città ormai da mesi: negli ultimi tempi ha destato scalpore la notizia dell'assunzione nel suo staff del figlio di un consigliere comunale di opposizione, in cambio del voto favorevole all'approvazione del bilancio. Consales, inoltre, si sarebbe freso protagonista di uno scontro con il governatore della Puglia, Michele Emiliano, e con i vertici locali del Pd. Uno scontro istituzionale culminato negli ultimi tempi soprattutto per la posizione ingombrante dell'assessore all'Urbanistica, figlio di un boss della Sacra corona ucciso in un agguato.
Brindisi, una città sotto inchiesta su edilizia e rifiuti, scrive Nicola Pepe l'11 gennaio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dall’annoso business dei rifiuti travolto da scandali, attentati e processi, all’affare del mattone, al rischio infiltrazioni della mala nelle società pubbliche, passando per il «nodo» gasdotto e i voli Ryanair. E, per finire, l'assessore figlio del boss ucciso. Brindisi, appena 90mila abitanti, è ormai a un bivio e rappresenta un «caso regionale». Da un lato il Governatore (nonchè segretario regionale del Pd) Michele Emiliano, dall'altro, il sindaco Mimmo Consales, che resta in sella e continua a incassare i colpi, tra inchieste giudiziarie dirette e indirette, e «sfiducie» politiche del Pd. Tra i due, i rapporti sembrano ormai arrivati ai titoli di coda, all'indomani del commissariamento del partito cittadino (dopo le dimissioni del segretario) e alla vigilia di un ritiro della fiducia al governo brindisino dopo l’ultimatum natalizio del Pd regionale (le delibere saranno votate «caso per caso»). Emiliano, nel frattempo, continua a masticare amaro perché i «suoi» due assessori e 5 consiglieri di Brindisi sembrano rispondere picche. E poiché Consales sa di avere una maggioranza border line (17 consiglieri su 32 lui compreso), la vera partita da giocare è quella del congresso del Pd cittadino per cui sono iniziate le grandi manovre. A cominciare dal congelamento del tesseramento un mese fa (causa «esaurimento delle tessere», la motivazione ufficiale), al rafforzamento della posizione del segretario provinciale brindisino del partito, il dimissionario sindaco di Francavilla Fontana entrato in crisi con Sel. Cominciamo col dire che Pasquale Luperti, 38 anni, irremovibile assessore all'Urbanistica, ha una fedina penale immacolata così come lui stesso dichiara nelle autocertificazioni di legge. Il padre, Tonino, negli anni Novanta, era considerato un boss e, il 12 luglio del 2000, fu ammazzato dal (pentito) Vito D'Emidio, detto «Bullone» nell'ambito di una faida tra clan della Scu (come riferisce la Dia nel 2008) che due anni prima falciò anche lo zio, Salvatore Luperti. In comune, i due avevano l'allora pm antimafia Michele Emiliano che indagò su di loro. Che adesso – precisamente dal 2013 quando è diventato segretario regionale del Pd - ha aperto un fascicolo, politico, su Luperti junior. Ma chi è «Lino» Luperti? Ufficialmente è assunto come «analista chimico di laboratorio» dipendente alla LyondellBasell, società che produce resine di polipropilene e opera a Brindisi all'interno del complesso petrolchimico. Ma Luperti è anche il mister Preferenze di Brindisi. Alle elezioni del 2012, che hanno incoronato Consales sindaco, ha fatto il pieno di voti (bissando l'elezione del 2009) risultando il primo degli eletti in assoluto con oltre mille preferenze nella lista del Pd. Una campagna elettorale, a quanto pare, basata sulla «conoscenza» personale della gente in alcuni quartieri, poiché Luperti ha rendicontato solo 300 euro di spese elettorali. Ma se è vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, è altrettanto vero che in politica le ragioni di opportunità prevalgono sul resto. Ne è un esempio recente il caso Boschi (per il coinvolgimento del padre nello scandalo della Banca Etruria) o, per restare in Puglia, la flagellazione cui fu sottoposto l'allora candidato sindaco di Bari Decaro quando «scoprì» che nella lista di un municipio c'era una presenza femminile scomoda (subito rimossa). A Brindisi, invece, la storia è diversa. Non a caso, nei cinque rimpasti in questi tre anni e mezzo della (burrascosa) amministrazione Consales, uno dei pochi sopravvissuti all'epurazione è stato proprio Luperti, rimasto sempre aL suo posto sin dalla nomina, il 18 giugno 2012, un giorno prima l'attentato alla scuola di Brindisi che costò la vita alla 16enne Melissa Bassi. Ma se Luperti non merita di essere giudicato per il suo passato (era maggiorenne quando il padre era in auge nel mondo della mala brindisina), l’unica certezza è che non ha la benchè minima competenza tecnica in materia urbanistica: due terzi del suo curriculum di una paginetta scarna, è dedicato all'impegno politico dal 2009, poi c'è il posto di analista di laboratorio e il diploma di programmatore. Nonostante ciò, Luperti sembra essere l'uomo chiave dell'amministrazione Consales. E' lui l'assessore di riferimento per il nuovo Pug (Piano urbanistico generale), per il quale non più tardi di tre mesi fa è stato mandato a casa il prof. Giorgio Goggi, il professionista incaricato di redigere il Documento preliminare programmatico e il Dpp dall'amministrazione del compianto sindaco (dal 2004 al 2011) Domenico Mennitti. Un «divorzio» culminato con tanto di esposto alla procura di Brindisi da parte del tecnico a causa di «incomprensioni» con il municipio - e l'assessore Luperti - per l'inserimento di qualche «retino» di fascia edificabile a ridosso della costa. Tradotto, un milione di metri quadrati in più – gigantesca edificazione non condivisa dal professionista - la stessa espansione decisa da Milano che ha 1 milione e 300mila abitanti, cioè 13 volte la popolazione brindisina (90mila). Per Luperti, quella di Goggi è una «interpretazione» che non corrisponde ad alcuna volontà di cementificare. Ma quei «retini» direbbero altro. Alla fine, è stato individuato un altro tecnico – incarico diretto di 39.900 euro, sotto la soglia - che in 6 mesi dovrà (o dovrebbe) consegnare il Pug. Ma tra un botta e risposta tra l'approdo della Tap (Emiliano lo vorrebbe spostare a Brindisi, Consales la avversa) e Ryanair (il primo cittadino sta sollevando un fronte contro il Governatore sul caso del vettore irlanese che ha basi a Bari e Brindisi mentre monta l’indagine giudiziaria), il vero bubbone è esploso per la monnezza, altro tema finito sotto i riflettori della magistratura. Due i fronti caldi: il servizio di nettezza urbana e la gestione della discarica di Autigno (finita sotto sequestro) e dell'impianto di biostabilizzazione e cdr. Un caos totale di contestazioni, risarcimenti e comuni inferociti per l'aumento della Tari per cui è stato necessario «rimuovere» di fatto Consales dalla regìa dei rifiuti nell'ambito brindisino affidando tutto a un commissario che dovrà gestire un appalto da 230 milioni. Un problema che affonda le radici nel passato quando, nel 2010, lo scomparso sindaco Mennitti si ritrovò a fronteggiare picchettaggi, minacce, attentati, tutti orbitanti attorno al servizio di raccolta dei rifiuti. Basti pensare che, poco più di un anno fa, 29 persone sono state condannate dal tribunale penale brindisino per le occupazioni di marzo del 2011 che impedirono ai camion della nettezza urbana di uscire dal capannone. Il motivo della protesta? Le assunzioni nell’azienda dei rifiuti. Per non parlare di infiltrazioni della mala nelle società che hanno a che fare con il Comune. Nel cono d’ombra di alcune indagini, vi è la Multiservizi, società comunale in cui lavorano 140 persone, la stessa forza lavoro della società gemella del Comune di Bari che è quattro volte Brindisi. Eppure, la Multiservizi è stata recentemente destinataria di iniezioni di capitali per nuovi servizi (i cittadini giudicheranno). Per i rifiuti, Consales, dopo aver revocato la gara alla Monteco (l’azienda che fino a quel momento aveva gestito il servizio) indisse una gara di sei mesi che impegnava le imprese a importanti investimenti: parteciparono diverse ditte perchè tutti sapevano che quei sei mesi si sarebbero moltiplicati, come effettivamente è accaduto. La prima classificata, la Aimeri, si ritrovò fuori per motivi «organizzativi» cedendo il passo alla barese Ecologica pugliese. Il cambio di gestione si rivelò un problema – con l'aumento spaventoso della Tari per i brindisini - anche a causa di problemi con la gestione dell'altro nervo scoperto dei rifiuti brindisini: la discarica e l'impianto di biostabilizzazione e cdr. E qui va aperto un altro capitolo. L’impianto di cdr, costato 23 miliardi di vecchie lire, collaudato nel 2004 (oltre a qualche milione di adeguamenti negli anni successivi), non hai mai fatto in fondo il suo dovere perché ha lavorato a scartamento ridotto proprio per la (scarsa) quantità di rifiuti trattati che invece finivano tutti in discarica. Al momento del suo insediamento, Consales affidò la gestione della discarica e dell’impianto di biostabilizzazione, alla ditta Nubile di S. Pietro Vernotico, di Luca Screti, vincitrice di una gara poliennale bandita dal commissario prefettizio insediatosi dopo la morte di Mennitti. L'affidamento diretto servì a evitare una fase di stallo dovuta a obblighi contrattuali che avrebbe dovuto impegnare l'impresa vincitrice per mettere l’impianto a regime e svuotarlo. Della serie, iniziate a lavorare fino a quando non terminate le opere necessarie previste. Ma l'idillio si è subito infranto sulle carte bollate e sulle minacce di risarcimento. Infatti, a partire da ottobre del 2014, il Comune di Brindisi – che è capofila dell'Oga (l'organo di governo d'ambito del ciclo rifiuti) – ha contestato alla Nubile diversi inadempimenti minacciando la rescissione del contratto. Cosa mai accaduta, fino a quando – due mesi fa – il Governatore Emiliano è intervenuto a gamba tesa commissariando l'Oga e, di fatto, mandando a casa la Nubile (la rescissione l'ha dovuta fare il Comune di Brindisi) cui dovrà subentrare nei prossimi giorni l'Amiu Puglia di Bari. L'azienda municipalizzata barese, prima di fare quello che finora non è stato fatto, dovrà svuotare l'impianto di circa 2mila tonnellate di rifiuti: di queste, 1200 sono di cosiddetto tal quale (indifferenziato) che non può essere più trattato quindi è destinato a finire in discarica; stessa sorte toccherà alle altre 800 tonnellate di biostabilizzato che è già nelle celle. Per farla breve, l'Amiu – per superare le criticità sollevate da Asl, Arpa e Vigili del fuoco – dovrà sostenere opere urgenti quantificate in circa 900mila euro. Mettete insieme tutto questo e ne viene fuori un quadro a dir poco esplosivo su Brindisi che mette in imbarazzo il Pd e lo stesso Emiliano che per molto meno – vedi il caso Liviano – ha messo alla porta un assessore fresco di nomina. Cosa farà il Governatore-segretario-magistrato che ha fatto della legalità il suo cavallo di battaglia? Per ora sta alla finestra.
«Mia sorella Palmina, arsa viva. Cerco la verità 35 anni dopo». La battaglia di Mina Martinelli per riaprire il caso della 14enne uccisa in Puglia: Considero i nostri genitori i primi responsabili, anche se non penalmente. Mamma soprattutto. Poi vengono gli assassini», scrive Goffredo Buccini il 23 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”. I bambini infelici hanno poche foto. «Palmina ne aveva solo una, eccola», dice Mina che, pur maggiore, accanto alla sorella sembrava più piccola: «Era il compleanno di nostra madre. Qui Palmina lava i piatti, ha il vestito bagnato. Dieci giorni prima che la bruciassero». Giacomina Martinelli, «Mina», stipa nelle scatole dei ricordi un dolore vecchio quasi 35 anni che però ancora deborda, talvolta, popolandole d’incubi le nottate. Ha ritagliato tutti gli articoli sulla morte di Palmina, dal primo, una «ultim’ora», come si usava nei giornali a sera tarda, a quelli di adesso che il caso è, per merito suo, riaperto. Sul primo foglio ha aggiunto quella data maledetta, 11 novembre 1981, e due righe in stampatello: mia sorella viene data fuoco/ i miei sospetti sono i miei genitori… «Le ho scritte allora». Fuma tanto, s’emoziona un po’: «Considero loro i primi responsabili, non penalmente, ovvio. Mia madre soprattutto. Poi vengono gli assassini. Perché se ‘sta gente non entrava in casa, non sarebbe successo nulla. A mia madre piaceva il lusso, ma eravamo poverissimi, me e Palmina ci hanno tenute anni e anni in orfanotrofio. Mi sono sempre domandata: ma i soldi da dove vengono? Mamma è morta, e certe notti le chiedo perdono per i sospetti che ho. Ma tra zii, cugini e parenti qualcuno sa, e adesso parli!». Bisogna andarci cauti — anche negli incubi — con chi non può più difendersi. Capire il contesto. Undici figli, papà Mario disoccupato e sottomesso, mamma Madia domestica col vizio di bere troppo, questi erano i Martinelli quando tornarono sconfitti a Fasano, in Puglia, dopo gli anni da emigranti a Torino. Come accade a volte quando il familismo amorale si coniuga a una miseria che acceca, quasi nulla è ciò che appare nella storia di Palmina, arsa viva a 14 anni. A cominciare dagli imputati per il suo omicidio, due ragazzi del vicino paese di Locorotondo, fratelli per parte di madre, invischiati anche in giri di prostituzione: scagionati dalla Cassazione nel 1988, e dunque innocenti, definitivamente. Palmina, nei venti giorni di agonia in ospedale, ai medici che cercano invano di salvarla e al giovane pm Nicola Magrone, ne fa addirittura i nomi: «Enrico e Giovanni». Ne descrive l’opera crudele sul suo corpo: con «alcol e fiammifero». Bruciata per punizione, nel bagno di casa sua, perché non voleva prostituirsi anche lei come Franca, una delle sorelle maggiori, cui avevano persino tatuato il nome del «padrone» sulla carne. La voce della piccola, che Magrone incide nel magnetofono, un soffio roco che le sale dai polmoni devastati dal fuoco, è un atto d’accusa che risuonerà per anni: la vittima in punto di morte indica i carnefici, prova regina. Invece no. Perché per i giudici d’assise e d’appello neppure l’omicidio è certo: forse Palmina ha calunniato quei due che le bazzicavano per casa (Giovanni Costantini s’atteggiava a suo fidanzato, Enrico Bernardi era il convivente di sua sorella Franca) e si è data fuoco da sola, scrivono, come fosse un capriccio; lo dimostrerebbe una lettera alla madre che lascia sul tavolo della cucina: addio per sempre. Ritirata da scuola in quarta elementare, sguattera in famiglia, presto forse schiava: la morte poteva apparirle una liberazione, chissà. Mina, che adesso vive con marito e figli a Napoli, ha altre certezze: «Aveva un anno meno di me ma sembrava più grande, più saggia. Fossi rimasta lì, avrei fatto la sua stessa fine». Già, la casa popolare dei Martinelli poteva apparire terra di conquista; di soldi per comprarsi figlie di famiglie povere a Fasano si mormorava da tempo, e persino di cifre, cinque milioni d’allora per una ragazzina. Prove, però, zero. Mina comunque si salva perché la mandano a servizio a Bari, «da una signora che mi ha fatto da vera mamma». Lì, alla radio, sente la notizia di una adolescente di Fasano bruciata... Questa è una storia di ombre, omissioni. Palmina viene trovata piangente e ustionata dal fratello grande, Antonio, che non chiama l’ambulanza. Decide di portarla in ospedale con la sua macchina ma siccome è senza benzina va a piedi con una tanica al distributore lasciando lei sola a casa: ci mette quaranta minuti. Nessuno spiegherà mai perché. «Ho sempre voluto giustizia», dice Mina: «Io penso che la Cassazione ha sbagliato con quei due, ma comunque devo sapere se ci sono complici, dentro o fuori la famiglia. Voglio arrivare alla Corte europea. Solo mia sorella Carmela m’è sempre stata accanto. Accusavo mia madre: non hai fatto niente per Palmina. Lei rispondeva: lascia stare le cose come stanno. Mio padre era succube, non contava. Ora sono morti, ci sono io. E ho dentro tanta rabbia». A volte la rabbia trova la sua strada per caso. Quando il figlio maggiore, Cristiano, va a lavorare in Inghilterra, Mina si decide a «imparare il computer» per scrivergli. Scopre le mail. E ne manda un paio anche alla sua trasmissione preferita, «Chi l’ha visto?». Quelli la richiamano, il silenzio di tanti anni si rompe. Mina trova un avvocato leccese, Stefano Chiriatti, che si muove, «non voglio stare in un Paese dove a una bambina succedono cose così». Una nuova perizia stabilisce che Palmina s’è coperta gli occhi al momento della fiammata, dunque non può essersi data fuoco da sola. Un test sulla calligrafia del biglietto d’addio mostra che le parole «per sempre» sono aggiunte e ritoccate da una mano non sua, forse Palmina stava solo preparandosi alla fuga. Non si parla più di suicidio, Brindisi riapre il caso. Archivia di nuovo, sì, ma il 30 marzo la Cassazione sposta il fascicolo a Bari ordinando alla procura di ricominciare daccapo. Per omicidio, contro ignoti. Vengono risentiti anche Giovanni ed Enrico, stavolta come testi: non si può essere imputati due volte per lo stesso reato. «Credo nell’aldilà. Palmina mi aiuta», dice Mina: «Quando dovevo andare in Puglia per la nuova indagine, beh, mi ha fatto vincere i soldi al Superenalotto. Non di più, che non mi servivano: giusto quelli del viaggio». Nelle sue notti affollate di demoni, comincia a far capolino qualche angelo, più saggio e grande dell’età che ha.
Brindisi, ragazzina arsa viva: dopo 35 anni la sorella fa riaprire il caso. Palmina Martinelli, morta a Fasano a 14 anni. Perizia con immagini computerizzate dimostra che non si trattò di suicidio: la Cassazione ordina un nuovo processo, scrive Sonia Gioia il 3 aprile 2016 su "La Repubblica". La morte di Palmina Martinelli non si archivia. Con sentenza depositata il 30 marzo la prima sezione della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della sorella maggiore della 14enne di Fasano bruciata viva l’11 novembre del 1981, che prima di morire fece i nomi degli aguzzini che volevano costringerla a prostituirsi. Sebbene tutti gli imputati siano stati assolti in via definitiva, Giacomina Martinelli ha chiesto la riapertura del fascicolo, sulla scorta di una perizia dell’anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino consegnata nelle mani del procuratore capo di Brindisi, Marco Dinapoli. Il perito, in base a recenti tecniche di analisi di immagine computerizzata sulle ustioni della ragazzina, sostiene che "il volto di Palmina era protetto con entrambe le mani prima dello sviluppo della vampata e quindi dell’innesco dell’incendio. L’incendio fu quindi provocato da altri". Impostazione condivisa dalla Procura che ha disposto anche un accertamento grafologico su un biglietto lasciato dalla 14enne, dimostrando che furono almeno due le persone a scrivere. Il gip chiamato a giudicare le due perizie ha disposto l’archiviazione del caso, rigettata dalla Suprema corte che ha invece disposto la trasmissione degli atti al procuratore di Bari, per la nuova inchiesta. Una speranza di ottenere giustizia per la sorella di Palmina, che al suicidio non ha mai creduto, come non ci ha mai creduto il pm Nicola Magrone che indagò.
La Cassazione riapre il caso «Palmina». La ragazza sarebbe stata uccisa 35 anni fa perchè aveva rifiutato di entrare in un giro di prostituzione gestito dai fratellastri, scrive Mimmo Mongelli su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 3 aprile 2016. Tragica morte di Palmina Martinelli, la 14enne fasanese che morì arsa viva: la Corte di Cassazione ha riaperto, a distanza di 35 anni dalla tragedia che all’epoca impressionò l’Italia intera, il caso. Con sentenza del 30 marzo scorso, i giudici della prima sezione della Suprema corte hanno annullato l’ordinanza con cui, il 28 aprile 2015, il gip del Tribunale di Brindisi ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte “a causa delle ustioni riportate nel suo abbruciamento” della 14enne Palmina Martinelli. La suprema Corte ha accolto il ricorso della sorella Giacomina, che in questa battaglia è assistita, sin dall’inizio, dall’avvocato Stefano Chiriatti. La sentenza dispone la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, competente per la nuova inchiesta. Alla luce della decisione degli Ermellini, la magistratura inquirente tornerà, dopo sette lustri, ad occuparsi di quello che accadde a Palmina Martinelli. D’altronde, che si sia trattato di un brutale omicidio e non di un suicidio è la convinzione della Procura della Repubblica di Brindisi, ma al contempo i magistrati inquirenti hanno ritenuto che ciò non basti per poter formulare una richiesta di rinvio a giudizio. Nel marzo dell’anno scorso si è celebrata dinanzi al gip del Tribunale di Brindisi l’udienza per discutere l’opposizione all’archiviazione sull’inchiesta bis sulla morte della 14enne fasanese. La Procura di Brindisi sostiene la tesi secondo cui “è ragionevole ritenere che si trattò di un omicidio”, ma il procuratore capo Marco Dinapoli e il pm Iolanda Daniela Chimienti hanno ritenuto che ciò non basti per poter formulare una richiesta di rinvio a giudizio.
Gli indizi di reato emersi, in merito al presunto delitto, sono infatti riferibili – secondo i pm – a persone già giudicate e assolte dalla Cassazione e quindi non più processabili. Prevalse all’epoca la teoria secondo cui la 14enne si tolse la vita dandosi fuoco, nonostante lei stessa, in punto di morte, avesse dato indicazioni su coloro che le avevano dato fuoco. Il caso è stato riaperto su denuncia contro ignoti formulata nell’ottobre 2012 dalla sorella di Palmina, Giacomina Martinelli, assistita dall’avv. Stefano Chiriatti che ha allegato alla querela una perizia dell’anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino, il quale ha utilizzato recenti tecniche di analisi di immagine computerizzata sulle ustioni di Palmina. “Il volto di Palmina era protetto – scrive tra l’altro Pesce Delfino – con entrambe le mani prima dello sviluppo della vampata e quindi dell’innesco dell’incendio. L’incendio fu quindi provocato da altri”, impostazione questa condivisa dalla procura che ha anche fatto inoltre eseguire un accertamento grafologico su un biglietto lasciato da Palmina da cui emerge che furono almeno due le persone a scrivere. Secondo quanto sempre affermato dall’accusa, originariamente sostenuta dal pm Nicola Magrone che si è poi a lungo battuto perchè la verità venisse accertata, Palmina sarebbe stata uccisa perchè aveva rifiutato di entrare in un giro di prostituzione gestito dai fratellastri.
Palmina Martinelli caso riaperto: bruciata viva 35 anni fa, scrive il 3 aprile 2016 la Redazione di "Blitz Quotidiano". Palmina Martinelli caso riaperto: bruciata viva 35 anni fa. Un nuovo tassello alla narrazione processuale della lunga e tribolata vicenda di Palmina Martinelli era già stato posto dalla Procura di Brindisi che nel 2012 aveva avviato nuove indagini e tre anni dopo aveva concluso che fosse “ragionevole” ritenere che la quattordicenne, arsa viva dal fuoco nel 1981 a Fasano (Brindisi), fosse stata uccisa e non si fosse suicidata. Ora è la Corte di Cassazione a riaprire uno spiraglio, accogliendo una questione di competenza territoriale sollevata da Stefano Chiriatti, l’avvocato che assiste Giacomina, la sorella della ragazzina che sarebbe stata assassinata perché non voleva prostituirsi. Gli ermellini hanno annullato senza rinvio il decreto di archiviazione del Tribunale di Brindisi e trasmesso gli atti ai pm di Bari perché si scavi ancora: secondo il vecchio Codice Penale in vigore fino al 1989, infatti, la competenza veniva stabilita sulla base del luogo della morte e non del posto in cui era stato compiuto il reato. Il cuore di Palmina cessò di battere al Policlinico del capoluogo pugliese. Tutto il lavoro già compiuto dai pm brindisini che hanno chiesto l’archiviazione sul principio del “ne bis in idem” (mai imputati due volte per lo stesso fatto) confluirà in un nuovo fascicolo. Resta comunque un dato insuperabile: nel 1989 la Cassazione con una sentenza che riconosceva l’insussistenza del fatto confermò i verdetti di assoluzione dei due imputati che in primo e secondo grado erano stati emessi con formula dubitativa. I due non potranno mai più essere giudicati per il delitto. Solo eventuali complici potranno essere mandati a processo. Nel frattempo c’è comunque chi non si è mai arreso. Tra questi, oltre a Giacomina, Nicola Magrone, il pm che all’epoca dei fatti indagò sulla vicenda, sostenne l’accusa e che oggi è sindaco di Modugno (Bari), cittadina che sta per intitolare una piazza all’adolescente coraggiosa che in punto di morte fece i nomi dei suoi presunti assassini. “Entrano Giovanni ed Enrico e mi fanno scrivere che mi ero litigata con mia cognata. Poi mi chiudono nel bagno, mi tappano gli occhi, mi mettono lo spirito e mi infiammano”, disse la ragazzina a Magrone dal suo letto d’ospedale. “Sono ancora fiducioso che Palmina ottenga giustizia. E’ una battaglia di civiltà”, spiega Magrone. Nel 2012 il nuovo esposto della sorella, la consulenza medico legale e la perizia grafologica che accertarono che Palmina si coprì gli occhi con entrambe le mani mentre qualcuno appiccava il fuoco: non volle guardare, ma soprattutto non poté fare tutto da sola. Poi il contenuto del biglietto d’addio ai famigliari, i riscontri sulle due grafie, la “prova” di una manipolazione.
….DI TARANTO. I nostri turisti? Profughi e lamentosi. Il Salento risponde con: “Vaffanculo”. Arrivano in massa, senza soldi e con la litania lamentosa e diffamatoria: perché qua è diverso? La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…
Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre, i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì, semplicemente, come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare.
Turismo e risorse ambientali.
“Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”
19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".
Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.
Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».
Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...
Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.
I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.
L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».
Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».
Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».
La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd - nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».
Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”
Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. "Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia", ha commentato un internauta, "Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai", ha ribattuto un altro.
Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.
Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.
Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Aste giudiziarie truccate. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.
Buccarella, Airola, Taverna, Donno, Bertorotta, Puglia, Cappelletti, Serra, Giarrusso, Paglini, Santangelo, Bottici -
Al Ministro della giustizia. - Premesso che:
si apprende da un articolo apparso su "TarantoBuonaSera", del 13 luglio 2016, che a Taranto ci sarebbero quasi 750 case all'asta, con altrettante famiglie destinate a perdere la propria casa, che nella maggior parte dei casi è proprio quella di abitazione;
la crisi che ha colpito il Paese sta incrementando il fenomeno delle aste immobiliari, soprattutto conseguenti all'impossibilità, da parte dei cittadini, di onorare i mutui contratti (senza sottacere delle tante abusive concessioni di finanziamento, da parte degli istituti bancari, che vanno ad aggravare situazioni fortemente compromesse dalla recessione);
purtroppo, non mancano anche conseguenze estreme, come i suicidi ed anche gli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari, ad opera di persone ritenute perbene e tranquille, ma che, nella morsa della crisi, non ravvisando vie di soluzione (nemmeno in conseguenza di azioni giudiziarie, che spesso non risultano loro favorevoli), compiono tali deprecabili atti, e i numeri depongono per un vero olocausto di italiani;
dall'Osservatorio suicidi per la crisi economica, gli interroganti hanno rilevato che negli ultimi 4 anni, ovvero tra il 2012 e il 2015, si sono verificati 628 suicidi, in media uno ogni 2 giorni. Ecco alcuni casi, verificatisi solo negli ultimi 12 mesi, balzati agli onori delle cronache: l'omicidio-suicidio di Boretto: agosto 2016, Albina Vecchi, 71 anni, uccide il marito Massimo Pecchini, 77 anni, e poi si uccide perché la loro casa è andata all'asta; 30 maggio 2016, Stefano, pescatore genovese di 55 anni tenta il suicidio perché senza lavoro da mesi, da quando gli era stata sequestrata l'imbarcazione con la quale usciva in mare, e, sfrattato dalla sua abitazione, era costretto ad occupare abusivamente un alloggio del Comune; marzo 2016, Sisinnio Machis, imprenditore di 58 anni, si è suicidato a Villacidro dopo il pignoramento della propria casa; gennaio 2016, Maurizio Palmerini, cinquantenne di Vaiano, frazione di Castiglione del Lago (Perugia), ha ucciso i suoi figli, Hubert di 13 e Giulia di 8 anni, a coltellate e ferito la moglie, poi si è tolto la vita; gennaio 2016, dopo il suicidio del signor Guarascio per aver subito lo sfratto, i deputati dell'Assemblea regionale sciliana del Movimento 5 Stelle comprano la casa andata all'asta e la restituiscono alla sua famiglia; dicembre 2015, un imprenditore si impicca a Lodi perché la sua casa viene messa all'asta;
risulta, inoltre, agli interroganti che presso il tribunale di Taranto, al quarto piano dedicato alle aste immobiliari, si sarebbero imposte prassi non del tutto conformi alla legge (come quella di vendere i beni pignorati anche al "prezzo vile", favorendo gli "avvoltoi" di turno e, verosimilmente, la stessa criminalità) a cui si aggiunge la tendenza a prestare maggiore attenzione alla prosecuzione delle esecuzioni immobiliari, piuttosto che alla tutela ed alle garanzie dei soggetti esecutati o falliti;
sempre presso il tribunale di Taranto, sarebbero diversi i cittadini ad aver lamentato abusi e violazioni di legge da parte dei magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento dei loro diritti;
di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;
la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;
tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;
considerato che a quanto risulta agli interroganti:
la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;
la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito;
consta agli interroganti che anche il signor Vitantonio Bello abbia lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. Nel caso di Bello l'asta immobiliare ha ad oggetto la casa ove vive con moglie e due figli minori (di anni 5 ed uno), a tal punto il signor Bello avrebbe anche interessato della sua vicenda la Presidenza della Repubblica e quest'ultima, di rimando, la Prefettura di Taranto;
sempre nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito;
altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);
ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);
la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;
considerato, inoltre, che:
la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;
la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);
ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);
considerato infine che:
i fatti lamentati, per quanto gravi, non sono isolati. Gli interroganti hanno preso atto anche di un'intervista fatta dalla televisione locale "Studio 100" a varie persone esecutate, che avrebbero descritto il quadro inquietante e ricorrente al quarto piano del tribunale di Taranto, destinato appunto alle esecuzioni e ai fallimenti: si racconterebbe di prassi illegali che, pur denunciate, non vengono sanzionate, di "avvoltoi" che si avvicinano agli esecutati, estorcendo denaro per rinunciare all'acquisto, per poi acquistare all'udienza di vendita successiva, con ulteriore ribasso del prezzo e aggravio di danno per le povere vittime;
a giudizio degli interroganti la delicatezza dell'argomento, sia per le gravose conseguenze sulle persone, che per i dubbi di opinabile esercizio della funzione giurisdizionale, impone interventi urgenti e forti,
si chiede di sapere:
se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti correttivi a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;
se, nell'ambito delle attività ispettive, il Ministro in indirizzo non ritenga di dover verificare: la sussistenza delle condotte descritte, con particolare riguardo ai rapporti con le banche e le società di recupero crediti, ai fini dell'eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori da parte delle autorità competenti; se corrisponda al vero che, presso il tribunale di Taranto, si celebrano aggiudicazioni di immobili anche al di sotto della metà del loro valore, e comunque in violazione delle norme di legge;
se esista un obbligo di turnazione dei magistrati nelle sezioni di esecuzione immobiliare e fallimentare e, in caso positivo, se lo stesso venga rispettato presso il tribunale di Taranto e se il medesimo obbligo sussista rispetto ai consulenti e ausiliari vari.
Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719.
BUCCARELLA , AIROLA , DONNO , LEZZI , PETROCELLI , SANTANGELO , GIARRUSSO , FUCKSIA , CASTALDI , TAVERNA , PUGLIA , CAPPELLETTI , MANGILI , BLUNDO , BOTTICI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:
tramite l'atto di sindacato ispettivo 4-06370 (pubblicato il 21 settembre 2016), il primo firmatario della presente interrogazione segnalava le criticità occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale jonico, ed anche la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini, e chiedeva al Ministro in indirizzo di disporre ispezione presso i Tribunali di Taranto e Potenza al fine di verificare la fondatezza dei fatti indicati. L'interrogazione inoltre enumerava molteplici suicidi-omicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta agli italiani la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme di morte; inoltre, nell'atto sono contenute indicazioni, per difetto, dei casi occorsi a quella data;
dal mese di settembre 2016 ad oggi, altri casi di suicidi-omicidi si sono purtroppo verificati, imponendo la necessità di un intervento immediato e drasticamente risolutorio;
considerato che:
risulta agli interroganti che il 23 settembre 2016, il signor Angelo Salvatore Delli Santi avrebbe depositato presso la Questura di Taranto una denuncia penale (inviata per conoscenza anche al Ministro) in cui, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati, sistema da lui addirittura definito come "criminale, consolidato stabile ed efficace". Inoltre, nell'esposto, il signor Delli Santi avrebbe lamentato fortemente l'esistenza di una rete di collegamenti tra i Tribunali di Taranto e di Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindaco ispettivo 4-06370;
la gravità dei fatti è stata evidenziata in un articolo pubblicato in data 4 novembre 2016 dalla redazione on line di "Basilicata24" che, descrivendo il "sistema" illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto il video di una conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricava che il citato ausiliario del magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo, con il magistrato stesso, presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;
a parere degli interroganti, i fatti descritti dal citato articolo e dalla conversazione registrata sono molto gravi sia sotto il profilo delle eventuali responsabilità dei magistrati interessati che sotto quello delle conseguenze, anche estreme, ricadenti sull'utenza e sulla collettività, determinando umiliazione ed affievolimento delle garanzie democratiche, che rischiano di essere annullate da una giustizia negata e mercificata;
considerato inoltre che:
i fatti descritti nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370, relativi alle questioni occorse ai signori Montemurro, Bello e Spera, contengono dettagliate indicazioni di casi in cui, a detta degli stessi, si sarebbero evidenziate forzature nelle maglie del diritto, sostanziale e processuale, con evidente vulnus della giustizia;
risulta agli interroganti che tali episodi non sarebbero isolati e di ciò il signor Delli Santi, nel suo esposto del 23 settembre 2016, fornisce un'indicazione analitica, elencando casi di sua conoscenza, in cui si sarebbero verificate evidenti e macroscopiche violazioni di legge;
a parere degli interroganti, si pone come improrogabile la necessità di verificare i fatti, non potendo accettare che i cittadini vivano con la convinzione dell'esistenza di dubbi meccanismi nell'applicazione del diritto e, indi, nel funzionamento del "sistema giustizia" di Taranto;
risulta agli interroganti che numerosi media stiano affrontando le problematiche emerse, soprattutto alla luce del video pubblicato da "Basilicata24";
a parere degli interroganti si ricava che vi sia sfiducia nella giustizia, anche dal fatto che la citata signora Spera, i cui fatti sono dettagliatamente indicati nell'atto di sindacato ispettivo citato, ha espresso il timore di non ottenere tutela nemmeno nelle questioni ancora pendenti, a causa di quello che ha definito come "andazzo allegro" dei magistrati tarantini;
risulta agli interroganti che la signora Spera riferirebbe essere pendente una sua questione in grado di appello relativamente all'ipoteca che grava i suoi beni da oltre 13 anni, nonostante ella ritenga di aver versato addirittura più somme di quelle eventualmente di debenza e nonostante l'usura subita e non sanzionata (causa n. 536/2014 R.G. Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto);
considerato altresì che risulta anche agli interroganti che sia stata già disposta, e programmata nel mese di gennaio 2017, un'ispezione presso il Tribunale e la Procura di Taranto, che verterebbe su alcune delle problematiche afferenti alla gestione delle procedure presso le sezioni di esecuzione immobiliare e fallimenti;
considerato infine che a giudizio degli interroganti tali critiche situazioni impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso tutti gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, nonché quelle indicate nell'atto di sindacato ispettivo citato, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto, e presso il Tribunale e la Procura di Potenza,
si chiede di sapere:
se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;
se l'ispezione programmata per gennaio 2017 riguardi i fatti e fascicoli relativi i signori Spera, Bello, Montemurro e Delli Santi, ovvero se non si intenda estenderla anche a tali situazioni.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice. Quella conversazione risale al febbraio del 2014, ma i fatti cui si fa riferimento sono tuttora oggetto di contenzioso. L’imprenditore, due anni prima avrebbe subito due aggressioni o più precisamente, come egli dice: “Hanno tentato di uccidermi”. Fatto sta che in una delle due aggressioni il signor Tonino ha perso la vista all’occhio destro. Nella conversazione che pubblichiamo, emergerebbe un tentativo di concussione da parte del curatore il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni fallimentari. L’imprenditore, per non avere più fastidi, e chiudere la faccenda, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. Chiudiamo questa parentesi e andiamo a capire che cosa succede nei tribunali di Taranto e di Potenza. Che c’entra Potenza? Ce lo spiegano le vittime: “Il tribunale del capoluogo lucano sembra essere il terminal oscuro di molte denunce contro i magistrati tarantini. L’ultima fermata delle speranze di giustizia. Il luogo dove il cerchio si chiude a danno di poveri cittadini sottoposti a procedure fallimentari o esecuzioni immobiliari.”.
La punta dell’iceberg e le minacce di suicidio. A quanto pare i cittadini che, dopo aver subito per anni, vessazioni, umiliazioni e ingiustizie, hanno alzato la voce non sono molti. Rappresentano, però, la punta di un iceberg molto vasto. A Taranto ci sarebbero quasi 750 case all’asta, con centinaia di famiglie destinate a finire sulla strada. Non solo case. Molte aziende agricole sono finite nelle maglie delle procedure fallimentari e molte altre rischiano di fare la stessa fine. Sono gli stessi imprenditori agricoli a lanciare l’allarme e denunciano “il comportamento dell’autorità giudiziaria che vende i beni all’asta a faccendieri di mestiere svalutandone il prezzo che non copre il totale dei debiti dell’esecutato che continua a rimanere indebitato e privato dei propri beni; contestano il comportamento dell’autorità giudiziaria che non consente all’esecutato un riscatto di posizione anche quando, rilevato il comportamento usuraio della banca, procede imperterrita nella vendita del bene…” Insomma, l’unica preoccupazione dei giudici tarantini sembra essere quella di vendere, vendere, vendere, a tutti i costi. Perché? A chi? Lo vedremo. Fatto sta che mentre scriviamo, da Taranto ci segnalano che un imprenditore agricolo minaccia di darsi fuoco, perché la sua azienda, il cui valore, “sottostimato”, è di 600mila euro, è stata venduta all’asta ad un prezzo di circa 150mila euro.
“E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00!” Questa è la risposta che il giudice delle esecuzioni avrebbe dato alla signora Giovanna Montemurro, o meglio alla figlia di lei: … “Al che mia figlia gli evidenziava che in base all’ultima ordinanza di vendita, da lui (il giudice Martino Casavola) firmata, il valore del bene si era di molto abbassato, scendendo al di sotto della metà, con la conseguenza che pur vendendo la nostra casa, nemmeno i debiti si sarebbero coperti (debiti che nel frattempo erano fortemente lievitati); (…). Mi risulta che, a quel punto, il magistrato rispondeva così: “E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00”. Eppure, scrive la signora Montemurro nel suo esposto, non si poteva procedere all’asta perché il prezzo fissato come base, pari a euro 49.800,00, era inferiore al limite minimo di legge, ossia il limite della metà del valore del bene espropriando, così come determinato dallo stesso Tribunale. In questo caso il prezzo stabilito è pari a euro 118.000,00, per cui la metà sarebbe stata al massimo euro 59.000,00. Quindi non si poteva procedere all’asta poiché il prezzo base non avrebbe potuto consentire un ragionevole soddisfacimento delle ragioni dei creditori, anche tenuto conto dei costi della procedura esecutiva. Purtroppo il giudice dell’esecuzione – scrive la signora Montemurro - ha venduto la nostra casa all’asta durante l’udienza del 26 maggio 2016, con un tempismo sospetto.
“…l’asta va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi”. La signora Montemurro ha presentato ricorso con richiesta di tutela cautelare, alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato avrebbe ricevuto il fascicolo il 25 maggio e lo stesso giorno il giudice Andrea Paiano ha rigettato la richiesta. Il giorno successivo, il 26 maggio, ha provveduto all’aggiudicazione, in maniera se non illegittima quanto meno poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di un immobile adibito ad abitazione occupata da due anziani quasi ottantenni. Non c’è da meravigliarsi. E’ ancora la signora Montemurro a parlare: Messo di fronte al rischio che io e mio marito, ormai anziani, finissimo in mezzo alla strada, anche alla luce del diritto comunitario, così come applicato dalla Corte di Giustizia, secondo cui l’abitazione di residenza deve essere tutelata, il giudice (in questo caso Martino Casavola) si limitava a precisare che dovevamo ringraziare per essere rimasti nella casa per trent’anni e che il fatto che la casa fosse abitata da due anziani a nulla rilevava e che l’asta andava comunque avanti, e va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi. Però! Chi compra la casa all’asta dei Montemurro? Lo chiediamo alla signora Giovanna. “A quanto mi risulta l’unico offerente per l’asta è stato un certo signor Di Napoli Pasquale. Di lui so soltanto che è imparentato, essendone verosimilmente il figlio, con il signor Di Napoli Giovanni, con precedenti per associazione per delinquere di stampo mafioso, e attualmente in carcere per l’episodio del triplice omicidio di Palagiano del 2014, ove fu ucciso anche un bambino di tre anni. Sembrerebbe che, prima dell’evento omicidiario e dell’arresto, il signor Giovanni Di Napoli lavorasse con il figlio Pasquale, nella ditta di quest’ultimo, in Massafra”. Da quanto abbiamo appreso segnaliamo la circostanza che Giovanni Di Napoli avrebbe legami con il clan mafioso dei Putignano di Palagiano.
Il clan mafioso e le aste pilotate. Pasquale Putignano, 67enne membro dell’omonimo clan il cui capo sarebbe il fratello Carmelo, detto “Minuccio”, venne arrestato il 5 aprile 2016 perché aveva chiesto soldi a un imprenditore agricolo per pilotare un asta. Il Putignano è stato nuovamente arrestato il 3 novembre 2016 per gli stessi fatti: estorsione e turbativa d’asta. Nel corso del tempo, i carabinieri hanno avuto modo di accertare nuove condotte delittuose, della stessa specie e con lo stesso "modus operandi", in danno di imprenditori agricoli dell'agro di Palagiano e Palagianello. Il 67enne, secondo quanto emerso dalle indagini, minacciava di pilotare l'aggiudicazione di beni sottoposti a vendita giudiziaria di alcuni imprenditori agricoli, sottoposti a procedure esecutive immobiliari ed intenzionati a riacquistarne la proprietà, millantando di poter allontanare ogni possibile concorrente. Il palagianese, per la "sua opera persuasiva" – dicono gli inquirenti- pretendeva dai malcapitati l'ingiusta consegna di una somma di denaro, quale compenso per il proprio intervento, facendosi promettere ulteriori somme di denaro in caso di favorevole esito delle aste giudiziarie, presso il Tribunale di Taranto.
“E’ in utile che continuate a pagare tanto il terreno sarà venduto... c'è già il compratore”. (Negli esposti archiviati che risalgono a sei anni fa) Così parla al telefono un funzionario della SGC, società delegata alla riscossione del credito vantato dalla Bnl nei confronti della signora Maria Spera. E ancora: “Non continuate a pagare altrimenti saranno tutti soldi gettati... se non pagate la penale il terreno sarà venduto il 29 novembre”. Il funzionario al telefono sa benissimo che la signora Spera non può e comunque non deve pagare alcuna penale. La vendita di quelle proprietà è stata pianificata da tempo. Un piatto succulento per chiunque. Un patrimonio che qualcuno vorrebbe comprare con quattro soldi. In questa vicenda, le violazioni di legge, gli abusi, e persino l’usura sono drammaticamente evidenti. La signora Spera lo spiega nel suo esposto: “la somma che ho preso a mutuo nel 1990, dalla Bnl, era pari a 500 milioni di lire corrispondenti a € 258.228,45; la somma che alla data della conversione del pignoramento ho reso (novembre 2007) è pari a €. 400.000,00; la BNL, secondo i conteggi depositati in giudizio all’udienza di conversione (29.11.2007), mi ha chiesto ancora €. 491.013,91 (oltre spese successive); la SGC, in virtù del decreto ingiuntivo 566/2003, che trae origine dallo stesso mutuo, consacra in un titolo definitivo e non più caducabile la somma di € 408.834,30 oltre interessi di mora dal 2003…; tutto ciò comporta, ulteriormente, che a fronte di un mutuo di circa € 258.000,00 oggi esistono titoli per ottenere coattivamente circa € 1.500.000,00. Insomma, la BNL e la SGC agiscono entrambe per l’intero credito rinveniente dal mutuo e non ognuna di esse per una parte dello stesso credito. E’ come dire: Caio deve 100 a Mevio, Mevio cede i 100 a Sempronio, Mevio e Sempronio agiscono entrambi congiuntamente… Caio non è più debitore di 100 ma di 200! Insomma, una illegittima duplicazione di titoli esecutivi. C’è già il compratore, chi sarebbe? Signora Spera, chi sarebbe il compratore? Le condotte di tutte le parti coinvolte in questa storia, oltre ad avermi danneggiata ingiustamente, erano oggettivamente finalizzate a favorire probabilmente il ricco imprenditore locale Antonio Albanese, notoriamente interessato ad acquistare il terreno di mia proprietà e generalmente avvezzo agli acquisti all’asta.
La banca concede un mutuo a chi evidentemente non può sostenerlo. Perché? Alla domanda risponde il signor Vitoantonio Bello, di Massafra: Forse perché sin dall’inizio hanno deciso di prendersi la mia casa. Nel caso di Bello l’asta immobiliare riguarda la casa dove vive con moglie e due figli minori, un anno e cinque anni di età. In questo caso la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l’esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il signor Bello e la banca, seppure l’istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro, e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso. In questo caso il giudice dell'esecuzione è Francesca Zanna.
La tela del ragno. I cittadini vessati sono convinti di essere finiti nelle maglie di un “sistema” che fa affari intorno alle aste. Avvocati, periti, magistrati, consulenti, funzionari di banche, faccendieri e malavitosi si coalizzerebbero per aggredire i patrimoni delle povere vittime, spesso inconsapevoli dell’esito, già deciso, delle loro vicende giudiziarie. Loro traccerebbero i percorsi giudiziari avvalendosi dei soliti periti che sottostimano il valore degli immobili, per raggiungere l’obiettivo della vendita a basso prezzo, ricavando percentuali sull’affare aggiudicato ai soliti compratori o ai loro prestanome. E se qualcuno dovesse, a valle del tracciato giudiziario, partecipare a un asta già assegnata a monte a Tizio, a quel qualcuno viene “amichevolmente” consigliato di ritirarsi dalla partita oppure gli viene offerto del denaro. Tutto avverrebbe, come scrive il signor Delli Santi nel suo esposto, nella certezza dell’impunità. “Tanto a Potenza archiviano”. “Il principio di rotazione dei consulenti sarebbe rispettato soltanto per molti, con pochi e marginali incarichi, ma non per alcuni, che si contano sulle dita di una mano, ai quali sarebbero affidati grossi incarichi in grande quantità. E’ il caso dei consulenti Paolo D’Amore e Valentina Valenti. Sarebbero tra i cinque consulenti che hanno collaborato costantemente con il giudice Martino Casavola. D’Amore in 7 anni avrebbe ricevuto 238 incarichi, 34 l’anno, quasi 3 al mese. Un’enormità. Scrive ancora nel suo esposto il signor Angelo Delli Santi: “Naturalmente, anche questa circostanza è stata denunciata al tribunale di Potenza e, manco a dirlo, anche questa volta Potenza ha ignorato.” Sembrerebbe che tra alcuni magistrati, consulenti, periti, avvocati ci siano legami parentali e amicali più o meno stretti.
L’estrema difesa dei cittadini: Chiedere aiuto al tribunale di Potenza. Le storie qui raccontate sono soltanto un frammento di una lunga narrazione che riguarderebbe molti altri casi. La narrazione di abusi, falsi ideologici, strafalcioni procedurali, usura e raggiri che hanno seminato e stanno seminando molte vittime. Sarebbero decine i cittadini che hanno denunciato i giudici, ma anche periti e custodi giudiziari tarantini, al tribunale competente di Potenza. Per ottenere cosa? Improbabili, eppure sorprendenti archiviazioni. Tra i casi più eclatanti quello della signora Spera finito, come altri, nelle mani del pm di Potenza Anna Gloria Piccininni. Spera denuncia il giudice delle esecuzioni di Taranto, Martino Casavola e il Ctu, Paolo D’Amore, per i reati di abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio, falsa perizia o interpretazione. La Procura di Potenza chiede l’archiviazione sulla base delle sole dichiarazioni del custode, avvocato Fabrizio Nastri che doveva essere indagato. Tutto a posto. La signora Spera fa opposizione alla richiesta di archiviazione. Opposizione accolta dall’allora giudice per le indagini preliminari Luigi Barrella che dispone ulteriori indagini. Piccininni chiede nuovamente l’archiviazione. La signora Spera fa opposizione alla seconda archiviazione. Il gip Michela Tiziana Petrocelli dispone l’archiviazione, ma dispone anche che il Nastri sia indagato. E così via, per tutte le denunce contro i magistrati, i consulenti tecnici, i curatori, i periti del tribunale di Taranto. Eppure le denunce presentate dai cittadini sembrerebbero molto circostanziate e ricche di dettagli. Chissà. Non a caso dodici senatori del Movimento Cinque Stelle, nel settembre scorso, hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere, tra l’altro, “se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza…”. Staremo a vedere. Di Giusi Cavallo, Michele Finizio.
Corruzione, a Taranto arrestata ufficiale della Marina: "Tangente per pilotare appalto". Francesca Mola, 31 anni, è accusata anche di turbativa d'asta. Il capitano è stato arrestato in flagranza mentre intascava 2.500 euro da un imprenditore per pilotare una gara d'appalto da oltre 11 milioni, scrive Vittorio Ricapito il 18 settembre 2016 su “La Repubblica”. Si allarga la nuova inchiesta sulla tangentopoli nella base di Maricommi della Marina militare italiana. Gli uomini della guardia di finanza hanno arrestato il tenente di vascello Francesca Mola, 31 anni, responsabile dell’ufficio contratti della direzione di Commissariato di Taranto con le accuse di concorso in corruzione e turbativa d’asta. La giovane ufficiale è ritenuta stretta collaboratrice del direttore di Maricommi, capitano di vascello Giovanni Di Guardo, arrestato il 15 settembre in flagranza mentre riceveva 2.500 euro in contanti dal suo presunto corruttore, l’imprenditore Vincenzo Pastore, sindaco di Roccaforzata (Ta) e presidente della cooperativa Teoma. Secondo l’accusa i due ufficiali avevano raggiunto un accordo con Pastore per pilotare una gara d’appalto da 11 milioni e 300mila euro in tre anni per le pulizie nelle basi della Marina militare di Taranto e Napoli. In cambio avrebbero ricevuto circa 200mila euro e auto di lusso. E' la prima donna militare arrestata per questo tipo di reati. Mola è stata arrestata nella sua abitazione di Crispiano (Ta) e portata in carcere su ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Valeria Ingenito. Secondo gli accertamenti delle fiamme gialle avrebbe ricevuto un anticipo sulla somma dell’accordo di circa 12.500 euro dal presunto corruttore. Nella sua ordinanza il gip definisce “quadro avvilente” lo scenario degli affari tra imprenditori e Marina a Taranto. Lo stesso magistrato alcune ore prima aveva convalidato l’arresto in carcere per Di Guardo, 56 anni e Pastore, 69 anni, così come chiesto dal sostituto procuratore Maurizio Carbone titolare anche della prima inchiesta sulle tangenti in Marina, che nel giro di due anni ha portato all’arresto di 9 ufficiali (7 finiti in carcere e 2 ai domiciliari) che ora rischiano il rinvio a giudizio per concussione. Da quanto trapelato nel corso degli interrogatori di convalida il capitano Di Guardo e l’imprenditore Pastore avrebbero fatto parziali ammissioni. Nei loro confronti ci sarebbero accuse ben circostanziate, fondate su intercettazioni e pedinamenti durati diversi mesi. I due sono stati arrestati mercoledì sera in un appartamento sfitto di proprietà di Pastore. A casa dell’ufficiale i baschi verdi hanno trovati altri 2.500 euro in banconote da 50, che ritengono parte della tangente pagata da Pastore per aggiudicarsi la commessa milionaria ma ci sarebbe un altro incontro di luglio, monitorato dai militari, durante il quale sarebbero stati consegnati circa 10mila euro. I tre indagati sono accusati di corruzione e turbativa d’asta. La base di Maricommi a Taranto è già stata teatro di clamorosi arresti in flagranza. La magistratura tarantina a marzo scorso ha chiuso le indagini sul così detto sistema “del dieci per cento”, un presunto giro di tangenti estorte agli imprenditori dell’appalto dai vertici della base. Undici gli imputati per concussione (l’udienza preliminare è il 25 novembre), dall’ex direttore della base, Fabrizio Germani, agli ex vice direttori Marco Boccadamo, Giuseppe Coroneo e Riccardo Di Donna. Stessa accusa per gli ex comandanti del 4° e 5° reparto, Roberto La Gioia, il primo ad essere arrestato a marzo 2014 dai carabinieri mentre intasca una tangente, Giovanni Cusmano, Alessandro Dore e Giovanni Caso. Secondo l'accusa chiedevano il dieci per cento fisso sull'importo di appalti per forniture di carburanti o servizi, minacciando di rallentare i pagamenti o escludere le aziende dal giro d’affari. Dopo lo scandalo degli arresti e delle tangenti imposte “in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, come fa la malavita organizzata”, così scrisse il magistrato che ordinò l’arresto degli ufficiali, la Marina militare è corsa ai ripari inviando a Taranto il capitano Di Guardo per fare pulizia nella base di Maricommi ma dopo qualche mese anche il nuovo direttore è stato pizzicato con le mani nel sacco. I computer del direttore e i documenti della gara d’appalto finita nel mirino delle fiamme gialle sono stati sequestrati. Gli investigatori ora passano al setaccio le precedenti gare d’appalto.
Caso Maricommi: le “amnesie” dello Stato Maggiore della Marina Militare. Per il Capo Stato Maggiore Girardelli, sulla corruzione Taranto, colpe sono personali. Soltanto? Crediamo di no, scrive Antonello de Gennaro il 17 settembre 2016 su "Il Corriere del Giorno". Secondo il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Valter Girardelli, parlando dell’arresto per corruzione del comandante di Maricommi “Non bisogna generalizzare, le attività di malaffare risalgono alla sfera individuale di ogni singolo componente e non devono essere allargate alle istituzioni”. Il riferimento è al provvedimento restrittivo nei confronti del capitano di vascello Giovanni Di Guardo, di 56 anni, accusato di aver ricevuto una ‘mazzetta’ di 2.500 euro dall’imprenditore 69enne Vincenzo Pastore (anch’egli arrestato), presidente della cooperativa Teoma nonché sindaco di Roccaforzata (Taranto), quale acconto per l’aggiudicazione di un appalto – non ancora assegnato – per 11 milioni di euro. L’ ammiraglio di squadra Girardelli ha partecipato ieri a Taranto alla cerimonia di cambio al vertice del Comando in capo della Squadra Navale (Cincnav) e del Comandante della Forza marittima europea (Euromarfor) tra l’ammiraglio di squadra Filippo Maria Foffi uscente e l’ammiraglio di squadra Donato Marzano subentrante. Incredibilmente Girardelli afferma: “La responsabilità è personale. Le istituzioni sono sane “. Che la responsabilità penale sia personale lo dice la Legge e certamente non c’era bisogno di scomodare lo Stato Maggiore della Marina Militare, che è da mesi nell’occhio del ciclone. Dallo scandalo di Potenza, ai precedenti arresti, infatti, non sono pochi militari infedeli che avrebbero abusato del loro ruolo in Marina per arrotondare i rispettivi stipendi o ad essere oggetto di indagine da parte della Magistratura. Quindi due le possibilità: o gli ufficiali di Maricommi Taranto vengono scelti male (e questa è una responsabilità da addebitare a chi li sceglie), o non ci sono degli opportuni dovuti sistemi di controllo nella gestione degli appalti della Marina Militare (e questa è una responsabilità proprio dello Stato Maggiore della Marina). Se non ci fossero stati i Carabinieri e la Guardia di Finanza chi si sarebbe accorto mai all’interno della Marina Militare di tutte le ruberie che ha fatto arrestare i loro ufficiali in servizio a Taranto, smantellando un sistema criminale con le “stellette” che prevedeva una tangente fissa su ogni commessa? Tutto ciò evidentemente l’Amm. Girardelli lo trascura… E’ un fatto provato e quindi non un’opinione personale che dal 2014 il sistema degli appalti della Marina Militare costituisca un boccone molto appetito per chi opera con la Marina. Noi non abbiamo dimenticato i lavori disposti dal predecessore Amm. De Giorgi (ora in pensione) sulle fregate di classe Fremm in costruzione alla Fincantieri di Muggiano, La Spezia. E’ stato il Fatto Quotidiano, mai smentito, rettificato, querelato, a raccontare che quando l’Amm. De Giorgi nel 2013visitò il cantiere, osservò la nave e poichè non gli andavano bene le aree destinate al cosiddetto “quadrato ufficiali” – il luogo della nave dove ufficiali e sottufficiali siedono a mensa o si rilassano – e ai camerini, ordinò delle modifiche, “specificando – si legge ancora nel dossier – di avviare i lavori richiesti anche in assenza dei preventivi e dei necessari atti amministrativi”. Vi fu chi come Ernesto Nencioni, direttore degli Armamenti navali, cercò di intervenire segnando all’ Amm. De Giorgi i notevoli nuovi costi da affrontare, preparando a tutta velocità un preventivo, da cui venne fuori un costo ulteriore non previsto inizialmente di quasi 13 milioni di euro per lecorrezioni al quadrato ufficiali e altri 30milioni alle cuccette. Ma l’ex-Capo di Stato Maggiore della Marina Militare De Giorgi non volle sentire ragioni, e lo mise anche per iscritto. “Al termine della vicenda – secondo quanto riporta La Repubblica – Nencioni rassegnò le dimissioni e si ritirò a vita privata”. Quindi l’Amm. Girardelli farebbe bene a dare un’occhiata al sistema amministrativo degli appalti della Marina Militare e far introdurre delle procedure di assoluta trasparenza e controllo incrociato per evitare nuovi possibili scandali. L’ Ammiraglio di squadra Girardelli si faccia dare le carte anche degli episodi delinquenziali delle tangenti scoperte a Taranto due anni fa dai Carabinieri grazie alla denuncia di un imprenditore “taglieggiato”, e si renderà conto che la responsabilità non può essere solo “personale” quando a Taranto esiste un vero proprio “sistema” di tangenti da pagare per lavorare con la Marina Militare. Esattamente come nella malavita organizzata cioè mafia, camorra, sacra corona unita, n’drangheta, anche a Maricommi esisteva e veniva applicato un sistema di “pizzo” sui fornitori della Marina Militare. Lo confermano le parole, poco piacevoli e durissime, del giudice delle indagini preliminari di Taranto, dr. Pompeo Carriere, nel convalidare i precedenti arrestati, parlando di una tangente imposta agli imprenditori “in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, come fa la malavita organizzata»”. Ad essere arrestato due anni e mezzo fa fu il capitano di fregata Roberto La Gioia, comandante del Quinto Reparto di Maricommi. Le manette scattarono nell’ufficio del militare che venne beccato in flagranza di reato, dopo aver appena intascato una mazzetta da duemila euro. Le successive perquisizioni effettuate dai Carabinieri permisero di scoprire circa 44.000 euro, e soprattutto alcuni stumenti di memoria informatica (pendrive) all’interno delle quali era documentata e conservata la contabilità “nera” e l’elenco delle imprese che pagavano tangenti all’organizzazione criminale con le “stellette” che imperversava fra Mariccomi Taranto e lo Stato Maggiore della Marina. Il pm Maurizio Carbone della Procura di Taranto (nella foto a sinistra) ha concluso le proprie indagini, ex-art. 415 bis, sul giro di tangenti, che aveva nella base navale di Chiapparo nella Marina Militare il proprio centro, nel marzo scorso richiedendo il rinvio a giudizio per undici persone in divisa che dovranno rispondere di concussione, fra i quali l’ex direttore di Maricommi Comandante Fabrizio Germani, i suoi collaboratori ex vicedirettori Marco Boccadamo, Giuseppe Coroneo e Riccardo Di Donna; gli ex comandanti del4° e 5° Reparto della base Roberto La Gioia (che venne arrestato), Giovanni Cusmano, Alessandro Dore e Giovanni Caso; persino un alto ufficiale Attilio Vecchi che lavorata allo Stato Maggiore della Marina Militare a Roma, il quale si occupava di garantire i fondi per le forniture destinate alla flotta di stanza a Taranto; il capo deposito Antonio Summa ed un dipendente civile della base, Leandro De Benedectis. Il “sistema” delle tangenti su appalti e forniture era presente ed attivo nei reparti che si occupano dell’acquisto di carburanti, beni, servizi, lavori e convenzioni con professionisti esterni. In pratica chi non pagava la mazzetta agli ufficiali della Marina Militare (e non uno solo…) in servizio a Maricommi Taranto, come emerge dalle rispettive inchieste delle Forze dell’ Ordine e della Magistratura, automaticamente vedeva eliminata la propria azienda dalle commesse, o ancora peggio non riceveva nei tempi dovuti i pagamenti di propria spettanza, che venivano rallentati di mesi e mesi mettendo in sofferenza le risorse finanziarie dei fornitori, al punto tale che alcune società sarebbero finite in fallimento. E’ proprio sicuro l‘ Ammiraglio di squadra Girardelli che si tratta solo di “responsabilità personale”? Noi abbiamo qualche dubbio. Nel suo discorso di insediamento sostituendo l’Amm. De Giorgi, il nuovo capo di Stato Maggiore volle testimoniare l’impegno alla guida della Marina dicendo “Dedicherò tutto me stesso con orgoglio e passione per il bene della Marina e dell’Italia”. Caro Ammiraglio Girardelli è arrivato il momento di dimostralo con i fatti, senza far nascondere alla stampa (inutilmente) i nomi degli ufficiali arrestati. La peggior maniera di onorare quella preziosa divisa e la sua onorata carriera.
Ilva, a Taranto il legale dei Riva in aula con la mappa delle case dei giudici: "Devono astenersi". La mappa portata in aula dall'avvocato. Il maxiprocesso, secondo la difesa del colosso del siderurgico, va trasferito perché i magistrati tarantini non hanno la serenità necessaria a giudicare in quanto anch'essi parte offesa dall'inquinamento, scrive Vittorio Ricapito il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Il maxiprocesso "Ambiente svenduto" sul presunto disastro ambientale di Taranto causato dall'Ilva non può essere celebrato davanti ai magistrati tarantini perché non hanno la serenità necessaria a giudicare in quanto anch'essi parte offesa dall'inquinamento. È la tesi esposta in aula dall'avvocato Pasquale Annicchiarico, difensore del gruppo Riva Fire, proprietario dello stabilimento siderurgico, e di Nicola Riva, l'ex presidente dell'Ilva imputato di disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari. Per dimostrarlo l'avvocato si è presentato davanti alla Corte d'assise mostrando sei cartelloni sui quali ha contrassegnato tutti gli immobili della città in cui vivono o di cui sono proprietari magistrati di Taranto. "C'è una sentenza delle Sezioni unite di Cassazione - spiega l'avvocato Annicchiarico - che dice chiaramente che il processo va fatto in altra sede perché non c'è altro caso giudiziario in Italia in cui la fabbrica è così vicina alla città. Ci sono dirimpettai e vicini di casa di alcuni magistrati che sono costituiti parte civile nel processo. Se loro sono da considerare parti danneggiate dall'Ilva, allora lo sono anche i magistrati proprietari di immobili". Secondo l'avvocato molti giudici e pubblici ministeri vivono nel cuore della "nube tossica" che avrebbe causato, secondo l'accusa, danni agli immobili e danni da esposizione. La richiesta di rimessione, cioè di spostare il processo al tribunale di Potenza, era già stata presentata dai difensori dei 47 imputati (44 persone e tre società) in almeno altre tre occasioni. Prima e durante l'udienza preliminare, la Cassazione e la gup Wilma Gilli rigettarono la richiesta perché non era stata provata dalla difesa l'incompatibilità dei magistrati giudicanti. A luglio scorso nuova offensiva lanciata dalla difesa con la richiesta di spostare il maxi processo a Potenza per incompetenza funzionale. In quell'occasione fu la Corte d'assise a respingere. La prova del presunto conflitto di interessi, spiega l'avvocato Annicchiarico "è nella mappa che abbiamo ricostruito e da cui si evince chiaramente che le abitazioni di diversi magistrati. Si trovano a poche centinaia di metri dalla casa di persone che sostengono di essersi ammalate o aver subìto danni dall'Ilva". L'avvocato Annicchiarico poi ha citato in aula un precedente a favore. Nella causa civile avviata dal Comune di Taranto contro l'Ilva per i danni da inquinamento il giudice Pietro Genoviva si è astenuto spiegando di essere obbligato proprio perché residente al quartiere Borgo, che si trova a meno di tre chilometri dal siderurgico.
Ennesima sconfitta della Procura di Taranto sulla vicenda ILVA. Il magistrato Nicastro assolto definitivamente, scrive “Il Corriere del Giorno” l’8 settembre 2016. In occasione delle sue dichiarazioni spontanee dinnanzi al tribunale di Taranto, Nicastro si girò e rivolgendo l’indice puntato nei confronti del banco dell’accusa rappresentata dai magistrati della Procura di Taranto disse loro “con voi ci vedremo in un’altra sede”. Era il 23 luglio del 2015 quando il magistrato Lorenzo Nicastro ex assessore all’Ambiente della Regione Puglia (Giunta Vendola), non trattenne le lacrime alla lettura della sentenza di assoluzione. “Ho difficoltà a tenere disgiunta la vicenda personale che non interessa a nessuno e riguarda me e la mia famiglia – disse Nicastro – E’ una sentenza di primo grado, ma mi restituisce una dignità e una serenità che mi è stata tolta per un anno e mezzo”. Parole sentite, sofferte quelle di Nicastro, quando venne assolto dal gup di Taranto Vilma Gilli dall’accusa di favoreggiamento nei confronti del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito dell’inchiesta sul disastro ambientale dell’Ilva. In quell’occasione nel giudizio abbreviato, i pubblici ministeri avevano chiesto ma non ottenuto la sua condanna a 10 anni. “Ho aspettato – ha spiegato Nicastro – questo dispositivo del giudizio abbreviato, quattro mesi e più e insieme a me lo hanno aspettato persone che erano sicuramente innocenti, anche prima di questa sentenza, e sono i miei familiari e mia madre”. In occasione delle sue dichiarazioni spontanee dinnanzi al tribunale di Taranto, Nicastro si girò e rivolgendo l’indice puntato nei confronti del banco dell’accusa rappresentata dai magistrati della Procura di Taranto disse loro “con voi ci vedremo in un’altra sede”. La giustizia ha fatto il suo corso e proprio ieri il dr. Nicastro è stato definitivamente ritenuto innocente anche dalla Suprema Corte di Cassazione, come lo stesso magistrato, ora in servizio presso la Procura della repubblica di Matera, ha reso noto sulla sua pagina Facebook: “Oggi è diventata definitiva la mia sentenza di assoluzione nel processo ILVA. Si è chiusa una piccola storia che piccolissimi uomini avevano costruito con la medesima approssimazione progettuale con la quale un circolo dopolavoristico organizza tornei di calcetto. Meglio, di tennis”. Le accuse “pubbliche” rivolte da Nicastro ai magistrati di Taranto sono a dir poco pesanti. Così continua nel suo post: “Da oggi i nanetti ammantati di nero e fregiati di oro e argento, cercheranno un’altra Biancaneve alla quale far credere di essere giganti. Grazie ai miei avvocati Michele Laforgia e Giovanni Orfino, lucidi, sereni e strepitosi. Ma grazie ai tantissimi avvocati dai quali mi sono sentito adottato in questi tre anni. Non li ricordo tutti ma grazie a tutti, grazie ad Emanuela Sborgia, Beppe Modesti, Francesco Marzullo, Luigi Covella, Alessandro Amato, Vittorio Triggiani, insomma grazie a tantissimi”. A Taranto esistono però dei giudici “seri”. Chiaramente i giornalisti che si vantano di scrivere (o fotocopiare?) di cronaca giudiziaria dei quotidiani locali di Taranto, sono molto bravi a raccontare dei rinvii a giudizio, o delle sentenze di condanna che tanto fanno piacere alla Procura della Repubblica. Un pò più allergici, e quindi lontani dalla verità, quando invece la giustizia trionfa e gli imputati vengono assolti a darne notizia come in questo caso. Ma ci pensiamo noi a restituire l’onore e la dignità “pubblica” al dr. Nicastro, a cui più di qualcuno a Taranto dovrebbe chiedere scusa. Ma per farlo bisogna avere gli “attributi”. Come abbiamo già scritto in passato, per fortuna anche a Taranto esistono dei giudici “seri”, come la gip dr.ssa Gilli che assolse il dr. Nicastro, che non si fanno condizionare dai pubblici ministeri, e le cui decisioni molto spesso vengono confermate dalla Cassazione. Questa si chiama “giustizia”. Questo è rispetto per la toga che indossano i giudici. La domanda che molti si fanno in queste ore è: ma l’altra sede è solo la Cassazione, o come qualcuno mormora, dinnanzi al Csm? Fonti bene informate sui movimenti negli uffici giudiziari sostiene che “qualcuno” che aspira a diventare il procuratore capo di Matera, potrebbe trovare sul suo cammino un altro “impedimento”. Uno dei tanti. Per averne conferma bastano circa 100 giorni. Che saranno molto lunghi per “qualcuno”. Alla fine, come si suol dire, è proprio vero: tutte le strade portano a Roma…
ILVA, PARLA LA VEDOVA DI EMILIO RIVA: MIO MARITO CONDANNATO SENZA PROCESSO. Giovanna Riva du Lac si rivolge a Fino a prova contraria il 29 giugno 2016. Dopo aver dato alle stampe "Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio" (Mondadori, pp. 177, 2015), la vedova ripercorre l’odissea giudiziaria che ha travolto il colosso siderurgico e la vita dell’uomo al quale è stata legata per oltre quarant’anni. «Credo che non sia più il momento di tacere. Io ho assistito a una violenza di stato senza eguali. Mio marito, Emilio Riva, ha subito lo choc di un arresto a 88 anni, è stato privato dei suoi beni, accusato e mai sentito dai suoi accusatori, vilipeso da una stampa fanatizzata, descritto come un mostro. E’ morto solo, e senza giustizia. Perché tutte le misure che hanno travolto la sua vita privata e pubblica sono state adottate in via "preventiva", senza neppure uno straccio di condanna di primo grado. Come li chiamate questi se non omicidi legalizzati? Nulla e nessuno potranno restituirmi mio marito, ma io sento il dovere di restituire alla memoria collettiva il ricordo autentico di Emilio, un uomo partito come venditore di rottami di ferro nel dopoguerra e poi diventato il quarto produttore di acciaio europeo. Lui diffidava dei giornalisti, sua nonna gli aveva insegnato questo: "stai alla larga da giornalisti, preti e avvocati. I primi scrivono quello che vogliono, i preti arrivano quando stai per morire e gli avvocati vogliono solo i tuoi soldi". Seppure a malincuore, io devo parlare, devo far conoscere la sua storia, quella vera. Nella vicenda Ilva non c’è nulla di ovvio, solo un mare di violenza che adesso tiene sotto schiaffo il figlio di Emilio, Fabio Riva, che si è ammalato a seguito di questa vicenda. Spero che non faranno con lui quello che hanno fatto con mio marito. Spero che gli daranno la possibilità concreta di difendersi. Spero che lo risparmieranno, se esiste ancora una parvenza di giustizia in Italia».
Sulla vicenda ripubblichiamo questo pezzo, uscito all’indomani della morte di Emilio Riva. E’ il ricordo di Stefano Lorenzetto su una vicenda che al di là dei giudizi di colpevolezza o innocenza mette in evidenza un fatto inequivocabile: un uomo ha subito una condanna preventiva, giudiziaria e mediatica, in assenza di un processo.
Così i veleni dei tribunali hanno ucciso Riva di Stefano Lorenzetto per Il Giornale. Di Emilio Riva, morto nella notte di ieri in una clinica che da un paio di mesi poteva somministrargli solo cure palliative, si dirà che era giunta la sua ora: il 22 giugno avrebbe compiuto 88 anni. In realtà il magnate dell’acciaio era morto il 26 luglio 2012, quando un’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Taranto lo aveva confinato agli arresti domiciliari nella sua villa di Malnate (Varese). A parte due ricoveri di pochi giorni nel centro cardiologico Monzino di Milano, resi urgenti dal cuore malandato, poté uscirne solo dopo un anno, per scadenza dei termini di custodia cautelare. Ma non da uomo libero: lo stesso Gip gli impose l’obbligo di dimora. Il suo male incurabile è stato il sequestro dell’Ilva di Taranto, che Riva aveva salvato dal fallimento e trasformato nella più importante acciaieria del continente, sostituendosi allo Stato in seguito alla liquidazione dell’Italsider. Il tumore osseo che ha consumato l’imprenditore milanese si era manifestato all’avvio dell’inchiesta per disastro ambientale dalla quale sarebbe uscito senza condanne epperò cadavere. La caduta delle difese immunitarie sopravviene quando il dolore diventa troppo pesante per essere sopportato anche da chi abbia spalle larghe come le sue. Sono gli effetti della privazione di ciò che per un essere umano conta di più: la libertà personale. Poiché si deve presumere che nella vicenda giudiziaria di Riva tutto si sia svolto secondo i crismi di legge, e tenuto conto del fatto che l’ultimo scorcio della sua vita è stato dominato per intero dai magistrati, si può ben concludere che egli sia morto per un eccesso di giustizia. Un po’ come accadde ad Alessandro Magno, del quale fu detto che perì grazie all’aiuto di troppi medici. Il paragone storico non sembri inappropriato. Al di là dell’infame vulgata che ha tramutato l’ex rottamaio in un assassino d’inermi cittadini per sete di guadagno, l’ex «ragiunatt» con laurea ad honorem in ingegneria meccanica era davvero l’ultimo condottiero della siderurgia italiana. Il più grande: 38 stabilimenti nel mondo, 30.000 dipendenti, 10 miliardi di euro di fatturato. Facendo onore al proprio carattere, forgiato con lo stesso materiale che gli diede fama, ricchezza e tormento, ha resistito qualche mese più dei colleghi Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia, usciti di scena tra effluvi d’incenso. L’anno scorso, ormai prigioniero da dieci mesi in casa propria, Riva si rese conto che niente avrebbe più potuto riportare in parità la bilancia della giustizia e restituirgli l’onore perduto. Non i suoi avvocati, pur abilissimi. Non i giornali, abituati a trattarlo con la simpatia che circondava i monatti di manzoniana memoria. Né tantomeno, figurarsi, le toghe. Poiché avvertiva che il suo tempo stava per compiersi, penò a un j’accuse zeppo di fatti e di dati, che potesse riabilitarlo nella memoria degli eredi. Un libro. Si ricordò allora di un giornalista che lo aveva intervistato 11 anni prima sul Giornale. Il 21 maggio volle che incontrassi la moglie, Giuliana Du Lac Capet, nella sua casa milanese di via Verri. Allenata dal consorte ad andare subito al nocciolo delle questioni, la signora mi chiese: «È impegnato domenica prossima? La accompagnerei a Malnate da mio marito, così potrebbe cominciare subito a raccogliere la sua verità. Non c’è tempo da perdere». Fui costretto a obiettarle che, avvicinando un estraneo senza l’autorizzazione del magistrato, egli si sarebbe reso responsabile di evasione. Non solo: io avrei potuto essere inquisito per concorso nel medesimo reato. Si trattava di un rischio che ero disposto a correre. Ma il suo legale temeva che Riva finisse ristretto a San Vittore. L’anziano recluso dovette perciò accantonare il progetto editoriale a lungo accarezzato e che aveva già trovato un editore. Anche l’ultima possibilità di autodifesa gli veniva negata. Dunque è così che è morto Riva: senza voce. Sarebbe stato invece interessante, oltreché giusto, fargli commentare il rapporto di Legambiente, nemica giurata dell’Ilva, dal quale nel 2012, in piena bufera giudiziaria, risultava che, su 55 capoluoghi di provincia presi in esame, Taranto figurava al 46˚ posto nella classifica nazionale dell’inquinamento da polveri sottili, preceduta da Torino, Milano, Verona, Alessandria, Monza e altre 40 città. Oppure farlo parlare di quel procuratore capo della Repubblica di Taranto che aveva scritto con largo anticipo come sarebbe andata a finire questa brutta storia: «Con la vittoria del bene sul male». Dove il bene erano i giudici e il male Riva. Una sentenza contenuta nella prefazione di un libro per bambini, nel quale si raccontava che nella città pugliese, per colpa dell’Ilva, «il cielo era sempre scuro e la gente si ammalava», ma poi arrivava un dio che tuonava: «Adesso basta!». E giurava: «Col mio soffio spegnerò le ciminiere, porterò via i fumi e manderò a casa gli uomini d’acciaio!». Promessa mantenuta: prima a casa e da lì direttamente al cimitero. A Emilio Riva non hanno portato bene né l’avversione per il comunismo, che tuttavia non gl’impedì di acquisire e far ripartire due cadenti acciaierie dell’ex Ddr dove al suo arrivo trovò un presidio di militari dell’Armata rossa, né il munifico obolo di San Pietro che per anni, in gran segreto, versò direttamente nelle mani di Papa Wojtyla per consentirgli di pagarsi i suoi viaggi apostolici nei cinque continenti. Chissà che il custode delle chiavi decussate non gli abbia adesso dischiuso, dopo tanta prigionia domestica, almeno le porte di quel paradiso nel quale ha sempre sperato. Un risarcimento postumo che l’industriale siderurgico non poteva aspettarsi dalla giustizia umana, ma solo da un santo fresco di canonizzazione.
INCHIESTA SULL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TARANTO. Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). La situazione anomala è venuta a galla nel settembre del 2015, quando furono approvati il bilancio consuntivo del 2014 e quello preventivo del 2015. In particolare, fu evidenziata la criticità relativa ad anticipazioni e rimborsi cariche istituzionali per un importo complessivo di 78mila euro, a cui poi si sono aggiunti altri 15mila euro relativi ai mesi di gennaio e febbraio del 2015: una situazione della quale si sono detti all’oscuro, dimostrandolo funzionalmente e documentalmente, il consigliere Fedele Moretti, all’epoca dei fatti tesoriere dell’Ordine, e l’attuale presidente Vincenzo Di Maggio, vice di Esposito per tanti anni. L’Ordine degli avvocati decise così di richiedere all’avvocato Angelo Esposito, quale presidente del precedente Consiglio, la documentazione contabile e fiscale mancante relativa alle spese da lui sostenute per conto dell’organismo. Esposito assicurò in quella occasione che avrebbe provveduto alla ricerca e alla raccolta di quanto richiesto. Poi è entrato in campo il revisore dei conti, l’avvocato Francesco Paolo De Giorgio, che il 28 gennaio scorso ha proceduto alla verifica trimestrale, alla presenza del consulente fiscale dell’Ordine Cosimo D’Elia, riscontrando in tale data che non risultavano documenti di spesa, né indicazioni riguardanti il beneficiario per gli oltre 93mila euro riguardanti anticipazioni e rimborsi per la presidenza dell’Ordine stesso. Il consiglio dell’Ordine degli avvocati a quel punto ha deciso di ascoltare nel corso di una seduta svoltasi il 22 marzo scorso l’ex presidente Esposito il quale, stando a quanto si è appreso, avrebbe detto di aver sostenuto spese per lo svolgimento del mandato istituzionale e di essere pronto a fornire il relativo giustificativo oltre che l’eventuale rimborso, se fosse riconosciuta la non istituzionalità delle stesse spese. Il 29 marzo, sette giorni dopo, in Consiglio si sono presentati invece, a nome di Esposito, gli avvocati Soggia e Tata per chiarire ulteriormente l’accaduto. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, però, ha deciso di interessare della vicenda la Procura della Repubblica allo scopo di fare piena luce sulla vicenda ed accertare eventuali responsabilità, così come sollecitato dalla maggioranza dei consiglieri. I 93mila euro di «buco» non mettono a rischio la tenuta dei conti dell’Ordine, né tantomeno il pagamento degli stipendi degli 11 dipendenti dell’ente ma ovviamente rappresentano una cifra importante, sulla quale non si potrà non fare chiarezza.
Ordine Avvocati, buco nel bilancio. Indaga la Procura, scrive Michele Montemurro su “Il Quotidiano di Puglia” dell’11 aprile 2016. Spese di rappresentanza istituzionale indebite o solo assenze di “giustificativi”? È quanto dovrà accertare la procura di Taranto, chiamata in causa dal consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo jonico, che avrebbe accertato nel suo bilancio un “buco” di oltre 90mila euro. A investire della questione il pm dottor Maurizio Carbone è stato lo stesso Consiglio presieduto dall’avvocato Vincenzo Di Maggio. All’appello, nei libri contabili del Consiglio, mancherebbe una cifra complessiva che non risulta essere “coperta” da alcuna documentazione. Allo stato, l’ipotesi di reato per cui si procede a carico di ignoti è quella di peculato, dal momento che il Consiglio dell’Ordine è ritenuto Ente pubblico non economico. Secondo quanto trapelato negli ambienti forensi, le anomalie su cui dovrà essere fatta luce sarebbero scaturite alla fine della scorsa estate, allorchè il nuovo Consiglio, che aveva sostituito quello presieduto dall’avvocato Angelo Esposito, s’era ritrovato ad approvare il bilancio consuntivo del 2014 e quello preventivo del 2015. Nella circostanza, in un’articolata relazione sarebbero state evidenziate alcune criticità. Una di queste, appunto, avrebbe riguardato anticipazioni e rimborsi per attività istituzionali, per quasi 95mila euro, di cui però non vi sarebbe traccia contabile. Rispetto a questa circostanza i primi a rimanere sorpresi erano stati l’attuale presidente Di Maggio (vice presidente nella passata gestione) e l’attuale consigliere Fedele Moretti (con compiti di tesoriere durante la presidenza Esposito). La mancata conoscenza della circostanza, da parte di esponenti importanti di quel Consiglio, aveva indotto l’attuale organismo a richiedere chiarimenti all’ex presidente Esposito, soprattutto in riferimento alle spese sostenute in ragione e in virtù della carica rivestita. La ricerca della documentazione necessaria, però, non sarebbe andata a buon fine. Ciò sarebbe testimoniato dal fatto che nel gennaio scorso, il revisore dei conti, avvocato Francesco Paolo De Giorgio, nel procedere a una verifica trimestrale aveva concluso, con l’avallo del consulente fiscale dell’Ordine, per l’accertata assenza di documenti di spesa e di altre indicazioni contabili, relativi all’attività del precedente presidente dell’Ordine. In ultima analisi, all’appello mancavano atti che “spiegassero” anticipazioni e rimborsi in favore della precedente presidenza dell’Ordine. Alla luce di questi rilievi, in una seduta svoltasi prima di Pasqua il Consiglio dell’Ordine degli avvocati aveva deciso di ascoltare l’ex presidente Esposito (oggi componente del Consiglio nazionale forense) che, dal suo canto, s’era detto pronto a risolvere, con un intervento personale, la questione, nel caso in cui non fossero state ritenute giustificate, sotto il profilo istituzionale, quelle vecchie spese di cui mancherebbe traccia. Sia come sia, nei giorni scorsi, il Consiglio ha ritenuto di investire del caso la procura di Taranto. Per la cronaca, il possibile “buco” nel bilancio dell’Ordine non ha alcun riflesso sulla sua attività nè sui suoi dipendenti, considerata la solidità economica dell’Ente.
Avvocati, i conti 2014 dell’Ordine di Taranto non tornano. L’attuale presidente spiega in una lettera, scrive l'11 aprile 2016 “La Ringhiera”. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Vincenzo Di Maggio, ci scrive in merito alla vicenda del presunto “buco” di 95 mila euro nei conti della organizzazione forense che presiede, notizia circolata in città anche a seguito dell’esposto che lui stesso ha presentato in Procura dopo essersi insediato. Ecco il suo documento in cui precisa alcuni particolari, aggiungendo altri elementi alla notizia pubblicata stamattina da Quotidiano e ripresa da La Ringhiera: Il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Vincenzo Di Maggio. “Innanzitutto, tengo a precisare che non si tratta di una denuncia ma di una mera segnalazione, obbligatoria per legge che il Consiglio ha inteso rispettare, così come oggi intende non deflettere dalla presunzione di innocenza che deve assistere qualsiasi soggetto possa essere coinvolto in questa vicenda. La correttezza del comportamento di questo Consiglio riviene, in tutta la sua evidenza, avuta considerazione dei fatti così come si sono svolti nel loro progressivo incedere. All’uopo giova evidenziare che, una volta subentrato (9.2.2015), il nuovo Consiglio ha richiesto al presidente del tribunale di nominare il revisore dei conti, approvato il regolamento di contabilità e poi gioco forza, dovuto misurarsi nella predisposizione del bilancio consuntivo di quello precedente, relativo all’anno 2014 (di cui preciso non essere stato mai il vicepresidente) procedendo alla verifica dei conti così come opportunamente messi a disposizione dai soggetti preposti e sulla scorta della documentazione in possesso al contabile. In tale occasione non furono rinvenuti alcuni giustificativi di spese, in realtà contabilizzate e quindi non di ammanchi, così come da taluni riportano. Tutto ciò indusse il Consiglio a proporre all’Assemblea l’approvazione di suddetto bilancio, inserendo per l’appunto quella partita, quale credito per l’Ente e non come spesa e successivamente a richiederne il rendiconto a chi l’aveva in precedenza amministrato ovvero il rimborso. Mi auguro che suddette spese, al di là della documentazione fiscale a supporto, potranno essere documentate, dinanzi all’Autorità Giudiziaria, dai fatti e dalle occasioni istituzionali per cui sono state sostenute e così consentire la soluzione di questa vicenda nel migliore dei modi possibili”. Sin qui, il presidente dell’Ordine. A quanto pare, la domanda che ci eravamo posti stamane trova una prima autorevole risposta, in attesa del riscontro che i giudici forniranno al termine delle loro verifiche. Si tratterebbe di spese non supportate da adeguati giustificativi. Staremo a vedere. La notizia di questa mattina. Una voce che girava da alcune settimane trova oggi conferma. Adesso infatti c’è l’esposto firmato dal presidente Vincenzo Di Maggio, in carica da meno di un anno. L’attuale rappresentate dell’Ordine degli Avvocati di Taranto chiede alla magistratura di verificare le ragioni e le eventuali omissioni legate ad un presunto buco di 95 mila euro nei bilanci dell’organizzazione forense ionica. Il fascicolo, come riferisce questa mattina Quotidiano, è nelle mani del pubblico ministero Carbone. Come detto, negli ambienti giudiziari da tempo circolavano voci riguardanti i conti dell’Ordine Avvocati: spese esagerate o si tratta di un’assenza di giustificativi? Verificheranno i giudici, a quanto pare.
L’ Ordine degli Avvocati di Taranto scrive al Corriere del Giorno l’11 aprile 2016. Lettere al Corriere dell'11 aprile 2016. Riceviamo dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Taranto la seguente lettera che volentieri pubblichiamo: Egregio Direttore de Gennaro, nella mia qualità di Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ed in relazione all’articolo pubblicato in data odierna dalla Sua testata “Corriere del Giorno fondato nel 1947”, sono a specificarLe quanto segue. In primis vorrà considerare che l’Avv. Fedele Moretti è attualmente consigliere in carica, ed è stato tra i promotori della iniziativa che mi ha visto protagonista, quale Presidente, nel depositare la segnalazione presso la Procura della Repubblica. Questo al fine di chiarire che non esistono, all’interno del Consiglio, gruppi contrapposti derivanti dalle liste delle passate elezioni, ma vige, al contrario, totale condivisione delle decisioni adottate. Dalla lettura del Suo scritto appare, inoltre, una prospettazione dei fatti da precisare, poiché non è mai esistita una “gestione Esposito – Moretti”, essendo la conduzione del Consiglio totalmente collegiale, non senza considerare che i fatti di cui parliamo erano sconosciuti anche all’allora tesoriere avv. Moretti, che è il primo, in questa vicenda, a subire un ingiusto danno di immagine. Nella certezza che vorrà rettificare il Suo articolo, alla luce delle poche righe che precedono, La saluto molto cordialmente. Avv. Vincenzo Di Maggio. La replica del Corriere del Giorno: Egregio Presidente, prendiamo atto che l’ Avv. Fedele Moretti sia stato “tra i promotori della iniziativa che mi ha visto protagonista, quale Presidente, nel depositare la segnalazione presso la Procura della Repubblica”, circostanza a mio parere assolutamente “irrilevante” in quanto qualunque componente del consiglio in carico, se non avesse aderito alla vostra dovuta iniziativa di rivolgersi alla Procura non avrebbe reso un buon servizio alla Giustizia e tantomeno onorato la propria toga di avvocato. Quella che abbiamo definito “gestione Esposito-Moretti” non è altro che la verità. L’Avvocato Angelo Esposito era il consigliere-Presidente e l’Avv. Fedele Moretti il consigliere-segretario tesoriere del precedente Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Chi dovrebbe rispondere di questi soldi mancanti nelle casse dell’Ordine? Chi ha autorizzato anticipazioni e/o eventuali rimborsi dell’Ordine, per delle spese prive di alcuna giustificazione documentale? Siamo a disposizione dell’Avv. Esposito e dell’Avv. Moretti per ogni chiarimento del caso. Voglio ricordare che noi abbiamo solo fatto il nostro mestiere: dare una notizia. E che manchino 95mila euro nelle casse dell’Ordine degli Avvocati di Taranto è un dato di fatto. Così come un altro dato di fatto inconfutabile è che l’Ordine abbia presentato una memoria-esposto alla Procura della Repubblica di Taranto sulla triste vicenda. Noi caro Presidente Di Maggio le notizie prima di pubblicarle le verifichiamo come lei ben sa, e soprattutto cerchiamo di non vivere di “immagine”. La legge come lei ben sa non ce lo consente. Cordialmente Antonello de Gennaro.
La Procura indaga sul “buco” del bilancio dell’Ordine Avvocati di Taranto sotto la guida dell’Avv. Angelo Esposito. E sulla fuga di notizie…? Si chiede e scrive Antonello De Gennaro su “Il Corriere del Giorno” del 12 aprile 2016. Spese di rappresentanza istituzionale indebite o solo assenze di “giustificativi”? Chi rimborserà l'Ordine degli Avvocati di Taranto delle spese allegre e non giustificate di qualcuno? L’intervento della Procura di Taranto che ha affidato le indagini al pm Maurizio Carbone, contrariamente a quanto pubblicato dai soliti cronisti giudiziari a “gettone” è avvenuta in conseguente di una segnalazione, obbligatoria per legge ai sensi dell’art. 331 c.p.p. che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo jonico, presieduto dall’avvocato Vincenzo Di Maggio, ha inteso rispettare. Singolare anche come ancora una volta la notizia sia “filtrata” dagli uffici giudiziari tarantini sulla solita stampa “ventriloqua” di alcuni magistrati, nonostante la discrezione e riservatezza adottata dal presidente Di Maggio che ha depositato personalmente il tutto soltanto giovedì scorso e direttamente negli uffici della Procura, e non a quelli della polizia giudiziaria, proprio per evitare delle possibili fughe di notizie. Altrettanto singolare la ricostruzione pubblicata questa mattina da un giornalista, ben noto per non effettuare le dovute verifiche, che ha sostenuto che l’avv. Vincenzo di Maggio l’attuale presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, sia stato in passato “vicepresidente” nel consiglio presieduto dal suo predecessore avv. Angelo Esposito, fatto e circostanza che non corrisponde al vero, e quindi è palesemente falsa. Così come nessuno dei vari giornalisti tarantini che questa mattina hanno raccontato delle bestialità si è mai soffermato alla circostanza che sotto la presidenza Esposito il segretario tesoriere era l’avvocato Fedele Moretti, attuale consigliere dell’Ordine, principale avversario dell’avv. Di Maggio nel corso delle ultime elezioni che lo hanno visto prevalere con un notevole suffragio. L’attuale revisore Francesco Paolo De Giorgio, nominato dal Presidente del tribunale di Taranto, insieme al consulente fiscale dell’Ordine nell’approvare il bilancio al 31.12.2014 lasciato in eredità (non approvato dall’ avv. Esposito), scoprirono la mancanza di documentazioni giustificative dalla precedente gestione, della somma di oltre 95mila euro. Infatti come sostiene l’avv. Di Maggio in realtà “non furono rinvenuti alcuni giustificativi di spese, in realtà contabilizzate e quindi non di ammanchi, così come da taluni riportato. Tutto ciò indusse il Consiglio a proporre all’Assemblea l’approvazione di suddetto bilancio, inserendo per l’appunto quella partita, in realtà poca cosa rispetto al totale, quale credito per l’Ente e non come spesa e, successivamente a richiederne il rendiconto a chi l’aveva in precedenza amministrato ovvero il rimborso.” In una nota, l’avv. Di Maggio chiarisce che “il nuovo Consiglio ha richiesto al Presidente del Tribunale la nomina del Revisore dei conti, approvato il regolamento di contabilità e dovuto, giocoforza, misurarsi nella predisposizione del bilancio consuntivo di quello precedente, relativo all’anno 2014 (di cui preciso non essere mai stato Vice Presidente) e procedere alla verifica dei conti così come opportunamente messi a disposizione dai soggetti preposti e sulla scorta della documentazione in possesso al contabile.” Dalle verifiche effettuate sui libri contabili “ereditati” dalla gestione del Consiglio sotto la presidenza Esposito, infatti non vi era alcuna giustificazione documentale a fronte della mancanza della somma non indifferente di 95mila euro. L’ipotesi di reato per cui la Procura procede (il Consiglio dell’Ordine è ritenuto Ente non economico ma avente pubblico servizio) al momento a carico di ignoti è quella di “peculato”, o di “appropriazione indebita non aggravata”. Il nuovo Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati, come ricorda la dichiarazione “ufficiale”, è stato eletto il 9 febbraio 2015, e vede alla guida degli avvocati di Taranto e provincia l’ avv. Vincenzo Di Maggio , il quale è subentrato a seguito delle ultime elezioni al consiglio uscente, presieduto dall’avvocato Angelo Esposito, e quindi l’attuale Consiglio dell’ ordine attualmente in carica è stato quindi di fatto tenuto, o meglio costretto dai doveri d’ufficio e di Legge, non solo alla predisposizione del bilancio preventivo del 2015 (che include anche il mese di gennaio 2015 sotto la gestione Esposito–Moretti) ma anche ad approvare quello al 31 dicembre 2014, cioè l’ultimo esercizio sotto la gestione del consiglio uscente, il cui presidente e cioè l’avv. Esposito si era ben guardato di approvarlo con la propria firma. Chissà come mai…Nel bilancio al 31.12.2014, cioè sotto l'“allegra” presidenza Esposito, i 95mila euro di cui mancava ogni giustificazione di spesa vennero indicati ed imputati correttamente ed approvati, come “crediti da esigere”. Successivamente il nuovo consiglio presieduto dall’ Avv. Di Maggio ha convocato e chiesto chiarimenti all’Avv. Angelo Esposito in riferimento alle spese sostenute ma non documentate in ragione e in virtù della carica rivestita. L’assicurata produzione da parte dell’ex-presidente Esposito della documentazione necessaria mancante per anticipazioni e rimborsi in favore della sua precedente presidenza dell’Ordine, però, non ha mai avuto alcun seguito e riscontro. In una seduta del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto tenutasi prima delle recenti festività pasquali è stato deciso di convocare ed ascoltare le eventuali giustificazioni dell’ex presidente Esposito (attualmente componente del Consiglio nazionale forense) che, in un primo momento s’era dichiarato pronto a risolvere la vicenda, restituendo personalmente alle casse del Consiglio, i soldi mancanti. Ma anche questa promessa dell’avv. Angelo Esposito non ha trovato riscontro alcuno, motivo per cui il Consiglio ha ritenuto di investire del caso la Procura di Taranto. Nella sua nota l’Avv. Di Maggio, concludendo, si augura che le “suddette spese, al di là della documentazione fiscale a supporto, potranno essere documentate, dinanzi all’Autorità Giudiziaria, dai fatti e dalle occasioni istituzionali per cui sono state sostenute e così consentire la soluzione di questa vicenda nel migliore dei modi possibili”. Quello che probabilmente qualcuno un giorno dovrà spiegare è come mai quando delle notizie coperte da segreto istruttorio finiscono nella mani dei soliti “giornalisti” amici e talvolta confidenti, la Procura della Repubblica di Taranto si gira dall’altra parte, mentre in alcuni casi si manda a processo qualche collega ben più corretto. Ma per fortuna la stagione dei conflitti d’interesse, di strane amicizie e favoritismi è ormai arrivata al capolinea: l’ex-procuratore capo Franco Sebastio è in pensione, il suo vice Pietro Argentino oltre ad essere sotto inchiesta del CSM, non potrà più fare l’aggiunto e secondo attendibili voci giudiziarie prossimo ad un trasferimento fuori Taranto, ed il pm Maurizio Carbone non è stato rieletto segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati. La “ciliegina” sulla torta di una necessaria auspicata legalità in procura a Taranto sarà l’arrivo del nuovo procuratore capo Carlo Maria Capristo, designato dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura dopo l’indicazione, resa nota nei giorni scorsi, da parte della quinta commissione del Csm. Capristo, 63 anni, è nato a Gallipoli (Lecce) ed ha prestato servizio a Bari e Siena prima di approdare a Trani, dove ha diretto tra l’altro l’inchiesta sul declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating.
Primomaggio a Taranto. Quello di cui non si parla….scrive “Il Corriere del Giorno il 15 maggio 2016. Il “trionfo” dell’abusivismo e dell’evasione fiscale. Una manifestazione in cui gli “abusivi” e non solo… hanno venduto di tutto e di più: dai panini ai fiaschi di vino, dalle bottigliette di acque all’immancabile birra! Gli organizzatori sostengono che non sono state coperte le spese organizzative. Ma se gli artisti hanno lavorato gratis, e quelli che hanno lavorato all’organizzazione erano volontari, quali sono i reali costi documentati? Nella solita conferenza stampa al Parco archeologico delle Mura Greche a Taranto il Comitato dei (sindacalisti n.d.r.) Liberi Pensanti attraverso il loro esponente Cataldo Ranieri, un ex-sindacalista della Fiom, operaio attualmente dipendente dell’ ILVA, ha fatto il punto non sui problemi della città, sulla loro attività associativa, sulle tematiche affrontate dalla manifestazione, ma in realtà si è concentrato ed ha parlato della raccolta dei finanziamenti necessari per coprire le spese dell’evento, in quanto a loro dire non è stata ancora raggiunta il pareggio delle entrate per coprire i costi. O forse per finanziare la loro prossima discesa in campo in occasione delle elezioni amministrative del 2017 al Comune di Taranto? Sono proprio gli attivisti di questa associazione che sul loro sito affermano che: “il 1° maggio di Taranto è completamente gratuito. Gli artisti che si esibiranno lo faranno senza avere alcun cachet in cambio. Chi si sta adoperando per la sua realizzazione lo fa in maniera gratuita e volontaria”. Ed aggiungono: “Nonostante ciò, ci sono molti costi a cui dovremo fare fronte”. Quali sono? Ma se gli artisti hanno lavorato gratis e chi ha lavorato all’organizzazione erano volontari, quali sono i costi? Negli ultimi mesi questo Comitato Liberi Pensanti si è molto avvicinato ai “Grillini” tarantini, quindi ne approfittino…si facciano spiegare dalla loro cara “amica” l’eurodeputato grillina Rosa D’amato, se li ricorda….i “dettati” ( a parole !) del M5S sulla trasparenza online. Sarebbe interessante dare un’ “occhiatina” sui costi e soprattutto le entrate della manifestazione del 1° maggio a Taranto. Un’attività anche giornalistica che i soliti “giornalisti” locali a piede libero…si sono ben guardati dal fare, dopo aver magari richiesto e ricevuto dagli organizzatori i loro pass “All Area” o nel “Backstage” della manifestazione pur di collezionare qualche selfie in più con il cantante di turno, da postare immediatamente sui socialnetwork! Poi Ranieri ha aggiunto “c’è un secondo bilancio, quello dei numeri: chi doveva garantire la legalità – e ci riferiamo ai vigili urbani e al Comune di Taranto – non l’ha fatto, come ormai accade anche per la gestione della città”. “Il Comune non ha fatto rispettare l’ordinanza emanata dal Sindaco – ha aggiunto Nicola Ordini, portavoce del Comitato – , che riguardava il divieto di vendita di bottiglie di vetro e lattine nel corso dell’evento. In tal senso ci muoveremo in quanto parte interessata per richiedere l’accesso agli atti del Comune attraverso i quali poi valuteremo eventuali responsabilità per agire con una richiesta di risarcimento danni. L’eventuale ricavato sarà devoluto in beneficenza”. Abbiamo fatto delle verifiche ed abbiamo scoperto che chi doveva occuparsi del controllo della manifestazione era la Polizia di Stato, che peraltro ha una sua divisione amministrativa oltre alla Digos che solitamente partecipa alle manifestazioni politiche e sindacali o collaterali come queste. Per capire cosa abbiamo fatto gli uomini della Questura di Taranto, letteralmente “invisibili” (o meglio introvabili!) in occasione della manifestazione, probabilmente non è lecito saperlo…. oppure dobbiamo rivolgerci all’amica e collega Federica Sciarelli conduttrice del noto programma televisivo “Chi l’ha visto ?” ! Il Gruppo della Guardia di Finanza di Taranto, comandato dall’ottimo T. Colonnello Domenico Mallia, si è occupato infatti di controllare e prevenire la vendita di sostanze stupefacenti, anche con i cani anti-droga. Chissà se i loro colleghi del Nucleo Tributaria e Finanza Pubblica erano invece ancora impegnati a controllare le fatture della luce e del telefono… dell’abitazione tarantina del nostro Direttore, o a fotografare dove parcheggia la sua autovettura in centro? Anche perchè trovandosi de Gennaro a Roma sarebbe un pò fuori zona, ed i loro colleghi “romani” si occupano di cose ben più serie! Quindi avrebbero avuto tempo libero a disposizione…Come ci hanno testimoniano numerosi partecipanti alla manifestazione che ci hanno mandato anche molte fotografie, è stato il “trionfo” dell’abusivismo e dell’evasione fiscale. Una manifestazione in cui hanno venduto di tutto e di più: dai panini ai fiaschi di vino, dalle bottigliette di acque all’immancabile birra che i tarantini credono sia fatta a Taranto, quando invece è fatta a Roma e peraltro adesso è passata di mano, venduta da un gruppo sudafricano alla nuova proprietà giapponese! Adesso gli attivisti politico-sindacali, come tutti i tarantini che non riescono a vivere di proprio e del loro lavoro o attività professionale, o d’impresa, vogliono dilettarsi nella specialità tarantina: fare causa alle istituzioni nella speranza di portare a casa qualche soldo. Solo che ignorano che per farlo, dovrebbero rivolgersi prima alla Procura della Repubblica e non al Comune o al Tribunale. La Polizia Municipale, e lo spieghiamo a qualche “ignorante” (in materia) è composta per Legge da dipendenti del Comune, e non da militari o poliziotti di carriera, e diventano “pubblici ufficiali” soltanto allorquando sono in servizio ed hanno compiti di polizia giudiziaria (notifiche ecc.) polizia amministrativa (controlli sulle attività economiche e tributi locali), polizia stradale (cioè quando smettono di sostare nei bar a prendere il caffè) per il controllo del traffico ed il rispetto del Codice Stradale. Quindi pressochè quasi mai! Sarebbe compito dell’Autorità Giudiziaria accertare chi, come, quando e cosa hanno fatto le Forze dell’Ordine impegnate in occasione della manifestazione del 1° maggio. Così come sarebbe compito della Guardia di Finanza dare un’ “occhiatina” alla regolarità fiscale ed amministrativa di questa associazione di “Liberi” (???) “e Pensanti” (???) e di questa manifestazione. La legge, caro Ranieri vale per tutti. E per chiedere che venga fatta rispettare, bisogna innanzitutto rispettarla…
Caro Presidente Mattarella le scrivo….continua Antonello De Gennaro il 12 aprile 2016. Egregio Signor Presidente della Repubblica, Le scrivo questa lettera pubblica nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, che depositerò sotto forma di esposto agli uffici competenti di Palazzo dei Marescialli (sede del CSM n.d.a.) ed al Ministero di Giustizia per informarla e denunciare un grave attentato alla democrazia e libertà di stampa garantita ancor oggi, e spero a lungo, dalla nostra Costituzione. Chi le scrive è un giornalista che da oltre 30 anni esercita questa professione, regolarmente iscritto all’ Ordine nell’elenco dei Professionisti dal 1985 senza mai ricevere un solo provvedimento di natura disciplinare dagli ordini regionali a cui sono stato iscritto (Puglia, Lazio e Lombardia) nel corso della mia carriera. Per sua informazione ho avuto l’onore e la fortuna di poter lavorare con “statisti” come il compianto On. Bettino Craxi, lavorando nel suo ufficio stampa a Palazzo Chigi accanto al maestro-galantuomo Antonio Ghirelli, già portavoce in precedenza del suo predecessore Sandro Pertini al Quirinale. Successivamente ho avuto la possibilità di lavorare come addetto stampa di alcuni ministri, fra cui il Guardasigilli Claudio Martelli, il compianto ministro Renato Ruggiero, e pertanto sono ben a conoscenza delle prerogative e diritti costituzionali connessi alla mia professione. Nel corso della mia lunga carriera, non ho mai ricevuto una condanna per “diffamazione a mezzo stampa”, circostanza che comprova il rispetto che ho sempre avuto per le norme di Legge nell’esercizio della mia professione. Ebbene, da circa due anni, sono tornato (part-time) a Taranto, nella mia città natale, pur vivendo e continuando a vivere dal 1983 nella Capitale, per occuparmi di informazione e giornalismo, in una città massacrata da problemi di natura occupazionale, economica, ambientale, che le sono sicuramente ben noti avendo apposto la sua firma su alcuni decreti legge che interessano l’ILVA e quindi la città e la vita di Taranto. Tornare laddove avevo iniziato la mia carriera accanto a mio padre, fu Franco de Gennaro, socio fondatore e direttore per alcuni anni del Corriere del Giorno fondato nel 1947, è stata una scelta dettata solo e soltanto da motivi di cuore e passione per questo lavoro, e non certamente per prospettive ed attese di carattere economico, data l’attuale tragica situazione dell’informazione locale, che negli ultimi 3-4 anni ha visto chiudere due quotidiani, un settimanale, una televisione, sorte che sembrerebbe delinearsi, secondo attendibili voci ricorrenti, purtroppo anche per l’unica tv locale tarantina. In questi ultimi due anni, spesi e passati fra Roma dove ha sede legale e direzione questo quotidiano online, e Taranto città ove abbiamo un ufficio di corrispondenza, abbiamo pubblicato delle spiacevoli e deplorevoli vicende di natura giudiziaria che hanno visto contrapposti i poteri dello Stato, e una frangia della Magistratura opporsi persino ai decreti legge del Governo, controfirmati dal Presidente della Repubblica. Nella città di Taranto, è stato arrestato un pubblico ministero, Matteo Di Giorgio successivamente condannato a 17 anni di carcere, è stato arrestato in flagranza di reato e condannato un giudice Pietro Vella preso con una “mazzetta” fra le mani. Nella città di Taranto l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino è stato ritenuto dalla Procura della Repubblica di Potenza e dal Tribunale quale “teste” reticente, inattendibile, e mi risulta sottoposto a procedimento disciplinare dinnanzi al CSM. Di tutte queste vicende il giornale da me diretto ha sempre dato puntuale completa informazione pubblicando gli atti pubblici integrali dei procedimenti, e quindi dei processi, comprese le sentenze. Riteniamo che la trasparenza sulla gestione della vita pubblica e della giustizia nell’applicazione corretta delle norme di Legge, siano il vero baricentro della vita democratica di un Paese. Non può esserci democrazia e vita civile, senza la libertà di stampa ed informazione. Negli ultimi 8 mesi sono stato oggetto di minacce, atti vandalici, ripetuti, e persino con utilizzo di acidi, per fortuna riversati sulla mia macchina e non ancora sulla mia persona. Ma le minacce più gravi, sono quelle che “qualcuno” da Palazzo di Giustizia di Taranto, ha inteso applicare nei miei confronti con una forma di censura sotto mentite spoglie di “misura interdittiva” cercando di impedirmi, senza aver ancora celebrato un eventuale processo, senza aver ricevuto una condanna, senza alcuna sanzione disciplinare dal mio ordine professionale, e quello che è ancora più grave senza consentirmi di avvalermi del mio diritto di difesa alle fantomatiche accuse mosse alla mia persona, da qualcuno che da oltre un anno e mezzo sta cercando di imbastire sul sottoscritto una campagna di fango mediatico (ed ora anche giudiziario) nel vano tentativo di delegittimare il mio lavoro ed impedire la mia attività di giornalista professionista. Per la Procura di Taranto non valgono i decreti legge del Governo contro i quali si oppongono venendo smentiti dalla Corte Costituzionale, come a lei sicuramente ben noto (vedi caso Ilva) . Per alcuni dalla chiara “matrice politica” non vale la firma apposta dal Capo dello Stato, cioè dal Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, cioè da Lei signor Presidente su quei decreti Legge, firmati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e tutto ciò spiega come in questa procura sia necessario il ritorno al RISPETTO DELLE NORME DI LEGGE. Pertanto, signor Presidente, nello scriverle questa lettera aperta, che viene inviata al CSM ed alla Vigilanza del Ministero di Giustizia sotto forma di esposto mi permetta di fare un appello: faccia insediare al più presto possibile presso la Procura della repubblica di Taranto il nuovo Procuratore Capo dr. Carlo Maria Capristo, nominato recentemente dal CSM. La città, le persone per bene, le persone oneste a Taranto hanno bisogno di una “giustizia giusta”, di una “giustizia” senza conflitti d’interesse che invece da anni abbondano all’interno della Procura di Taranto. Occorre una “giustizia” necessaria esattamente quanto il risanamento ambientale di Taranto, dove muoiono di tumore bambini innocenti, così come vengono calpestati i diritti della Legge. Sono certo e fiducioso che una persona dalla sua storia e dal suo noto garantismo istituzionale vorrà informarsi ed attivarsi soprattutto per garantire la tutela della libertà di stampa ed il rispetto della Legge. Al Sud non si uccidono i giornalisti solo con la lupara, a Taranto si cerca di ucciderli anche con la mala-giustizia.
Stalking, per giornalista divieto di avvicinarsi a collega della Gazzetta, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 5 agosto 2016. Il gip del tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino ha disposto nei confronti di Antonio De Gennaro, direttore della testata giornalistica online «Corriere del giorno» edita e pubblicata dalla società Media company group, con sede legale a Roma, l’applicazione della misura cautelare che prevede il divieto di avvicinarsi al collega giornalista Cosimo Mazza, caposervizio aggiunto della redazione di Taranto de La Gazzetta del Mezzogiorno e vicepresidente dell’Assostampa di Puglia. De Gennaro dovrà restare ad almeno 500 metri dai luoghi di dimora e di lavoro del collega. Il provvedimento è legato all’ipotesi di reato di stalking e diffamazione nei confronti di Mazza. Per le stesse accuse, De Gennaro era stato già raggiunto nell’aprile scorso da provvedimento di divieto temporaneo di esercitare la professione di giornalista, per sei mesi, poi revocato dal tribunale del riesame presieduto dal giudice Michele Petrangelo. Successivamente il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto ha disposto la misura cautelare del divieto di avvicinarsi al collega Mazza. Secondo l’accusa, De Gennaro, direttore della testata giornalistica online «Corriere del giorno», avrebbe pubblicato «con frequenza settimanale e talvolta giornaliera articoli giornalistici e post dal contenuto diffamatorio» e «prima ancora, inviando a Cosimo Mazza sms dal contenuto molesto, nonché appostandosi di fronte alla sua abitazione» e «parcheggiando appositamente la sua autovettura" sotto l’abitazione di Mazza, «lo molestava, sì da cagionargli - ipotizzano i pm Giovanna Cannarile e Rosalba Lopalco - un perdurante e grave stato di ansia, una condizione di mortificazione personale e professionale, tale da costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita».
Mazza ed il giornalismo ingannevole di “Ribalta di Puglia” con i soldi dell’ILVA dei Riva. Salvo poi a pubblicità interrotta diventare ambientalista… ! Tutti i retroscena, documenti nomi e cognomi, sui protagonisti della “macchina del fango” giornalistica pugliese, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno” del 12 aprile 2016. “C’era una volta un magazine mensile, Ribalta di Puglia che usciva a singhiozzo, pubblicato da una società cooperativa, dove all’interno fra i soci ed amministratori compariva in qualità di socio-direttore responsabile il compianto Giuseppe (detto Pino) Catapano, un ex-cronista di giudiziaria del vecchio “storico” quotidiano tarantino Corriere del Giorno fondato nel 1947 da mio padre ed altre 3 suoi colleghi- soci. Il Catapano di cui vi parlo è il padre del giornalista Salvatore Catapano attualmente alle dipendenze della sede regionale RAI di Bari, un’ altro giornalista “creatura-miracolata” dalla generosità professionale ed economica di mio padre che lo volle e fece entrare con con sè nella costituita e diretta redazione tarantina del quotidiano Puglia diretto dall’indimenticabile Mario Gismondi edito dalla Cooperativa Olimpico, in cui lavoravo anche io all’inizio della mia carriera , insieme ad un giovane umile (e bravo!) esordiente Lorenzo D’ Alò attuale inviato speciale sportivo della Gazzetta del Mezzogiorno, ed il pubblicista Lino Frascella. La cooperativa tarantina InkLine all’atto della sua liquidazione avvenuta nel 2001 aveva come rappresentante legale Ida Castello, all’anagrafe, la moglie di Salvatore Catapano, la quale ha riaperto la sua attività con una ditta individuale(InkLine di Ida Castello) avente sempre lo stesso nome della cooperativa da poco liquidata, cioè InkLine con sede legale in corso Umberto 131 a Taranto della quale ha continuato ad utilizzare la carta intestata, inducendo in confusione a causa dell’omonimia delle attività editoriali, persino il dr. Italo Federici giudice delegato alla Sezione Stampa del Tribunale di Taranto. Dopo una “soffiata” molto bene informata, ed aver fatto formale richiesta scritta al giudice barese dr. Italo Federici del Tribunale di Taranto, abbiamo avuto regolare legittimo accesso al fascicolo relativo alla registrazione in Tribunale della testata giornalistica Ribalta di Puglia. E qui iniziano le sorprese. Infatti all’atto della morte di Pino Catapano che fungeva anche da direttore responsabile, abbiamo scoperto che il 18/01/2005venne nominato direttore responsabile al suo posto Cosimo (meglio noto come Mimmo) Mazza, che fra l’altro era anche alle dipendenze della redazione tarantina de La Gazzetta del Mezzogiorno, quotidiano che versa in una profonda crisi editoriale, e che esce attualmente grazie agli ammortizzatori sociali ed ai contratti di solidarietà, senza dei quali molti giornalisti e poligrafici avrebbero già perso il proprio posto di lavoro, a causa del continuo crollo delle proprie vendite in edicola. Con stupore abbiamo scoperto qualcosa che i lettori tarantini, i quali abituati agli articoli notoriamente “anti-Ilva” di Mazza sulla La Gazzetta del Mezzogiorno, si potrebbero e dovrebbero a dir poco stupire nello scoprire che proprio sotto la direzione di Mimmo Mazza, il magazine pubblicava sino al dicembre 2011 la pubblicità dell’ ILVA ed articoli redazionali, o meglio “markette” giornalistiche, in quanto violando le norme di legge sulla professionale giornalistica, ed ignorando la dovuta trasparenza del messaggio pubblicitario, apparivano sul mensile “Ribalta di Puglia” paginate” di informazione a pagamento inneggianti al colosso siderurgico. Qualcuno potrà obbiettare: ma cosa c’entra Mimmo Mazza con la pubblicità ed i soldi dell’ILVA. C’entra eccome! E vi spieghiamo il perchè. E’ infatti con i soldi degli inserzionisti pubblicitari che la ditta editrice della “signora Catapano” poteva pubblicare quella rivista. Ed è con i soldi degli inserzionisti che l’editore pagava il suo Direttore responsabile. Tutto ciò è facilmente presumibile, anzi lo diamo per scontato, visto che il giornalista Mazza è esponente del sindacato giornalistico di Puglia. Potete mai immaginare un giornalista-sindacalista che lavora in “nero” o gratis per un editore? L’articolo 57 del Codice Penale (letto in maniera coordinata con l’articolo 7 della legge 633/1941 e con l’articolo 6 del Cnlg), peraltro, dà al direttore il potere di controllare articoli, rubrica delle lettere, inserzioni e testi pubblicitari. L’ultima parola infatti spetta sempre al direttore responsabile. Ma quell' “ultima parola” evidentemente, Mimmo Mazza preferiva non proferirla. Ma c’è di più. Il Mazza proprio in virtù della sua intensa attività sindacale, che a Taranto non ha mai risolto un granchè, come i fatti confermano, vista la chiusura di quotidiani, periodici e televisioni, ed il licenziamento di svariate decine di giornalisti rimasti senza lavoro, dovrebbe ben sapere che per contratto il direttore di un giornale ha la facoltà ed il diritto di non accettare inserzioni pubblicitarie sgradire e poco “trasparenti. Il direttore di un giornale deve evitare la commistione informazione/pubblicità in base alla legge e al contratto collettivo. Poteva non sapere il giornalista-sindacalista Mimmo Mazza ignorare che nell’ambito del contratto, ad esempio, gli editori hanno assunto l’impegno (articolo 44) a tenere separati chiaramente informazione e messaggi pubblicitari e ciò “allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corretta informazione”. I direttori, con la stesura dell’articolo 44 del contratto risalente al 1988, “nell’esercizio dei poteri previsti dall’articolo 6 sono garanti della correttezza e della qualità dell’informazione anche per quanto attiene il rapporto tra testo e pubblicità” ? La legge non ammette ignoranza. E pretende la trasparenza e correttezza dell’informazione. Lo ha ribadito e sancito ancora una volta la Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione con la propria sentenza n. 22535 del 20 ottobre 2006 (Presidente Giudice Preden, Relatore, Giudice Durante) “L’obbligo del direttore del giornale di garantire la correttezza e la qualità dell’informazione anche per quanto concerne il rapporto fra testo e pubblicità – ha affermato la Cassazione – deriva dagli artt. 44 CCNL giornalisti e 4 D. Lgs. 74/1992; il contenuto dell’obbligo è di rendere la pubblicità chiaramente riconoscibile come tale mediante l’adozione di modalità grafiche di evidente percezione; lo scopo è di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali.” “La fascia dei soggetti tutelati – ha aggiunto la Suprema Corte – si estende a tutti i lettori senza alcuna distinzione in base al grado di cultura; può, in sostanza, affermarsi che il direttore di giornale deve garantire la correttezza e la qualità dell’informazione; a questo fine è tenuto a verificare se la pubblicità sia chiaramente riconoscibile come tale, distinguendosi da ogni altra forma di comunicazione al pubblico mediante modalità grafiche facilmente riconoscibili; in tale verifica non rileva il grado di cultura dei lettori, essendo a tutti accordata tutela; ove la verifica conduca a risultati negativi, il direttore deve impedire la pubblicazione del testo contenente la pubblicità, incorrendo altrimenti nelle sanzioni comminate dalla legge n. 69/1963“. Cioè la Legge professionale per l’esercizio della professione di giornalista. Il direttore non può ignorare le norme poste a salvaguardia dei minori e dei soggetti deboli nonché le norme elaborate dal legislatore a tutela dei consumatori (e dei lettori) e soprattutto il principio che “la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta” (articolo 1, punto 2, Dlgs 145/2007). Incalza l’articolo 23 del Dlgs 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), che ha sostituito sul punto il Dlgs 74/1992: “La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale. La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione”. “La pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione” afferma l’articolo 8 della legge 223/1990 (“legge Mammì”). Gli articoli 2 e 48 della legge professionale 69/1963 impegnano i giornalisti (a prescindere dalle qualifiche) ad essere e ad apparire corretti, a non ingannare il pubblico, ad essere leali. “Costituisce illecito disciplinare, in quanto contrario al prescritto dovere di lealtà nell’informazione, il comportamento del direttore responsabile di un periodico, che avalli la pubblicazione di una copertina e di articoli dotati di contenuto pubblicitario non chiaramente differenziato rispetto al dato informativo” (Trib. Mi 11/2/1999). “E’ dovere del direttore di un giornale o di un periodico evitare che prodotti reclamizzati vengano confusi con quanto, nella stessa pagina, è argomento redazionale. Il direttore di un giornale deve evitare la commistione informazione/pubblicità in base alla legge e al contratto collettivo” (Cassazione Sezione Terza Civile n. 22535 del 20 ottobre 2006). Ma come dicevano i latini “pecunia non olet” cioè “il denaro non puzza” e quindi per Mazza in veste di direttore responsabile (probabilmente è stata l’unica volta che gli hanno fatto dirigere un giornale…) alla fine del 2011 i soldi della pubblicità commerciale dell’ILVA, e le “paginate redazionali che pubblicava sul periodico Ribalta di Puglia, in cui non si evinceva che non si trattava di informazione vera e propria ma bensì di pubblicità redazionale, andavano più che bene. A Taranto, o meglio in Puglia, come le vicende di corruzione di giornalisti svelate dalle intercettazioni sull’inchiesta Ambiente Svenduto confermano e comprovano, invece va tutto bene … Se una tale analoga commistione fra informazione e pubblicità fosse successa a Milano, all’ Ordine dei Giornalisti della Lombardia avrebbero aperto nei confronti di Mimmo Mazza un provvedimento disciplinare sulla propria responsabilità di direttore. Infatti, anche secondo il Tribunale di Milano (sentenza dell’ 11/02/1999 a seguito di un ricorso contro la decisione del Consiglio Nazionale dei Giornalisti che aveva a sua volta rigettato il ricorso di un giornalista-direttore di un periodico, contro un provvedimento dell’ Ordine lombardo) “costituisce illecito disciplinare, in quanto contrario al prescritto dovere di lealtà nell’informazione, il comportamento del direttore responsabile di un periodico, che avalli la pubblicazione di una copertina e di articoli dotati di contenuto pubblicitario non chiaramente differenziato rispetto al dato informativo“. Chissà cosa ne penseranno adesso gli “amici” ambientalisti di Mazza? E soprattutto cosa ne penseranno il suo editore ed il suo direttore Giuseppe De Tommaso alla Gazzetta del Mezzogiorno. O forse anche a Bari per qualcuno…i soldi dell’ILVA e dei Riva non puzzavano? Abbiamo scoperto qualcosa di molto più recente. e cioè che l’editore (Ida Castello) ed il direttore responsabile (Mimmo Mazza) di Ribalta di Puglia, contrariamente a quanto prevede la legge, dal dicembre 2011 ad oggi, non hanno mai più depositato presso la cancelleria della volontaria giurisdizione del Tribunale di Taranto, che gestisce il registro della stampa, le previste copie della rivista diretta da Mazza. Infatti l’unico atto compiuto e risultante nel registro è l’ultimo cambio di direzione del periodico avvenuto il 22 ottobre 2015, con il passaggio di “consegne” fra Mimmo Mazza e Vittorio Ricapito, un giornalista freelance tarantino, rimasto disoccupato dopo la chiusura del quotidiano TARANTO OGGI , e che funge da addetto stampa all’ Ordine degli Avvocati di Taranto (ingaggiato diversi anni fa dall’ Avv. Angelo Esposito) e collabora saltuariamente da Taranto sull’edizione barese del quotidiano La Repubblica. Una variazione di direzione che sembra alquanto “strana” se non irreale poichè ci risulta che la rivista Ribalta di Puglia non viene più stampata da qualche anno, come ci raccontò qualche mese prima di ammalarsi Salvatore Catapano (e fortunatamente riprendersi), cioè il marito della Castello editore del magazine Ribalta di Puglia. Ci risulta che il Presidente del Tribunale di Taranto ed il giudice delegato dr. Italo Federici hanno scritto all’editore ed al direttore della rivista “fantasma” Ribalta di Puglia invitando loro a voler depositare in Tribunale tutte le copie mancanti, pena la decadenza e cancellazione della testata, secondo quanto prevedono le vigenti norme di Legge. Una cosa è certa: quello che accade nel mondo dell’informazione e giornalismo a Taranto, non accade in nessun’altra parte d’ Italia, grazie anche al “silente” Ordine dei Giornalisti. Che forse farebbe a darsi una svegliata! P.S. Avevamo dimenticato qualcosa: anche i contributi economici ricevuti dal mensile “Ribalta di Puglia” dalla Provincia di Taranto sotto la presidenza di Gianni Florido evidentemente non puzzavano. Si, proprio quel Florido arrestato dalla Procura di Taranto per l’inchiesta Ambiente Svenduto. Ma a Taranto di svenduto c’era anche il giornalismo”.
Gli effetti dello scritto, però, non si fanno attendere.
Stalking: interdizione sei mesi a direttore giornale on line, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 21 aprile 2016. Il gip del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino ha disposto l’applicazione della misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare la professione di giornalista, per sei mesi, ad Antonio De Gennaro, direttore della testata giornalistica online “Corriere del giorno” edita e pubblicata dalla società 'Media company group, con sede legale a Roma.
Il provvedimento è legato all’ipotesi di reato di stalking nei confronti del giornalista Cosimo Mazza, caposervizio aggiunto della redazione di Taranto de La Gazzetta del Mezzogiorno e vicepresidente dell’Assostampa di Puglia. Secondo l’accusa, De Gennaro - che risponde anche dell’ipotesi di diffamazione - avrebbe pubblicato «con frequenza settimanale e talvolta giornaliera articoli giornalistici e post dal contenuto diffamatorio» e «prima ancora, inviando a Mazza Cosimo, con l’applicazione whatsapp, sms dal contenuto molesto, nonché appostandosi di fronte alla sua abitazione» e "parcheggiando appositamente la sua autovettura» sotto l'abitazione «del Mazza, lo molestava, sì da cagionargli - ipotizzano i pm Giovanna Cannarile e Rosalba Lopalco - un perdurante e grave stato di ansia, una condizione di mortificazione personale e professionale, tale da costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita». De Gennaro nei giorni scorsi aveva annunciato querele nei confronti di Mazza e del sindacato dei giornalisti per aver solidarizzato con i responsabili dell’edizione del Corriere del Giorno di Puglia e Lucania, giornale tarantino chiuso il 31 marzo 2014 «per fallimento (liquidazione coatta amministrativa)», che avrebbero utilizzato - sostiene De Gennaro - «un marchio registrato» di sua proprietà.
L’Associazione della Stampa di Puglia annuncia in una nota di aver conferito «mandato ai suoi legali a tutela e sostegno dei suoi dirigenti, vittime ormai da quasi due anni di diffamazione e stalking e per costituirsi parte civile nel futuro processo» ad Antonio De Gennaro, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno il 21 aprile 2016. «L’Assostampa, nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura - è detto - auspica che sia fatta piena luce, nel più breve tempo possibile, su quanto avvenuto allo scopo di riportare la necessaria serenità nel mondo dell’informazione pugliese, e in quello della provincia di Taranto in particolare, nella speranza che la misura sinora adottata sia rispettata e si riveli concretamente idonea a far cessare l’azione criminosa contestata all’indagato». «Il sindacato unitario dei giornalisti - continua - coglie l’occasione per ribadire che l’operazione messa in piedi dal De Gennaro ha come unico obiettivo quello di danneggiare i colleghi del Corriere del Giorno di Puglia e Lucania, quotidiano che ha sospeso le pubblicazioni nel marzo del 2014 e la cui testata è stata messa in vendita dal liquidatore allo scopo di soddisfare almeno in parte i creditori, a partire proprio dagli ex dipendenti. Questa vicenda deve anche interrogare l’Ordine dei Giornalisti sulla compatibilità di tali comportamenti con gli obblighi e con il decoro della professione, oltre che sull’opportunità di mantenere iscritto nei propri elenchi chi si fa scudo del tesserino per fare ben altro. In questo caso, parliamo di un signore che ha già alcune condanne passate in giudicato».
Per tre magistrati rinviata la pensione. Per il procuratore Sebastio tutto tace…, scrive “Il Corriere del Giorno" il 9 dicembre 2015. A Taranto si vocifera sul possibile incarico al procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente a capo della procura di Trani, al posto di Franco Sebastio (che ha già perso un ricorso al Tar di Lecce e ne ha presentato un altro a quello del Lazio) come nuovo capo della procura tarantina, mentre ricorrono voci da ambienti ministeriali , che per la poltrona di capo della procura, avrebbe fatto richiesta anche un magistrato attualmente in organico alla procura della repubblica di Roma, sul cui nome vige però il riserbo più assoluto. Il procuratore Raffaele Guariniello e il procuratore generale Marcello Maddalena potrebbero restare al loro posto per qualche mese. In realtà al momento non lo sanno nemmeno loro, anche se vi sono buone speranze. Non resta che attendere per capire le decisioni del Governo e del Csm dopo la decisione del Consiglio di Stato che ha accolto soltanto il ricorso presentato da tre alti magistrati, Mario Cicala ex presidente dell’Anm, Antonio Merone e Antonino De Blasi per i quali il Consiglio di Stato in via cautelare ha “congelato” il loro pensionamento. Decisione che non è stata adottata per altre toghe per le quali una settimana fa lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura aveva ufficializzato la “fine” del servizio per sopraggiunto limite di età che si è abbassata da 75 a 70 anni. I tre magistrati della Cassazione, ai quali si sono poi aggregati altri due colleghi, avvocati dello Stato, avevano impugnato il loro pensionamento anticipato, presentando un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in veste di Presidente del Csm il quale a sua volta aveva trasferimento il procedimento per dovuta competenza al Consiglio di Stato, secondo quanto previsto dalla Legge. La decisione dei giudici amministrativi al momento, e quindi in via cautelare è stata quella di sospendere il loro pensionamento in attesa che il Ministero della Giustizia e Palazzo dei Marescialli (sede del Csm) producano la documentazione necessaria per “valutare l’incidenza del loro pensionamento sulla funzionalità degli uffici giudiziari”. Il Governo Renzi, con il decreto legge 90/2014 di riforma della pubblica amministrazione, ha abrogato il trattenimento in servizio biennale per tutti i dipendenti pubblici che avessero maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia. La misura, in vigore dall’autunno del 2014, ha travolto anche la possibilità per i magistrati di “trattenersi” in servizio per un ulteriore periodo di 5 anni dopo il compimento dell’età massima ordinamentale, fissata per questo comparto a 70 anni. La riforma ha previsto però un periodo transitorio sino al 31 dicembre di quest’anno, di recente parzialmente prorogato con il decreto legge sulla giustizia (articolo 18, Dl 83/2015) sino al 2016, per consentire la sostituzione graduale dei vertici degli uffici giudiziari, tutti ultra 70enni ed evitando così sconquassi al sistema giudiziario. Il ministro di Giustizia Andrea Orlando in un’intervista al TG1 delle 20, ha preannunciato che “ricorreremo in tutte le sedi consentite, perchè riteniamo questo intervento abnorme, che rischia di avere un impatto negativo su tutto il funzionamento del sistema-giustizia”. “Aspettiamo e vediamo – ha commentato il procuratore generale Maddalena – bisogna vedere cosa deciderà di fare il governo e il parlamento. Al momento c’è una sospensione cautelare, e l’unica cosa che potrebbe cambiare porterebbe essere se il governo decidesse di fare un decreto legge prorogando per tutti il limite di età ai 75 anni: io guadagnerei dieci mesi, Guariniello tre. Edoardo Denaro 2 anni e 4 mesi. Ma io ammetto che mi sono già abituato all’idea di andare in pensione…” aggiungendo di non avere intenzione di fare ricorso “se però ci fosse un provvedimento di proroga, certo andrò avanti”. Un comportamento e uno stile questo, molto rispettoso delle istituzioni e ben diverso da altri magistrati che hanno optato per la “guerriglia” giudiziaria contro lo Stato per non abbandonare la propria poltrona. Probabilmente Guariniello potrebbe decidere nella stessa direzione di Maddalena. La decisione del Consiglio di Stato è stata una “doccia fredda” per chi aveva presentato delle domande per i vari incarichi messi a concorso dal Csm, con più richieste in tutta Italia, basandosi esclusivamente sull’ anzianità ed i meriti dei concorrenti alle varie Procure. Mentre a Taranto si vocifera del possibile incarico al procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente a capo della procura di Trani, al posto di Franco Sebastio (che ha già perso un ricorso al Tar di Lecce e ne ha presentato un altro a quello del Lazio) come nuovo capo della procura tarantina, mentre ricorrono voci da ambienti ministeriali , che per la poltrona di capo della procura, avrebbe fatto richiesta anche un magistrato attualmente in organico alla procura della repubblica di Roma, sul cui nome vige però il riserbo più assoluto. Nessuna speranza invece per il procuratore aggiunto di Taranto dr. Pietro Argentino, a causa anche di una disputa giudiziaria pendente dinnanzi alla Procura di Catanzaro per delle reciproche denunce intercorse con dei giudici di Potenza, i quali in occasione del processo al pm Matteo di Giorgio (con condanna) avevano ordinato ai sensi dell’art. 207 cp “la trasmissione al PM in sede degli atti processuali relativi ai testi seguenti, quanto al “reato di falsa testimonianza“, vicenda per la quale vi è anche un procedimento disciplinare a suo carico aperto dinnanzi al Csm.
Il Csm manda in pensione il procuratore di Taranto Franco Sebastio che ricorre al TAR, scrive “Il Corriere del Giorno" il 3 dicembre 2015. Franco Sebastio è uno dei magistrati che ha deciso di resistere, impugnando davanti al Tar il bollettino ufficiale del ministero della Giustizia che alcune settimane fa ha messo a concorso il suo posto. Il TAR sinora non è entrato nel merito in quanto il provvedimento che dispone il suo pensionamento anticipato dal prossimo primo gennaio non era ancora scattato. Sebastio ha deciso di continuare la sua “battaglia” personale, perché afferma “è una questione di principio”. Una valanga di pensionamenti tra i magistrati dal primo gennaio prossimo: il plenum del Csm ha deliberato la cessazione dalle funzioni, per raggiunti limiti di età, di 84 toghe per effetto della riforma, varata lo scorso anno, che ha riportato a 70 anni il limite massimo di età per restare in servizio in magistratura. Il procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio (73 anni), che dal 2008 guida la Procura di Taranto, ha impugnato dinanzi al Tar il bollettino ufficiale del Ministero della Giustizia che alcune settimane fa ha messo a concorso il suo posto. Lo si apprende da fonti giudiziarie. Il ricorso sarebbe stato presentato nello scorso mese di novembre. Oggi c’è stata l’ultima infornata dei “forzati” della pensione deliberati in blocco dal CSM: più di un’ottantina i collocamenti a riposo. Avendo ora il Csm deliberato a partire dal prossimo primo gennaio il suo pensionamento, il procuratore Sebastio impegnato nel processo all’ ILVA sarebbe intenzionato a perfezionare l’impugnativa. Franco Sebastio è uno dei magistrati che ha deciso di resistere, impugnando davanti al Tar il bollettino ufficiale del ministero della Giustizia che alcune settimane fa ha messo a concorso il suo posto. Il tribunale amministrativo regionale sinora non è entrato nel merito in quanto il provvedimento che dispone il suo pensionamento anticipato dal prossimo primo gennaio non era ancora scattato, ma Sebastio ha deciso di continuare la sua “battaglia” personale, perché afferma “è una questione di principio”. Tarantino, Franco Sebastio nato nel 1942, è cancelliere in Tribunale già nel ’62, ad appena 20 anni, seguendo le orme di suo padre e suo nonno (cancellierato: roba loro, ndr). Sette anni dopo entra nei ruoli della magistratura. Prima pretore a Gallarate, quindi a San Pietro Vernotico e infine nella sua città Taranto, dove svolge una lunga carriera. Nel 1982, da pretore è sua la prima sentenza di condanna per i vertici del siderurgico di Taranto, all’epoca di Stato (Italsider poi trasformatasi in ILVA), per “inquinamento”. Una sentenza, ci ha detto ieri Sebastio, “che a ben vedere sembra scritta oggi. La triste conferma che non è cambiato molto”. Procuratore aggiunto a Taranto per otto anni, Sebastio nel novembre 2008 a 65 anni diventa procuratore della Repubblica di Taranto, conquistando quello che ha sempre sognato: concludere la carriera nella sua città. Nel 2012 ottenne la riconferma a capo della procura tarantina per altri quattro anni. Il procuratore capo di Taranto non è il solo magistrato ad essere pronto a ingaggiare con il Governo il braccio di ferro in punta di “diritto”: identica decisione è stata adottata anche dal presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli dr. Carminantonio Esposito. Tra i magistrati che ha hanno deciso di rispettare la nuova norma sul pensionamento, vi è il dr. Marcello Maddalena, che laconicamente ha commentato “tutto quel che posso dire è che da gennaio farò il pensionato”. Tra i numerosi magistrati costretti al pensionamento compaiono anche Giuseppe Gennaro e Mario Cicala entrambi ex presidenti dell’Associazione nazionale magistrati. I numeri sembrano quelli di un vero e proprio esodo: solo quest’anno tra capi degli uffici giudiziari e loro vice andranno in pensione 500 magistrati a seguito della riforma del Governo che ha riportato a 70 anni l’età della pensione delle toghe, e che rischia di cambiare gli equilibri interni e le carriere nella magistratura. A dover passare la mano una vera e propria generazione di giudici e pm, titolari di inchieste che hanno lasciato il segno. Tutti magistrati che hanno superato i 70 anni. Un provvedimento che fa seguito a tante uscite centellinate nel tempo, tra le più recenti quella di uno degli storici pretori di assalto, Gianfranco Amendola, procuratore di Civitavecchia, la cui ultima inchiesta è stata sul rogo all’aeroporto di Fiumicino. Tanti i nomi di spicco tra chi è obbligato a appendere la toga al chiodo a partire dal primo gennaio prossimo. Si va da Raffaele Guariniello, titolare di tante inchieste sulla tutela della salute e dell’ambiente, tra cui il processo ThyssenKrupp e Eternit, al Pg di Torino Marcello Maddalena, che si è occupato di Telekom Serbia e del caso Moggi-Pairetto. Da Ferdinando Pomarici, pm del caso Abu Omar, avvenuto all’indomani delle Torri Gemelle. L’imam milanese fu oggetto di una extraordinary rendition (un rapimento) da parte della Cia e dell’ex Sismi, per costringerlo a rivelare notizie sul terrorismo islamista. Durante il processo i governi Berlusconi e quello Prodi opposero il segreto di Stato sugli accordi segreti intercorsi tra Italia e Usa sulle extraordinary rendition. E se alcuni nomi non sono noti al grande pubblico, sono comunque legati a inchieste importanti: è il caso di Corrado Carnevali, procuratore di Monza e che da pm a Milano ha sostenuto l’accusa nel processo contro il banchiere Roberto Calvi e altri dirigenti del Banco Ambrosiano e nel processo per l’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Tra le i magistrati a cui è stata anticipata la pensione, compare anche Mario Barbuto, che è stato presidente del tribunale di Torino, dove ha adottato prassi per velocizzare l’iter dei procedimenti giudiziari, è l’attuale capo dell’Organizzazione giudiziaria del ministro Orlando, e Melita Cavallo, attuale presidente del tribunale per i minorenni di Roma e tra i maggiori esperti in materia di adozioni. Marini: “Irrisolto l’attentato a papa Wojtyla. Brigatisti ancora impuniti”. Fra i magistrati “colpiti” dal pensionamento anticipato vi è anche Antonio Marini, avvocato generale presso la Corte d’appello di Roma, titolare nella sua lunga carriera delle inchieste sull’attentato al Papa, sulla strage di via Fani e sull’omicidio di Massimo D’Antona. Marini non si dà pace. “In questo momento non me la sento di abbandonare il campo. Sono intenzionato in qualsiasi sede istituzionale a mettere la mia esperienza di 40 anni di lotta antiterrorismo al servizio dello Stato”. Dopo essere stato uno dei pm che ha sostenuto l’accusa più di vent’anni fa nei processi contro le brigate rosse per il sequestro Moro, è sua l’inchiesta aperta nell’aprile scorso per identificare i due personaggi presenti nell’agguato di via Fani a bordo di una moto Honda. “La nuova ipotesi investigativa – spiega il magistrato – è che quei due misteriosi personaggi fossero agenti dei servizi segreti alle dipendenze del colonnello Guglielmi del Sismi, anch’egli presente al momento della strage”. “Ma i buchi neri del processo sul sequestro Moro – continua Marini – sono anche altri. Manca all’appello, ad esempio, l’uomo che guidava il furgone utilizzato per trasferire il politico da via Massimi a via Bitossi. Quel che mi dispiace di più è che restino impunite persone che hanno partecipato a un fatto così grave”. “Il mio cruccio, la verità monca sull’attentato a Wojtyla”. “Dopo l’assoluzione dei bulgari – ricorda Marini – fui ricevuto da Giovanni Paolo II che mi chiese, ‘E allora, chi è stato…?’. ‘È stato un complotto’, gli risposi. E allora sua Santità mi interrogò: ‘Sì, lo so. Ma di chi?’. ‘Non lo sapremo mai’, gli dissi. La corte ha assolto i bulgari per insufficienza di prove. E così cadde il teorema della pista internazionale, del complotto ordito dal Kgb, ed eseguito dai servizi bulgari. Purtroppo quell’attentato del 1981 è rimasto un gigantesco punto interrogativo”. “Alla prima udienza capii che avrei perso il processo”. “Tutto il processo s’è giocato durante la prima udienza, quando il presidente della Corte decise di interrogare subito, e non alla fine, l’imputato principale. Ali Agca arrivò, si sedette, e cominciò un delirio dicendo di essere Gesù e cose di questo genere. In quel momento mi sentii crollare il mondo addosso, volevo nascondermi sotto lo scranno della pubblica accusa. Agca per me, oltre che imputato, era anche testimone d’accusa contro i bulgari, era lui che aveva parlato del complotto del Kgb con il lavoro ‘sporco’ affidato agli 007 bulgari. Ma con quel numero al primo interrogatorio, crollò del tutto la sua credibilità. E i bulgari finirono assolti per insufficienza di prove”. “Il Papa vide un miracolo”. “Non era mai successo che un proiettile calibro nove, sparato a breve distanza, non uccidesse un uomo. Una mano sparò, e forse un’altra deviò il colpo, attutendolo. E il Papa in quella casualità fortuita che lo salvò ravvisò il miracolo. Per questo mi chiese alla fine del processo di avere il proiettile che lo colpì: quel frammento di piombo fu incastonato nella corona della Madonna di Fatima. Mi attirai delle polemiche perché mi accusarono di aver dato via un reparto giudiziario. In realtà ai fini processuali non serviva più”.
Assolto il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Sconfitta per il procuratore capo Sebastio, scrive “Il Corriere del Giorno del 16 dicembre 2015. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto dr. Vita Lavecchia ha assolto il sindaco Ippazio Stefàno “perché il fatto non sussiste” dalla ridicola accusa di porto d’arma da fuoco in luogo pubblico in relazione a un episodio avvenuto il 21 maggio del 2012. Infatti il primo cittadino del capoluogo jonico, era in possesso di un regolare porto d’armi, quando venne fotografato mentre brindava alla sua rielezione a primo cittadino per il centrosinistra in un comitato elettorale e spuntava una pistola dalla cinta del pantalone Stefàno, che era il Sindaco uscente, dopo essere stato rieletto, aveva subito forti minacce mafiose da noti pregiudicati che ora sono tutti in carcere per le loro attività delinquenziali. La foto, pubblicata dalla stampa, suscitò polemiche, subite cavalcate dai soliti e ben noti “pennivendoli-ventriloqui” che seguono le cronache giudiziarie a Palazzo di Giustizia. Il sostituto procuratore della Repubblica dr.ssa Marina Mannu in udienza aveva chiesto la condanna a un anno. Stefàno, egregiamente difeso dagli avvocati Carlo e Claudio Petrone, ha sempre dichiarato di aver portato la pistola con sé in quanto come ben noto aveva subito numerose minacce, e nei giorni precedenti era stato pedinato e accerchiato davanti al portone di casa da alcuni noti pregiudicati, che attualmente si trovano detenuti in carcere. Fu lo stesso Stefàno a rivelarlo ad un collega serio come il giornalista Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Così raccontava il sindaco di Taranto “Quattordici aggressioni m’hanno fatto, quattordici. Coi coltelli, a schiaffi, pure la benzina addosso m’hanno tirato. Poi non le dico gli insulti. Lo Stato non consegna le case? E quelli vengono da me. Sprofonda la statale? Sempre da me, vengono. Quindici vigili urbani sono finiti in ospedale, e allora io dicevo: ragazzi, scansatevi, me la vedo io. Tutti sanno dove abito, e mi aspettano sotto il portone, quasi sempre per parlarmi, ma certe volte non solo per parlare. Io sto lì”. Raccontava Stefàno al Corriere della Sera: “mi hanno minacciato, durante la campagna elettorale m’è arrivata una lettera a casa: ritirati, mi dicevano, se no tu e la tua famiglia rischiate. Io ho denunciato tutto alla Digos, ma non voglio la scorta, non voglio che qualcuno si giochi la pelle per me, non uso nemmeno l’auto di servizio. E non mi sono ritirato. Mica posso avere scariche di adrenalina ogni volta che uno mi viene incontro” – aggiungeva Stefàno “avrei potuto strillare in campagna elettorale, prendevo dieci punti in più. Invece sono stato muto. Non volevo infangare il nome di Taranto, non volevo che si pensasse che i tarantini sono violenti”. Ecco chi fu a scoprire l’arma sotto la giacca di Stefàno: il settimanale WeMag. Altro che i soliti “pennivendoli” locali…Era stato persino il procuratore capo della Repubblica Franco Sebastio (in pensione dal prossimo 1 gennaio) a firmare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari (ex art.415 bis del Codice di Procedura Penale), nei confronti del Sindaco Stefàno accusandolo di aver partecipato avendo con se la pistola, alla riunione-festa svoltasi il 22 maggio del 2012 nel circolo “Sinistra democratica per Stefàno”. Secondo la Procura tarantina, Stefàno non avrebbe potuto e dovuto, pur dotato di regolare porto d’armi, avere con se l’arma. Ma oggi a distanza di 30 mesi, la giustizia quella vera, che non ha “appetiti elettorali”, ha trionfato, ed il Sindaco Ippazio Stefàno, persona per bene ed incorruttibile, è stato assolto. Adesso tutto questo statene pur certi i “passacarte” e “ventriloqui” (scambiati per giornalisti…) sempre pronti a scondinzolare intorno ai magistrati tarantini, non ve lo racconteranno. Qualcuno di loro sperava in una condanna. Chissà….forse voleva sentirsi meno solo! P.S. un giornalista V.R. attualmente disoccupato, con i suoi commenti suFacebook tempo fa pretendeva dall’alto della sua esperienza….di darci lezione di giornalismo, sostenendo addirittura che “copiavamo” da lui. Guardate un pò cosa ha pubblicato oggi il quotidiano per cui fa il corrispondente. Il sindaco Stefàno nella didascalia della foto viene confuso, ed indicato come un “pm.” cioè un pubblico ministero. Scusate, ma secondo voi si può mai copiare da certa gente?
Caro procuratore Sebastio le scrivo….., scrive Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno" dell’8 giugno 2015. Egregio Procuratore della Repubblica di Taranto, per mia fortuna non ho frequentazioni con i suoi uffici, ed anche se la conosco da circa 30 anni, non ho mai avuto occasione di frequentarla come invece fanno assiduamente alcuni giornalisti di Taranto, i quali vengono definiti dagli avvocati del Foro “i ventriloqui della Procura tarantina”. E sono lieto quindi di essere ampiamente equidistante nel rispetto dei reciproci ruoli e funzioni che ricopriamo. Le scrivo quindi questa lettera “aperta” con riferimento alle sue parole da lei pubblicamente espresse venerdì scorso nel cortile della caserma “De Carolis” sede del Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto, in occasione della ricorrenza annuale della Festa dell’Arma dei Carabinieri. Istituzione da me notoriamente amata e rispettata e con la quale a livello centrale presso il Comando Generale da oltre 30 anni intrattengo rapporti idilliaci di collaborazione ed amicizia, senza aver bisogno di indossare il “Cappellone” dell’ Arma, o di ricevere la tessera “onoraria” dell’ Associazione Carabinieri in congedo da lei ricevuti su iniziativa personale del suo “caro amico” Col. Daniele Sirimarco, attuale comandante provinciale a Taranto per i prossimi due mesi e mezzo, in quanto a settembre come ben noto a tutti ormai lascerà l’incarico per avvenuta compiuta decorrenza del periodo di comando previsto normalmente di prassi. Ero presente anche io venerdì scorso in caserma ad ascoltarla, ed a scanso di equivoci, ho registrato tutta la manifestazione, compreso quindi il suo intervento, dove lei ha parlato della stampa, di “alcuni” che poi in realtà è uno solo: il sottoscritto. Quindi avrebbe avuto maggior stile invece di applicare il plurale “maiestatis”, di coniugare meglio la lingua italiana e parlare al singolare. Ho avuto qualche dubbio, ed ho quindi fatto passare qualche giorno proprio per fare le opportune verifiche, ed essere certo, come lo sono, che sono stato solo io a scrivere e parlare di lei. Lei ha detto (testualmente) che ha conosciuto “nei 40 anni di servizio, tanti comandanti, tanti ufficiali, tanti Carabinieri ed ho sempre nei loro confronti un rapporto di simpatia ed affetto”. Ed in questo mi ha battuto di qualche anno…, avendo avuto dal 1983 ad oggi anche il sottoscritto uno splendido rapporto con semplici e eccezionali carabinieri, sottufficiali, ufficiali, comandanti, colonnelli, generali, comandi provinciali, di brigata, legione, e comandanti generali dell’ Arma, nelle mie frequentazioni istituzionali allorquando lavoravo (notoriamente) nello staff del Presidente del Consiglio, poi due ministri Guardasigilli, un Ministro delle Partecipazioni Statali, un ministro al Commercio con l’ Estero, ed un sottosegretario al Ministero dell’ Interno con delega alla Polizia di Stato, ecc. in qualità di “portavoce”, cioè di giornalista-ufficio stampa. Ho avuto anche io come lei, tante frequentazioni di “militari”, anche superiori al ruolo e funzioni di un Comandante provinciale dell’Arma. Molti dei Carabinieri che ho conosciuto e frequentato, creando anche rapporti di amicizia, hanno fatto una brillante carriera istituzionale nell’Arma e nei “Servizi”. Ma io non ho mai “creato una coppia”, e non ho mai visto una rapporto così stretto fra un Procuratore Capo ed un ufficiale dei Carabinieri, come lei ha detto riferendosi al suo rapporto molto “stretto” che intrattiene con il colonnello Sirimarco. Scelte e stili di vita differenti. In mio articolo dal titolo “Svanito il porto delle nebbie della Procura di Roma, a Taranto la “Procura della diossina”. Su cui bisogna fare chiarezza“ dello scorso 2 aprile (se lo ha dimenticato può rileggerlo QUI ) ricordavo quante cose “strane” ed illegali accadono a Taranto e provincia sotto gli occhi “distratti” della Procura di Taranto da lei guidata, che molto spesso non ha fatto rispettare ed applicato le Leggi ed i decreti legislativi vigenti, dimenticando anche le norme emanate dal CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura, (che chiunque può leggere QUI,) e la cui lettura sarebbe necessaria… a qualche suo collega della procura tarantina. Ebbene sappia che pubblicamente ed alla presenza di terzi non pochi rappresentanti delle istituzioni locali, della politica, numerosi avvocati tarantini, persino più di qualche “servitore dello Stato” fra cui appartenenti alle Forze dell’Ordine mi hanno fatto i complimenti per aver avuto il coraggio (io direi, in realtà, il dovere) di scrivere quello che ho scritto nel mio precedente editoriale a lei sicuramente noto. Nel frattempo ho scoperto anche che alcuni investigatori tarantini nel corso delle loro indagini spesso e volentieri identificano l’associazione mafiosa preferendo trasmettere gli atti alla Procura della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Sarebbe interessante chiedere a loro il perchè…Non è un offesa annunciare l’imminente pensionamento di un magistrato. Succede a tutti. E’ successo all’(ex) presidente del Tribunale di Taranto dr. Antonio Morelli, e succederà anche a lei. Nessuno le ha augurato la pensione, anche se in realtà è un augurio vero. “Andare in pensione” significa porre fine alla propria attività lavorativa e finalmente ad una certa età, riposarsi. Lei nel suo discorso di saluto e ringraziamento per il “cappellone” ha detto che “Ho sempre avuto con i Carabinieri un rapporto di simpatia e di affetto. Qualcuno ha notato questa vicinanza, ne ha anche scritto. In effetti è così. Un Magistrato che sente amico i rappresentanti delle forze dell’ordine per quanto riguarda il rapporto di servizio, io penso che costituisca un fatto positivo, io dico un privilegio. Qualcuno dice “quando se ne và?” Si è scritto “se ne va a fine giugno”, qualcun’altro “se ne va a fine anno”. Ma al di là di quelle che possono essere le partenze, gli arrivi, i ricambi, rimane sempre questo rapporto”. Ebbene caro Procuratore Sebastio, mi spiace confutarla e contestare alcune sue affermazioni come quella “qualcuno ha fatto già i nomi dei miei eventuali sostituti” sarebbe stato più corretto fare nomi e cognomi, in maniera tale che ognuno nel suo ruolo e compito si assuma le sue responsabilità. Noi giornalisti siamo costretti per Legge a farlo, i magistrati hanno sempre detto e fatto quello che volevano, anche se adesso finalmente grazie alla riforma pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 4 marzo 2015, n. 52, vi è la nuova Legge 27 febbraio 2015, n. 18 sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati. La “festa” è finita. Nessun cittadino italiano è un “unto dal Signore”, e come è giusto che sia, chi sbaglia, ed a qualsiasi titolo e ruolo, deve risponderne! Ebbene non esiste nè “qualcuno”, nè “qualcun altro”, ma solo un solo giornalista e cioè il sottoscritto che ha avuto il coraggio di scrivere quello che non solo pensa, ma quello che ha scoperto “documentalmente”, e che metterà a disposizione dell’Autorità competente preposta, che non è sicuramente la Procura della Repubblica di Taranto. Concludendo, le ricordo anche una “stranezza” o meglio una “leggerezza”… Quella di andare a trovare in redazione “per solidarietà” l’anno scorso un gruppo di giornalisti soci di una Cooperativa editrice fallita (come lei sa, la liquidazione coatta è una procedura del diritto fallimentare) mettendo in dubbio la dovuta equidistanza della Procura della Repubblica nei confronti di qualcuno che potrebbe rischiare la denuncia penale e bancarotta fraudolenta, se il curatore attenendosi ai suoi doveri d’ufficio, e soprattutto se la Guardia di Finanza che come ha sempre fatto nella stragrande maggioranza dei casi , dovessero fare qualche ulteriore controllo e ravvedere delle responsabilità penali…Infine le confesso che mi piacerebbe video-intervistarla e farle tante domande. Anche scomode. Ma ho forti dubbi che lei accetterà. In ogni caso l’invito è pubblico, aspetto una sua risposta. Cordialmente.
Tutto quello che l’Ordine dei Giornalisti ha dimenticato …. (o ignora ? ) sulla vicenda Abbate-Pelillo, scrive “Il Corriere del Giorno" il 18 gennaio 2016. Leggere il comunicato stampa di ieri pubblicato sul sito dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia di solidarietà al giornalista Luigi Abbate, che non scrive per nessun organo d’informazione e non rappresenta alcuna testata giornalistica è a dir poco vergognoso, e ci fa vergognare di essere iscritti all’ Ordine anche noi, che lavoriamo in un quotidiano online, e che per nostra fortuna non abbiamo alcun rapporto con i sindacalisti o pensionati che siedono nel consiglio dell’ordine in Puglia. Probabilmente se all’ordine si preoccupassero di fare il loro dovere d’ufficio (sono incaricati di pubbliche funzioni) magari acquisendo le intercettazioni in possesso della Procura della Repubblica di Taranto di qualche loro iscritto come il barese Michele Mascellaro quando dirigeva il quotidiano Taranto Buona Sera e si “prostituiva” professionalmente ed in proprio con Girolamo Archinà e l’ ILVA, ed applicassero le norme deontologiche previste dalla Carta dei Doveri del Giornalista non sarebbe un male…anche perchè non facendolo rischierebbero delle conseguenze penali per “omissioni ed abusi in atti d’ufficio”. Così come non sarebbe un male se si documentassero sui comportamenti poco “professionali” del loro iscritto Luigi Abbate, chiedendo alla Guardia di Finanza di acquisire i contratti e le fatture con il canale digitale terrestre che trasmette il suo programma “Polifemo” per accertare la regolarità del suo comportamento professionale, contributivo e fiscale. Ma forse all’ Ordine ed ai loro cari “cuginetti” dell’Assostampa, stanno a cuore solo le convenzioni con la Regione Puglia, che consentono (così ci raccontano alcuni giornalisti pugliesi) di “ringraziare” i colleghi che li hanno votati ed eletti, premiandoli con delle “docenze” a gettone (con i soldi pubblici) a parlare di giornalismo nelle scuole! La solidarietà “sindacale” e poco professionale dell’ordine pugliese ha qualche precedente, anche nei confronti del centrodestra. Infatti lo scorso 30 ottobre 20115 l’Ordine dei Giornalisti di Puglia e i consiglieri nazionali pugliesi dell’Ordine, con l’Associazione della Stampa di Puglia stigmatizzavano “i tentativi di condizionamento da parte del sindaco di Lecce Paolo Perrone, che ha deciso nei giorni scorsi di rispolverare vicende giudiziarie del passato con l’intento evidente di mandare un avvertimento, tramite i suoi legali, al mondo dell’informazione pugliese”. E stiamo parlando del sindaco più amato d’ Italia secondo le statistiche del Sole24Ore…..L’ordine nel suo comunicato scriveva: “Tali tentativi resteranno caratteri neri su fogli bianchi: i giornalisti che hanno seguito, all’epoca, le vicende dell’operazione “Augusta” continueranno a svolgere serenamente il proprio lavoro. Perché deve essere chiaro al sindaco di Lecce, Paolo Perrone, e a chiunque provi ad agitare un bavaglio sul diritto all’informazione dei cittadini e sul diritto di cronaca esercitato dai giornalisti, che troverà dinanzi a sé un muro: quello delle leggi e della Costituzione della Repubblica. E altrettanto chiaro deve essere ai giornalisti, che di quei principi si fanno portatori, che nessun potere costituito o diritto d’opinione potrà mai limitare il loro esercizio, ferma restando la disponibilità del Sindacato e dell’Ordine a difendere quei principi in ogni sede e in ogni luogo”. Ma cosa era successo? Il primo cittadino del capoluogo salentino aveva incaricato l’avvocato Roberto De Matteis di verificare se sia possibile pretendere dai giornalisti leccesi il risarcimento dei danni cagionati all’immagine della città dagli articoli e dai servizi televisivi pubblicati quattro anni fa sul presunto coinvolgimento di alcuni amministratori comunali in questioni di droga. Ora resta da capire se l’Ordine dei Giornalisti di Puglia crede di essere una “casta” di intoccabili! Se un cittadino si sente leso di un articolo ha il diritto di rivolgersi alla magistratura. Cosa che dovrebbe e potrebbe fare secondo noi anche l’on. Pelillo dopo la campagna diffamatoria messa in opera da Luigi Abbate attraverso il suo profilo Facebook. Sarebbe bastato fare qualche accertamento veloce, invece di obbedire alla chiamata delle armi ricevuta dai vari rappresentanti sindacali tarantini dell’ Assostampa Puglia, che non a caso sono disoccupati come Gianni Svaldi che vive grazie agli ammortizzatori sociali, o come i giornalisti-sindacalisti Mimmo Mazza,Maristella Massari della redazione tarantina dellaGazzetta del Mezzogiorno, i quali lavorano grazie ai contratti di solidarietà (cioè “soldi pubblici”…n.d.r.) , a cui si è rivolto telefonicamente Abbate mentre era nel portone della sede provinciale tarantina del Pd, chiedendo protezione, dicendo “cosa l’ho pagata a fare la tessera del sindacato, io ti ho anche votato“. Che un giornalista possa e debba avere le sue idee politiche è legittimo, sia chiaro, ma non è lecito che usi un giornale o internet per “falcidiare” l’avversario. Abbate infatti non è il solo “anti-Pelillo-Pd” fra i giornalisti tarantini. Basta infatti andare a fare una visita al blog di Mazza e se ne leggono delle belle! A partire dal titolo del suo blog: “Le notizie non sono mai un reato”, dimenticando di aggiungere la parole “vere” dopo “notizie”! Mazza scrive “Ormai quasi più nessuno crede nel futuro dell’Ilva. Dopo tre anni di gestione governativa targata Partito Democratico, l’acciaieria più grande d’Europa vive alla giornata, con i soldi periodicamente prestati dai contribuenti italiani. Il destino dei 16mila dipendenti dello stabilimento di Taranto sembra appeso alle alchimie finanziarie piuttosto che ad un serio piano industriale. E, come prima più di prima, la salute dei cittadini di Taranto e della sua provincia non trova alcuno spazio nei provvedimenti del Governo che ha stanziato 300 milioni per traghettare i bilanci aziendali sino alla prossima secca”. Peccato che ci abbia creduto il Parlamento e le cordate internazionali che si sono fatte avanti. Ma cosa volete da un giornalista come Mazza che si occupava di tabellini sportivi di calcio minore, e non ha mai gestito neanche il condominio della decadente palazzina in cui abita! Qualcuno spieghi la Legge, la giurisprudenza a Mazza possibilmente dalla testa sino alla “coda” del Codice. Poverino infatti, non ci capisce niente. E non sa ancora che un imputato non può e non deve essere considerato responsabile di un reato sino a sentenza definitiva, sempre che non sia coperta da “indulto” (quindi non applicabile) o da “amnistia” (e qui dovrebbe saperne qualcosa). Addirittura sul suo blog, ben guardandosi dallo scriverlo sulla Gazzetta del Mezzogiorno….accusa il Sindaco di Taranto Ezio Stefàno di scrivere letterine sotto dettatura di Palazzo Chigi ! Nel suo delirante commento, Mazza scrive che “I Carabinieri del Reparto Operativo sono andati negli uffici della Asl ad acquisire tutta la documentazione posta alla base della lettera inviata dalla Asl al sindaco di Taranto. Il procuratore capo Franco Sebastio vuole vederci chiaro, capire su quali basi sono state consigliate quelle precauzioni e se il responsabile della salute dei tarantini adempirà ai suoi doveri. Fermando fumi e polveri, e non chi li racconta o denuncia”. Leggere il 7 dicembre 2015, che il “procuratore capo Sebastio vuole vederci chiaro” a 24 giorni dal suo pensionamento fa a dir poco ridere. Ed a Palazzo di Giustizia sono in molti a ridere….Guardate voi con i vostri occhi i messaggi di Abbate contro Pelillo, gli attacchi “politici” di Mazza al Pd ed al Sindaco Stefàno e diteci : è questo il giornalismo libero ed indipendente, non “schierato” che impone e prevede la Carta dei doveri del Giornalista ? Luigi Abbate è una “vittima”, o in realtà è un persecutore dell’on. Pelillo e del sindaco Stefàno in compagnia del “sodale” Mazza? Avranno adesso coraggio i colleghi dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, di fare dietro front e chiedere pubblicamente scusa all’on. Pelillo ed al Pd di Taranto? Ne dubitiamo. Ecco come si muove la “casta” giornalistica, da cui noi siamo e vogliamo restare il più lontano possibile.
I magistrati Argentino e Petrucci si salvano “tecnicamente” in Procura a Potenza. Ma la vicenda finisce alla commissione disciplina del CSM. E non solo…scrive “Il Corriere del Giorno dell'1 febbraio 2016. Nell’ottobre scorso il nostro giornale ha pubblicato tutta la sentenza integrale della vicenda giudiziaria che ha portato prima agli arresti e poi alla sospensione dal servizio il pm Matteo Di Giorgio, precedentemente in servizio presso la Procura della Repubblica di Taranto, con a capo il procuratore Aldo Petrucci. Per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti del procuratore aggiunto Pietro Argentino ed il Petrucci “per il reato di falsa testimonianza”, i quali alle rispettive udienze dibattimentali del 6 e 27 febbraio 2014 avevano reso “dichiarazioni che, alla luce delle altre acquisizioni processuali, venivano ritenute non credibili dal Collegio giudicante”. Nel frattempo dopo aver appreso direttamente dall’ avv. Franz Pesare, che per “motivi personali che non mi consentivano di esercitare serenamente il mio mandato” aveva abbandonato la difesa del magistrato lizzanese Pietro Argentino, questi si è affidato alle “cure” legali dello stesso avvocato del suo collega Di Giorgio, e cioè l’avvocato Donatello Cimadomo di Potenza. Abbiamo quindi provato a contattare per telefono Cimadomo ripetutamente, per ottenere dei ragguagli sulla vicenda processuale ed anche per sapere se il suo assistito fosse disponibile ad un’intervista giornalistica, ma l’avvocato lucano in maniera non molto “etica” e soprattutto poco gentile, non si è mai degnato di risponderci o richiamarci telefonicamente. La registrazione audio della deposizione per pm. Pietro Argentino all’udienza del processo “Di Giorgio ed altri” che si è tenuta giovedì 6 febbraio 2014 a Potenza. Chiaramente non ci siamo fermati ed abbiamo rintracciato quale “documento” e delle notizie imbarazzanti per il magistrato Argentino, che in questi giorni supplisce al pensionamento del suo ex-capo Franco Sebastio, nonostante tutti i suoi vari ricorsi e controricorsi amministrativi, in attesa che da Roma venga nominato ed arrivi un nuovo Procuratore Capo. Il documento che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, conferma la teoria processuale del Tribunale di Potenza esposta in sentenza, e cioè che i procuratori Argentino e Petrucci abbiano mentito ben consapevoli di mentire dinnanzi al Tribunale di Potenza. Infatti la Procura di Potenza ha confermato la tesi accusatoria del Tribunale sulla circostanza delle loro deposizioni inveritiere. Le accuse processuali espresse e contenute nella sentenza del Tribunale di Potenza nei confronti dei magistrati Argentino e Petrucci , come anche il pm dr.ssa Laura Triassi della Procura di Potenza, ha precisato nella sua richiesta di archiviazione dello scorso 16 marzo 2015, erano fondate e veritiere, ed i due si sono “salvati” soltanto grazie al principio espresso da due sentenze della Corte di Cassazione per cui un testimone non è punibile in forza dell’esimente (art. 384 comma primo Cp) allorquando il testimone (è il caso dei magistrati Argentino e Petrucci – n.d.r.) rende false dichiarazioni per evitare di essere a sua volta incriminato per un reato precedentemente commesso. Ma la vicenda non è finita con l’archiviazione, in quanto siamo un conoscenza di un procedimento pendente dinnanzi alla 7a sezione della Corte di Cassazione, così come sarebbe stato aperto un fascicolo a carico dell’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino dinnanzi alla Commissione disciplinare del CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. La vicenda processuale di fatto non si è conclusa, stante ancora in piedi l’appello richiesto dal pm. Matteo Di Giorgio, ma sopratutto si sarebbero aperti dei procedimenti penali dinnanzi alla Procura ed al Tribunale di Catanzaro fra i magistrati lucani e quelli tarantini. Una triste vicenda di scontri fra toghe. Come vi dicevamo all’inizio, avremmo voluto parlare ed intervistare il dr. Argentino, ma il suo avvocato Cimadomo di fatto lo ha reso impossibile. Chiaramente non saranno certamente questi rifiuti o dei “sussurri” e “spifferi” di presunte indagini tarantine sul nostro conto ed operato, che ci impediranno di informare correttamente i nostri lettori. A qualcuno a Palazzo di giustizia a Taranto evidentemente sfugge…. che il foro di eventuale competenza sul nostro operato editoriale e giornalistico è solo e soltanto quello di Roma, e quindi non rispettarlo sarebbe un “reato“.
Sentenza processo al pm Di Giorgio, i fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino, scrive “Il Corriere del Giorno” del 28 ottobre 2015. La sentenza “integrale” del processo che ha condannato il pm Matteo Di Giorgio e per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti di Argentino e Petrucci (ex procuratore capo) per il reato di falsa testimonianza. Dalle motivazioni della sentenza del processo di primo grado a carico dell’ex pm Matteo Di Giorgio escono con le ossa rotte insieme al principale imputato (condannato a 15 anni di reclusione) anche le istituzioni tarantine, i massimi esponenti del passato e attuali della Procura di Taranto, nella fattispecie l’ex procuratore capo Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino, rappresentanti delle Forze dell’ordine, agenti della Digos, il vicequestore vicario in servizio fino a qualche anno fa, Michelangelo Giusti, un sostituto commissario della sezione di pg della Polizia di Stato della Procura e numerosi Carabinieri in servizio nelle caserme di Castellaneta e Ginosa. I due magistrati, poliziotti e militari dell’Arma dei Carabinieri, sono fra i 21 testimoni esaminati in dibattimento per i quali, con l’accusa di falsa testimonianza, il collegio del Tribunale di Potenza ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura lucana. Nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, principio sacrosanto sancito dalla Costituzione, ma quello delineato nelle 665 pagine delle motivazioni è uno scenario inquietante. Dal processo basato su intercettazioni e numerose testimonianze emerge quello che viene battezzato “sistema Di Giorgio”, descritto come “una struttura a piani sovrapposti, le cui fondamenta erano costituite dall’esercizio o dallo sviamento delle sue funzioni giudiziarie o della sua qualità”. Un sistema, stando alla sentenza, che faceva leva sulla “connivenza di altri funzionari pubblici che operavano nella stessa struttura o diversamente abusando, a proprio profitto, delle ‘maglie larghe’ di una organizzazione dell’ufficio che prevedeva pochi controlli e lasciava ampi margini di discrezionalità nella assegnazione e nella gestione dei procedimenti”. I fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino sono emersi dalle testimonianze di due carabinieri. Il maresciallo Leonardo D’Artizio, all’epoca dei fatti in servizio alla compagnia di Castellaneta, ha riferito di un incontro tenuto di pomeriggio in Procura a Taranto con Argentino, sostituto procuratore, da lui e dal capitano Gabriele Stifanelli, comandante della compagnia (attualmente tenente colonnello). Argomento: presunti illeciti al comune di Castellaneta e pressioni di Di Giorgio sul consigliere comunale Domenico Trovisi per far cadere l’Amministrazione guidata dal sindaco e senatore Rocco Loreto. Tali circostanze gli erano state riferite da un assessore comunale, Pontassuglia, il quale, però, non aveva voluto mettere nero su bianco. Le sue dichiarazioni, comunque, erano state registrate dal maresciallo. D’Artizio ha raccontato che Stifanelli prese appuntamento con Argentino ma, quando spiegarono il motivo della loro presenza in Procura, il magistrato li condusse dal procuratore capo Aldo Petrucci. Quest’ultimo disse loro che non si poteva iniziare un’indagine così delicata con quegli elementi. La vicenda finì lì, “perché non c’è mai stata la possibilità di iniziare un’indagine”. Sarebbe stata insabbiata sul nascere, stando alle dichiarazioni rese non solo da D’Artizio. Il racconto trova conferma in quanto riferito dal comandante Stifanelli. Quest’ultimo, l’anno successivo, il 2004, in un altro contesto, l’indagine sul suicidio di un carabiniere in servizio a Castellaneta, riferì al pm Vincenzo Petrocelli dell’incontro avvenuto nel 2003 e di una relazione acquisita dallo stesso Argentino. “Era fine estate, ricordo. E poi non se ne fece niente”. Sono state le parole dell’ufficiale dell’Arma, uno dei migliori in fatto di produttività e di contrasto al crimine in provincia di Taranto da diversi anni a questa parte. Una deposizione definita “genuina” dal collegio in quanto il teste è estraneo al contesto del processo Di Giorgio e, al tempo stesso, “in stridente contrasto” con quelle di Argentino e Petrucci i quali, malgrado l’avvertimento del presidente del collegio su possibili responsabilità penali che potevano emergere dalle loro dichiarazioni, hanno negato di aver ricevuto il capitano Stifanelli e di aver acquisito la relazione. “Può ipotizzarsi un comune interesse a coprire, forse, la loro responsabilità, per avere omesso di formalizzare e inoltrare la denuncia di D’Artizio e Stifanelli. Verosimilmente perché essa coinvolgeva pesantemente il loro collega e amico Di Giorgio”. Altrimenti, sono sempre le motivazioni della sentenza, non si spiega la ragione per la quale, dopo tre anni, nel 2006, dopo aver appreso delle dichiarazioni rese da Stifanelli, Petrucci ha chiesto una relazione ad Argentino che l’ha fornita. “I dottori Petrucci e Argentino, a parere del collegio, hanno così tentato di creare una copertura reciproca, formalizzando a “futura memoria” le rispettive posizioni in un atto scritto che non riportava però fedelmente i fatti accaduti”. Un rimedio peggiore del male, stando alle conclusioni dei giudici. Durante la testimonianza, Argentino ha dichiarato di aver incontrato due marescialli dei quali non ricordava il nome ma non il capitano Stifanelli e ha sostenuto che non gli fu fatto il nome della fonte, non gli fu riferito del possibile coinvolgimento di Di Giorgio e non gli fu consegnata alcuna relazione. Anche sul contenuto dell’incontro la sua deposizione stride con quella dei testi ritenuti attendibili, D’Artizio e Stifanelli, è scritto nella sentenza, “non è credibile”. La relazione di servizio dei Carabinieri, si legge nella sentenza, avrebbe dovuto essere trasmessa a Potenza dal procuratore Petrucci ma ciò non avvenne mai. Anzi, il capitano Stifanelli rischiò di essere perseguito sotto il profilo disciplinare per una nota di censura inviata dalla Procura al comando provinciale. Riuscì ad evitare provvedimenti soltanto perché non più in servizio in Puglia. Quei fatti sono datati e le presunte responsabilità dei magistrati non sono più perseguibili per via della prescrizione. Quella stessa prescrizione prevista dal Codice, ed osteggiata dalla Magistratura. Nel frattempo, il processo a carico di Di Giorgio ed altri imputati è approdato in appello.
...DI LECCE. La strada fantasma nel Salento bloccata da 22 anni di ricorsi. Progetti e appalti annullati dal Tribunale sbagliato. Tanti soldi spariti in progetti fatti e rifatti, gare d’appalto evaporate in ricorsi e controricorsi presentati al Tar sbagliato, contenziosi burocratici surreali, perfino polizze assicurative false, scrive Sergio Rizzo il 9 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Domanda cui nessuno potrà mai rispondere: «Quanti soldi hanno speso per NON fare quella strada in Salento?». Tanti, comunque. Spariti in progetti fatti e rifatti, gare d’appalto evaporate in ricorsi e controricorsi presentati al Tar sbagliato, contenziosi burocratici surreali, perfino polizze assicurative false. Gli anni che ci sono voluti, invece, lo sappiamo bene: ventidue. La storia simbolo di un Paese nel quale sembra impossibile realizzare un’opera pubblica a costi e in tempi umani è raccontata per filo e per segno in una delibera approvata qualche giorno fa dall’autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone. Tutto comincia nel 1994, quando il Consorzio per lo sviluppo industriale di Lecce affida un incarico di progettare l’ammodernamento della strada 275 fra Maglie e Santa Maria di Leuca a una società di progettazione, la Prosal. L’opera, 59 chilometri, è già prevista nel piano triennale dell’Anas, ed è ritenuta così urgente che non si fa nemmeno la gara per il progettista. Nonostante l’urgenza non accade nulla per anni finché nel 2001 il Parlamento approva la famosa Legge obiettivo: costi certi e tempi certi. E fra le opere considerate strategiche spunta anche quella strada. Spesa prevista: 113,6 milioni. L’Anas firma subito una convenzione con il Consorzio sviluppo industriale per la progettazione definitiva, che viene affidata ancora una volta senza gara alla medesima Prosal. Due anni dopo si stabilisce che quella strada sarà realizzata con fondi e appalto regionali. La spesa sale a 162,5 milioni. L’Anas approva il progetto definitivo nel giugno 2005. Intanto la spesa prevista è lievitata a 201,4 milioni. Si va in Conferenza dei servizi, vengono acquisiti i pareri di vari ministeri e si modifica il tracciato. Il Cipe dà nel 2009 il via libera: 287,7 milioni. Ma subito c’è un ricorso al Tar di Lecce della Regione Puglia, con relativo appello al Consiglio di Stato. Due anni ancora e la cosa sembra finire lì. Nel 2011 ecco il bando di gara. Non contenta, la Regione Puglia innesca però un altro contenzioso sul progetto definitivo, altre modifiche e altri ritardi. Finalmente il 2 aprile 2012 l’appalto viene aggiudicato a un consorzio composto da Uniland, cooperativa Ccc, Aleandri e Igeco. Il progetto però non marcia. Ci sono difficoltà interne: la Uniland è in crisi e deve mollare. L’Anas non batte ciglio. La progettazione esecutiva passa nelle mani di una società collegata alla cooperativa Ccc, ma l’Anas non l’approva. Sorgeranno poi anche problemi sul nuovo progettista, tuttavia è niente rispetto a ciò che incombe. E non è certo la scoperta di alcune discariche abusive di rifiuti sul tracciato. Perché il quarto classificato alla gara, la ditta di Salvatore Matarrese, esponente della famiglia imprenditoriale che vanta fra i suoi componenti anche un ex parlamentare e presidente della Federcalcio (Antonio), fa a sua volta ricorso al Tar di Lecce, e poi al Consiglio di Stato. E la spunta: il giudice riconosce all’Anas il diritto di «autoannullare» il contratto. Cosa che accade l’11 marzo del 2015: è una delle ultime decisioni dell’ex presidente Pietro Ciucci prima di lasciare l’incarico, stabilendo contestualmente di aggiudicare la gara a Matarrese. Tutto a posto? Macché. Sorvoliamo sugli altri ricorsi della Ccc e i nuovi contenziosi a raffica, con i vecchi progettisti della Prosal che chiedono il pagamento di parcelle e danni per quasi 9 milioni. Il fatto è che controllando la documentazione si scopre che la polizza fidejussoria rilasciata da una società inglese è falsa. La Matarrese cade dalle nuvole, ma il problema è grosso come una casa. E tutto si ferma. Il 29 luglio il nuovo presidente dell’Anas Giovanni Vittorio Armani comunica che sta valutando come uscirne con il minor «dispendio di denaro pubblico». La storia, ovviamente, non finisce qui. La delibera dell’Anac contiene un elenco di contestazioni lungo come una Quaresima, che Cantone spedisce a Procure della Repubblica e Corte dei conti. Ce n’è per chi ha affidato il progetto senza gara, per l’Anas e la Regione Puglia. E poi per il ministero delle Infrastrutture che non ha vigilato sull’Anas e per la Struttura tecnica di missione della legge obiettivo, giudicata corresponsabile «dell’intero procedimento»: allora era guidata dal pugliese Ercole Incalza. Dulcis in fundo, perché tutti quei ricorsi al Tar di Lecce, quando la competenza, espressamente nel bando di gara, era del Tar Lazio? Magari si pensava che quei giudici conoscessero meglio dei colleghi laziali le problematiche territoriali? Boh...
Magistrati: papponi ed evasori? “Un’alcova nei pressi di Piazza Mazzini a Lecce mascherata per un Bed end Breakfast e trasformata in una casa per appuntamenti. Uno scandalo a luci rosse travolge una coppia di insospettabili professionisti leccesi: lui, Giuseppe Caracciolo, 59 anni, magistrato originario di Lecce e in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione Civile; la compagna, una poliziotta in pensione, in servizio per anni fuori dal Salento”. Così riporta il sito de “Il Corriere Salentino” dell’1 luglio 2016. Unico giornale ad aver avuto il coraggio di dare il nome del magistrato. I colleghi pavidi se fosse stato un povero cristo l’avrebbero messo immediatamente alla gogna.
«Bed & breakfast» di un magistrato trasformato in casa d’appuntamento. Il titolare dell’immobile sapeva e pubblicizzava l’abitazione anche come «casa vacanze» dopo le segnalazioni dei vicini è scattata la trappola dei poliziotti che si sono finti clienti, scrive Antonio Della Rocca l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato ordinario di origini leccesi, ma in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione, e la sua compagna sono indagati dalla Procura della Repubblica di Lecce per favoreggiamento della prostituzione. L’uomo, secondo gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo salentino, coordinati dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco, avrebbe affittato un’abitazione di sua proprietà situata nella zona di piazza Mazzini, nel pieno centro di Lecce, a giovani donne rumene che lì si prostituivano. Lo stesso proprietario avrebbe preteso un canone di locazione ben superiore a quello di mercato, del quale richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilascio di alcuna ricevuta e senza inoltrare le comunicazioni previste all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle scorse ore i poliziotti della Squadra mobile hanno eseguito il sequestro preventivo dell’abitazione, come disposto dal gip Vincenzo Brancato, su richiesta del pm Vallefuoco. Nel corso degli ultimi mesi erano pervenute alla Squadra mobile numerose segnalazioni riguardanti il presunto esercizio della prostituzione all’interno di uno stabile del centro cittadino pubblicizzato su numerosi siti internet come casa vacanze. Gli autori delle denunce lamentavano un continuo viavai di persone di sesso maschile che, a tutte le ore del giorno, dopo avere sostato dinanzi all’immobile e avere fatto alcune telefonate, vi entravano per uscirne dopo poche decine di minuti. La polizia, durante una serie di appostamenti, ha appurato la veridicità delle segnalazioni, rilevando un continuo avvicendarsi di visitatori. Due di questi, bloccati in tempi diversi e sentiti per sommarie informazioni, hanno detto di avere ottenuto una prestazione sessuale a pagamento da una ragazza contattata dopo averne visto la foto e rilevato il numero di telefono sul sito internet «bakekaincontri». Fingendosi clienti, i poliziotti sono riusciti ad entrare nell’appartamento situato al primo piano dell’edificio, dove hanno trovato una ragazza che indossava solo reggiseno e tanga, la quale li ha invitati a seguirla all’interno, dove gli agenti si sono qualificati come ufficiali di polizia giudiziaria. Nell’appartamento sono state identificate tre giovani di nazionalità rumena, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. Quest’ultimo ha riferito di avere contattato la donna attraverso lo stesso sito internet indicato dai clienti sentiti in precedenza. L’appartamento era composto, oltre che da una zona soggiorno, da due camere all’interno delle quali sono stati rinvenuti numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. L’appartamento era, peraltro, collegato attraverso una porta interna all’abitazione del proprietario indagato. Secondo quanto riferito dalle ragazze straniere, il proprietario e la compagna erano soliti accedere liberamente nell’alloggio confinante nel quale veniva esercitata la prostituzione, per raggiungere la terrazza comune dove stendevano i panni. All’interno di una stanza adibita a lavanderia, anche questa comune ai due appartamenti, era presente la collaboratrice domestica del proprietario e della sua convivente. Ciò, secondo la polizia, fa presumere che i due non potessero non essere informati dell’attività di prostituzione. Tale convincimento degli inquirenti sarebbe peraltro corroborato dalle dichiarazioni rese a verbale dalle ragazze ascoltate. Queste ultime, nonostante avessero pagato l’affitto nelle mani del proprietario, non possedevano alcuna ricevuta. L’unico documento in loro possesso era una piantina della città di Lecce che riportava la zona nella quale si trova l’immobile, con l’annotazione a penna dei numeri telefonici del proprietario, della sua convivente e della collaboratrice domestica. Non solo. Sempre secondo gli investigatori, anche il prezzo pagato da ciascuna delle ragazze sarebbe sintomatico della consapevolezza da parte del proprietario dell’attività di prostituzione che veniva svolta. Per una sola stanza, ciascuna di esse pagava dai 300 ai 350 euro. Inoltre, la stanza spesso veniva contemporaneamente affittata a più persone che non si conoscevano e che dormivano nello stesso letto. Grazie alle dichiarazioni rese dalle ragazze straniere, la polizia, ha anche appreso che il proprietario, il giorno precedente a quello della perquisizione, si era recato nell’appartamento per consegnare loro i prodotti per le pulizie, annunciando, nella stessa occasione, che nei giorni successivi avrebbero dovuto condividere la stanza con altre ragazze appena giunte. Una delle ragazze ha riferito ancora che, contattato il proprietario dopo avere trovato su internet il suo numero di telefono quale titolare di un bed and breakfast, e lamentatasi per il prezzo di affitto elevato, l’interlocutore avrebbe risposto alla giovane che «non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra». L’indagato, dopo avere diviso in due l’appartamento di sua proprietà, ricavandone quello poi concesso in locazione, aveva piazzato solo all’esterno di questo, e senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera che ne vigilava l’ingresso. Gli inquilini dell’immobile hanno riferito di avere più volte notato l’indagato accompagnare ragazze in ascensore all’appartamento, portando loro le valigie. Infine, nonostante l’appartamento fosse pubblicizzato sul web come casa vacanze o bed and breakfast, nessuna insegna era stata posta all’esterno dello stabile.
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
…DI CAGLIARI. "Non sequestrò la Licheri", Pietro Paolo Melis libero dopo 18 anni. L'uomo, condannato a 30 anni perché ritenuto la mente del rapimento nel '95 dell'imprenditrice, mai più tornata a casa, è stato assolto per non avere commesso il fatto. Si è sempre dichiarato innocente: "Il giorno più bello della mia vita", scrive Cristina Nadotti il 15 luglio 2016 su “La Repubblica”. Vanna Licheri, sequestrata in Sardegna nel '95 e mai tornata. Dopo 18 anni di carcere ritorna a casa, a Mamoiada, Pietro Paolo Melis, condannato a 30 anni per il sequestro e l'omicidio di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 vicino ad Abbasanta, nel centro Sardegna. È stata la Corte d'Appello di Perugia, che ha riaperto il processo nel marzo 2014, a stabilire l'immediata scarcerazione di Melis, indicato come la mente di uno degli ultimi sequestri della stagione dell'Anonima sarda, e ora assolto per non avere commesso il fatto. Melis era stato condannato sulla base di intercettazioni telefoniche nelle quali avrebbe discusso con Giovanni Gaddone, condannato a 30 anni per il sequestro della Licheri e ad altri 30 per quello dell'imprenditore romano Ferruccio Checchi, i particolari organizzativi per la prigionia dell'imprenditrice di Abbasanta, rapita e mai più tornata a casa. I nuovi software usati per analizzare le registrazioni hanno stabilito che a parlare con Gaddone, che si è sempre dichiarato soltanto un "emissario" dei sequestri, non era Melis, che in tutti questi anni si è sempre dichiarato innocente. Nel corso del processo d'appello del 1998, Melis scoppiò in lacrime in aula, professandosi incapace di compiere un crimine così efferato, anche perché, sosteneva, la sua famiglia era stata vittima di un sequestro. Fondamentale per stabilire l'innocenza di Melis, la perizia sulla sua voce e sul suo accento, che secondo i suoi legali non rispondeva a quello di un sardo di Mamoiada. E nel paese di Melis non appena si è diffusa la notizia dell'immediata scarcerazione una folla si è radunata intorno alla casa dove vive la madre 74enne dell'ex detenuto. "È il giorno più bello della mia vita", ha detto appena arrivato in paese dopo essere stato liberato dal non lontano carcere di Badu 'e Carros, a Nuoro. Il caso di Melis riporta alla cronaca uno dei periodi più drammatici della storia dei rapimenti in Sardegna. Il 14 maggio del 1995 un commando formato da quattro uomini armati e mascherati sequestra, nelle campagne vicino ad Abbasanta, Giovanna Maria Licheri, da tutti conosciuta semplicemente come Vanna, sposata con un pensionato e madre di quattro figli, mentre era a mungere il bestiame di prima mattina nell'azienda agro-zootecnica di famiglia. Il sequestro fa scalpore anche perché avviene a pochi chilometri di distanza dal centro di addestramento di Abbasanta, un distaccamento supermoderno e dotato di sofisticate apparecchiature di pronto intervento nel quale vengono preparati ad agire gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie antisequestri. Proprio da qui, spesso, partono i rastrellamenti e le battute sul Supramonte contro i rapitori. Nei mesi successivi al sequestro della donna le forze dell'ordine mettono a segno alcuni colpi e in ottobre riescono a liberare l'imprenditore turistico romano Ferruccio Checchi, sequestrato 4 giorni dopo la Licheri e Giuseppe Vinci, che era stato rapito un anno prima. Ma Vanna Licheri non torna mai a casa e durante il processo del 1997 si svelano i particolari delle lettere che i sequestratori le facevano scrivere per fare pressioni sulla famiglia, l'ultima delle quali cominciava con "Vi prego, fate presto". I Licheri cercarono di mettere insieme i soldi per un riscatto, ma la trattativa venne ostacolata dalla legge che prevede il blocco dei beni e impediva i contatti dei familiari con i banditi. Molti e numerosi gli interrogativi, i dubbi e i misteri sui motivi reali che, nonostante i cinquecento milioni messi insieme dalla famiglia in risposta all'ultima richiesta dei banditi, condussero i fuorilegge a non contattare l'emissario che aveva in consegna i soldi e a non rilasciare la donna. Nel corso degli anni nelle montagne del Supramonte e in altri luoghi sono stati trovati resti di cadaveri, ma la famiglia Licheri non ha mai avuto un corpo da seppellire.
Sequestro di Vanna Licheri: dopo 16 anni si riapre il processo. La decisione della Corte d’appello di Perugia riporta in aula Pietro Paolo Melis, condannato a 30 anni La famiglia della donna rapita è sotto choc: «Sono momenti difficili, abbiamo bisogno di riflettere», scrive Antioco Fois il 5 marzo 2014 su "La Nuova Sardegna". Se l’accento di due conversazioni può valere 30 anni di carcere lo deciderà la Corte d’appello di Perugia, che ha riaperto il processo a Pietro Paolo Melis, condannato per il sequestro di Vanna Licheri, rapita nel ’95 e mai tornata a casa. La chiave che, dopo 16 anni, potrebbe aprire la porta della cella del detenuto mamoiadino è una nuova consulenza fonica, che secondo gli avvocati Alessandro Ricci e Maria Antonietta Salis demolirebbe il pilastro portante della tesi accusatoria, che portò alla condanna di Melis. Alla luce di nuove tecnologie, le stesse in uso alle forze dell’ordine, i legali hanno fatto esaminare le due conversazioni che furono intercettate nell’auto dell’allevatore di Loculi, Giovanni Gaddone, nel corso delle indagini per il sequestro dell’imprenditrice agricola di Abbasanta. Nei dialoghi, rigorosamente in sardo, si affrontano questioni logistiche relative alla gestione del sequestro tra il proprietario del veicolo, poi condannato, e un altro uomo, indicato in Melis nel corso della lunga storia processuale. Adesso la consulenza di parte di Luciano Romito, docente dell’Università della Calabria, “stabilisce che l’inflessione dell’interlocutore di Gaddone non è tipica di Mamoiada, quindi non può essere del nostro assistito”, spiega l’avvocato Ricci. Dopo il rimpallo della corte d’appello di Roma e della Cassazione sull’istanza difensiva, i giudici di Perugia hanno accolto quindi l’istanza dei legali e riaperto una porzione di dibattimento, nel corso di un’udienza alla quale ha partecipato lo stesso Melis, ora detenuto nel carcere di Orvieto. L’agenda processuale adesso rimanda al 14 aprile, quando il collegio giudicante conferirà l’incarico a due periti, che saranno anche chiamati alla trascrizione dei dialoghi raccolti dalle microspie della polizia, come primo atto di un nuovo procedimento che non entrerà nel merito di tutta la vicenda, ma resterà nell’alveo delle intercettazioni e degli aspetti collegati, in base alle richieste delle parti. Dalla famiglia della vittima poche parole. «Abbiamo appena appreso la notizia – dice con voce tremante Paola Leone, figlia di Vanna Licheri – e abbiamo bisogno di riflettere». C’è da chiedersi se sia prevista la costituzione di parte civile, ora possibile nel nuovo capitolo processuale, ma per i congiunti della donna sequestrata si è riaperta una ferita. «Ora non sono in grado di una riflessione lucida. Sono momenti difficili, vanno affrontati con serenità», è il sofferto no comment della famiglia Licheri-Leone, rappresentata dall’avvocato Agostinangelo Marras. A giudicare sulle responsabilità dell’ex allevatore di Mamoiada, condannato a 30 anni dalla Corte d’assise d’appello di Cagliari, sarà il collegio di Perugia, presieduto da Giancarlo Massei, magistrato noto per essere stato il presidente della Corte d’assise che a dicembre del 2010 condannò in primo grado Amanda Knox e Raffaele Sollecito, rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, per l’omicidio di Meredith Kercher.
PARLIAMO DELLA SICILIA.
…DI CATANIA. Catania e il record di errori sospetti nei bilanci di aziende e negozi. Alla Camera di Commercio due terzi delle anomalie in Italia. L’indagine della Procura, scrive Sergio Rizzo il 4 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede a Catania. Succede ormai da anni, sempre allo stesso modo e sempre più o meno alle stesse imprese. Senza che nessuno però se ne sia mai accorto prima d’ora. Ma quando si è accesa per caso una lampadina è bastato verificare i dati delle ultime annualità per far emergere una situazione allucinante. Ed è partito un esposto alla Procura della Repubblica della città etnea. Che contiene numeri impressionanti. Perché i due terzi di tutte le anomalie relative alla presentazione dei bilanci delle società di capitali rilevate nel sistema informatico camerale si concentrano nella sola Camera di commercio di Catania. Nel 2010 sono 1.958 su 2.982, pari al 65,7%: ben 1.679 su 2.339 l’anno seguente (71,8%); 1.114 su 1.660 nel 2012 (67,1%); 906 su 1.423 nel 2013 (63,6%); 917 su ancora 1.423 nel 2014 (64,4%); 1.111 su 1.709 nel 2015. Persino dopo che l’esposto è arrivato ai giudici la cosa è proseguita imperterrita. Se è vero che nella prima metà del 2016 le anomalie sui bilanci alla Camera di commercio di Catania sono 379 su un totale nazionale di 649: il 58,4 per cento. Per capirci, a un tasso di errore delle altre Camere di commercio che oscilla fra lo 0 e lo 0,1%, alla Camera etnea il margine è arrivato in certi anni al 14 per cento. E c’è di più. Perché decine di quelle imprese per cui si registrano anomalie nel deposito dei bilanci, sono in odore di mafia. Senza poi considerare che le categorie più interessate dal singolare fenomeno risultano le più rischiose: dai costruttori al commercio di ortofrutta, passando per le ditta di trasporto. Abbastanza perché la cosa non sia stata presa sottogamba dai magistrati che se ne occupano. Tanto più considerando che la Procura di Catania ha aperto un’inchiesta più a largo raggio sull’attuale progetto di fusione delle Camere di commercio di Catania, Siracusa e Ragusa. Procedura gestita da un commissario ad acta, Alfio Pagliaro, che risulta lo stesso segretario generale della Camera di Catania dove si riscontrano tutte quelle strane anomalie nei bilanci delle società. I magistrati indagano sull’ipotesi di falso: vogliono accertare se alcune grosse aziende siano state a loro insaputa iscritte a qualcuna delle organizzazioni imprenditoriali che si contendono il potere nella futura grande Camera di commercio della Sicilia orientale, con lo scopo di far pendere la bilancia dalla propria parte quando si arriverà alla conta. C’è per esempio il caso di un’impresa con 650 dipendenti che si sarebbe ritrovata affiliata a un’associazione di trasportatori vicina alla Confcommercio. Tuttavia il filone di inchiesta sulle anomalie dei bilanci promette ben altre sorprese. Sarebbe stato già individuato uno schema operativo, che dalle imprese passerebbe attraverso il filtro di un ristretto gruppo di agenzie per arrivare fino ad alcuni impiegati della Camera di commercio addetti al caricamento dei dati nel sistema informatico. Sono loro che materialmente costruirebbero ad arte quelle anomalie per cui i bilanci delle società, pur figurando depositati nei termini, non comparirebbero nel sistema che dopo molto tempo. L’organizzazione è perfetta. Ma perché si fa una cosa del genere? La prima motivazione è semplice. Se un’azienda ha una struttura contabile interna che fa acqua non riuscirà a presentare il bilancio entro i limiti previsti. La data limite è quella del 31 luglio, superata la quale scatta una multa piuttosto salata, 1.020 euro per ogni amministratore. Che però nel caso di un’anomalia informatica ovviamente non si paga, soprattutto considerando che il giochetto è studiato facendo apparire regolare la presentazione dei documenti contabili. Tutti quei soldi, e sarebbero milioni di euro l’anno nel caso di Catania, non entrano nelle Cassa della Camera di commercio: lecito sospettare che esista una qualche contropartita, presumibilmente economica, per chi si adopera a costruire l’operazione. Il che non è un dettaglio. Difficile però credere che imprese catanesi in numero tanto rilevante non siano in grado di consegnare i loro bilanci in tempo. Ci devono essere quindi anche altre ragioni, oltre alla sciatteria contabile. Dicevamo che le aziende vittime di quelle anomalie sono in gran parte le stesse e appartengono a certi settori precisi. Per alcune di loro, quelle di costruzione, c’è in ballo la periodica partecipazione agli appalti pubblici, condizionata a una ben determinata situazione finanziaria che dai bilanci è facilmente rilevabile. Altre sono invece costantemente sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti, che spesso e volentieri scavano nelle banche dati. E questo può magari significare qualcosa...
"Noi, 15 magistrati con 42mila cause". Il presidente del Tar di Catania: organico ridotto e arretrati in aumento, scrive Luca Fazzo, Domenica 24/07/2016, su “Il Giornale”. Se anche, per qualche miracolo, ai Tar non arrivasse più neanche un ricorso, ci vorrebbero tre anni per smaltire l'arretrato: una montagna di 250mila processi pendenti davanti alla giustizia amministrativa italiana. Se la Banca Centrale Europea, che nei giorni scorsi ha collocato la giustizia italiana all'ultimo posto tra quelle del vecchio continente, avesse esaminato anche le statistiche dei processi davanti ai Tribunali amministrativi regionali, forse ci avrebbe inserito direttamente nelle classifiche del terzo mondo.
Come è possibile?
«In Italia - spiega Antonio Vinciguerra, presidente del Tar di Catania - esiste una struttura amministrativa sterminata tra amministrazioni dello Stato, enti locali e altri enti pubblici, che produce un contenzioso elevatissimo. A gestirlo sa quanti magistrati ci sono? Trecento, sulla carta. Se si potessero dividere le 242mila cause pendenti tra i magistrati in organico, raddoppiando gli attuali limiti di carico individuali ci vorrebbero più di tre anni per smaltire l'arretrato. In realtà i magistrati sono molti di meno di trecento, perché i pensionati non vengono sostituiti».
Forse informatizzando il processo si riuscirebbe ad alzare la produttività pro capite.
«L'obiettivo è quello. Ma il processo amministrativo digitale doveva entrare in vigore, secondo la normativa, al primo gennaio di quest'anno, ma è stato rinviato una prima volta al primo luglio e ora al primo gennaio del 2017. Intanto l'arretrato continua a salire. Come unico provvedimento si sono soppresse una lunga serie di sezioni distaccate, come quella di Catania che in realtà è un tribunale vero e proprio visto che copre cinque province su nove, con 2,6 milioni di abitanti e 42mila cause pendenti».
Come è possibile che un singolo tribunale riesca ad accumulare un arretrato simile?
«In effetti c'è solo un Tar che ha un numero di cause pendenti più alto di Catania, ed è quello di Roma dove ci sono 63mila cause arretrate. Certo, Roma è grande. Ma al Tar di Roma lavorano 50 magistrati. Noi invece dovremmo essere 25, in realtà siamo 16. Anzi, 15, perché l'ultimo arrivato lo hanno mandato provvisoriamente a Venezia. Ma a Venezia hanno 7.500 cause pendenti, cioè praticamente non hanno arretrati. Allora che senso ha mandare un giudice lì togliendolo a Catania? Ma paghiamo anche le conseguenze di una situazione logistica del tutto inadeguata. Avevamo trovato un nuova sede, avremmo risparmiato centomila euro all'anno sulla sede attuale. Ci hanno detto che il risparmio era troppo esiguo. La conseguenza è che siamo ancora nella vecchia sede, e continuiamo a pagare centomila euro in più».
Non sempre le decisioni dei Tar sono trasparenti. Si parla di conflitti di interessi, di frapporti preferenziali tra giudici e avvocati.
«Io ritengo fondamentale fornire garanzie di imparzialità che possano rassicurare i cittadini che si rivolgono ai Tar per ottenere giustizia. Per questo uno dei primi atti che ho compiuto dopo il mio insediamento come presidente della sede di Catania è stato di rivedere la composizione delle quattro sezioni interne, nel senso di garantire l'imparzialità non solo nell'immagine. Ho avuto cura di distribuire tra le sezioni i magistrati in modo che ciascuno di essi si trovi ad operare in una sezione in cui non siano presenti in modo costante amministrazioni dalle quali il giudice o i suoi familiari prossimi abbiano ricevuto incarichi retribuiti. Per questo provvedimento ho avuto qualche lamentela, ma sono convinto che è la strada giusta».
…DI PALERMO. I Beati Paoli», la Sicilia iniqua tra nobili crudeli e una setta segreta. Ritorna, edita da Sellerio, l’opera fluviale di Luigi Natoli: uscì a puntate tra il 1909 e il 1910. I giudizi di Umberto Eco e Leonardo Sciascia, scrive Paolo Di Stefano l'8 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Che cos’è questo strano oggetto narrativo che si intitola I Beati Paoli? È un romanzo-fiume, un romanzo d’appendice di quasi 1.300 pagine scritto da Luigi Natoli, fervente mazziniano palermitano, vissuto dal 1857 al 1941, che cominciò a collaborare per i giornali diciassettenne prima di diventare professore di Storia nei licei della sua città e affermato poligrafo, autore di una trentina di romanzi a carattere storico, di numerosi saggi e di opere teatrali. I Beati Paoli uscì in 239 puntate, con grande successo, sul «Giornale di Sicilia», tra il 1909 e il 1910, sotto lo pseudonimo inglese di William Galt. Il libro sarebbe apparso in prima edizione nel 1925 da Gutenberg, poi riproposto a dispense dall’editore milanese La Madonnina e nel 1955 ancora a puntate dal quotidiano «L’Ora» di Palermo. Fu l’editore Flaccovio a rilanciarlo nel 1971 con il vero nome dell’autore, il sottotitolo Grande romanzo storico siciliano, un’introduzione di Umberto Eco e una Nota dello studioso Rosario La Duca. Ora il testimone passa alla Sellerio, che lo ripubblica, in due volumi, con prefazione di Maurizio Barbato, il quale ricostruisce le vicende del caso editoriale e le discussioni che ne seguirono. Che cos’è dunque I Beati Paoli? Intanto è un bel romanzo di sapore dumasiano, appassionante, dal ritmo rapido nonostante la mole, diviso in quattro ampie parti di brevi capitoli (una ventina ciascuno): un romanzo di intrecci contorti e di storie parallele, di personaggi buoni e cattivi, di eroismi (pochi) e viltà (molte), di tradimenti, passioni, follie d’amore, equivoci, fughe, duelli, scorribande cavalleresche, rapimenti, gelosie furibonde, violenze, vendette, capovolgimenti scespiriani del destino. E con una setta segreta, i Beati Paoli. Siamo nella Sicilia che va dal 1698 al 1719, tra Palermo Messina e Catania, con rari sconfinamenti in terraferma (Torino, Genova, Roma sono solo evocate): è l’epoca in cui l’isola, con la pace di Utrecht (1713), viene ceduta dalla Spagna ai Savoia e poi contesa tra spagnoli di ritorno e impero austriaco, ed è il tempo eterno in cui si consumano le rivalità tra nobili locali, feudatari, principi, baroni, duchi, marchesi veri e presunti. L’edizione Sellerio de «I Beati Paoli» di Luigi Natoli, con prefazione di Maurizio Barbato, è composta di due volumi (pp. 1280, euro 25). La trama non è raccontabile, il lieto fine assicurato. I protagonisti sono molti, a cominciare dal cuore nero di don Raimondo Albamonte della Motta, che si sbarazza degli eredi del fratello maggiore Emanuele (morto in guerra) per far valere le sue ansie di potere; arriva a cedere sua moglie, donna Gabriella, al re per guadagnarsi i favori del sovrano; viene perseguitato da missive anonime dietro cui si nasconde una misteriosa e potentissima congrega che aspira a fare giustizia della corruzione imperante. Sono, appunto, i Beati Paoli, altro cuore nero del romanzo, che si oppongono ai delitti oscuri di don Raimondo senza farsi scrupolo di compiere nuovi feroci misfatti. È un libro sui sotterranei metaforici e fisici: nei cunicoli della città si incontra la setta segreta. Un libro sulla cecità del potere che sovrasta l’interesse comune e sull’oscurità della violenza che vorrebbe travolgere quel potere. Due poteri altrettanto nefandi che non risparmiano nulla pur di prevalere all’insaputa del popolo, che c’è ma non sa, non vede e non parla, e se sa viene coinvolto a fare l’interesse dell’una o dell’altra prepotenza, senza via di scampo, perché si ritorni all’ordine (o al disordine) stabilito. Ci sono anche i buoni, il figlio e il figliastro di Emanuele, la povera figlia di Raimondo, Violante, che a volte per troppa bontà o per troppa fierezza sbagliano, cadono, inciampano anche loro nell’orrore, si compromettono. Non ci sono cavalieri senza macchia e senza peccato. La parola giustizia ricorre in tutte le sue accezioni, anche perché ciascuno ha la sua da imporre all’altro, giusta o ingiusta che sia: «Non bisogna per amore di giustizia essere ingiusti…», dirà Blasco, figliastro del duca Emanuele. Ma il capo dei Beati Paoli non la pensa così: «Che cosa è un uomo dinanzi a un diritto violato? Che cosa una vita umana dinanzi alla giustizia che cammina diritta per la sua strada? Essa deve andare innanzi e stritolerà coloro che incontra». Ma dove sta la nobiltà d’animo se si sente l’esigenza di muoversi nell’ombra? Per caso, chiede Blasco, «voi non osate affrontare la luce, perché sentite vacillare la fede nella vostra giustizia?» Risposta: «Ah no! Vacilla soltanto la fede nella giustizia legale; anzi non vacilla, manca addirittura… L’ombra? È necessaria. È la nostra forza e la nostra sicurezza. La giustizia del re è amministrata da uomini che vedono in essa non un dovere, ma il salario». È la teoria tutta italiota in cui hanno spesso trovato «giustificazione» i delitti mafiosi e quelli brigatisti, ma anche il principio del «governo ladro» su cui spesso si regge il presunto diritto all’evasione fiscale. Il farsi giustizia da sé di fronte all’ingiustizia dello Stato. A proposito del successo che arrise a I Beati Paoli, lo storico La Duca ha scritto che il romanzo divenne «sillabario e testo sacro, tenuto al capezzale del pater familias che ne leggeva i diversi capitoli a parenti e vicini». Un libro che ha saputo non solo divertire e affascinare, ma anche «toccare le corde profonde dell’identità popolare», aggiunge Barbato. D’altra parte, come ha fatto notare Eco, ci sono le tinte collaudate del romanzo gotico, con il gusto fosco dell’occulto e del complotto. Si veda la fisiognomica dei ritratti. Il cattivo Raimondo viene descritto con il volto pallido, gli occhi lampeggianti, la bocca come una lunga ferita, le mascelle angolose. L’innocente fanciulla Pellegra ha movenze graziose e composte dalle «dolci curve»: «Il capo, ricco di capelli castani, avvolto in una specie di cuffia o berretto, si inchinava un po’ sull’omero destro, sopra il collo svelto e di classico disegno». Le metafore sono vivide e corpose: una brutta notizia può presentarsi come «un sasso che, cadendo improvviso nel fondo limaccioso di un pozzo, turbi la limpidezza dell’acqua facendo assommare la belletta». Gli ambienti si presentano spesso sinistri, con ombre avvolte nei mantelli ferme ad ogni angolo di strada e pronte a dileguarsi all’improvviso. I paesaggi sono tersi e luminosi oppure cupi, il tramonto fa morire il cielo d’oro in tinte prima rosee poi violacee. Lugubri forche, in piazza Marina, hanno braccia nere: «Essi videro con raccapriccio una forma umana pendente da un laccio, girare su se stessa, al soffio del vento». Barbato ricorda un giudizio lusinghiero — e probabilmente un po’ fuori misura — espresso su «Le Monde» dal critico francese Jean-Noël Schifano: «Insieme ai Promessi Sposi, a I Viceré, al Nome della rosa e alla Storia della Morante ecco, infine, tradotto con I Beati Paoli il quinto monumento storico della letteratura italiana contemporanea». Resterebbe da capire se i Beati Paoli sono un’entità oscura realmente esistita, magari, come sostiene qualcuno (Francesco Paolo Castiglione), come «una sorta di servizio segreto deviato nei torbidi del passaggio definitivo della Sicilia e del suo baronaggio al dominio spagnolo». Quanta base storica ci fosse nel libro di Natoli fu la domanda che animò il dibattito seguito all’edizione Flaccovio. D’altra parte, se il semiologo del Superuomo di massa aveva puntato la sua lettura inserendo I Beati Paoli nel solco europeo del «romanzo popolare» con la vittoria consolatoria del bene sul male, escludendo l’intenzione civile del romanzo storico, La Duca esaltava la realtà documentaria che intrama le vicende. Se per Eco si tratta di una tarda espressione ideologica di quel filone d’evasione che tende a pacificare i conflitti disinnescando ogni velleità rivoluzionaria popolare, per La Duca il libro di Natoli realizza una sintesi tra fonti storiche e tradizione popolare: quanto ai rapporti genetici con la mafia, va escluso, secondo lo studioso, che si possa tracciare un collegamento diretto, ma non c’è dubbio che in quella società segreta soffia uno spirito essenzialmente mafioso. Leonardo Sciascia, secondo il quale non può fare a meno di conoscere il romanzo di Natoli chi voglia capire che cosa significa «essere siciliani», ricorda un opuscolo del Marchese di Villabianca che dà origine, nella seconda metà del Settecento, alla leggenda dei Beati Paoli. Il Villabianca, che da bambino ha sentito parlare di quella setta, la riconduce ai Vendicosi, una congrega di tenebrosi giustizieri attestata in due cronache del XII secolo. Il diario di Villafranca avrebbe ispirato Natoli suggerendogli la «linea per così dire ideologica» di quel romanzo-fiume che da I Beati Paoli si riversa nei successivi Coriolano della Floresta e Calvello il bastardo: «E il ciclo — osserva Sciascia — si conclude quando i Beati Paoli sono ormai massoni e giacobini». L’avversione che il marchese nutre per la setta viene rovesciata dal Natoli in un consenso considerato da Sciascia «pieno e aperto» e dal quale deriva la popolarità dei suoi libri: «Coi romanzi di Natoli si può dire che arriviamo a scoprire la mafia come vera profonda inalterata costituzione». La mafia come «modo di essere».
Palermo, giustizia allo sbando. Pm preso a pugni in tribunale. Aggredito dopo una sentenza di omicidio dai familiari di due condannati, scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/07/2016, su “Il Giornale”. Pubblico ministero preso a pugni e steso dai parenti dei condannati, al termine di un processo. Familiari della vittima e avvocati di parte civile costretti a barricarsi in aula, per non fare la sua stessa fine. E giudici sequestrati, sigillati in camera di consiglio appena dopo la lettura della sentenza e fatti uscire solo una volta calmate le acque, sotto scorta, tipo gli arbitri quando lasciano lo stadio dopo una partita di calcio «calda». Non siamo in un piccolo tribunale di provincia, pochi giudici e ancor meno agenti a sorvegliare il regolare andamento delle udienze. Già, perché questa storia che sembra incredibile (e purtroppo non lo è) arriva dal Palazzo di Giustizia di Palermo. Sì, proprio uno dei luoghi più blindati d'Italia, dove si celebrano processi delicatissimi. Eppure. Eppure come a Palazzo di Giustizia di Milano, altro luogo blindatissimo, dove un anno e mezzo fa un imputato è entrato in aula con pistola ha ucciso tre persone - un avvocato, un imputato e un giudice -, ecco che la storia, sia pure con conseguenze decisamente meno gravi, si ripete. A riprova di una giustizia senza mezzi e con scarse tutele che si ritrova assediata persino dove viene amministrata. Nelle stesse aule in cui pronuncia sentenze in nome del popolo italiano. Nessun morto, per fortuna, a Palermo, tranne la dignità di una amministrazione della giustizia che suo malgrado si ritrova in balìa di criminali piccoli e grandi. Lo spettacolo degno di un film western è andato in scena venerdì, al termine di un processo per omicidio, in corte d'Assise. Un delitto, ha ricostruito il dibattimento, maturato negli ambienti dello spaccio di droga. Il pm, Maurizio Bonaccorso, aveva chiesto la condanna all'ergastolo per i due imputati, accusati di avere ammazzato nel 2012 un fruttivendolo trentaduenne, fatto fuori con un colpo di pistola alla testa e poi dato alle fiamme. I giudici della Corte d'Assise non avevano accolto la sua richiesta, ma avevano comunque comminato ai due imputati rispettivamente 30 e 27 anni. Il putiferio è scoppiato subito dopo la lettura della sentenza. I familiari dei condannati hanno cominciato a inveire, urlare, insultare. E uno di loro si è scagliato contro il pm che stava lasciando l'aula: un pugno in pieno volto. Steso. È scoppiato il caos. I carabinieri in aula c'erano, sono arrivati anche i rinforzi, una quindicina di militari in tutto. Gli agenti hanno soccorso il magistrato, ma al tempo stesso hanno messo in sicurezza gli altri bersagli dei familiari del condannato: la vedova, che li aveva accusati, i suoi avvocati. E poi naturalmente i giudici. Le parti si sono barricate in aula. Il collegio giudicante è tornato in camera di consiglio e si è chiuso dentro. I giudici hanno lasciato la loro «prigione» dopo qualche ora, sotto scorta. Incredibile. Incredibile ma purtroppo vero. Di «intimidazioni inaccettabili» parla il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. L'Anm tuona contro il «vile attacco all'autorità giudiziaria» e punta l'indice contro la mancanza di sicurezza nei tribunali: «È forte la preoccupazione per le inadeguate e insufficienti misure di sicurezza presenti negli uffici giudiziari». Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, chiede più sicurezza e ricorda i fatti di Milano: «Le strade del nostro Paese sono macchiate dal sangue dei magistrati. È inutile aver ricordato pochi giorni fa Paolo Borsellino se poi non si fa nulla».
"Falsa sparatoria allo Zen per avere un premio". Arrestati due poliziotti. L'auto dei poliziotti coinvolta nella finta sparatoria. Ai domiciliari un ispettore e un assistente capo della caserma Lungaro. Scagionato il rom che era stato accusato del raid, è rimasto in carcere per cinquanta giorni, scrive Salvo Palazzolo il 21 luglio 2016 su “La Repubblica”. Un poliziotto urla via radio: "Stiamo inseguendo una Hyundai Atos allo Zen 2, ci stanno sparando". La città si riempie di sirene, parte una colossale caccia all’uomo. E mezz’ora dopo viene arrestato un rom, un piccolo ladro di auto. Sedici marzo dell’anno scorso, un pomeriggio concitato. Il giorno di un grosso abbaglio. Quel giovane rimasto in carcere 50 giorni non aveva mai sparato contro gli agenti, perché nessuna sparatoria c’era mai stata. Era tutta una messinscena. E ieri mattina sono finiti agli arresti domiciliari un ispettore e un assistente capo che all’epoca erano in servizio all’armeria della caserma Lungaro. Sono i protagonisti dell’allarme lanciato via radio alla centrale operativa. Si tratta di Francesco Elia, 56 anni, e di Alessandra Salamone, 49. Sono pesanti le accuse che vengono contestate dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Dino Petralia e dal sostituto Maurizio Bonaccorso: calunnia, simulazione di reato, falso, procurato allarme, danneggiamento. Il gip Maria Pino non ha avuto dubbi sulla ricostruzione. E il giovane rom è stato scagionato definitivamente: quel pomeriggio, aveva appena rubato un’auto e pensava che tutte quelle volanti fossero per lui, ecco perché scappava. Eppure, i segni di una sparatoria sembravano esserci tutti. Una ferita di striscio sul braccio dell’ispettore Elia, un proiettile conficcato sul cofano dell’auto della polizia. Ma sin dall’inizio di tutta questa storia qualche dubbio era sorto al questore Guido Longo. Gli investigatori del commissariato San Lorenzo hanno analizzato le immagini della telecamera sistemata nel parcheggio del centro commerciale “Conca d’oro”, che riprende un tratto di strada fra via Scordia e via San Nicola. E la verità è cominciata ad emergere: alle 18.15, si vede l’auto della polizia che procede ad andatura regolare, e davanti non c’è alcuna Atos che scappa. Da quel punto, ci vogliono trenta secondi per arrivare all’angolo fra via San Nicola e via Rocky Marciano, dove scatta l’allarme via radio. Trenta secondi. E, invece, la comunicazione radio è rimasta registrata nel server della sala operativa alle 18.24. È quel buco di nove minuti ad aver portato ai domiciliari i due poliziotti. La Scientifica ha aggiunto dettagli importanti: il colpo sul cofano della volante sarebbe stato sparato da cinque metri, e non da quaranta, come invece aveva raccontato l’ispettore. Le indagini della squadra mobile, diretta da Rodolfo Ruperti, hanno completato il quadro. Nei mesi scorsi, Elia ha presentato un’istanza al ministero dell’Interno: chiedeva di essere riconosciuto "vittima del dovere", chiedeva anche un "equo indennizzo" per "causa di servizio". Una brutta storia.
Stato-mafia. E nonostante tutte le traversie subite dal giovane Ciancimino, che hanno finito per minarne la credibilità, l'architrave del processo resta la sua testimonianza (supportata da riscontri, secondo i pm, arrivati a prescindere dai dubbi sull'attendibilità del testimone) scrive “Mondo TV” il 6 Febbraio 2016. "Avevo una scheda sim con la quale lo chiamavo regolarmente - dice -". "Ho conosciuto Bernardo Provenzano nella mia infanzia, una presenza costante nella mia vita, fino alla morte di mio padre". Poi nel 2006, Ciancimino junior viene indagato per riciclaggio: e durante una perquisizione nella sua casa palermitana viene sequestrato anche il cellulare e la sim che aveva in memoria i numeri di telefono del signor Franco. Ciancimino e i rapporti con Giuseppe De Donno. Era il giugno 1990 presso la nostra abitazione in un residence di Mondello. Lui si divertiva a irritarlo. Lo incontrai spesso in Tribunale, dove andavo a prendere informazioni - racconta Ciancimino jr -. Massimo Ciancimino ha inoltre ricordato la scarsissima stima che il padre nutriva verso Riina: "Per lui, Riina era praticamente un ritardato, un doppiogiochista e un uomo aggressivo". Negli anni dal 1999 al 2002, quando Massimo strinse rapporti più confidenziali con suo padre, "questi dossier erano serviti per avvisare amici e politici su possibili inchieste nei confronti di persone riconducibili a mio padre". "De Donno - ha aggiunto - mi ha lasciato una utenza telefonica che avrei utilizzato per chiamarlo dopo il tentativo di convincere mio padre a ricevere i due carabinieri". Parla per quattro ore: dei suoi rapporti con Bernardo Provenzano, una sorta di zio affettuoso che lo rimproverava bonariamente, della figura del padre, don Vito Ciancimino, il sindaco del sacco edilizio di Palermo vicino ai Servizi e "intimo" del boss corleonese. "Provenzano si muoveva liberamente grazie a degli accordi che erano stati stretti in anni passati, me lo disse mio padre", racconta. Provenzano gli disse: "Riina è impazzito". Nella lista infatti c'erano altri politici e magistrati. La reazione alla strage di Capaci. Rispetto al passato, quando vantava, non sapendo di essere intercettato, di poter fare il bello e cattivo tempo nella Procura di Antonio Ingroia, ha perso smalto. Quelli per e da Provenzano "li gestivo io direttamente anche tra maggio e dicembre del 1992". Il signor Franco avrebbe in più occasioni fatto da consiglieri a Ciancimino per i suoi problemi giudiziari. "Riina - ha spiegato - veniva anche a casa nostra". Fu lui a dirmelo. "Per l'ennesima volta Massimo Ciancimino ha rilasciato dichiarazioni totalmente infondate e già smentite in modo radicale ed inoppugnabile nelle sedi processuali", commenta il legale dell'ex premier, Nicolò Ghedini. Documento che Ciancimino jr racconta poi di aver recuperato in casa a Roma, a San Sebastianello, conservato dentro un tomo. "Prima, fui io a consegnargli una busta di mio padre. Quando lui lesse quelle proposte, che considerò irricevibili, esclamò: "Il solito testa di minchia".
Cosa resta del processo del secolo, scrive Lara Sirignano su “Di Palermo” il 5 febbraio 2016.
La Trattativa fra lo smalto perduto di Massimo Ciancimino, un fortino senza più soldati e la noia di noi giornalisti che ci eravamo illusi di riscrivere la Storia. Il Bene, il Male e altre sciocchezze...Sembra passato un secolo. Lui che distillava verità a rate. Noi, lì, ad appuntarcele, terrorizzati di perderne un frammento. Loro disposti a giocarsi l’unità e la faccia della Procura, a passare sopra a contraddizioni e dubbi pur di trovar conferme a tesi già scritte. Lui, Massimo Ciancimino, definito da uno di loro, Antonio Ingroia, un’icona dell’antimafia. Noi, i giornalisti, una massa quasi indistinta di scribacchini pronti a sacrificare il buon senso e l’onestà intellettuale per avere una riga di verbale in più. Lui, noi, loro: protagonisti, comunque vada a finire, di una storia desolante. Sembra passato un secolo e invece sono trascorsi pochi anni, ma tutto è cambiato. Lui non è più lui. Gravato da condanne e indagini che ne hanno appannato l’immagine, all’atteso debutto davanti alla corte d’assise, è apparso stanco e affaticato. E nemmeno loro sono più loro: Antonio Ingroia, che nel processo del secolo cercava la volata per l’approdo a più gratificanti lidi politici, fa il manager per Crocetta e, dopo una breve tappa in Guatemala e il disastro delle urne, ha lasciato la toga. Paolo Guido, unico tra i pm storici del pool a non mettere la firma sulla fine dell’inchiesta, ne è uscito quando prendere le distanze da quello che passava per un tentativo di scrivere la Storia con la S maiuscola costava caro. Ne sanno qualcosa lo storico Salvatore Lupo e il giurista Giovanni Fiandaca, docenti universitari certo non sospettabili di vicinanza alla mafia, accusati dall’ex procuratore di Palermo Francesco Messineo di avere messo in pericolo l’incolumità dei magistrati del pool solo per avere criticato l’impianto dell’accusa. A presidiare il fortino dell’originario schieramento oggi è rimasto solo Nino Di Matteo che, certamente in buona fede, nel processo del secolo ci crede ancora. E, in qualche modo, siamo cambiati pure noi. Ora penne critiche, dopo anni di asservimento a una Procura che pure ha mutato fisionomia. “Tutto finisce, tutto passa, l’acqua scorre e il cuore dimentica”, scriveva Flaubert. E allora c’è da chiedersi: resta ancora qualcosa del processo trattativa? A giudicare dagli ultimi atti parrebbe che, per strada, se ne siano persi pezzi importanti. Un giudice, che non ha certo la fama d’essere garantista, tre mesi fa ha assolto uno dei personaggi chiave della storia: quel Calogero Mannino che dell’accordo tra la mafia e lo Stato sarebbe stato il primo motore. Un colpo pesantissimo per l’accusa, che il taumaturgico “aspettiamo di leggere le motivazioni” stavolta non lenisce. E poi c’è stato il coup de theatre di chi dell’inchiesta trattativa è forse il padre spirituale, Roberto Scarpinato, che da pm ipotizzò i cosiddetti sistemi criminali, e che, al momento di chiedere la condanna di Mario Mori nel processo per la mancata cattura del boss Provenzano, la trattativa l’ha fatta sparire. Contesto imprescindibile in cui maturò l’impunità del padrino corleonese nella ricostruzione di Ingroia e dei suoi, il patto scellerato esce di scena come non fosse mai esistito. Perché visione semplicistica e semplificata di accordi trasversali e progetti eversivi che l’ex magistrato del processo Andreotti, però, nell’aula di giustizia in cui, a breve, si decideranno le sorti di Mori, non è riuscito a fare entrare. La vera storia d’Italia d’un tratto appare dunque monca di parti vitali. E sembra calare mestamente il sipario su una rappresentazione che ha ormai pochi spettatori affezionati: i ragazzi delle Agende Rosse, in attesa, dal loggione del bunker dell’Ucciardone, di applaudire il Bene che sconfigge il Male.
Massimo Ciancimino su “Di Palermo” il 7 febbraio 2016: “Mi muove l’unica cosa che non si può comprare: la dignità”. Ho letto il pezzo di Lara Sirignano su dipalermo.it e mi corre l’obbligo di dire qualcosa in merito, di far capire, soprattutto, le mie odierne motivazioni, le priorità che mi muovono. Questo anche per il solo fine di poter fornire a voi lettori un punto di vista diverso rispetto a quello che molti si sono costruiti in questi anni. Da quando ho iniziato a rispondere ai magistrati, e ribadisco che la mia in nessun modo può essere definita collaborazione, non sono stato beneficiario, come spesso ho invece letto, di impunità di sorta né ho ottenuto restituzioni di fantomatici tesori vaganti. Perché era questo, per molti operatori dell’informazione, il mio unico vero fine. Ciò che invece mi muoveva, e continua a muovermi, è il desiderio di poter dare a mio figlio l’unica cosa che nessun tesoro può comprare: la dignità. Ben sette procure mi hanno indagato per riciclaggio, inchieste tutte chiuse, come l’ultima di Bologna appena notificatami, con la richiesta di archiviazione accolta dal gip. Non sono, né ambisco ad esserlo, un paladino dell’antimafia, lascio ad altri l’onore e l’onere di rappresentare l’antimafia siciliana nella sua massima espressione, anche istituzionale. Sono conscio di essere un buon padre, mi è stato concesso dalla mia ex compagna il privilegio di crescere mio figlio, una scelta nata dallo volontà dello stesso; saranno sempre il suo sostegno e il suo amore a darmi ancora la forza per andare avanti. Per il resto, ho solo risposto, e continuerò a farlo, alle domande dei magistrati, non mi ritengo detentore di verità assolute. Dico quello che so, quello che ho visto, faccio quello che ritengo sia il mio dovere in un Paese dalle labili memorie, dai facili “non ricordo” e dove uomini in divisa si avvalgono della facoltà non rispondere, premiando di fatto una cultura dove l’omertà continua a pagare. Cantava il buon Lucio Dalla che “l’impresa eccezionale è essere normale”. Io sono normale, ed è questa la mia impresa quotidiana.
Pippo Fava, i Mattarella e la mafia, scrive Alessandro D'Amato su "Next Quotidiano" l'1 Febbraio 2015. Da qualche giorno su internet girano gli estratti di uno scritto di Pippo Fava, fondatore de I Siciliani e ucciso dalla mafia, dal titolo “I cento padroni di Palermo”, in cui dipingeva Bernardo Mattarella più o meno come un uomo equivoco, e il figlio Piersanti più o meno come suo pari: Mattarella (Bernardo, ndr) non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Lo scritto risale al giugno 1983. Il figlio di Giuseppe (Pippo) Fava si chiama Claudio, ed è uno dei fondatori della Rete prima di passare ai Democratici di Sinistra e a Sinistra, Ecologia e Libertà. Claudio Fava però è anche sceneggiatore della fiction Il Capo dei Capi, dedicata a Totò Riina. Oggi abbiamo scoperto, grazie al Fatto Quotidiano, che nel 2008 l’attuale capo dello Stato, insieme ai nipoti Maria e Bernardo (figli del fratello Piersanti, ucciso da Cosa nostra il 6 gennaio del 1980, quando era presidente della Regione Siciliana) decise di fare causa alla Rti e alla Taodue, produttori della fiction Mediaset Il Capo dei Capi. Il motivo? Nella mini serie tv di Canale 5, alla figura di Bernardo Mattarella “si attribuiscono allo stesso amicizie o comunque frequentazioni mafiose che non hanno riscontro alcuno, ricorrendo ad artifici anche grossolani”. Come è finita la storia? “La diffamazione operata ai danni di Bernardo Mattarella – scrive il giudice – scaturisce dalla non veridicità dei fatti narrati, giacché non vi sono elementiper ritenere provato il rapporto di amicizia con Ciancimino, e non è veritiera la comunanza d'interessi politici giacché è, piuttosto, provata la militanza in correnti diverse della Dc e l’assenza di qualsiasi legame tra i due”. Alla fine i produttori tv sono stati condannati a risarcire con settemila euro a testa Sergio, Maria e Bernardo Mattarella. Ma la storia non finisce qui. Claudio Fava infatti attualmente è onorevole ed è iscritto al gruppo misto in quota al Partito Socialista Italiano (qui la sua scheda). Accidenti della storia: chi ha votato il Partito Socialista nell’elezione del capo dello Stato? Già, proprio Sergio Mattarella.
I cento padroni di Palermo, da “I Siciliani”, giugno 1983. Camminare a Palermo. Il viale bianco di sole. Le grandi nuvole che arrivano da Punta Raisi, la loro ombra corre sul viale più veloce delle auto. Il cielo sul mare è abbagliante, il cielo sulle montagne a sud, è nero di tempesta. Il gelato da Roney. Tre signore di mezza età stanno sulle poltroncine verdi, con le sopracciglia alte e le boccucce delle signore di Tolouse Lautrec, sedute al divano rosso. Fumano con boccate avide, l’una racconta e continuamente ride, scuote la cenere in aria, l’altra sorride melliflua, la terza annuisce. Sorbiscono granita di mandorla. Tre boccucce eguali come fossero state dipinte dalla stessa mano. Camminare a Palermo. Il cuore del vecchio mercato a mezzogiorno. Almeno cinquemila persone in un groviglio di vicoli che affondano tutti verso la piazzetta. Cento bancarelle sormontate dai giganteschi ombrelloni rossi, pesce, verdura, carne, mele, noci, aragoste, i quarti insanguinati di vitello, i capretti sventrati che pendono dagli uncini, i banditori urlano tutti insieme, lottano così l’uno contro l’altro, in mezzo alla folla. Camminare a Palermo. Il circolo della stampa, con i soffitti bassi, il sentore e l’odore della catacomba, il buio, la luce verde del bigliardo senza giocatori, tre bizzarri individui che ti vengono incontro da tre direzioni diverse, si rassomigliano incredibilmente tutti e tre, saluti gentilmente e nello stesso momento tutti e tre ti salutano con l’identico sorriso, sono gli specchi che dagli angoli bui riflettono la tua immagine. Silenzio. Un aroma di caffè, un cameriere vecchissimo, allampanato che appare vacillando, da un angolo d’ombra all’altro, e scompare. Su un divano tre vecchi signori impassibili dinnanzi a un televisore in bianconero che pispiglia qualcosa. Uno dei signori ha il bastone col manico d’argento, le ghette, il panama bianco. Si alza levando dolcemente il bastone a mo’ di saluto: “Ho fatto tardi!”. Se ne va adagio, si volge solo un attimo con un mormorio. Non si capisce se abbia detto: “Debbo morire!”. Camminare a Palermo? Gli osceni edifici a dodici, quindici piani, che si affollano l’uno sull’altro, lungo la riva del canalone che scende dalla collina al mare, con un rivolo d’acqua putrida al centro, e giù in basso i tuguri dove si ammassano venti persone, a due metri da quel rigagnolo giallo. I bambini che giocano da una riva all’altra. Bambini così, anche cani così che corrono in mezzo ai bambini, li ho visti solo a Palma di Montechiaro. Anche il colore, anche il fetore di quel rigagnolo è lo stesso di quel liquame che scorre orribilmente fra le rupi di Palma. Tutto questo è retorica, lo so. A Palma di Montechiaro però tre bambini su dieci muoiono prima di arrivare all’età scolare. E da qualche parte, in questa immensa città, c’è qualcuno che sta discutendo quale sarà il destino di questi bambini di Palermo per i prossimi venti o trent’anni. E quale sarà il suo guadagno. Palermo è una delle città più belle d’Europa e certamente una delle più infelici. Forse più della stessa Napoli. Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le reggie favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c’è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell’isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un’altra razza: quelli sicani e noi invece siculi, quelli cartaginesi, saraceni, andalusi, napoletani; noi greci, romani, svevi, milanesi. I catanesi hanno proposto due capitali dell’isola per due popoli diversi, si tratta di uno sberleffo, ma nella realtà in cosa potranno mai essere rassomigliati (concetto dell’uomo o pensiero sulla vita) Verga e Tomasi di Lampedusa, oppure Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia? Pirandello, che stava in contemplazione a metà strada fra questi due concetti dell’essere, probabilmente dovette pensare quanto l’essere siciliano in definitiva fosse fantastico e improbabile. I siciliani non amano Palermo e Palermo lo sa perfettamente ma non se ne cura. I siciliani non amano Palermo poiché essa è la capitale che esige soltanto tributi e obbedienza, e in verità Palermo vuole questo soprattutto, come è giusto che sia il rapporto fra sudditi e sovrano. Il catanese, il siracusano, il messinese, il ragusano, si azzannano a vicenda, ma se qualcuno forestiero gli chiede la provenienza, dicono: Siciliano! E basta. Il palermitano dice: palermitano, che a parer suo è cosa inimitabile e sovrana. I Siciliani non amano Palermo. C’è qualcosa che impaurisce e respinge. Io ho visto per le strade di Catania auto sbucare di colpo, e uomini balzare fuori con le armi in pugno e cominciare a sparare addosso ad altri uomini, e chinarsi urlando a sparare il colpo di grazia alla nuca. Ho visto corpi insanguinati di ragazzi uccisi, giacere in mezzo alla strada e la gente che continuava ad andare, le auto a correre. Ho visto cortili fracassati dalle raffiche di mitra e dalle schegge delle bombe a mano, e colava dai muri e le polpette ancora fumanti sulla mensa. Ho visto madri avanzare piangendo verso i corpi degli uccisi, sostenute pietosamente da parenti che però avevano la sigaretta fumante in bocca. La morte a Palermo è diversa, la morte violenta. Più profonda, più arcana e fatale. Esige contemplazione: una fila di sedie tutt’intorno al corpo insanguinato, in mezzo alla strada, e ai parenti seduti immobili, in silenzio, a guardare. I ragazzini immobili e attenti. La morte è spettacolo da non perdere. La morte ha sempre una ragione d’essere. A Palermo essa va meditata e capita. Chi sono i padroni di Palermo? Coloro che hanno nel pugno il destino di questa grande, splendida e infelice capitale del Sud? E’ una domanda essenziale poiché essere padroni di Palermo non significa soltanto governare taluni giganteschi affari per migliaia di miliardi, ma per infinite, invisibili vie governare anche lo sviluppo politico dell’isola e quindi del Meridione: per esempio stabilire in quali banche debba essere depositato il pubblico denaro, e chi debba dirigere queste banche; per esempio indicare quali funzionari meritino carriera per propiziare e garantire giganteschi affari di vertice; e via via, sempre per esempio, spirali sempre più difficili e più alte e segrete, designare coloro i quali dovranno essere deputati, assessori, sottosegretari, ministri. Bisogna stare attenti. In Sicilia, e quindi naturalmente a Palermo, si verifica un fenomeno straordinario: e cioè che in Italia tutto quello che accade, nel bene e nel male, dipende dai partiti oramai despoti della vita nazionale, ma questo potere nel Sud si sgretola, degrada, corrompe, privatizza. Un uomo politico può diventare presidente o ministro, e la gente pensa che sia domineddio, ma nella realtà egli è diventato ministro o presidente per amministrare una situazione, una proposta, un compromesso che altri hanno discusso e deciso prima di lui e gli hanno semplicemente affidato. Altrove, a Torino, Milano, Bologna, persino a Napoli, un ministro può essere il padrone. Qui, non essere nessuno. Chi sono dunque i padroni di Palermo? Badate bene: i padroni, non il padrone, poiché a Palermo accade anche questo fenomeno straordinario, e cioè che non è ammesso il tiranno, il condottiero, colui il quale per carisma, per virtù propria di talento o violenza, possa emergere su tutti gli altri ed al quale tutti gli altri debbano rispetto e obbedienza. Se spunta un Cesare ci sono subito le Idi di marzo. Palermo rassomiglia alla Roma del basso impero con le congiure, i pretoriani, i Caligola che fanno senatori i loro cavalli, le clientele che fluttuano dall’uno all’altro vincente. Ma più ancora Palermo rassomiglia all’Atene della decadenza, con gli oligarchi, oratori, guerrieri, reggitori che in mezzo a loro non permisero mai venisse fuori un capo. Le virtù che contano a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di un cardinale Mazzarino, di chi sappia intrigare, unire, collegare, non conoscere mai la vera identità dell’assassino e tuttavia da quell’assassinio trarre sicuro vantaggio, né mai essere in prima persona nell’affare da cento o mille miliardi, ma amabilmente avere la certezza di un dieci per cento, metà del quale da distribuire ad amici, confidenti, alleati e delicatamente anche a taluni avversari. Né Pericle, né Alcibiade. La storia moderna di Palermo, che è anche la storia politica del Sud e in gran parte anche della violenza che ciclicamente scuote la nazione, si potrebbe raccontare attraverso storie esemplari di alcuni uomini. Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere. Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiedevano un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo. Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò, quanto meno, a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola – le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo. Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioè gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse, gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato. Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere. La storia di Mattarella è davvero una storia esemplare all’interno del racconto sul potere a Palermo. Palermo non può avere un solo padrone, nemmeno un primus inter pares: se qualcuno tenta di esserlo viene distrutto in qualche modo, oppure più semplicemente ucciso. Naturalmente non accade mai che la decisione dell’assassinio sia presa dalla piccola società degli oligarchi, questo appartiene alla fantascienza mafiosa, tutti hanno il medesimo interesse ma in definitiva sono soltanto due o tre di loro, i più offesi o spietati, che prendono la decisione. Individuarli non è possibile mai: bisognerebbe prima identificare e catturare gli esecutori dell’assassinio; che costoro confessassero da chi hanno avuto mandato di uccidere, e questi mandanti a loro volta indicassero l’anonimo barone che ha commissionato il delitto. Una serie di ipotesi assolutamente impossibile che, tutte insieme, configurano appunto il perfetto delitto di mafia. Chi sono dunque i padroni di Palermo? I metodi di identificazione sono due: l’uno politico, l’altro finanziario, cioè anzitutto l’identificazione dei politici che attraverso leggi e azioni di governo determinano i grandi affari pubblici, compresi i sistemi di affidamento; e quindi la identificazione degli operatori che si aggiudicano tali grandi affari e ne diventano perciò i protagonisti. Attualmente, nella città di Palermo ci sono una ventina di grandi affari pubblici. Messi insieme formano un pacchetto di duemila-tremila miliardi. Scegliamone quattro, i più semplici da capire: il porto scogliera, l’appalto per la pubblica illuminazione, il risanamento del centro storico, l’appalto per la manutenzione stradale. Il porto-scogliera dovrebbe sorgere lungo quel tratto di litoranea fra la nazionale per Messina e il Foro Italico, cioè in quel tratto di spiaggia dove si scaricano le immondizie di mezza città e le acque luride delle fiumare, un tratto di mare che è divenuto una sola immensa fogna, oramai perduto per qualsiasi utilizzazione commerciale e turistica. Il problema è quello di bonificare la zona, evitando che essa diventi una sempre più micidiale concentrazione di immondizie putrefatte, di topi, mosche, cani randagi, zanzare, miasmi, epidemie. Il progetto è semplice: costruire in mare a qualche centinaio di metri dalla riva una scogliera artificiale, una specie di immensa barriera frangiflutti, in modo da creare all’interno, fra tale scogliera e la spiaggia, una specie di mare morto nel quale andranno a scaricarsi quotidianamente tutti i materiali da riporto dell’intera città, pietre, rottami, rifiuti, calcinacci. Nel giro di pochi anni il mare, o meglio quel putrido stagno, scomparirà per sempre e diventerà un immenso pianoro di terraferma. La proposta è che la ditta appaltatrice dei lavori, la Sailem, esegua i lavori gratuitamente, aggiudicandosi tuttavia la proprietà delle aree di risulta, cioè di quell’immenso pianoro che si sostituirà al mare. Naturalmente tutta area fabbricabile, nel cuore di Palermo, lungo il mare, in una zona che – eliminato l’inquinamento – potrà diventare prezioso luogo di insediamenti turistici, residenziali e alberghieri. Il tratto di litoranea interessato è lungo circa due chilometri, la scogliera sarà costruita a trecento metri dalla spiaggia, un’area dunque di circa sessantamila metri quadrati. Il prezzo delle aree fabbricabili nelle zone urbanistiche di eccellenza si aggira sulle cinquecentomila lire a metro quadrato. Fate i conti. L’appalto per la pubblica illuminazione, per centodieci miliardi. Esso non è avvenuto per pubblico concorso ma a licitazione privata. Con delibera della giunta presieduta dell’ex sindaco Martellucci, che attende solo la ratifica del consiglio comunale, è stato approvato il rinnovo dell’appalto alla ditta ICEM, di cui è grande manager l’ingegnere Parisi. La grande storia di Palermo è fatta di alcune grandi storie umane ma anche di tante piccole storie esemplari che si debbono mettere tutte insieme, l’una accanto all’altra, nel posto giusto. L’ingegnere Parisi è il presidente del Palermo calcio: pare abbia fatto egli stesso candida ammissione di non avere per il calcio alcuna passione o competenza. E tuttavia, soavemente invitato dagli ambienti politici della Dc ad assumere la gestione del Palermo calcio per ricondurlo in serie A, altrettanto soavemente egli accettò di rendere questo servizio alla città e agli uomini che la governano. Gli è costato due miliardi! Non sono stati spesi bene, ma non sono neanche molti. Il piano di risanamento del centro storico di Palermo. L’ultima preda! L’alleanza criminale fra politici e imprenditori ha infatti letteralmente divorato, sfregiato, saccheggiato oramai tutta l’immensa periferia della capitale, rovinandola per sempre. Il prezzo pagato dalla città è stato tragico. Almeno duemila assassinii: uomini giustiziati in mezzo alla strada, murati nei piloni di cemento degli stessi palazzi, gettati in mare con una pietra alle caviglie. Una pirateria di circa cinquantamila miliardi la cui spartizione ha consentito l’insorgere di almeno cinque nuovi tremendi focolai di potenza mafiosa che (per evoluzione criminale e capacità finanziaria) hanno potuto impadronirsi anche del contrabbando della droga, determinando un terrificante salto di qualità e di potenza dell’intera struttura criminale. L’unica area urbanistica residua, nella quale sono possibili operazioni urbanistiche, appunto l’ultima preda, è il centro storico di Palermo, cioè quella che fu la splendida, orgogliosa capitale della civiltà mediterranea e nella quale arabi e normanni profusero i tesori della loro architettura. Spettacolo di miseria e grandezza. Vicoli nei quali dilaga un’umanità urlante e feroce, palazzi di straordinaria bellezza che però cadono a pezzi, tuguri nei quali si intanano migliaia di sventurate e fameliche famiglie del sottoproletariato, cattedrali, reggie, teatri di ineguagliabile maestà, spazi fatiscenti dove si accumulano le immondizie di interi quartieri, migliaia di edifici pericolanti dai quali gli esseri umani sono stati stanati a forza come bestie. Il progetto di risanamento che sta per essere ultimato, deve salvare i grandi palazzi prima che crollino, cancellare migliaia di tuguri, programmare il restauro di centinaia di edifici ora abbandonati e la costruzione di migliaia di altri nelle aree di risulta. Un progetto gigantesco. Un affare che prevede un investimento pubblico di duemila miliardi, e perlomeno quindici/ventimila miliardi di investimenti e quindi profitti privati. Facile immaginare quale drammatica lotta si sia già scatenata in quella fantastica città mafiosa, invisibile all’occhio e tuttavia perfettamente compenetrata (una città sull’altra e dentro l’altra) a Palermo. Si tratta di capire chi si presenterà a chiedere gli appalti e come essi saranno dati, con quali facoltà e vantaggi. I grandi personaggi del potere si stanno squadrando e valutando, cercando di leggersi negli occhi per capire chi sarà alleato, concorrente o nemico. I catanesi che hanno un’ironia piuttosto ruvida, quasi sempre conclusa con una grande risata direbbero: “Si stanno curando in salute!”. I palermitani che sono più tristi e perciò anche più sottili nell’ironia, dicono: “Si stanno guardando lo scarto”, che nel terziglio è il momento in cui il giocatore solo contro gli altri due, va a riguardarsi le quattro carte di scarto che solo lui conosce, per fare la giocata decisiva. Gettare subitaneamente la scartina e brutalmente uscire di napoletana. Con ironia più esplicita, qualcuno a Palermo più semplicemente dice: “Duemila miliardi a chi sparerà per primo!”. Infine l’appalto per la manutenzione stradale. Anche tale appalto, per un importo di centotrenta miliardi, sarà rinnovato alla ditta LESCA di cui è protagonista e manager il conte Cassina. Ecco un’altra piccola storia per raccontare la grande storia di Palermo. Cassina è conte! I palermitani, la cui ironia spesso è così tagliente da sembrare cinismo, dicono ai catanesi: “Voi avete i cavalieri del lavoro, noi abbiamo i conti! C’è un abisso. Cassina è conte, è milanese ed è Gran Bali, per tutto il Sud, dei cavalieri del Santo Sepolcro, associazione di personaggi eccellenti i quali hanno diritto di paludarsi in cappa nera, feluca e spadino, e in tal guisa scortare il Papa nelle grandi cerimonie ufficiali. Al Gran Bali spetta il governo della loggia (si chiama così, come nella massoneria) e la designazione dei nuovi cavalieri. Della loggia di Palermo, negli ultimi anni, sono entrati a far parte questori, magistrati, professori di università, artisti, luminari della medicina e delle lettere, operatori economici, cavalieri del lavoro. Il conte Cassina li convoca, li governa e li affabula. Ecco, il conte Cassina è uno dei padroni di Palermo. E’ amabile, colto, intelligente, non ha la prepotenza mentale e la temerarietà dei cavalieri di Catania, per i quali non c’è impresa che non possa essere tentata e che non si abbia il diritto di tentare, ma la prudente saggezza di colui il quale vive in una capitale in cui c’è un limite a tutto, anche alla potenza dell’uomo. E’ un uomo che può invitare a cena ministri, prefetti, giudici e conversare affabilmente sul destino della Sicilia. Da buon milanese ha uno straordinario rispetto per il denaro e quindi è anche tenuamente avaro. Si dice che un cavaliere di Catania, invitando a cena nella sua villa prefetti e ministri, facesse galantemente trovare, sotto il tovagliolo, graziosi monili d’oro per le consorti dei convitati. Il conte Cassina si limita agli spaghetti, e per le gentili signore, una piccola orchidea. Un padrone di Palermo il quale sa perfettamente che non si deve mai essere l’unico padrone di Palermo, ma che bisogna convivere con gli altri e tutto sta semmai nel garbo con cui si è capaci di riconoscerli. E i politici. Anche nella politica la situazione è mutata. Il tiranno non esiste più. Mattarella tentò di imporre una regola morale a tutti, pensò di avere il carisma del capo. Morì. Prima di lui aveva tentato, con altro stile e altre convinzioni, Vito Ciancimino, certo il personaggio più famoso della democrazia cristiana e quindi della politica palermitana. In effetti ci fu un momento storico in cui parve il padrone di tutto, il solo e incontrastato governatore della volontà politica nella capitale dell’isola. Non ci fu affare, né opera pubblica, né appalto, né alleanza o compromesso che non fosse sua iniziativa o non si avvalesse del suo consenso. Lo distrussero. Comandava troppo. Però sopravvisse. Vito Ciancimino non era Piersanti Mattarella, egli era tanto astuto quanto quello era candido, egli era tanto attore quanto quello condottiero. Non avendo la vocazione di Alcibiade capì per tempo quanto meglio valesse essere Mazzarino, cioè paziente, silenzioso, ironico. Fra gli uomini politici italiani, rassomiglia più di ogni altro a Giulio Andreotti (nella speranza che nessuno dei due si offenda). Parlando di potere politico a Palermo si deve subito pensare a Vito Ciancimino, il geometra Ciancimino, come egli spavaldamente ama presentarsi; ecco, questa è un’altra piccola storia da raccontare dentro la grande storia di Palermo, e nemmeno tutta la storia dell’uomo, ma solo un minuscolo episodio del personaggio, perché si possa ancora più perfettamente capire Palermo. Vito Ciancimino crollò nell’ultima fase delle indagini dell’antimafia. Venne accusato, lui prima assessore all’urbanistica e poi sindaco, di aver lasciato sbranare Palermo dalla mafia. La democrazia cristiana ebbe paura. Non poteva certo partecipare al linciaggio perché sarebbe stato come mettere sotto accusa tutte le operazioni di potere che il partito aveva sollecitato e giustificato, una specie di suicidio; e però non poteva nemmeno difendere l’uomo perché le accuse erano troppo gravi, c’era il rischio di essere coinvolti e travolti. La democrazia cristiana non ha lo stoicismo tra le sue regole morali. Il suo principio è il silenzio estatico, la sua forza il tempo. Il silenzio avvolge, confonde, non consente approfondimenti, dibattiti. Il tempo ammorbidisce, logora, stanca, dilapida, suscita smarrimenti, la gente muore, la gente dimentica. Col tempo e nel silenzio svanì e si perse per sempre anche il come e il perché, vita e morte del bandito Giuliano. Figuratevi! Dinnanzi a Vito Ciancimino la Dc si tirò addosso un velo sepolcrale: lo deferì ai probiviri del partito perché stabilissero se poteva giustamente stare dentro il partito a testa alta o dovesse esser cacciato con ignominia. Tempo e silenzio. Finché vennero le elezioni politiche del 1979. Vito Ciancimino non poteva candidarsi poiché era nel limbo, ma aveva però quaranta/cinquantamila voti di preferenza sulla piazza di Palermo, un formidabile pacchetto elettorale che poteva manovrare a suo piacimento. Erano voti suoi, conquistati, allevati, guadagnati, difesi anno dopo anno, con mille amicizie, protezioni, minuscole alleanze, favori, benevolenze. Li aveva proprio nel portafogli, cosa sua, manovrando quei cinquantamila voti di preferenza, cioè spostandoli dall’un candidato all’altro, poteva determinare disfatte e trionfi. Per i leaders politici palermitani oltretutto non è importante solo essere eletti al parlamento, ma anche il numero delle preferenze, poiché queste stabiliscono gerarchie, ingigantiscono prestigio, candidano alle cariche ministeriali. Ora si racconta come nella fase pre-elettorale, il ministro Ruffini mandasse segnali di fumo al geometra Ciancimino per esprimere il suo gradimento a quei cinquantamila voti di preferenza, e come il Ciancimino stanco di essere tenuto alla gogna, facesse sapere che sì, quei cinquantamila voti sarebbero stati suoi, purché il ministro Ruffini l’avesse aiutato ad avere finalmente una sentenza assolutoria dai probiviri della Dc. E ancora si narra come il ministro Ruffini gli promettesse il suo leale appoggio in tal senso, organizzando un incontro con il segretario nazionale Piccoli a Roma: appuntamento a Roma alle sette del mattino, nella villa del segretario Piccoli. Vito Ciancimino arrivò in tassì, con una valigetta di cuoio piena di documenti che avrebbero dovuto comprovare la sua innocenza e comunque indurre ad una benigna valutazione il segretario nazionale della Dc. Erano i tempi della grande paura e del terrorismo trionfante. Gli uomini di vertice viaggiavano in autoblindo. La villa di Flaminio Piccoli era circondata dai carabinieri con i mitra puntati: si videro venire incontro questo sconosciuto, con gli occhietti neri da siciliano, i baffetti, e quella valigetta di cuoio. Sono il geometra Ciancimino, ho un appuntamento con l’onorevole Piccoli, in questa valigia ci sono carte personali… Documenti, perquisizione, verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato un tale, pretendendo di avere appuntamento con l’onorevole Piccoli, ha esibito documenti intestati al ragioniere Vito Ciancimino, di Palermo…In quell’istante scortato da motociclisti e auto della polizia, arrivò in auto blindata il ministro Ruffini. Così narrano. Carabinieri sull’attenti. Il ministro spiegò che poteva garantire lui per il signor Ciancimino, il quale effettivamente era atteso dall’onorevole Piccoli. Agli ordini eccellenza. I carabinieri sono sempre carabinieri: misero diligentemente a verbale. Quello che si dissero nello studio di Piccoli nessuno lo sa. Il candidato Ruffini ebbe centocinquantamila voti di preferenza. E venne il caso Sindona: lo scandalo, l’arresto di Spatola il quale era amico di Ciancimino e disse agli inquirenti d’essere andato una volta a cena con il ministro Ruffini, il quale a sua volta disse che non sapeva nemmeno chi fosse questo Spatola, glielo avevano presentato un giorno per caso, piacere, molto lieto e basta, e che comunque non conosceva quel tale Ciancimino di cui gli parlavano. Allora Ciancimino scrisse una lettera a mano, con un foglio di carta carbone sotto, per averne copia, “Caro Ruffini, leggo che dici di non conoscermi nemmeno. Sei un…!”. L’epiteto fu crasso e stentoreo. Piegò il foglio, senza nemmeno metterlo in busta e lo spedì per raccomandata espresso. Conservò nel portafogli quella copia, ogni tanto la tira fuori e la tiene appesa a due dita in faccia all’interlocutore. Ride: “Non mi conosce? C’è quel verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato il ragioniere Vito Ciancimino. Il sopraggiunto ministro Ruffini, ecc., ecc… “. Chi sono i padroni politici di Palermo? Il ministro Ruffini, l’onorevole Lima, l’ex sindaco Valenzi? Certo! Forse ancora, da qualche parte, in qualche modo con qualche pacchetto di cinquantamila voti in tasca, Vito Ciancimino. Epperò anche infiniti altri. In realtà fino a non molto tempo fa, c’erano a Palermo i grandi, inviolabili boss politici. Giovanni Gioia era Luigi XIV. Tutto passava per il loro consenso. I grandi capi esistono ancora, ma sono stati esautorati, c’è stata la rivolta dei peones, sono almeno cento: ognuno di loro restando all’ombra del capo e rispettandone ufficialmente il potere si è costruito il suo piccolo feudo di potere, secondo competenza. Tutto quello che passa per il suo feudo paga, per taluni può essere soltanto la devota riconoscenza, per altri invece un tenue dieci per cento sul totale dell’affare. Anche il suo legittimo è pulito. Pensate a un galantuomo che deve avere un contributo o un mutuo da un miliardo: se lo fanno aspettare un anno ci rimette gli interessi bancari attivi quindi il 18%, e subisce l’impoverimento per svalutazione di un altro 14-15%. Con quella garbata tangente del dieci per cento, li ottiene subito secondo diritto. Ci guadagna! La figura giuridica sarebbe quella della cosiddetta servitù di passaggio, oppure in taluni casi, i più sofisticati (i giuristi mi perdonino l’audacia) dell’enfiteusi che è il diritto di godere di una cosa altrui, con l’obbligo di pagare periodicamente un canone. Solo che la cosa altrui, stavolta, è la cosa pubblica. Ma è un particolare ininfluente la cosa pubblica a Palermo, è la cosa dei cento padroni che possiedono Palermo. Palermo! Camminare per Palermo. Camminare sfiorando gli stupendi palazzi dove un giorno vissero svevi, normanni, emiri, angioini, ed ora anche le facciate stanno cadendo a pezzi, dietro queste facciate pavimenti e soffitti sono sfondati, le scale crollate. Camminare nei vicoli di Palermo assordati dal grido di centinaia di venditori, in mezzo ad una folla che sembra vagare con il moto pazzo delle formiche su un torsolo di mela. Camminare nelle stradine fetide e senza selciato, con le bancarelle fumanti attorno alle quali si aggruma la gente povera a mangiare gli scarti bolliti dei macelli. Camminare in mezzo ai tuguri di Palermo dove si intana la gente sradicata, cacciata via dalle case antiche che stavano per crollare. Tutto questo è folclore, lo so. Però, in questa grande capitale del Sud, migliaia di bambini vivono veramente dentro le tane come le bestie umane; e decine di migliaia di uomini vivono miserabilmente di espedienti, commerci infinitesimali, elemosine, ruberie; e centocinquanta esseri umani sono stati assassinati in un anno in mezzo alle strade, ed altri centocinquanta sono scomparsi, eliminati dalla lupara bianca. Tutto questo è retorico. Quando la verità è insultante si dice che essa è retorica, è sempre retorico tutto quello che non rientra nei limiti del possibile, trecento assassinii sono dunque retorica. Salire la scalinata del Palazzo delle Aquile e sapere che da qualche parte, in qualche stanza, venne perpetrata la spartizione di cinquantamila miliardi per la devastazione urbanistica di Palermo, e alcuni di quegli uomini furono o ancora saranno fra i governatori di questa città. In qualche stanza di questo palazzo c’è il nuovo sindaco, Elda Pucci, medico, cinquantenne, nubile, adamantina la quale dice: “L’ex sindaco Valenzi fu il mio maestro. Il modello al quale mi ispiro!”. Vincente oratoria. A loro è lasciato il compito difficile di governare nel modo più garbato possibile, elaborare i grandi sistemi quali che siano, garantire che la macchina funzioni. Abbiamo revisionato, cambiato i pezzi logori, guardate come corre.
PARLIAMO DELLA TOSCANA.
…DI FIRENZE. Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.
Il Forteto non esiste: gli orrori di un storia che nessuno racconta. Inchiesta sul Forteto: ecco tutti gli orrori e gli errori di un storia di cui nessuno parla, scrive Simone Cosimelli il 10 giugno 2016 su “Affari Italiani”. Un paio di mesi fa una giornalista russa, intervistando il presidente dell’associazione Vittime del Forteto, Sergio Pietracito, si fermò, visibilmente scossa, per fare una domanda di buon senso: chiese come mai una storia del genere non fosse conosciuta nel suo Paese. La risposta fu indicativa: «Nemmeno fuori Firenze se ne sa nulla, per questo ci battiamo». In un Paese normale, 30 anni di stupri e abusi su minorenni, perpetrati all’ombra del muro di connivenze della Toscana «rossa», non passerebbero inosservati. Ma nessuno avrà il coraggio di dire che l’Italia lo sia. E infatti è accaduto di tutto: oltre l’inimmaginabile, oltre la giustizia. E’ una vicenda orrenda quella del Forteto, e oggi, mentre si celebra il secondo grado di un processo tanto atteso, non se ne intravede la fine. Sono stati presi i mostri, ma non chi i mostri li ha prima osannati e poi protetti. Tutto inizia nel 1977. Nel comune di Barberino nasce la comunità Il Forteto assieme all’azienda agricola, destinata a radicarsi nel territorio come baluardo del made in Tuscany alimentare. L’iniziativa è di due uomini che si avvalgono di falsi titoli di studio in psicologia: Rodolfo Fiesoli, detto il Profeta e capo indiscusso della struttura, e Luigi Goffredi, l’ideologo. Tutto ruota attorno alla teoria, ancora in fase sperimentale, della “famiglia funzionale”. Cioè all’educazione alternativa dei minori tramite gli affidi a due soggetti, uomo-donna, il cui accostamento avviene a tavolino. La conoscenza reciproca è superficiale e svincolata dalla sfera dell’affettività, ritenuta nociva. Si cresceranno ragazzi disagiati senza il «fardello della materialità sessuale». Fiesoli e Goffredi si presentano come pionieri. L’ammirazione è incondizionata. Il Tribunale dei minori comincerà presto ad affidare bambini provenienti da situazioni difficili (genitori tossicodipendenti o assenti). E nel tempo intellettuali e psichiatri loderanno quel miscuglio di Freud e Don Milani. Eppure, fin da subito, cosa fosse realmente il Forteto avrebbe dovuto essere chiaro. Nel settembre 1978 il magistrato Carlo Casini fa arrestare i due per abusi sessuali. E’ la prima avvisaglia degli scempi commessi, ma vengono scarcerati alcuni mesi dopo. La scesa in campo di Caselli in politica, nella file della Dc, scatena infatti il magistrato Gian Paolo Meucci (di tutt’altre vedute), padre del diritto minorile italiano e intransigente difensore del Profeta. Non basta allora il discorso di Rinaldo Innaco (DC), tenuto nell’ottobre 1980 in Consiglio regionale, dove si parla di costrizione e «regime di vita imposto e caratterizzato (…) dalla pratica dell’omosessualità». Non basta la condanna in primo grado del 1981, confermata in Cassazione nell’84, per «atti di libidine violenti e maltrattamenti e lesioni». Non basta quella del gennaio 1985, pur passata in giudicato, della Corte D’Appello di Firenze per «atti di libidine e corruzione di minori». La posizione di Meucci, che all’autorevolezza personale unisce l’assoluta deferenza dei colleghi, fa dimenticare il verdetto, con nessun effetto pratico. Un caso senza precedenti nella giustizia nazionale. Poi, contro ogni valutazione plausibile, si affidano subito altri bambini. Dopo l’85, inizia il dominio incontrastato del Forteto. A far “merenda”, trasferita la sede nel paesino di Vicchio, passano in tanti: politici, giudici del Tribunale dei minori, sindacalisti, dirigenti dei servizi sociali. Di fatto, tutta la Sinistra toscana (PCI, PSI, PdUP, Sinistra Indipendente) favorisce la nuova realtà. Il Forteto diventa una passerella obbligata. Fiesoli è paragonato a Don Milani. Stupisce, commuove, incanta. Scrive libri. I ragazzi intanto, all’oscuro delle condanne, e allontanati dai genitori naturali, vengono traviati mentalmente: molti diranno di aver considerato normale il fatto di essere abusati sessualmente. E fino al 2009 la comunità ne riceve circa 60. La mattina a spalare la calce e lavorare i campi, la sera in balia dei genitori. Nel frattempo, la Cooperativa, l’altra faccia del Forteto, acquista prestigio: 130 dipendenti “esterni”, un fatturato di quasi 20 milioni, eccellenze alimentari esportate dall’America all’Australia. Un vanto per tutta la Regione. Il 13 luglio del 2000, però, tornano i guai. La Corte europea dei diritti dell’uomo, in seguito alla denuncia di due madri a cui veniva impedito di vedere i figli, condanna l’Italia con una multa di 200 milioni di lire per danni morali. La sentenza di Strasburgo pesa eccome, ma si alzano le barricate: e non cambia nulla. Anzi, solo dal ’97 al 2010, il Forteto ottiene contributi dalla Regione per 1 milione e 254 mila euro. Si arriva poi al novembre 2011. Al TEDxFirenze (manifestazione socio-culturale), Fiesoli interviene a Palazzo Vecchio sull’educazione minorile in qualità di esperto: presenziava, e fu ringraziato, l’allora sindaco Matteo Renzi. Proprio il mese successivo, però, viene arrestato per atti di pedofilia. L’accusa è schiacciante. Nasce una commissione d’inchiesta regionale per indagare sul sistema di potere appena scoperchiato e nel gennaio 2013 viene stilata una relazione dove si elencano i soggetti che hanno frequentato la comunità. Tra i tanti noti (109): Livia Turco, Piero Fassino, Vittoria Franco, Susanna Camusso, i giornalisti Betty Barsantini e Sandro Vannucci. Dopo il tentativo dell’avvocato del Profeta di far ricusare il presidente del collegio giudicante, Marco Bouchard (unico caso nella storia della Repubblica), così da rallentare il dibattimento in odor di prescrizione, il 17 giugno 2015 la sentenza in primo grado condanna 16 dei 23 imputati. 17 anni e mezzo per Fiesoli, 8 per Goffredi, e via via a scendere per gli altri componenti di quella che ormai è considerata una setta. Le testimonianze delle vittime, scappate dal Forteto, sono determinanti. Nelle motivazioni della Corte si legge: «Il Forteto è stata un’esperienza drammatica, per molti aspetti criminale, retta da persone non equilibrate (…) Le perversioni del Fiesoli e compagni sono state di volta in volta avallate, tollerate. Chi ha reagito, chi ha protestato, chi ha contestato è stato emarginato, isolato, escluso, denigrato e, finalmente, allontanato». Nell’estate 2015, il caso arriva a Roma. Una mozione a firma di Deborah Bergamini (FI) chiede una un’inchiesta parlamentare e il commissariamento dell’azienda per il presunto intreccio con la comunità. Il PD interviene: e affossa la mozione. Si parla di responsabilità individuali e non collettive: smentendo i fatti, le vittime e la sentenza. Le opposizioni ringhiano («La decisione del Governo è sconcertante: non ha alcuna logica, alcuna sensibilità, alcun senso politico»). Invano. A livello locale, invece, le polemiche non si sono mai spente. Un libro, Setta di Stato, scritto dai giornalisti Tronci e Pini, ha fatto rumore. Si è istituita una commissione regionale Bis per indagare sulle responsabilità politiche, che del Forteto sono state la stampella e lo scudo. Ma non avendo i poteri di un’autorità giudiziaria, finora ha avuto le mani legate di fronte alle reticenze di chi è stato interpellato alle audizioni, o peggio ha scelto di tacere. Nessuno infatti ricorda, nessuno c’era o sapeva. Non ricorda, per esempio, Giuliano Pisapia (sindaco uscente di Milano), membro del collegio che patrocinò il Profeta in Cassazione nell’85. Non ricorda Rosy Bindi, più volte accostata al Forteto. Ha pensato di non poter aiutare, dopo aver promesso il contrario, Bruno Vespa: che anni addietro ricevette pressioni per non mandare in onda una puntata di Porta a Porta sull’argomento. Convocato, non si è presentato. Secondo la sentenza, negli anni, centinaia di persone sarebbero state segnate. Con intere famiglie rovinate. Otto ragazzi, una volta usciti, non ce l’hanno fatta: stroncati dalla tossicodipendenza, dall’indigenza e dai traumi passati. Spesso, ci si chiede come sia possibile che fatti di entità molto minore siano squadernati sulle pagine dei giornali e dibattuti nel Talk show, quando invece del Forteto, in tutta Italia, non se ne sa niente. Malgrado un processo in corso (con sentenza il 27 giugno), un’indagine da concludere e ancora tanto da scavare, e capire. Si dà una spiegazione, l’unica sensata: il Forteto fa paura.
Il caso Cioni svela un cortocircuito tra pm e politica nella prima éra renziana. L'ex assessore di Firenze è stato accusato di corruzione per aver ricevuto soldi da uno sponsor per pagare una campagna per la sicurezza stradale e i condizionatori per un centro anziani. E' l'inchiesta giudiziaria che ha inciso sull'ascesa del premier, scrive Claudio Bozza il 10 Maggio 2016 su “Il Foglio”. Firenze. Talvolta la storia di un paese passa dalle piccole cose. Questa, però, da un’inchiesta giudiziaria di Firenze, che ha aiutato a spazzare via l’intera classe politica della filiera corta Pci-Pds-Ds, che aveva governato per 30 anni e che, al netto di ricostruzioni complottiste, ha nei fatti inciso sulla politica nazionale e sull’ascesa di Matteo Renzi. Ma iniziamo dalla fine. “Mi hanno accusato di corruzione per aver ricevuto soldi da uno sponsor come Fondiaria per pagare una campagna per la sicurezza stradale e i condizionatori per un centro anziani. Credevo di meritarmi un premio e invece mi è arrivato sul groppone un processo, accusandomi di aver favorito gli interessi urbanistici del gruppo Ligresti. Se qualcuno dovrebbe risarcirmi? Non c’è prezzo. Come fanno a ripagarmi di quello che ho perso in otto anni? Avevo fatto della politica la mia ragione di vita e quest’inchiesta mi ha levato tutto. Ma la prossima volta i magistrati ci pensino due volte prima di ammazzare un uomo. Anche tre volte”. Graziano Cioni, 70 anni, già senatore fiorentino ultradalemiano, per una vita assessore-sceriffo di Palazzo Vecchio, ma soprattutto l’unico in grado di contrastare la corazzata nuovista dell’ex Margherita Renzi alle primarie a sindaco di Firenze del 2009 (momento chiave per la sua scalata verso Palazzo Chigi e di questo racconto). I’ Cioni, come lo chiamano tutti a Firenze, ha passato gli ultimi anni della sua vita a difendersi dalla più infamante delle accuse e a combattere quello che lui chiama sarcasticamente “l’inquilino inglese”: il Parkinson. Una premessa: nessuna santificazione di un personaggio controverso, tanto amato quanto odiato, ma la sua storia va raccontata nel dettaglio, perché emblematica del cortocircuito di politica-informazione-giustizia e di certe toghe, che troppo spesso pensano di potersi sostituire alla politica. Cioni viene da Pontorme, minuscola frazione a due passi da Empoli. Cresce in una famiglia di “cenciai”, quelli che rivendono stracci: “Conosco bene cosa significa il detto: è come mangiare e stare a guardare. Da bambino ero talmente povero che il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi mettevo alla vetrina, così almeno vedevo la gente mangiare il gelato, perché noi non avevamo i soldi per comprarlo”. E’ il seme che inciderà sul modo di fare politica del futuro sceriffo. Che fonda tutto il suo consenso sul contatto con il popolo: armeggia di continuo, fa favori, ne riceve altrettanti. Sa tutto di tutti e anche per questo tiene in pugno chi tenta di andargli contro. I suoi detrattori lo accusano di far politica in modo clientelare, borderline, e molte delle accuse che la procura gli rivolge sono dovute a questo. Ma la Cassazione, dopo 8 anni, le ha liquidate perché “il fatto non sussiste”. E lui: “Ho fatto politica a volte in modo discutibile? E’ vero – ha spiegato al Corriere Fiorentino – ma questo, in una democrazia, lo giudicano gli elettori, mica i magistrati. Io mi sono sempre candidato e ho sempre preso più voti di tutti”. Riavvolgiamo il nastro. Firenze è urbanisticamente satura. L’unica area per costruire è a nord-ovest della città, a Castello, in un mega terreno a ridosso dell’aeroporto. La proprietà è della Fondiaria-Sai di Ligresti (oggi Unipol). E’ qui che alla fine degli anni 80 la giunta Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi. Non siamo ai tempi di Renzi: nel partito c’è dibattito e si rischia una spaccatura, inaccettabile per il Pci. Tutto sembra andare pro mattone, fino a quando l’allora segretario cittadino comunista riceve una telefonata da Achille Occhetto, che in piena notte blocca tutto il piano speculativo. Lo sviluppo dell’area resta bloccato per quasi 20 anni. Fino a quando, il sindaco è Leonardo Domenici, Della Valle compra a gratis la Fiorentina fallita dell’èra Cecchi Gori. In tre anni la squadra risale in serie A. Un’occasione ghiotta per dare un futuro a quei 160 ettari, costruendoci un nuovo stadio, con cittadella commerciale e parco divertimenti, ma soprattutto con un mix di immobili pubblici e privati, tra cui la nuova sede della Provincia, guidata allora da Renzi. In quel periodo la procura di Firenze, guidata da Ubaldo Nannucci (ala sinistra di Magistratura Democratica), inciampa per caso in alcune intercettazioni, che secondo l’inchiesta fanno emergere il presunto malaffare e la presunta corruzione della giunta Domenici sullo sviluppo di Castello. Vengono travolti gli assessori Gianni Biagi (Urbanistica) e, appunto, Graziano Cioni, molto legato a Fausto Rapisarda, braccio destro del proprietario dei terreni Ligresti. Lo sceriffo viene accusato di corruzione, perché le intercettazioni sembrano dimostrare che Cioni favorisca politicamente gli interessi di Ligresti (pur non partecipando al voto sulle delibere), ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (che lavora in Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica, ma soprattutto alcune migliaia di euro come sponsorizzazione per pagare una campagna sulla sicurezza stradale e acquistare alcuni climatizzatori per un centro anziani. Apriti cielo. Cioni, siamo nel 2008, è all’apice della sua popolarità nonostante i 35 anni di carriera, anche a livello nazionale per le sue battaglie pro sicurezza in città, ed è in corsa per sfidare alle primarie l’allora semisconosciuto Renzi e l’erede designato post Domenici, Lapo Pistelli. Quell’inchiesta, con sondaggi assai favorevoli, costringe lo “sceriffo” a ritirarsi. Va registrato che, nelle intercettazioni, Cioni dice: “Se vinco io Renzi fa il vicesindaco e viceversa se vince lui…”. Quel profluvio di intercettazioni dà il colpo di grazia alla vecchia classe politica rossa, già da tempo non più in sintonia (per usare un eufemismo) con la città. Ma soprattutto toglie di mezzo il principale avversario di Renzi, che dall’inchiesta viene lambito, rischiando di essere indagato per un reato minore, inciampo che comunque gli sarebbe costato la candidatura, visto il vento giustizialista nel Pd impegnato nella guerra (via toghe) contro Berlusconi. In quelle settimane decisive di interrogatori e giornalate, a guidare la procura di Firenze arriva Giuseppe Quattrocchi, che a Lucca aveva tra i suoi pm più fidati Domenico Manzione, oggi sottosegretario del governo Renzi e fratello di Antonella, prima comandante dei vigili con Renzi sindaco e oggi capo della macchina legislativa di Palazzo Chigi. Quattrocchi, oggi in pensione e consulente per la sicurezza del sindaco Dario Nardella, è un esponente di Unicost, componente centrista e moderata, una svolta storica. Come una ventata di aria nuova viene percepita dai fiorentini la candidatura del giovanissimo Renzi alle primarie. La storia non si fa certo con i se e con i ma. La domanda, però, sorge spontanea: ma se non ci fosse stata quest’inchiesta, Renzi sarebbe diventato sindaco, trampolino per la rottamazione e la scalata verso Palazzo Chigi? Sabato mattina Renzi, nel pieno del braccio di ferro tra governo, Pd e magistratura, ha chiamato Cioni: “Graziano, sono felice sia finita”. Dopo le accuse infamanti, sciolte come neve al sole, ma 8 anni dopo.
Il giustizialista pentito. “Per me la legalità era un vessillo. Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: che puttanata”. Cioni, ex assessore a Firenze, si confessa con il Foglio. “Non solo i magistrati: è un sistema che va cambiato”, scrive Annalisa Chirico il 13 Maggio 2016 su "Il Foglio". Graziano Cioni mi accoglie in un noto bar in piazza della Signoria. “Esiste forse un ufficio più bello?”, lo sceriffo di Firenze non ha perso l’ironia. Si accomoda sulla sedia, intrattiene i camerieri, poi alza lo sguardo e fissa la Torre di Arnolfo, in cima a Palazzo Vecchio, antica sede dei Priori delle Arti e culla del potere comunale. I’ Cioni, come lo chiamano qui, osserva i passanti, lancia un’occhiata su ambo i lati della piazza, poi punta il dito verso una stradina laterale: “In quel punto, di tanto in tanto, si piazzano gli ambulanti. Oggi non ci sono, meglio così”. L’aspetto baldanzoso di un tempo è solo un ricordo, i’ Cioni è un uomo ritratto nel corpo e nello spirito. “Viviamo un’autentica barbarie. Io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili”. Cambia todo en este mundo, cantava Mercedes Sosa. “Cambia tutto, è vero. Io sono cambiato, non so più chi sono. Quando ti capita una storia come la mia, che ti toglie il sonno e la salute, ti rendi conto che non si può ammazzare un innocente”. Cioni è stato deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci-Pds-Ds, quando il Partito pretendeva la ‘p’ maiuscola. “Sarà stata pure ideologia, non lo nego, ma all’epoca il Partito era una famiglia, ti faceva commettere alcuni errori ma ti riempiva l’esistenza. C’era la passione per un’idea, l’ardore di chi voleva rivoluzionare il mondo, Ho-chi-min-min-min, Che-Guevara-che-che-che”. Cioni, torniamo all’oggi: dopo un’assoluzione in primo grado e una condanna in appello, la Cassazione ha messo la parola fine perché il fatto non sussiste. “Eppure per qualcuno resto un condannato. L’altra sera su La7 quel Di Battista, come si chiama, quello dei 5 stelle, mostra una piovra tentacolare che si estende sull’Italia intera. In corrispondenza della Toscana compare un nome, il mio, e accanto si legge condannato. Mi prende un colpo. Il conduttore non lo corregge. Li ho querelati. Non ci sto più a prendere schiaffi”. Graziano Cioni nasce, settant’anni or sono, a Pontorme, frazioncina dell’empolese, da mamma Cesarina e papà Bruno, confezionista lei e cenciaio lui. “A scuola usavo i libri fotocopiati. Quando si consumavano i gomiti dell’unica giacca che possedevo, la mamma la rattoppava, non potevamo comprarne un’altra. Lei confezionava impermeabili a domicilio, il che voleva dire che se la fabbrica chiudeva la prima a essere licenziata era lei. Il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi appostavo davanti alla vetrina e osservavo la gente che mangiava il gelato, non avevamo i soldi per comprarlo. Anni dopo, quando il Partito mi mandò per la prima volta in Unione sovietica, dissi a un compagno: posso fermarmi dal gelataio? Lui rispose: il gelataio è lo stato”. Il piccolo Cioni non arriva alla licenza media. “A casa non c’erano soldi, non me ne importava una sega di studiare. Cominciai come commesso in una cartolibreria nel centro di Empoli. Un giorno il figlio del proprietario mi strappò la ramazza dalle mani per mostrarmi come dovevo spazzare. Te tu sai come si spazza? Gli dissi io. E allora fallo tu. Li mandai al diavolo”. Un caratteraccio proverbiale, quello del Cioni. “E meno male, sennò sarei già morto”. Cessata prematuramente l’esperienza da commesso, i’ Cioni s’improvvisa cenciaio insieme al babbo. “Un lavoraccio, si stava seduti per terra a sfilare le stoffe per poi rivenderle e farci pochi quattrini. D’inverno si soffriva un freddo pungente, la mamma mi aveva cucito un paio di guanti senza dita e un copricapo che lasciava scoperti naso e occhi. I geloni ti divoravano. A diciassette anni avevo un’unica certezza: quella vita non era la mia”. A Pontorme il ragazzo designato per l’incarico di segretario dei giovani comunisti è gay: quando i maggiorenti scoprono la “devianza” sessuale, cercano una soluzione alternativa, e la trovano nel Cioni notoriamente etero. “Il giorno prima mi chiamarono e mi dissero: domani tu sarai eletto. Fui sostanzialmente un ripiego per scongiurare l’insostenibile vergogna di un omosessuale”. Nel pieno del ’68 Cioni diventa funzionario di partito. “La mia prima moglie non mi vedeva mai. Ero sempre in giro, all’epoca non c’erano i cellulari e sparivo per giorni. Bisognava andare ovunque, essere ovunque. Il Partito pagava poco, perciò la domenica portavo la famiglia a pranzo da mia madre. Mangiavamo pollo e burischio, e facevamo il pieno di vettovaglie per il resto della settimana. L’acqua corrente non c’era, la trasportavamo nelle brocche. Per vedere qualche minuto di televisione in bianco e nero pagavamo cento lire alla Casa del popolo. La domenica, dopo pranzo, papà accendeva la radio e ci faceva ascoltare i’ Grillo canterino prodotto dalla sede Rai di Firenze. Era un programma irriverente con le storie di sora Alvara e del Gano di san Frediano”. Gano chi? “E’ il latrinlover fiorentino, lo sciupafemmine del romanzo ‘Le ragazze di san Frediano’ di Pratolini. Il Gano è quello sempre pronto alla conquista colla sigaretta ’n bocca e con quell’aria di nonscialanse che l’ha fatto conoscere dappertutto”. I’ Cioni è un tripudio di amarcord e consonanti aspirate, un instancabile raccontastorie; la coppia seduta al tavolo accanto lo riconosce e sorride. Nella seconda metà degli anni Settanta il leader della Federazione giovanile comunista si chiama Massimo D’Alema. “Il più intelligente di tutti. A parte lui, il resto della nostra classe dirigente peccava di autoreferenzialità. Veltroni? Uno che s’intende di cinema e di Africa, disse una volta Cossiga”. Nel 1976, all’indomani del terremoto in Friuli, Michele Ventura, segretario di Federazione del Pci fiorentino, invita Cioni al ristorante Il Cavallino in piazza della Signoria: “La direzione nazionale chiede che uno di noi vada nelle zone terremotate per rivitalizzare il Partito, ho pensato a te”. “Da buon militante io risposi: quando parto? A Gemona trascorsi un anno e mezzo tra i superstiti. All’inizio nessuno mi rivolgeva la parola, dopo tre mesi tutti mi adoravano. Mi sistemai in una roulotte, una Laika 6000, parcheggiata sotto l’unico muro rimasto in piedi. Un ex frate salesiano domandò: chi è l’idiota che ha piazzato qui la roulotte? La sposto subito, risposi io. Tre giorni dopo una scossa di assestamento fece crollare il muro”. I terremoti nella vita sono più d’uno. “E pure quando passano – prosegue Cioni – e le scosse telluriche paiono cessate, le macerie restano sul campo”. Anni Duemila, Cioni è assessore alla Sicurezza nella giunta guidata da Leonardo Domenici, gode di un’enorme popolarità e scalda i motori per la corsa a sindaco. “Un giorno entrai nella stanza di Domenici, stava facendo un solitario al computer, come al solito. Gli dissi: Leonardo, mi voglio candidare alle primarie per sindaco. Ti faranno a pezzi, tu fai paura, mi rispose lui senza alzare lo sguardo”. 18 novembre 2008, un avviso di garanzia gli viene recapitato nell’ambito dell’inchiesta sulla urbanizzazione della piana di Castello. “Il giorno prima avevo festeggiato il mio compleanno. Il giorno dopo fu l’inizio della fine”. Al centro dell’inchiesta c’è il progetto ‘Sviluppo a nord-ovest’ nell’area a ridosso dell’aeroporto. Alla fine degli anni Ottanta il Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi ma il progetto viene bloccato all’ultimo da Achille Occhetto. Vent’anni dopo la giunta Domenici ci riprova: il piano prevede uno stadio, un parco divertimenti, un mix di immobili pubblici e privati, inclusa la nuova sede della Provincia guidata da un giovane Matteo Renzi. La proprietà fa capo alla Fondiaria di Salvatore Ligresti. Secondo la procura di Firenze, Cioni avrebbe favorito gli interessi di Ligresti ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (dipendente di Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica e alcune migliaia di euro come sponsorizzazione. Otto anni di processo e un’assoluzione definitiva che non restituisce la vita strappata. “Accusato di un reato infamante come la corruzione, non potevo che dimettermi. Non credo nei complotti ma sono incuriosito dalle circostanze”. Le prove mancano, i finanziamenti provenienti da Fondiaria sono stati impiegati per una campagna sulla sicurezza stradale e per acquistare i climatizzatori destinati a un centro anziani. “Bilancio e urbanistica erano le sole materie di cui non mi ero mai occupato da assessore. Ho partecipato a una sfilza di udienze in tribunale, mi sembrava di vivere una vita non mia: com’è possibile che io mi trovi qui? Proprio io che in passato avevo denunciato due soggetti che avevano tentato di corrompermi. In tribunale ho visto sfilare decine di persone, convocate in qualità di testimoni, che non avevo mai incontrato prima”. A Cioni gli inquirenti contestano il rapporto privilegiato con Fausto Rapisarda, braccio destro di Ligresti scomparso due anni fa. “Io chiedevo soldi a tut-ti-a-tut-ti. Era il mio compito: portavo avanti decine di iniziative sociali in favore di anziani, barboni, disabili. Qualcuno mi chiamava i’ Padre Pio. Raccoglievo contributi finalizzati a migliorare la vita delle persone normali. Che cosa deve fare un politico se non questo?”. Con ogni probabilità oggi finirebbe indagato per traffico di influenze. “Pura follia. Se hanno armi spuntate, è difficile che i politici possano servire gli altri oltre che se stessi. Io le scale della Federazione le ho sempre salite poco. Io stavo tra la gente, per questo ero amato e odiato. Al momento delle elezioni ero sempre il più votato”. Le iniziative contro lavavetri e mendicanti: lei ha sdoganato il tema della sicurezza a sinistra. “La sicurezza non appartiene a questo o a quel partito, la sicurezza è buon senso. I lavavetri aggredivano le donne che portavano i bambini a scuola. I mendicanti alimentavano un racket: ogni mattina un furgoncino li scaricava e poi passava a ritirarli la sera, come fossero un pacco. L’Arci e la sinistra ortodossa mi fecero la guerra, la gente ancora oggi mi ringrazia”. A ogni tornata elettorale lei faceva il pieno di preferenze. “Mi adoperavo per tutti. Sa quante volte ho trovato un lavoretto a un disoccupato? La porta del mio ufficio era sempre aperta, fuori c’era la fila. Non me ne vergogno. Se uno ti chiede qualcosa che puoi fare, perché negarla? A me non riesce dir di no”. Gli ultimi otto anni sono scanditi dai processi, dal secondo matrimonio naufragato, dal “paziente inglese”, il morbo di Parkinson, che in certe giornate storte non gli consente di uscire di casa. I cinque figli, anzi quattro, gli stanno vicino. “Nel 1996 Valentina è rimasta uccisa in un incidente stradale. Aveva 26 anni. Tutti mi rompono i coglioni con la storia che sono dalemiano. Sapete chi fu il primo che bussò alla porta di casa mia? Il signor D’Alema. Si era fatto la strada da Roma fino alla campagna di Empoli per abbracciarmi”. Cioni fa una pausa, abbassa lo sguardo e prende fiato. “Io resto ateo e comunista. Ma dopo la morte di mia figlia ho cominciato a pormi il problema dell’aldilà. Non sa che cosa darei per poterla reincontrare un giorno”. Non c’è spazio per le parole, silenzio. “Se non fosse stato per i miei figli che in questi anni mi hanno detto: papà, devi reagire, non devi mollare, io mi sarei chiuso in casa e mi sarei lasciato morire di vergogna. A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione?”. Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono. Luglio 1992, Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al governo Amato il leader socialista Bettino Craxi chiama in correità tutto il Parlamento per l’inchiesta Tangentopoli dichiarando “spergiuro” chi avesse negato di aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti. Cioni assiste silente a pochi metri da quello scranno. “Ricordo ogni istante di quel discorso. Craxi è uno dei pochi statisti che l’Italia abbia avuto. Averlo lasciato morire da reietto a Hammamet è una vergogna che ci portiamo sulla coscienza”. 1992, lei da che parte stava? “Io ero un anti craxiano di ferro. Votai per l’autorizzazione a procedere, oggi non lo rifarei. Pensavo che lui avesse torto. A distanza di diversi anni, ho capito che avevamo torto noi, lui aveva ragione”. All’epoca lei ignorava i canali di finanziamento del Pci attraverso “l’oro di Mosca”? “A Firenze il Partito si reggeva sul tesseramento e sulle feste dell’Unità. Che a livello nazionale arrivassero soldi dall’Urss, era qualcosa che s’immaginava. Oggi è una verità storica”. Lei ha militato tra gli antiberlusconiani duri e puri. “Per certi versi lo sono ancora, le leggi ad personam le ha fatte e io l’ho contrastato. Penso però che il processo Ruby sia la prova di un accanimento sfacciato nei suoi confronti: chi se ne frega di chi si scopa, peraltro se le pagava lui. Sapessero quello che facevo io a Firenze” (ride). Cioni è tra i fondatori dell’Italia dei valori. “Fui incaricato dal Partito di seguire l’iniziativa di Antonio Di Pietro, lo ricordo come un uomo autoritario. Che vuole che le dica, ero un giustizialista, che puttanata il giustizialismo”. Qual è il pensiero di un neofita del garantismo? “Le carriere di pm e giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado ma il pm è ricorso in appello. Così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera. Perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare? E poi c’è l’equilibrio dei poteri. Io non ne faccio una questione di singoli magistrati: è il sistema che va riformato. Nel corso di un’udienza in tribunale ho sentito dire da un magistrato: grazie a noi si è evitata l’ennesima cattedrale nel deserto. Queste considerazioni si addicono forse a una toga?”. All’indomani dell’assoluzione definitiva D’Alema le ha inviato un sms? “No, non l’ho sentito. Mi ha telefonato il premier e l’ho ringraziato. Ho capito sin dall’inizio che era la scarpa giusta per Firenze. Dopo di me, s’intende. Quando Renzi contesta il Primo maggio o l’articolo 18, io non lo seguo, al referendum costituzionale voterò contro. Tuttavia gli riconosco le qualità del politico di razza”. I fiorentini al potere lei li ha conosciuti giovanissimi. “La Boschi l’ho incontrata quando animava il comitato elettorale di Ventura, avversario di Renzi. Al governo, dopo un’iniziale diffidenza, è riuscita a piacermi, lo scivolone su CasaPound poteva evitarlo. Luca Lotti me lo ricordo bene: è uno dei pochi cavalli pregiati di questo governo. Di lui Renzi può fidarsi. Bonifazi, il tesoriere, è uomo di retrovia, fa un lavoro necessario lontano dai riflettori. Conosco suo padre, Pci come me, da quando era segretario amministrativo dell’azienda di gas e acqua a Empoli. Ogni tanto glielo dico a Francesco: dovresti dormire di più…”. S’intuisce che l’ex apparatcik dalemiano è incuriosito dal nuovo corso renziano. “La giustizia va riformata, è un’urgenza e mi auguro che il governo agisca”. I’ Cioni compulsa lo smartphone, con l’indice fa scorrere i messaggi: “In questi anni vissuti da imputato e pensionato forzoso Facebook mi ha tenuto compagnia. Ho oltre 5 mila amici e ogni giorno scrivo un’opinione”. Tra le foto con Kofi Annan e Maria Grazia Cucinotta, sul social network i’ Cioni si descrive così: “Uno che, nonostante tutto, crede che la vita, unica e irripetibile, sia una cosa meravigliosa”.
…DI LIVORNO. Morti in corsia, scarcerata l’infermiera di Piombino: «La giustizia prima o poi arriva». Le prime reazioni di Fausta Bonino, 56enne in carcere 21 giorni con l’accusa di avere assassinato 13 pazienti con iniezioni di eparina: «È stato un incubo infinito», scrive Marco Gasperetti il 20 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". «E’ stato un incubo infinito, ventun giorni che non passavano mai. Però la speranza c’era. E adesso finalmente vedo che la giustizia sta facendo il suo corso. La giustizia c’è e prima o poi arriva». Fausta Bonino è ancora frastornata quando sale sulla Panda blu del figlio Andrea, medico, specializzando in anestesia, appena arrivato davanti al carcere Don Bosco di Pisa. «Mamma mi ha avvertito babbo, io ero in clinica e ho chiesto subito un permesso. Torniamo a casa», ha detto abbracciando la madre. Il marito lo ha chiamato Fausta dal carcere: «Renato, è arrivata la decisione del Tribunale del riesame di Firenze, l’ordinanza di custodia cautelare è stata annullata. Mi scarcerano, torno a casa. Venitemi a prendermi». Durante il viaggio da Pisa a Piombino, un centinaio di chilometri, l’infermiera ha voluto telefonare al suo avvocato Cesarina Barghini. «Grazie, ti devo la vita, sei stata magnifica, mi hai tirato fuori di lì. Ti sarò riconoscente per sempre», ha detto al suo legale commossa. E lei: «Abbiamo scritto il primo capitolo Fausta, quello più importante, ma adesso continuiamo a combattere». Il legale dell’infermiera premette che ancora deve leggere con attenzione il dispositivo ma spiega che il giudice del riesame ha annullato completamente l’ordinanza di custodia cautelare. «E’ evidente che, come avevamo dimostrato, non c’erano prove e gli indizi della procura di Livorno erano debolissimi. Addirittura c’erano stati errori nelle intercettazioni e le accuse ruotavano tutte sulla presenza della mia assistita a tutte le tredici morti, ma questa non è affatto una prova, semmai una coincidenza temporale». La procura di Livorno non ha voluto commentare. «Parleremo domani quando valuteremo le decisioni del riesame», ha detto il procuratore Ettore Squillace Greco. Durante i 21 giorni di detenzione, Fausta Bonino ha sempre professato la sua innocenza e durante l’interrogatorio di garanzia ai magistrati ha giurato sui figli che lei in quelle morti lei non c’entrava niente e che era tutto un grande e terribile equivoco. E ha anche annunciato una querela contro chi ha raccontato di averla vista fare un’iniezione a un congiunto prima della morte. «Non è vero, lo smentiscono anche i colleghi che erano presenti, quando sarà finito tutti lo denuncerò», ha spiegato. Chiusa in una cella insieme a un’altra detenuta, ogni giorno e ogni notte la Bonino ha cercato di ricordare che cosa fosse accaduto in quel reparto. Era stata lei tra le prime a parlare di morti anomale e insieme ad altre colleghe ne aveva parlato con i alcuni dirigenti dell’ospedale di Piombino, ma l’emergenza non era scattata e proprio in questi giorni anche un’indagine della Regione ha riconosciuto che al nosocomio piombinese ci sono state criticità che non hanno consentito di accorgersi di ciò che stava accadendo. Anche sull’accusa d’essere sempre presente in reparto nei tredici casi di morte sospette, l’infermiera ha dato una sua versione: «Ero l’unica in quel reparto a non fare turni di notte e dunque avevo diverse presenze dagli altri colleghi. Ma non sono stata sempre presente. In alcuni casi ero a riposo». Durante un interrogatorio aveva guardato i magistrati negli occhi con orgoglio. «Ho scelto di fare l’infermiera non per uccidere la gente ma per salvarla».
Sbattono il mostro in prima pagina, poi s’indignano e l’assolvono. Emblematico il confronto tra quanto scriveva «Repubblica» l’1 aprile e le conclusioni successive all’annullamento dell’arresto. Paradossale il monito finale: «Una brutta pagina della giustizia italiana», scrive Francesco Straface il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Da mostro a capro espiatorio. Da «infermiera serial killer» all’annullamento dell’arresto. Dalle “bombe” di eparina, iniezioni letali, alla descrizione di «indagini frettolose». La vicenda di Piombino, legata alla 55enne Fausta Bonino, arrestata lo scorso 31 marzo e scarcerata il 23 maggio dai giudici del Riesame, fotografa quanto sia rischioso esporsi in modo categorico anche su crimini inspiegabili, apparentemente senza un movente, che quindi alimentano ancora più rabbia. La Repubblica dell’1 aprile titolava, e non è uno scherzo a dispetto della data, «Fausta, l’infermiera del veleno. Ha ucciso tredici pazienti». Il 24 maggio lo stesso quotidiano sentenzia: «La giustizia impari da questi errori». 53 giorni prima pochi giri di parole anche nel testo dell’articolo. «Pazienti morti anche se potevano tutti guarire. Li hanno uccisi emorragie interne causate da un farmaco anticoagulante». Teatro dei delitti il reparto di Rianimazione dell’ospedale “Villamarina”. «È lì che dal 19 gennaio 2014 al 29 settembre 2015 sono decedute 13 persone, non malati terminali, ma pazienti fra i 61 e gli 88 anni, ricoverati per un femore rotto, una tracheotomia, una polmonite. Dodici per una emorragia non collegata alle patologie di cui soffrivano». Fausta è stata accusata di «omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà e della premeditazione, abuso di potere e violazione dei doveri inerenti a un servizio pubblico». Si puntò il dito su «una forma di depressione», peraltro smentita dall’avvocato della donna. Differenti le conclusioni alle quali sempre “Repubblica” arriva due mesi dopo, citando un adagio caro ai vecchi investigatori: «Prima di arrestare le persone, bisogna arrestare le prove» e «sottoporre ogni elemento al contradditorio tra accusa e difesa. Invece nel caso di Piombino tutto sembra essere stato disatteso». «C’è una sola certezza: almeno quattro pazienti sono stati uccisi», ovvero nove in meno rispetto al conteggio originario. I tre magistrati del Riesame – scrive il quotidiano romano – vantano una tradizione di rigore garantista, tanto che viene citato un precedente, con il no al carcere per capitan Schettino. «Non sono state piazzate telecamere nel reparto dei delitti, non c’è stato il tempo per realizzare perizie sulle cause delle morti e solo ieri la Procura ha chiesto l’esame incrociato delle telefonate». Perentoria la ramanzina conclusiva: «La cattura dell’infermiera è stata trasformata nell’operazione “killer in corsia”, uno show televisivo con tanto di inutile perquisizione negli armadietti dei farmaci a uso delle trasmissioni di cronaca nera che vanno in onda a ogni ora. Una brutta pagina della giustizia italiana, che deve servire da lezione». Anche ai giornalisti.
«Mi hanno messo le manette e rinchiusa in una cella...» «Ho subito interrogatori durante i quali cercavano di farmi dire ciò che non era vero: un colonnello del Nas mi disse: “se parla possiamo aiutarla”», scrive Simona Musco il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Il marchio era già stato apposto: Fausta Bonino, per l’intero Paese, è “l’infermiera killer”. Ma dopo 21 giorni di carcere la donna accusata di avere ucciso 14 persone iniettando dosi letali di eparina a pazienti ricoverati a Villamarina ha rivisto la luce. Scarcerata perché quell’indagine che l’aveva già sacrificata prima ancora di una condanna era lacunosa. Così, almeno, sentenzia il tribunale del Riesame, che ha smontato l’impianto accusatorio, evidenziando che l’inchiesta si fonda su indizi né gravi né precisi né concordanti. Fausta Bonino, ora, ha deciso di parlare, usando parole pesantissime: «Sono vittima di un complotto. La caposala (Virna Agostini, ndr) e la direzione sanitaria mi hanno costruito le prove addosso e hanno dato l’imbeccata ai Nas». E l’azienda sanitaria Toscana nord è già passata al contrattacco: dopo aver confermato la sospensione della donna, che voleva tornare in corsia, ha annunciato di riservarsi di intraprendere azioni legali nei confronti della donna respingendo «in toto le ricostruzioni dell’indagata». La Bonino, difesa dall’avvocato Cesarina Barghini, arrestata il 30 marzo, è stata scarcerata lo scorso 20 aprile. «Dopo 36 anni di lavoro onoratissimo sono entrata in un incubo. Mi hanno messo le manette, rinchiusa in una cella, sbattuta in prima pagina come se fossi un mostro - ha raccontato -. E soprattutto ho subito interrogatori durante i quali si è tentato di farmi dire ciò che non era vero e non pensavo affatto». E di farla coincidere col profilo del serial killer. È la stessa infermiera a mettere in dubbio la bontà della indagini. Di lei si è detto di tutto, perfino che andasse ubriaca a lavoro. Ma è una «calunnia», che tutto l’ospedale può smentire, spiega. E dice anche di voler incontrare i parenti delle vittime, «per spiegare loro che io non c’entro. E che forse neppure c’è un killer in corsia». Concetto del quale è convinta anche l’avvocato Barghini, secondo cui l’errore «è stato quello di trattare in maniera ascientifica un argomento che doveva partire, invece, proprio da basi scientifiche». Di certo, sostiene, c’è solo «un uso improprio di anticoagulanti». La Bonino, intanto, ci va giù pesante. «Forse per caposala e direzione sanitaria è stato più facile costruire le accuse su un serial killer che spiegare perché, di fronte ai casi anomali, non sono stati fatti i necessari audit clinici», ovvero quel processo che, partendo da un problema, ne analizza le cause, definisce l’obiettivo di miglioramento e gli interventi correttivi. Quando le indagini erano ormai nel vivo, nel corso di un interrogatorio, un colonnello del Nas la invitò a confessare. «Se confessa possiamo aiutarla», riferisce di essersi sentita dire. «Io sono stata accusata dalla struttura sanitaria – ha raccontato a La Nazione -. Loro hanno chiamato i Nas quando non hanno più potuto coprire delle cose che non funzionavano nell’ospedale. Questa è la nostra spiegazione. Sta di fatto che chi avrebbe trovato la famosa fialetta nel cestino dei rifiuti, con data di apertura di un mese avanti, nella stanza del paziente Carletti è l’unica persona dell’ospedale che mi accusa da subito e che ha fornito l’orario dei turni per stabilire quando eventualmente sarebbe stata somministrata l’eparina». Ma per il Riesame, in almeno otto casi non è nemmeno possibile dimostrare la somministrazione di eparina. Una cosa per lei è certa: in ospedale non era tutto rosa e fiori. «I pazienti – sostiene - arrivavano dalle sale operatorie in ipotermia perché erano sprovvisti dei lettini riscaldati». E lo shock termico, afferma il perito ematologo nominato dalla difesa, Andrea Artoni, «può provocare scoagulamento».
…DI SIENA. L’orologio, il video, le ferite. Perizie e misteri del caso Rossi. L’uomo delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena morto tre anni fa. Per ricordarlo domenica 6 marzo c’è un corteo a Siena, scrive Sergio Rizzo il 5 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «A tre anni dalla morte alzate la testa, rompete il silenzio». È scritto su un manifesto che chiama a raccolta per un corteo silenzioso domenica pomeriggio a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi, chi ha a cuore la verità sulla fine di David Rossi. La moglie e la figlia del dirigente della banca senese che fu trovato morto sotto la sua finestra non si sono rassegnate. E il caso, archiviato come suicidio, tre mesi fa è stato riaperto dalla procura di Siena. Che ora ha il compito di diradare le nebbie che avvolgono l’episodio più inquietante di una storia capace di spingere il Monte sull’orlo del baratro. È mercoledì sera. A quell’ora, nelle giornate di inizio marzo, rinfresca un po’. Il torrente umano che scorre senza sosta lungo via Banchi di Sopra sfilando davanti a piazza Salimbeni si interrompe di tanto in tanto. Le stradine lì intorno sono deserte. Vicolo di Monte Pio, alle spalle del Monte dei Paschi di Siena, poi, è un budello chiuso dove non si vede mai nessuno. Ma non quel mercoledì sera di tre anni fa, il 6 marzo 2013. Ci sono delle persone, e c’è anche una macchina che sbarra l’ingresso del vicolo. Ai loro piedi, disteso per terra, un uomo sta agonizzando. È caduto da una finestra: si è buttato da solo o qualcuno l’ha aiutato? Si chiama David Rossi, ha cinquant’anni ed è un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena, che sta attraversando il momento più difficile dei suoi cinque secoli e passa di vita. Una tempesta giudiziaria la sta scuotendo dalle fondamenta. Sulla costosissima acquisizione dell’Antonveneta si allungano ombre pesanti: i magistrati sospettano reati gravissimi, dall’insider trading alla truffa. Rossi è il responsabile della comunicazione della banca, uno degli uomini che sono stati più vicini all’ex presidente Giuseppe Mussari, l’epicentro della bufera. E adesso è lì, a terra, con quegli uomini intorno. Quando arriva la polizia, però, non c’è nessuno. L’inchiesta è rapidissima e il caso viene subito archiviato: suicidio. Tutti gli indizi, secondo i magistrati, depongono in questa direzione. Rossi è stressato, il 19 febbraio hanno perquisito casa sua. Due giorni prima, ha scritto in una mail all’amministratore delegato Fabrizio Viola «stasera mi suicido sul serio aiutatemi». E poi non c’è forse quel biglietto lasciato alla moglie («Toni, ho fatto una cavolata troppo grossa...»)? Già, quel biglietto... Antonella Tognazzi riconosce la scrittura del marito. Ma c’è qualcosa che non convince. Come se quel messaggio non fosse stato scritto in piena libertà. David stava passando un brutto momento, d’accordo, ma non c’erano state avvisaglie di un gesto simile. E poi non la chiamava mai «Toni». Anche le perizie hanno lasciato molti dubbi, però sono state liquidate frettolosamente. Decisamente troppo. I familiari vogliono vederci chiaro e insieme all’avvocato Luca Goracci rimettono pazientemente in fila tutti i fatti. Il 16 novembre 2014 Antonella Tognazzi dice a Report di non credere al suicidio. E la trasmissione di Milena Gabanelli mostra un frammento del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dove si vede un oggetto, forse un orologio, che cade dall’alto sul selciato dove da qualche minuto è riverso Rossi. Un dettaglio sconcertante, e non isolato. Le perizie di parte ne sono piene. L’ora registrata nel video non corrisponde a quella effettiva: è avanti di 16 minuti. Il perito sostiene che potrebbe essere anche stato manomesso. Anche se il presunto autore non è riuscito a occultare la presenza di persone vicino al corpo di Rossi. Secondo il perito compaiono poco dopo la caduta di David e restano lì fino alla sua morte avvenuta 22 minuti dopo l’impatto. «Tali figure umane — sottolinea la relazione — non sono mai state oggetto di approfondimento, secondo quanto in atti». Così la stessa dinamica della caduta, che le perizie di parte giudicano incompatibile con l’ipotesi del suicidio. Sul cadavere vengono poi riscontrate ecchimosi e ferite tipiche di una colluttazione. Quindi c’è l’oggetto che cade, dopo diversi minuti, e nello stesso momento in cui qualcuno, sul telefonino di Rossi rimasto nel suo ufficio mentre lui è a terra esanime, digita un numero: 4099009. E che cosa cercava chi è entrato quella sera nel computer di David, usando le sue credenziali? Nell’istanza di riapertura del caso c’è la ricostruzione minuziosa dello scambio di mail avvenuto due giorni prima della sua morte fra Rossi e Viola. David gli dice che vuole parlare con i magistrati. E prima possibile. «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Mi puoi aiutare?». Ma perché David ha bisogno di parlare con i pubblici ministeri? «Vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, fondazione, banca. Magari — scrive ancora — gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve». Passa qualche minuto, però, e cambia idea: «Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Si può fare con calma». Calma che Rossi purtroppo non avrà.
PARLIAMO DEL TRENTINO ALTO ADIGE.
All'anti-italiana Eva Klotz un vitalizio da 1 milione di euro, scrive “Libero Quotidiano” del 15 febbraio 2016. «Il Sud Tirolo non è Italia»: questa frase è stata per oltre 50 anni lo slogan politico di Eva Klotz, la «pasionaria» altoatesina che chiede il distacco della provincia di Bolzano da Roma. Ma lo Stato italiano ha pochi giorni fa omaggiato Eva Klotz di un «bonus» di ben 946.175 euro, pari alla pensione maturata per la sua attività di consigliere provinciale e regionale del Trentino Alto Adige. Il nome di Eva Klotz è una vera e propria bandiera per le comunità germanofone dell’Alto Adige. Nata nel 1953 in val Passiria, Eva è figlia di Georg Klotz, protagonista a partire dagli anni ‘50 di attentati terroristici in chiave anti italiana. La figlia ne era divenuta l’erede politica aderendo in un primo momento alla Sud Tirol Volkspartei (Svp) di Silvius Magnago ma abbandonando poi questa formazione, ritenuta troppo conciliante con il governo di Roma. La Klotz aveva in seguito formato il movimento Sud Tiroler Freiheit. Tra le iniziative per cui la nuova sigla si è resa celebre c’è la collocazione in tutti i valichi di frontiera tra Italia e Austria di cartelli con la scritta «Sud Tiroler ist nicht Italien!» («l’Alto Adige non è Italia»). Nel 2007 Eva aveva scritto una lettera alla Rai chiedendo che non fossero definiti «italiani» gli atleti altoatesini che partecipavano a Olimpiadi o campionati del mondo con i colori dell’Italia. Il 17 novembre ha rassegnato le dimissioni dal consiglio provinciale di Bolzano.
Eva Klotz, la pasionaria del Sud Tirolo chiede il distacco dall’Italia, ma percepisce dallo Stato (italiano) un vitalizio da 964mila euro! Scrive il 16 febbraio 2016 Edoardo Montolli su “Oggi”. La storia viene raccontata dal Corriere della Sera: l’enorme somma ricevuta, in un’unica soluzione, come pensione da consigliere provinciale e regionale del Trentino Alto Adige. La pasionaria del Trentino Alto Adige Eva Klotz incassa in una volta sola la pensione d’oro da consigliere provinciale e regionale, portandosi a casa quasi un milione di euro. Classe 1953, in politica ininterrottamente dal 1976, leader della comunità germanofona dell’Alto Adige, Eva è figlia di Georg Klotz, che dagli anni Cinquanta si rese protagonista di attentati terroristici contro l’Italia. Dopo aver aderito al Sud Tirol Volkspartei(Svp), Eva ha formato il movimento Sud Tiroler Freiheit, reso celebre dall’iniziativa di piazzare ad ogni valico di frontiera tra Italia e Austria i cartelli con la scritta: “Sud Tiroler ist nicht Italien!” ossia “L’Alto Adige non è Italia”. Altre iniziative hanno fatto rumore, come quando la donna scrisse alla Rai per chiedere di non definire italiani gli atleti olimpici altoatesini. Se l’è presa più volte anche con l’inno di Mameli: “Suonarlo da noi è un atto di violenza”. La sua idea è sempre stata chiedere il distacco di Bolzano da Roma. Per questi decenni di battaglie contro l’Italia, a titolo di pensione Eva Klotz, che il 17 novembre si è dimessa dal consiglio provinciale di Bolzano, ha incassato dallo Stato italiano una cifra di 946.175 euro. La legge consentiva fino a 2014 ai consiglieri regionali e provinciali di Trento e Bolzano di incassare l’intera pensione non al mese, ma in un colpo solo, calcolando l’importo sull’aspettativa di vita, superando talvolta il milione di euro. Poi scoppiò lo scandalo e venne avviata un’inchiesta. Alcuni politici, tra cui Eva Klotz, decisero di restituire parte della somma, in attesa di una nuova legge regionale e di maturare nuovamente la pensione. La legge è arrivata, e ha portato ad una decurtazione del 20% del precedente vitalizio: ma, come nella vecchia versione è possibile scegliere la formula “una tantum”, incassando in una volta sola l’intera cifra. La conferma dell’importo è stata data dal presidente del consiglio regionale Chiara Avanzo, nel rispondere ad un’interrogazione. Come Eva Klotz anche il trentino Marco Benedetti ha percepito un vitalizio d’oro: 483.500 euro.
Bolzano: vitalizi, 946 mila euro a Eva Klotz. L’ex consigliera aveva dovuto restituire tutto: dal dicembre del 2014 ha maturato i requisiti, scrive l'11 febbraio 2016 “L’Alto Adige”. Sono due gli ex consiglieri regionali che hanno maturato i requisiti per ricevere il vitalizio dopo l’entrata in vigore della contestata riforma del 2014, quella che ha ridotto le pensioni d’oro a due anni dalla precedente legge del 2012. Si tratta dell’ex assessore provinciale trentino Marco Benedetti e dell’ex consigliera Eva Klotz (Stf). Il primo, 61 anni, di Arco, è entrato in consiglio provinciale nel 1993 ed è stato rieletto nel 1998: a seguito della legge del 2012, quando era ormai un ex consigliere, aveva optato per l’attualizzazione e incassato 235 mila euro di anticipo e 450 mila euro in quote del Fondo Family. Ma non avendo maturato il requisito dell’età, nel 2014 la riforma gli ha imposto di restituire l’intera somma ricevuta. Benedetti si era detto pronto a farlo e ha anche ceduto al consiglio le proprie quote del Fondo Family. Ma poco dopo l’approvazione della legge, nel settembre 2014 - scrive la presidente del consiglio regionale Chiara Avanzo in risposta a un’interrogazione del consigliere Claudio Civettini (Civica Trentina) - ha raggiunto i requisiti e a questo punto gli è stato fatto un conguaglio di 247 mila euro: per un totale di 483.543 euro. Eva Klotz, vista la sua lunga vita consiliare, da dicembre 2014 ha diritto ad incassare quanto previsto dalla nuova legge: ovvero 946.175 euro (dopo la legge del 2012 ne aveva incassati 435 mila di anticipo e 710 mila euro di quote del Fondo Family, restituite). Anche nel suo caso, il consiglio regionale ha provveduto a conguagliare la differenza: da dicembre 2014 ha avuto diritto ad altri 560 mila euro.
Eva Klotz anti-italiana, da Italia prende vitalizio 946mila€. "Il Sud Tirolo non è Italia": questo, per più di 50 anni, lo slogan politico di Eva Klotz, la politica altoatesina che chiede il distacco della provincia di Bolzano da Roma, scrive il 16 febbraio 2016 "Blitz Quotidiano". Eva Klotz, la politica altoatesina che aveva lanciato il referendum per l‘indipendenza dall’Italia, riceverà dall’Italia tanto detestata 946mila euro di pensione, come racconta Claudio Del Frate sul Corriere della Sera: «Il Sud Tirolo non è Italia»: questa frase è stata per oltre 50 anni lo slogan politico di Eva Klotz, la «pasionaria» altoatesina che chiede il distacco della provincia di Bolzano da Roma. Ma lo Stato italiano ha pochi giorni fa omaggiato Eva Klotz di un «bonus» di ben 946.175 euro, pari alla pensione maturata per la sua attività di consigliere provinciale e regionale del Trentino Alto Adige. La cifra è frutto del calcolo della pensione da politico alla luce della nuova legge votata dalla regione autonomista e che taglia del 20% circa un precedente vitalizio; che la consigliera autonomista e altri suoi colleghi si erano impegnati a restituire in seguito a una feroce polemica esplosa a proposito dei privilegi per chi sedeva nell’assemblea regionale di Trento. (…) Il Trentino Alto Adige ha da anni maturato unregime pensionistico per i suoi politici di manica, per così dire, larga. Fino al 2014 la legge consentiva a consiglieri regionali e provinciali (a Trento e Bolzano le due cariche coincidono) di incassare la pensione non mensilmente ma in un colpo solo l’intera spettanza, calcolando la cifra sull’aspettativa di vita. Solo che su questa aspettativa era in precedenza piuttosto «abbondante» dando luogo a liquidazioni che in alcuni casi avevano superato il milione di euro. Nel 2014 era esploso lo scandalo delle «pensioni d’oro» del Trentino, era stata avviata anche un’inchiesta della procura che aveva indotto l’assemblea regionale a rivedere i calcoli. (…) Alcuni politici, tra questi la Klotz, avevano accettato di restituire la somma, in attesa di maturare nuovamente i diritti alla pensione alla luce di una nuova legge regionale nel frattempo varata”. La nuova legge ha stabilito un taglio del trattamento pensionistico, ma ha mantenuto la possibilità per i politici di incassare quanto maturato mensilmente o tutto in una volta sola. Ed Eva Klotz “è tra coloro che hanno tagliato il traguardo della quiescenza nelle scorse settimane e ha optato per il «tutto in una volta sola». Calcoli alla mano per lei la cifra è stata di 946mila euro e spiccioli”.
Eva Klotz, dalla sfida all’odiata Italia alla pensione d’oro targata Italia, scrive il 15 febbraio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Odia l’Italia ma si porterà a casa una pensione faraonica di quasi un milione di euro. Tutta tricolore. E per l’esattezza 946mila e 175 euro. Eva Klotz, la “pasionaria” altoatesina che da quarant’anni reclama la secessione del Südtirol dall’Italia e la sua annessione all’Austria, è salita agli onori delle cronache ma non per battaglie politiche vinte, come quella secessione del Trentino Alto Adige su cui ha promosso anche un referendum consultivo per l’indipendenza della regione. Di lei ora si parla per il vitalizio che incasserà per la sua attività di consigliere provinciale e regionale, una somma corposa che le verrà corrisposta dalla tanto odiata Roma. Come spiega il Corriere della Sera la cifra nasce in virtù della nuova legge votata dalla regione autonomista e che taglia, comunque, del 20 per cento circa un precedente vitalizio. Il sistema pensionistico per i politici altoatesini è abbastanza generoso. In pratica, fino alla riforma del 2014 consiglieri regionali e provinciali potevano incassare la pensione, non come accade a tutti i semplici cittadini mese per mese, ma in un colpo solo. La quota da liquidare veniva, infatti, liquidata sull’aspettativa “abbondante” di vita. Una norma molto generosa che aveva però generato nel 2014 polemiche poiché c’erano stati alcuni politici che avevano incassato una pensione superiore al milione. La procura aveva aperto un’inchiesta e la Regione era stata costretta a fare marcia indietro e a rivedere i calcoli. La Klotz dopo lo scandalo per le pensioni d’oro, insieme ad altri suoi colleghi, si era impegnata a restituire la somma. Nel frattempo è stata approvata una nuova legge regionale che ha previsto un taglio del trattamento, fermo restando inalterata la possibilità per i politici di incassare quanto maturato mensilmente o in un’unica soluzione. La Klotz è tra quelli che hanno optato per la soluzione tutto e subito. Ma chi è Eva Klotz? È la prima dei sei figli avuti dal padre Georg Klotz, aderente all’organizzazione terroristicaBefreiungsausschuss Südtirol, detto “Il Martellatore della Val Passiria” per la sua attività dinamitarda. A 25 anni è entrata in politica dichiarando: «La mia infanzia è stata segnata dalle vicende di mio padre». Negli anni successivi è stata prima consigliera comunale a Bolzano e poi consigliere provinciale. Nella prima seduta del consiglio, Eva Klotz si è presentata vestita con un Dirndl, da cui deriva il suo soprannome “La Pasionaria”. Qualche anno dopo in disaccordo con la posizione della Südtiroler Volkspartei (favorevole ad un’autonomia sudtirolese all’interno dello Stato italiano), è uscita dal partito. Nel 1989 è fondatrice e leader dell’Union für Südtirol, ma dopo il congresso del 5 maggio 2007 ha dato l’addio al partito per dare vita al Süd-Tiroler Freiheit. In questo nuovo movimento Klotz ha ideato di mettere ad ogni valico (su strada o sentiero di montagna) un cartello che recita: «Süd-Tirol ist nicht Italien!» ovvero tradotto in italiano, «L’Alto Adige non è Italia».
Odia l’Italia, non i nostri soldi: per Eva Klotz pensione da un milione di euro scrive Mirco Minisini su “Il Primato Nazionale” il 15 febbraio 2016. Odia l’Italia, ripudia il tricolore, per il quale è finita anche a processo per vilipendio, ma non i soldi che il tanto odiato Stato italiano ogni mese gli versa sul conto. E non sono neanche pochi: ora spunta un bonus di quasi un milione di euro. Lei è Eva Klotz, meglio conosciuta in Alto Adige come la “pasionaria Sudtirolese”, figlia “d’arte” del terrorista dei B.A.S. (Comitato per la liberazione del Sudtirolo negli anni ’60) Georg Klotz, artefice di svariati attentati dinamitardi, dal 1976 attivista politica attiva sempre sull’onda del “via dall’Italia”. Inizia la carriera politica all’interno della SVP (Suedtiroler Volks Partei) principale partito tedesco in Alto Adige riuscendo in pochi anni a farsi eleggere consigliera comunale a Bolzano, poi consigliera provinciale ed infine consigliera regionale. Sua antica battaglia e slogan: “Suedtirol ist nicht Italien” (l’Alto Adige non è Italia). Ed è proprio a causa di questo suo radicalismo estremo che nel 1983 Klotz abbandona la SVP iniziando una carriera politica propria. Nel 1989 è fondatrice e leader del movimento politico “Union für Südtirol” (Unione per l’Alto Adige), per il quale è stata consigliera provinciale, carica che, a norma dello statuto speciale della Regione, comporta anche il diritto a far parte del Consiglio regionale del Trentino Alto Adige. Movimento, quello dell’“Union für Südtirol”, che abbandonerà nel 2007 lanciandosi in una nuova avventura dal sapor ancor più estremista: la nascita del suo partito “Südtiroler Freiheit”. È con questo nuovo partito che Eva Klotz lancerà più e più battaglie anti-italiane come il falso referendum per l’autodeterminazione in Alto Adige e conseguente ri-annessione all’Austria. Ancora, è proprio in questi anni che installerà cartelli con la dicitura “Südtirol ist nicht Italien” in tutta la provincia di Bolzano, confine del Brennero in primis. Ancora, è in questi anni che sarà indagata e processata per vilipendio alla bandiera dopo aver pubblicato e affisso in tutto l’Alto Adige degli striscioni che ritraevano una scopa che spazzava via il tricolore italiano (paragonandolo a immondizia), lasciando solo i colori della bandiera italiana bianco e rosso che sono invece i colori della bandiera tirolese. Questi solo alcune delle tante provocazioni anti-italiane portate avanti da frau Klotz. Tutte fatte con soldi italiani che la politica (almeno sulla carta) italiana ha percepito dal 1976 ad oggi. Anche lei colpita dallo scandalo vitalizi dei consiglieri regionali del Trentino Alto Adige nel 2014, la stessa ha sempre difeso il suo malloppo affermando che gli spettava di diritto. Oggi, oltre l’offesa, la beffa: alla ex consigliera regionale anti-italiana lo Stato ha versato un “bonus” di quasi un milione di euro pari alla pensione maturata per la sua attività di consigliere provinciale e regionale. Si tratta più precisamente di 946.175 euro che sono entrati nelle casse della pasionaria sudtirolese ormai da oltre un anno ritirata a vita privata dopo aver abbandonato la politica per dedicarsi al marito. La cifra è frutto del calcolo della pensione da politico alla luce della nuova legge votata dalla regione autonomista e che taglia del 20% circa un precedente vitalizio; che la consigliera autonomista e altri suoi colleghi si erano impegnati a restituire in seguito a una feroce polemica esplosa a proposito dei privilegi per chi sedeva nell’assemblea regionale di Trento e Bolzano. Ciò che era uscito dalla porta, insomma, è rientrato dalla proverbiale finestra…
Eva Klotz, ex consigliere dell'Alto Adige: "La mia pensione da 946mila euro? Non è un regalo, quei soldi mi spettano", scrive "L'Ansa" il 16/02/2016. La pasionaria del Sudtirolo Eva Klotz difende i 945 mila euro che ha ricevuto come compensazione della sua pensione da consigliera provinciale. Due anni fa le cosiddette "pensioni d'oro" dei consiglieri del Trentino Alto Adige avevano causato aspre polemiche e anche manifestazioni in piazza. Recentemente la presidente del consiglio regionale Chiara Avanzo ha dichiarato in risposta ad un'interrogazione che due ex consiglieri nel frattempo hanno maturato i requisiti per questi "anticipi" sulla pensione, l'ex assessore provinciale trentino Marco Benedetti e la Klotz. "Non si tratta di un anticipo sulla pensione, ma di un compenso per il fatto che la mia pensione mensile è stata quasi dimezzata da 7.000 euro a 2.800 euro", spiega all'ANSA l'ex consigliera. "Sono stata in consiglio regionale per 31 anni e nel 2003 avevo già maturato i requisiti per la pensione e da ex consigliera all'epoca avrei ricevuto circa 6.000 euro al mese", prosegue. "Sono rimasta in consiglio fino al 2014 e ho continuato a versare contributi per 11 anni". "Ho ricevuto quanto previsto dalla legge", precisa Klotz. "Di certo - aggiunge - non ho bisogno di una Porsche oppure di una pelliccia, ma userò questi soldi per l'impegno politico a favore dell'autodeterminazione del Sudtirolo".
Basta provocazioni antitaliane in Alto Adige: Eva Klotz a processo per vilipendio al Tricolore, scrive Corrado Vitale il 24 gennaio 2014 su “Il Secolo D’Italia”. È iniziato a Bolzano il processo che vede imputati i consiglieri altoatesini Eva Klotz e Sven Knoll, esponenti del Suedtiroler Freiheit, insieme ad altri sette membri del partito con l’accusa di vilipendio alla bandiera. L’inchiesta partì nel 2010 in seguito all’affissione in Alto Adige di numerosi manifesti in cui veniva raffigurata una bandiera italiana, spazzata via da una scopa. Il manifesto riportava poi lo slogan separatista «Il Sudtirolo può rinunciare all’Italia». Tutte da ridere le tesi dell’autodifesa. «Si tratta di diritto di critica», ha sottolineato l’avvocato difensore Nicola Canestrini. Secondo Klotz, tutto sarebbe partito da una traduzione scorretta del termine «kehraus». Non vuole dire «mettere via la sporcizia» – ha spiegato la pasionaria – ma semplicemente «mettere fine a qualcosa». Figlia di Georg (denominato “martellatore della Val Passiria”, per via della sua attività terroristica contro lo Stato italiano negli anni Sessanta), Eva Klotz ha rinnovato recentemente il suo furore antitaliano. «I tempi per l’autodeterminazione sono maturi. Stiamo meglio senza l’Italia. L’autonomia non basta, chiediamo la libertà» ha detto nei mesi scorsi. Nel mirino della Klotz c’è anche il biliguismo. Alla pasionaria non basta cancellare la lingua italiana dall’Alto Adige. Vorrebbe anche decretare l’uscita della provincia dall’Italia, per seguire un vecchio delirio contrario alla storia, alla cultura e ai valori della convivenza tra culture diverse. Le posizioni della Klotz sono fortunatamente minoritarie tra i cittadini di lingua tedesca dell’Alto Adige, che hanno costruito nei decenni una proficua convivenza con i cittadini di lingua italiana all’insegna della tolleranza e della collaborazione. Ciò non toglie che sia rattristante dover assistere al continuo vilipendio dell’italianità da parte di un gruppo di fanatici ispirati dal peggiore ideologismo razzista e dall’intolleranza etnica.
Alto Adige, si risveglia la figlia del dinamitardo: Eva Klotz lancia un referendum per l’“autodeterminazione”, scrive Corrado Vitale il 2 settembre 2013 su “Il Secolo D’Italia”. Ci risiamo con l’“audetermnazione” dell’Alto Adige. Il tentativo di cancellare il bilinguismo e di abolire dalle valli altoatesine i toponimi italiani ha risvegliato vecchi fantasmi eversivi, come quello di Eva Klotz, figlia di Georg (denominato “martellatore della Val Passiria”, per via della sua attività terroristica contro lo Stato italiano negli anni Sessanta) ha dato il via a un “referendum” autogestito sull’autodeterminazione dell’Alto Adige. Nei prossimi tre mesi gli oltre 402.000 elettori, che il 27 ottobre voteranno alle provinciali, potranno esprimersi sul futuro della loro Provincia. «Voteranno» via sito trilingue, sms, lettera oppure in una delle urne allestite dal partito. «I tempi per l’autodeterminazione sono maturi. Stiamo meglio senza l’Italia. L’autonomia non basta, chiediamo la libertà» ha detto la pasionaria. Eva Klotz si è scagliata persino contro l’accordo tra il ministro degli Affari Regionali, Graziano Delrio, e il Presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder, che pure penalizza la comunità italiana. «Il compromesso raggiunto – ha tuonato – è ancora peggio di quello tra Fitto–Durnwalder». Ora siamo oltre. Allapasionaria non basta cancellare la lingua italiana dall’Alto Adige. Vorrebbe anche decretare l’uscita della provincia dall’Italia, per seguire un vecchio delirio contrario alla storia, alla cultura e ai valori della convivenza tra culture diverse. Le posizioni della Klotz sono fortunatamente minoritarie tra i cittadini di lingua tedesca dell’Alto Adige, che hanno costruito nei decenni una proficua convivenza con i cittadini di lingua italiana all’insegna della tolleranza e della collaborazione. Ciò non toglie che sia rattristante dover assistere al continuo vilipendio dell’italianità da parte di un gruppo di fanatici ispirati dal peggiore ideologismo razzista e dall’intolleranza etnica.
Vilipendio al tricolore, Eva Klotz assolta: «Nessun reato», scrive il 21/01/2016 “L’Adige”. Il fatto non costituisce reato. Assolta in appello a Bolzano la pasionaria sud-tirolese Eva Klotz, assieme ai compagni del partito Südtiroler FreiheitSven Knoll e Werner Thaler, dal reato di vilipendio alla bandiera. I tre erano stati condannati in primo grado ad un'ammenda di tremila euro ciascuno per un manifesto con una scopa che spazza via il tricolore lasciando solo il bianco ed il rosso del labaro tirolese. «Klotz - ha detto il suo legale, Nicola Canestrini - è stata assolta in forza della tolleranza. La tolleranza è infatti la forza di una società civile e si dimostra con chi non la pensa come noi».
PARLIAMO DEL VENETO.
…DI VICENZA. E nel tendone va in scena il dramma dei veneti ingannati dai veneti. Urla, insulti e frasi in dialetto. Quasi in duecento, si erano iscritti a parlare all’assemblea della Popolare di Vicenza. Per ridursi via via che qualcuno sentiva la collera propria già espressa da altri, scrive Gian Antonio Stella il 5 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Lepanto! Cosa c’entri la battaglia di Lepanto con lo sfascio della «Popolare» di Vicenza non lo sapremo mai. Il socio che l’ha tirata in ballo voleva paragonare i vertici della banca o quelli della Bce ai feroci saraceni? Non lo sapremo mai. Al nuovo scoppio di cagnara gli hanno spento il microfono. Bip! Certo l’irruento azionista voleva ammonire sulla svolta epocale. Lì per l’Occidente, qui per il Nordest. La terra del mito ora tramortita: ma come, non era forse la Popolare solo tre anni fa la terza banca del Paese, capace di capitalizzare quanto Carige, Monte dei Paschi e Popolare di Milano messi insieme? Macché. Tutto finto. «Te ga da morir tute le visele!». Ti devono morire tutte le vigne!, dice il cartello di un azionista. E se su Lepanto c’erano dei dubbi, qui no: il moccolo è tutto per Gianni Zonin, «il vignaiolo». L’ex presidente della Banca che per anni, tra i cori e gli osanna dei soci più entusiasti aveva ripetuto il mantra: tutto benissimo, qualche difficoltà passeggera ma «la Popolare non ha seguito gli alti e bassi del mercato, non è stata preda delle montagne russe e dei mercati borsistici, ed è rimasta sempre coerente con il suo valore». «Se anche tutto il vino di Zonin dovesse andare in aceto lui può rifarsi alla vendemmia successiva», urla un azionista, «Ma noi non abbiamo altre vendemmie. Quello che abbiamo perso l’abbiamo perso per sempre. Non possiamo rifarci!» E dietro il crollo del 90% delle azioni di quello che per i vicentini era il salvadanaio, riconosci una paura di tanti veneti. Di tornare poveri. Ma certo, dal boom degli anni Sessanta la regione, l’unica a perdere abitanti tra i censimenti del ‘51 e del ‘61 si è lasciato alle spalle la miseria. Le canzoni come «Mamma papà non piangere / non sono più mondina / sono tornata a casa / a far la contadina». L’esodo: «Andemo in Transilvania a menar la carioleta che l’Italia povareta no’ ga bezzi da pagar». I casoni col tetto di paglia. E tutti i capannoni che circondano questo della «Perlini Equipment» a Gambellara che ospita l’assemblea sono lì a ricordare quanto sia forte il profilo industriale di questa provincia che già vent’anni fa esportava da sola come la Grecia e insieme con Treviso come l’Argentina. Sotto sotto, però, il ricordo della povertà e delle vacche morte di malattia disseppellite e sbranate dai nonni pazzi di fame («Una scena che ricordava i negri dell’Africa e i cannibali dell’Oceania», scrisse Adolfo Rossi) era rimasto come una sottile inquietudine. Che la crisi e lo smottamento della «Popolare» hanno fatto riemergere. «Sono un pensionato di Padova», dice con voce incerta, sul palco, un vecchio coi capelli bianchi, «Nel 2012 mi han fatto comprare azioni ma gli avevo detto che non compravo se non mi assicuravano che in caso di difficoltà potevo ritirare i miei soldi. «Nessun problema, può farlo in cinque giorni», mi hanno detto. Nel 2013 hanno fatto l’aumento di capitale e di nuovo ho tirato fuori soldi. Mi han rubato tutto. Erano i piccoli risparmi di tutta la mia famiglia…», e se ne va per non scoppiare in lacrime davanti a tutti. Ed ecco che, nel gelo di questo capannone surriscaldato dalla rabbia, dall’esasperazione, dal rancore, va in scena lo psicodramma di una terra che si sente tradita. Un inganno doloroso. Inatteso. Ma come: veneti traditi da veneti! Basta sentire il vecchio avvocato Gianfranco Rigon ma più ancora certe reazioni al suo sfogo. «Iorio è andato in America per parlare con nuovi soci, la mafia siculo-americana, per esempio. Noi non vogliamo questa gente qua. Noi siamo veneti!», dice con fierezza campanilistica, «Vogliamo che la banca sopravviva ma non imbastardendosi con gente che non ha che fare con la nostra cultura». E in platea: «E i “nostri” allora?» Un’anziana ma pugnace signora viene intercettata dalla Rai: «Come va?» «Sono avvelenatissima. Anche perché alternative zero» «Se avesse davanti Zonin che cosa gli direbbe?» «Ah, dirgli niente: strozzarlo di certo». Un signore col berrettino blu: «Io sono un attivista per il no. Questi sono ladri e farabutti. È giusto che non la vincano». «Ecco cos’è la classe dirigente veneta!», attacca un socio dal palco, «Questi qui vanno a far compagnia ai Galan, ai Chisso, a quelli del Mose…». Tra i più battaglieri, le donne. «So che non accadrà perché siamo in uno Stato fondato sulla corruzione», dice una signora coi capelli a caschetto e una cordicella blu agli occhiali, «Ma auguro a chi ha fatto tutto questo di ridursi in miseria!» «Abbiamo dato i nostri soldi a un branco di scimmie!», urla furibonda un’altra, «Devono andare in galera!» «Mi chiamo Barbara Venuti, sono di Udine», si presenta una giovane, «Finché avrò fiato mi batterò per mio papà e mia mamma ai quali hanno rifilato 28.000 azioni che oggi sono carta straccia. Voglio i nomi dei colpevoli e che passino notti insonni. Insonni come le abbiamo passate noi». La signora Munaretto: «E noi dovremmo dare fiducia a un Cda che nel 2015, mentre la banca crollava, si è aumentato gli stipendi del 9%? No, no, no!». Una donna di mezza età con una cascata di capelli rossi e un foulard a fiori: «Votiamo no a questo ladrocinio!» Quasi in duecento, si erano iscritti a parlare. Per ridursi via via che qualcuno sentiva la collera propria già espressa da altri, a un centinaio e passa. Soci pirandelliani: «Mi chiamo Lucio Ferronato, sono un imprenditore tradito. Uno dei tanti, diciamo uno, nessuno e 117.000…» Soci omerici: « Io mi chiamo Nessuno perché con questa banca mi sento nessuno». Soci speranzosi come Giuliano Xausa: «Per i vecchi scafisti nessuna pietà. Ai nuovi dico: portate questo barcone fuori da queste acque tempestose, ma nel rispetto e salvaguardando i soci, i dipendenti e i clienti». Soci schifati come Gregorio Piva: «L’unica certezza che ho è che ai pesci grossi è stato permesso di portarsi a casa i loro soldi guadagnandoci e invece a noi piccoli hanno svuotato le tasche e siamo qui a soffrire per scelte scellerate». Soci avvelenati come Alberto Artoni, che non può accettare che dodici dei consiglieri siano quelli di prima e prende di petto l’ad: «Quando va in consiglio di amministrazione non le viene da vomitare, dottor Iorio?» Soci apocalittici come Pasquale Tecchia: «Abbiamo comprato azioni a 62 euro e abbiamo un pugno di mosche. E allora, macché borsa e Spa: muoia Sansone con tutti i Filistei!» Finché arriva il momento di votare. E lì, come previsto, passa il sì. Perché certo, la collera è tanta, ma ormai va contenuto il danno. I schei xè schei…
…DI VENEZIA. SUSANNA LAZZARINI, IN PRIGIONE PER AVER UCCISO UN’ALTRA DONNA, HA CONFESSATO ANCHE IL PRIMO OMICIDIO. «Papà, vedi che non sono stata io?» Finito l’incubo di Monica Busetto. Dalla vigilia di Natale 2012 la donna di Mestre era precipitata in un incubo: accusata (e condannata a 24 anni) per aver ucciso la vicina di casa. Ora è tornata a casa, scrive Riccardo Bruno, inviato a Venezia, il 3 marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il padre ottantenne è rimasto davanti alla porta di casa ad aspettare la sua Monica, la figlia che tornava dopo due anni passati in carcere. Una condanna in primo grado a 24 anni e mezzo per un delitto atroce, l’anziana vicina strozzata e accoltellata, che adesso si scopre aver commesso un’altra. Sono scoppiati entrambi a piangere e lei è riuscita solo a sussurrare: «Hai visto papà che non ero stata io?». Monica Busetto, 53 anni, dalla vigilia di Natale del 2012 è precipitata in un incubo, e da allora ogni giorno ha atteso che arrivasse questo momento, che qualcuno le dicesse: «Abbiamo sbagliato, lei non è un’assassina». Il 20 dicembre di tre anni fa viene trovata morta, prima soffocata e poi accoltellata al cuore e alla gola, Lida Taffi Pamio, l’anziana di 87 anni che abita nello stesso pianerottolo della Busetto, in centro a Mestre. Un mese dopo viene indagata. Torna a casa dall’ospedale, dove lavora come operatrice socio-sanitaria, e trova i giornalisti a farle troppe domande e i sigilli sulla porta dell’appartamento di fronte al suo a ricordarle un delitto per il quale sembra l’unica sospettata. Trascorre un anno così, ed è già un inferno, finché la mattina del 30 gennaio del 2014 un poliziotto la prende sottobraccio e l’accompagna in carcere. Per 55 giorni in isolamento, poi trasferita a 700 chilometri di distanza, nel penitenziario di Pozzuoli. Persino i suoi legali, Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, che è anche suo cugino, sono presi alla sprovvista. «Il magistrato le chiedeva una confessione per iscritto», ricordano, «ma lei si è sempre proclamata innocente». Ogni volta che gli avvocati vanno a trovarla, lei ripete ossessivamente: «Ci sono novità? Quando esco?». «È una persona semplice, temevamo che potesse subire questa esperienza», raccontano i legali. «Invece, ha avuto una forza di reazione straordinaria. Ha legato con tutti dentro il carcere, forse perché la vedevano diversa. Anche quando è andata via da Pozzuoli, molti hanno continuato a mandarle lettere per chiederle come andava». È andata che nel giugno del 2014 si aperto il processo, dopo sei mesi è arrivata la condanna: 24 anni e sei mesi per omicidio pluriaggravato. Il pubblico ministero è severissimo, lei in aula subisce e non smette di sperare. Una traccia del Dna della vittima trovato su una catenina a casa sua è la prova regina. La difesa eccepisce che è una traccia debole e probabilmente “contaminata”, ma è inutile. In carcere Monica Busetto si trova fuori posto. «Che ci faccio io qui?», ripete a tutti. Si dà forza curando il guardaroba del penitenziario o collaborando con le suore alla preparazione del Giubileo e all’apertura della porta santa in carcere con il patriarca. Alla vigilia dell’ultimo Capodanno, un altro delitto, un’altra anziana strangolata a Mestre, Francesca Vianello di 81 anni. Dopo pochi giorni viene fermata e confessa Susanna Lazzarini. La madre era amica della vittima e all’indomani del delitto, come racconta Alberto Zorzi sul Corriere del Veneto, si dispera per le due compagne di tombola, entrambe uccise in pochi anni. Perché anche Lida Taffi Pamio faceva parte del gruppo. È uno degli input che spinge la Squadra mobile di Venezia coordinata dalla Procura a riconsiderare anche il delitto del 2012. Una traccia di Dna, allora non attribuita a nessuno, colloca sulla scena del crimine anche in quel caso Susanna Lazzarini. È la svolta. Le due donne, entrambe in carcere alla Giudecca, vengono messe nella stessa cella. Evidentemente per carpire i loro discorsi, per capire se si conoscevano, se sono state complici. Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, Susanna Lazzarini, dopo dodici ore di interrogatorio confessa anche il secondo delitto. Alle 5 del mattino viene svegliata Monica Busetto e portata davanti al magistrato. Lei, impaurita, chiede ai suoi legali: «Non è che mi riportano a Napoli?». Il magistrato la rassicura: «Questa volta indaghiamo a suo favore». Ma lei è talmente frastornata che non si rende conto che il suo futuro sta per cambiare. Fino a giovedì pomeriggio, quando bussano alla sua cella e le dicono che può tornare a casa. Non è stata scagionata, c’è ancora un processo di appello che l’attende, e nuove indagini, perché i magistrati vogliono essere certi che non ha avuto alcun ruolo nell’omicidio di tre anni fa. Ma adesso si sa che l’assassina è un’altra, e così può finalmente dire al suo papà: «Hai visto che non sono stata io?».
Graffi e sangue: il giorno dell'omicidio Milly Lazzarini simulò d'essere stata rapinata. Nuovi particolari su ciò che avvenne nel 2012 il giorno in cui fu uccisa Lida Taffi Pamio. Ma Milly e la Busetto si conoscevano? Un secco "no": alla domanda reazione identica, scrive "Venezia Today" il 5 marzo 2016. La tragica vicenda dell'omicidio di Lida Taffi Pamio si arricchisce di nuovi retroscena finora sconosciuti: Susanna "Milly" Lazzarini, la donna che ha confessato il delitto, quel giorno ha giustificato le ferite riportate durante la colluttazione inventandosi una rapina che, ovviamente, non è mai avvenuta. Fu così che, rientrando in casa il pomeriggio del 20 dicembre 2012, riuscì a spiegare i graffi sul viso e il giubbotto sporco di sangue. La sua storia, confermata dall'avvocato Mariarosa Cozza, fu suggellata dal referto dell'ospedale, dove si recò raccontando ai medici il falso episodio dell'aggressione. Finì in carcere Monica Busetto, giudicata responsabile del delitto. Ecco, secondo la confessione della Lazzarini, come andarono le cose quel giorno: tutto iniziò nel primo pomeriggio, quando Milly bussò alla porta del civico 13 di viale Vespucci a Mestre, abitazione di Lida Taffi Pamio, 87 anni. Le due si conoscevano perché l'anziana era molto amica della madre di Milly, ma anche perché nello stesso condominio aveva abitato anche lei per diversi anni. Il delitto si consumò dentro l'appartamento, l'anziana fu strangolata con un cavo del decoder e poi accoltellata. Ci fu probabilmente una colluttazione durante la quale Milly rimase leggermente ferita: più tardi, quando tornò a casa, raccontò che quelle escoriazioni le erano state inferte da un malintenzionato incontrato per strada. La Lazzarini continua a ripetere che agì da sola, ma ci sono ancora dei punti non chiariti nella sua confessione. Non palesa grosse emozioni mentre riporta i particolari dell'efferato omicidio. Ma ricorda che a un certo punto si innervosì molto: "A un certo punto ho visto tutto buio", racconta. Aveva i guanti addosso. Alla fine spegne la luce, ma prima si passa la mano sulla fronte, sul posto resta una traccia di sudore mista a sangue della vittima che confermerà la sua presenza nell'appartamento. Esce, chiude la porta a chiave (sottolinea di avere dato due mandate) e scappa. Qualcosa però non torna: nessuna traccia di sangue sulla maniglia, né lungo le scale del condominio. Poco prima, però, nel spegnere la luce tracce ematiche sono rimaste. E poi l'impronta insanguinata di una ciabatta dentro l'abitazione. Non è della vittima, potrebbe essere della Lazzarini o della Busetto. Ma Milly dice che quel giorno indossava le scarpe. Fatto sta che, quando arrivò a casa sua, addosso aveva un giubbotto nuovo: ai familiari disse di essersi fermata in bici fra via Cappuccina e via Carducci e di essere stata aggredita da uno sconosciuto intenzionato a sottrarle la borsetta. Raccontò di essere finita a terra, di aver sbattuto la faccia e un gomito. Poi, per non farsi vedere in giro così, si era data una ripulita entrando nel negozio di parrucchiere di un amico e poi era andata a comprarsi un giaccone nuovo. Così si era sbarazzata di quello che indossava al momento dell'omicidio: allo stesso modo si era liberata della collanina e dei gioielli che aveva strappato alla vittima, tutto dentro un cassonetto. Fu il figlio a convincerla ad andare al pronto soccorso e ad accompagnarla all’Angelo. Monica Busetto fu giudicata responsabile dell'omicidio. Abitava sullo stesso pianerottolo della vittima. All'interno di un portagioie di sua proprietà fu trovata una catenina spezzata con una minima traccia di dna riconducibile alla Pamio. La donna, però, ha sempre negato ogni responsabilità, spiegando che si trattava di un ricordo di battesimo della sorella. È stata scarcerata dopo 21 mesi di cella, l’udienza di Appello in Corte d’Assise è stata rinviata. La Lazzarini e la Busetto negano d'essersi mai conosciute prima del carcere: rispondono entrambe in maniera piccata, le loro reazioni alla domanda sono identiche. La Procura sta eseguendo accertamenti per stabilire se sia effettivamente così, ma anche per capire se ci siano state delle intese di qualche tipo durante la convivenza in carcere: entrambe sono state in cella insieme. Ma non sarebbe emerso alcun particolare. Ma entrambe sapevano chi era l'altra donna. Possibile siano riuscite a mantenere tranquillità e freddezza nonostante tutto ciò che era accaduto? Se lo sta chiedendo anche la Procura.
«Io, in galera per due anni ma la serial killer era un'altra». Infermiera condannata per omicidio, «salva» grazie alla confessione della vera assassina, scrive "Il Giornale" Venerdì 4/03/2016. I giudici avevano scritto nella motivazione di condanna a 24 anni per l'omicidio della pensionata Lida Taffi Pamio: «La responsabilità di Monica Busetto è provata al di là di ogni ragionevole dubbio». Si scopre ora che i «ragionevoli dubbi» c'erano, eccome. Monica Busetto è da ieri una donna libera. Dopo due anni di carcere. Da innocente. Accusata di aver accoltellato nel 2012 una 87enne di Mestre. E nel carcere della Giudecca di Venezia Monica Busetto, 53 anni, ausiliaria in ospedale, ci sarebbe rimasta altri 22 anni, se la vera assassina non avesse confessato qualche giorno fa il delitto per cui era finita dentro la povera signora Busetto. Che, rintracciata dal Giornale racconta: «Sono stati due anni di inferno. Ma non ho mai perso la speranza. Volevano che io confessassi di avere ammazzato la povera Lidia, ma io non potevo confessare ciò che non avevo commesso. Non serbo rancore per chi mi ha sbattuto dietro le sbarre. Certo, avrei preferito che la mia innocenza fosse stata accertata prima, ma meglio tardi che mai. Anche perché credo alla buona fede di quanti hanno svolto le indagini e che di sicuro non volevano mandare in galera una persona estranea ai fatti. Ma, purtroppo, è proprio ciò che è accaduto». Un «equivoco» che ha rubato a Monica due anni della sua vita, sottraendola ai suoi affetti più cari: «Se non avessi potuto contare sulla fiducia e l'amore dei familiari, sicuramente con ce l'avrei fatta a superare momenti così bui». Ma il dramma patito da questa donna resta, e sarebbe giusto che lo Stato le riconoscesse almeno un indennizzo per ingiusta detenzione. E invece per la Busetto l'odissea giudiziaria non è ancora finita. Infatti, anche se da ieri è una donna libera (resta però l'obbligo di dimora), Monica formalmente non è ancora stata scagionata del tutto; tanto che la settimana prossima dovrà presentarsi davanti ala Corte d'Assisi per il processo d'appello. Che però, alla luce degli ultimi fatti, dovrebbe chiudersi in tempi brevi con un «non luogo a procedere». Ma vediamo come si è arrivati alla svolta che dovrebbe aver sancito, una volta per tutte, l'estraneità della donna nell'assassinio della pensionata. Nei giorni scorsi è emerso infatti che ad ammazzare Lida Taffi Pamio sarebbe stata (visti i precedenti, meglio usare sempre il condizionale) un'altra donna - ribattezzata la «serial killer di Natale» - , capace di uccidere e derubare le sue due anziane vittime (oltre a Lida Taffi Pamio, anche l'81enne Francesca Vianello, pure lei di Mestre) pur - come hanno dichiarato gli inquirenti - «di comprare ai figli i regali da mettere sotto l'albero». La vera colpevole sarebbe Susanna Lazzarini, detta Milly, la vedova di 52 anni arrestata alla fine dello scorso anno per l'omicidio a Mestre appunto di Francesca Vianello, 81 anni, strangolata dopo il rifiuto di un prestito (l'ennesimo), di poche decine di euro (100 per l'esattezza). Il colpo di scena lunedì scorso, quando Procura e Squadra mobile hanno annunciato l'incriminazione di «Milly» anche per la morte di Lida Taffi Pamio, prima soffocata e poi finita a coltellate al cuore e alla gola nel suo appartamento. Per questo secondo delitto era stata condannata in primo grado a 24 anni di carcere, nel dicembre 2014, Monica Busetto, vicina di casa di Pamio, con la quale aveva litigato in più occasioni. La donna si era sempre proclamata innocente, pur tra molti «non ricordo». A incastrarla come l'assassina erano stati diversi indizi rivelatisi - solo ora - privi di fondamento: una collanina dell'anziana ritrovata nel suo portagioie e la traccia di una macchia di sangue sul pianerottolo diviso dalle due. «La responsabilità di Monica Busetto è provata al di là di ogni ragionevole dubbio» scrissero i giudici depositando le motivazioni della sentenza. È stata la morte di Francesca Vianello, amica come Taffi Pamio della madre di Milly Lazzarini, a riaprire il caso e a portare la squadra mobile su una pista diversa. Fondamentale è stato il ritrovamento del dna della vedova anche nell'appartamento della prima vittima. Insieme al fatto che anche in quel caso a muovere la mano dell'assassina fosse stato il denaro. Una manciata di soldi più o meno uguale a quella che l'assassina aveva chiesto a Francesca Vianello per fare i regali di Natale e pranzare con i due figli durante le feste. Al rifiuto dell'anziana, che pretendeva invece la restituzione di un precedente prestito, è scattato il raptus e lo strangolamento. Interrogata dalla Procura il 24 febbraio sull'omicidio di tre anni fa, Milly, che si trova in carcere in attesa di giudizio, ha reso «una piena e circostanziata confessione». E per Monica Busetto la luce si è riaccesa.
PARLIAMO DELL’EUROPA DEGLI ONESTI.
Austria, le presidenziali di maggio si trasformano in farsa. Da tre giorni alle udienze per il ricorso presentato dai populisti della Fpö si susseguono i racconti tragicomici di presidenti di seggio e scrutatori: conti che non tornavano, schede dall'estero aperte in anticipo o annullate, spoglio fatto in fretta e furia, scrive Tonia Mastrobuoni il 23 giugno 2016 su “La Repubblica”. Una risata amara sta seppellendo l'elezione presidenziale più drammatica della storia austriaca. Le udienze del ricorso presentato dai populisti della Fpöper annullare il voto del 22 maggio scorso si stanno rivelando una via di mezzo tra un romanzo di Gogol e Fantozzi. I presidenti dei seggi e gli scrutatori stanno raccontando da tre giorni dettagli dello spoglio finale che ha regalato la vittoria ad Alexander Van der Bellen che gettano un'ombra inquietante sul voto, vinto con appena 30mila voti di differenza. Tanto che ieri uno dei quattordici giudici costituzionali che stavano ascoltando a bocca aperta le testimonianze si è complimentato ironicamente con un uno dei pochi responsabili dei seggi che aveva fatto tutto secondo le regole. Il contenzioso riguarda il voto per corrispondenza, circa 600mila schede che per legge si sono potute aprire e contare soltanto lunedì 23 maggio, quando il voto nei seggi era già chiuso e dava, peraltro, il candidato della Fpö Norbert Hofer in vantaggio. Quelle ultime schede hanno rovesciato clamorosamente il risultato finale a vantaggio di Van der Bellen. Ma ora sta emergendo che negli uffici dove ai contavano quei voti arrivati per posta non tutto è andato secondo le regole, per usare un eufemismo. E se i giudici dovessero ritenere eccessive le irregolarità che stanno emergendo, l'Austria rischia di dover tornare nuovamente alle urne. Sarebbe la prima volta nella storia. Peraltro, le udienze andranno avanti fino al 6 luglio. Due giorni prima del giuramento di Van der Bellen. Sempre che ci si arrivi. Da un seggio in provincia di Vienna uno scrutatore ha raccontato che i conti non tornavano, che mancavano all'appello tre schede, ma che i colleghi si sarebbero rifiutati di ricontarle: "Erano sfiniti e volevano andare in pausa pranzo". Le schede sono state annullate. A un giudice incredulo è scappato: "E certo, bisognava andare in pausa pranzo!". Ma racconti così si stanno moltiplicando. E uno dei problemi maggiori riguarda i tempi. A Bregenz tre scrutatrici hanno aperto 1500 buste delle 9523 arrivate prima delle 9 di lunedì mattina - vietato, in teoria - e hanno giustificato la decisione con le esortazioni arrivate direttamente dal ministero di fare in fretta. Un responsabile ha raccontato "mi hanno detto che il ministro dell'Interno voleva annunciare il risultato". Sono molti gli scrutatori che stanno riportando pressioni subite dal ministero per accelerare la conta dei voti. In alcuni comuni l'apertura delle buste è cominciata addirittura giorni prima, venerdì, sabato e nella domenica del voto. Come ha ammesso candidamente un presidente di seggio, "altrimenti ci avremmo messo dei giorni". Un altro ha gettato i giudici nella disperazione riconoscendo che "abbiamo sempre fatto così". Un terzo ha rivelato anche che i protocolli erano redatti un po' alla buona, e di essere arrivato al seggio a mezzogiorno mentre dai documenti ufficiali risultava lì dall'alba. E via pasticciando. Anche la pignolerìa dei giudici, ad esempio sulle modalità di apertura delle buste, sta regalando qualche momento comico alle udienze, ma è giustificata dai timori che possano esserci stati brogli. Un togato ha chiesto ad un presidente di seggio: "Quando la busta è aperta è possibile estrarre la scheda e rimetterla dentro?". Risposta: "È possibile, ma improbabile. La nostra macchina che apre le buste non taglia neanche bene, però insomma poi vede se qualcuno ci ha infilato una mano dentro". Rassicurante.
Brogli in Austria? Leggete questi dati, qualcosa davvero non torna, scrive Marcello Foa il 26 maggio 2016 su "Il Giornale. L’Austria è un piccolo Paese ed è una democrazia consolidata. I politologi sanno che più è piccolo è il Paese, più efficaci sono i controlli, meno elevato è il rischio di brogli. Sì, come in ogni comunità sono possibili pressioni su singoli elettori e “galoppinaggi” ma in proporzioni talmente limitate da risultare ininfluenti, soprattutto in un’elezione nazionale. Per questa ragione, a caldo non ho creduto ai sospetti di brogli sulle presidenziali, decise al fotofinish. Ora però il sospetto diventa decisamente plausibile. Alcuni media austriaci hanno rilevato anomalie macroscopiche. Nel collegio “Waidhofen an der Ybbs”, l’affluenza al voto è stata del… 146,9%. Sî, avete letto bene: 146,9%. Ci sono stati più votanti degli aventi diritto: 13.262 quelli che si sarebbero recati alle urne contro i soli 9.026 che avrebbero potuto partecipare alla consultazione elettorale. Ha vinto, ovviamente, Van der Bellen, che ha collezionato il 52,7% (6.621 voti) contro il 47,3% del candidato di destra, Hofer (5.938 voti)”. Vabbè, si potrebbe pensare, sono circa 700 voti. Ma che dire di quel che è successo in una città come Linz? L’affluenza alle urne, nel caso di voto ‘per conto terzi’ è stata addirittura del 598%: si tratta di persone malate che danno la procura ad altre per votare al posto loro. Invece dei 3.580 votanti registrati, ne sono stati contati 21.060! Naturalmente ha vinto Van der Bellen, che ha ottenuto 14mila di questi miracolosi 21mila votanti e staccando Hofer di 8500 schede. Mauro Bottarelli sul Sussidiario segnala inoltre come il numero dei votanti dall’estero sia aumentato di 20mila schede in una notte: il presidente della Commissione elettorale ha dichiarato che ne erano state consegnate 740’000, stimando che quelle valide sarebbero state 700’000 (dunque circa il 6% di schede nulle per vari motivi). Al mattino però, erano diventate 760’000, tutte straordinariamente valide. In tutto sessantamila schede in più! E sono solo tre episodi. E’ verosimile che ce ne siano altri. Ora, facciamo due conti Van der Bellen ha battuto Hofer per 8500 preferenze sospette a Linz, 700 nel collegio di Waidhofen e se ne potrebbero ipotizzare 20mila dei miracolosi 60mila voti in più per corrispondenza (considerando 2/3 al verde, 1/3 a Hofer). E fanno 29’200 voti non chiari in più per il candidato ecologista. Che alla fine ha vinto con 31mila schede di scarto. Vuoi vedere che in realtà gli austriaci hanno eletto un altro presidente, quello che ufficialmente ha perso? Cose inimmaginabili in un Paese europeo, in una democrazia matura consolidata, eppure i dati suggeriscono un’altra verità. Decisamente inquietante. PS: come segnala un lettore di questo blog, GStallmann, anche ai magistrati austriaci i conti non tornano: la “Procura federale contro la corruzione e per la prevenzione dei crimini economici” (WKSTA) ha aperto un’inchiesta circa i voti pervenuti per corrispondenza e per telefonia mobile in quattro distretti elettorali dello stato della Carinzia. Dunque, il sospetto è, anche ufficialmente, plausibile.
L’Austria scopre un paese “abusivo”. A St. Wolfgang, località di 1100 edifici, in vent’anni 974 interventi edilizi privi di certificato di fine lavori. Aperta un’inchiestadi Marco di Blas, scrive l'8 marzo 2016 “Il Piccolo”. Se qualcuno non avesse scritto l'operetta "Al cavallino bianco" (titolo originale "Im weissen Rössl"), pochi al mondo conoscerebbero St. Wolfgang, località turistica del Salzkammergut sulla sponda settentrionale del lago omonimo. Il titolo deriva dal nome dell'hotel in riva al lago, in cui si svolge l'intera vicenda. Una vicenda di intrecci e schermaglie amorose, come si conviene a ogni operetta, ma che si distingue da tutte le altre perché in essa entra in scena niente meno che l'imperatore Francesco Giuseppe. Ma a noi, in questo momento, poco importa. Importa soltanto segnalare che quell'hotel è l'edificio più importante di St. Wolfgang, uno dei circa 1100 che formano il piccolo comune. Tenete a mente questo numero, perché è importante per comprendere la storia che stiamo per raccontarvi, che non è un'allegra operetta, ma una storia di abusi edilizi. Tutto è venuto alla luce quando il nuovo sindaco di St. Wolfgang, Franz Eisl, eletto lo scorso anno nelle file del Partito popolare (Övp), ha voluto metter mano alle pratiche edilizie del Comune. Quando ha aperto i primi fascicoli non è riuscito a credere ai propri occhi, tanto da dover chiedere aiuto a persone più esperte di lui, per essere certo di aver visto giusto: decine e decine di pratiche edilizie riguardanti abitazioni private, edifici commerciali, hotel, autorimesse, capannoni risultavano avviate e mai portate a termine. In altre parole, c'era quella che noi chiameremmo la "dichiarazione di inizio lavori", ma mancavano il collaudo finale e la certificazione che rende l'immobile agibile. Dopo il disorientamento iniziale, il sindaco ha voluto svuotare gli armadi e passare sotto la lente d'ingrandimento tutte le pratiche edilizie dell'amministrazione. Dall'indagine è risultato che negli ultimi venti anni erano stati realizzati 974 interventi edilizi e che nessuno di essi disponeva della certificazione di "fine lavori". E poiché, come dicevamo sopra, le costruzioni a St. Wolfgang sono 1100 circa, si può concludere che una buona parte di esse sono fuori legge. Forse addirittura da abbattere? Per il momento nessuno osa porsi questa domanda, perché prefigurerebbe una St. Wolfgang rasa al suolo. Come ciò sia potuto accadere è difficile immaginare. Il sindaco precedente, Wolfgang Peinsteiner, dello stesso partito del nuovo, addossa le responsabilità ai tecnici del municipio. Ma per i rappresentanti del Partito socialdemocratico (Spö), minoritari in consiglio comunale, sarebbe soltanto uno scaricabarile. «A un sindaco che lavora con scrupolo - ha dichiarato Hermann Krenn, consigliere dell'Spö nell'Alta Austria, Land dove si trova St. Wolfgang - non potevano sfuggire 974 cantieri edilizi abusivi. Anche soltanto andando ogni giorno in municipio gli sarebbero dovute balzare agli occhi le nuove costruzioni che sorgevano dall'una o dall'altra parte della strada». Nessuno sa spiegare quali siano le ragioni effettive di questo abusivismo edilizio - paragonabile in rapporto alla popolazione a quello che si registra alle pendici del Vesuvio - e chi ci abbia guadagnato. Le conseguenze sono molteplici: dall'evasione fiscale dovuta alle tasse non pagate per case che risultavano inesistenti, agli errori di calcolo, per esempio, nella progettazione degli impianti fognari, dimensionati per un numero di edifici di gran lunga inferiori a quelli reali. Insomma, per rimettere le cose in ordine ci vorrà un lungo lavoro. Il sindaco Eisl stima non meno di due anni e ha chiesto soccorso al Land, un po' perché il piccolo Comune non ha il personale sufficiente per farlo e un po' forse anche perché di quel personale non si fida troppo. Nel frattempo la Procura della Repubblica di Wels ha avviato un'indagine penale.
CORRUZIONE, TANGENTI E TRUFFE: LA GERMANIA DEGLI ONESTI PEGGIO DI NOI!
Il rapporto che fa tremare Angela Merkel: anche i tedeschi imbrogliano l'Europa, scrive Libero Quotidiano”. Non siamo i soli nella lista dei Paesi europei in cui si è registrato e perseguito il maggior numero di frodi a danno dei fondi europei. Con noi ci sono anche Bulgaria, Spagna, Belgio e, sorpresa, la Germania. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) presentato a Bruxelles, dal direttore, Giovanni Kessler. "Nel 2014 - si legge nel rapporto - si sono raggiunti risultati eccellenti nella lotta contro le frodi nell'Unione: un anno record con il numero di raccomandazioni più alto, ben 1417, dalla sua creazione. L'Olaf avvia, in media, il 60% di indagini in più rispetto al 2012. Solo nel 2014 ha raccomandato alle autorità nazionali della Ue il recupero di ben 901 milioni di euro, fondi che dovrebbero essere progressivamente restituiti al bilancio europeo, contribuendo a finanziare altri progetti". Complimenti da Kessler alla nostra Guardia di Finanza: "La nostra struttura ha con la GdF una cooperazione eccellente, ormai tradizionale, che ha portato ottimi risultati. Un rapporto molto forte e proficuo che spiega anche i tanti casi di indagini. Con loro s'è stabilito un circolo virtuoso di scambi di informazioni che purtroppo non troviamo in altri Paesi". Dall'Italia sono arrivate 42 segnalazioni di frode. Ma l'Oscar delle truffe spetta alla Romania, con 79 casi. In classifica Bulgaria (59), Spagna (56), Belgio e Polonia (52), Germania (35), Slovacchia (12). In Estonia e in Svezia non è stata invece riscontrata alcuna irregolarità è stata riscontrata.
Corruzione e tangenti: la Germania peggio dell'Italia. La Germania passa per essere un Paese onesto, corretto, inflessibile. Ma i numeri dicono il contrario: l'economia sommersa vale 351 miliardi di euro e le tangenti 250, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Essere tedeschi ha un vantaggio: si è sempre dalla parte della ragione. È una certezza che Manfred Weber, capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, aveva stampata in volto quando, replicando al discorso di inaugurazione del semestre di presidenza italiana dell’Europa di Matteo Renzi, gli ha rinfacciato di “chiedere soldi in cambi di riforme. E poi come facciamo ad essere sicuri che le facciate?” Dubbio legittimo, ma non sempre la Germania è quel monolite di etica che si vuol far credere. Ha un’immagine impeccabile e un volto sempre ben rasato, ma la Germania è molto più simile all’Italia di quanto Weber non creda. E lo è in un campo nel quale noi passiamo per specialisti, con un know-how consolidato: la corruzione. Forse Weber non ricorda un episodio interessante capitato il 15 aprile di quest’anno proprio al Parlamento europeo. Nikolaos Chountis, europarlamentare greco di Syriza (lista Tsipras), riceve dal tedesco Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e candidato del Pse alla presidenza della Commissione, una risposta che non s’aspettava. Un anno prima la Commissione europea aveva messo nero su bianco che tra i Paesi europei solo la Germania e l’Austria non avevano ancora recepito nel proprio ordinamento né la convenzione anti-corruzione europea né quella dell’Onu. Chountis prende carta e penna per chiedere a Schulz di sapere se l’Europa avesse fatto, o avesse intenzione di fare, pressioni su Berlino perché le adottasse. Voleva anche sapere quali fossero le giustificazioni della Germania per non averlo ancora fatto e se era vero quanto scritto dal settimanale tedesco Der Spiegel e, cioè, che il presidente della Confindustria tedesca, Ulrich Grillo, era coinvolto in una serie di pagamenti di tangenti in Grecia quando era a capo delle società Rheinmetall e Stn Atlas. Dopo un anno la risposta di Schulz è stata lapidaria: l’interrogazione “eccede le competenze della Commissione” quindi è “inaccettabile”. Se avesse voluto rispondere, Schulz avrebbe dovuto mettere sul banco degli imputati il suo Paese e approfondire verità imbarazzanti. Molto imbarazzanti.
Il sommerso di Berlino. Gli scandali Mose e Expo sembrano confermare la teoria “italiani popolo di mazzettari”. Una teoria che porta dritto dritto verso una specie di autorazzismo che vuole gli italiani “antropologicamente inferiori dal punto di vista etico” rispetto, ad esempio, alla Germania che passa per essere il Paradiso dell’etica pubblica. È così? Partiamo dai numeri. Uno dei più importanti studi che comparano l’economia sommersa dei Paesi europei viene pubblicato periodicamente a cura della Visa Europe, realizzato dalla società di consulenza internazionale At Kearney, con la supervisione scientifica di Friedrich Schneider, professore all’Università austriaca di Linz e massimo esperto continentale della cosiddetta “shadow economy”. I suoi studi e i suoi saggi sono alla base dei documenti dell’Eurostat e dell’Ocse che si occupano della materia. I risultati dello studio e il dato più importante è che, in valori assoluti l’economia sommersa tedesca è la più consistente di tutti i Paesi europei: 351 miliardi di euro pari al “nero” di Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Irlanda e Austria messe insieme e superiore di circa 20 miliardi al “nero” italiano che è stimato in 333 miliardi. Strano che la Germania passi per essere come l’Eden degli onesti, perché i dati non dicono questo: dicono che l'economia “non osservata” tedesca è la più grande d'Europa. Per “economia non osservata”, familiarmente chiamata in italiano “nero”, si intende sia l'economia criminale vera e propria sia, soprattutto, l'economia non criminale che sfugge ai controlli (in particolare del fisco) come, ad esempio, il lavoro non regolare, la mancata fatturazione o la sottofatturazione. Ma prendere i valori assoluti non basta: vanno messi anche in relazione al Prodotto Interno Lordo di un Paese perché è evidente che il 13% di economia sommersa della Finlandia non equivale allo stesso 13% di economia sommersa della Germania: infatti nel primo caso si tratta di appena 26 miliardi di euro e nel secondo di 351. L’Italia, avendo un’economia più piccola di quella tedesca, ha un rapporto sommerso/Pil più alto, cioè il 21% rispetto, appunto, al 13% tedesco. Il rapporto tra economia sommersa e Pil dell'Italia è uno dei più alti e, d’altra parte, gli scandali grandi e piccoli che emergono quotidianamente sono lì a dimostrare che siamo il Paese più corrotto d'Europa mentre la Germania passa per essere popolata da manager e dipendenti pubblici puri come gigli di campo.
Corruzione alla tedesca. Friedrich Schneider (unica fonte presa come riferimento in modo da non fare confusione con altre metodologie di indagine su un tema così difficile da maneggiare) ha valutato anche il peso della corruzione nei vari Paesi europei e il risultato è che, nel 2012, le mazzette tedesche hanno pesato 250 miliardi di euro rispetto ai 280 miliardi dell’Italia. La Corte dei Conti, però, valuta il valore della corruzione italiana in 60 miliardi, non in 280. Peccato, però che il dato dei 60 miliardi sia praticamente inventato perché sono il risultato di una proporzione tra il valore stimato della corruzione mondiale con il Pil italiano. Un esercizio di pura matematica senza nessuna base scientifica, ma che continua ad avere libera circolazione nel dibattito pubblico. Ma oltre alle statistiche economiche anche quelle giudiziarie, sono interessanti. Secondo un recente rapporto della Commissione europea le denunce per corruzione in Germania nel 2011 sono state 46.795: il triplo rispetto alle 15.746 dell'anno precedente. In Nord-Westafalia i casi sono passati da 6089 del 2010 a 40.894 del 2011. Ovviamente c'è una spiegazione. Se si va a vedere il testo originale del rapporto si scopre che decine di migliaia di denunce riguardano un caso di tangenti che ha coinvolto tutti i dipendenti, civili e militari, di una base militare britannica e che vede coinvolti i dipendenti di una concessionaria automobilistica in due distinti processi. Anche il dato del 2010 (15.746 casi) è influenzato da singoli casi specifici. Bisogna andare al 2009 (quando non ci sono stati casi anomali di corruzione che falsano il dato) per avere un numero affidabile ed è 6.354 denunce e va confrontato con quello del 2012: 8.175. Un bel numero, tanto più se si considera che mentre le denunce di crimini aumentano, le indagini diminuiscono: dalle 1.813 del 2010 si è passati alle 1.528 del 2011 fino alle 1.373 del 2012. Passiamo alle condanne: secondo l'Ocse tra marzo 2011 e il marzo 2013 di tutti i procedimenti anti corruzione, 33 sono stati archiviati per mancanza di prove mentre in 21 processi si è arrivati alla condanna nei confronti, complessivamente, di 141 persone. Di queste 141 persone, 43 sono state ritenute colpevoli di corruzione verso funzionari pubblici stranieri e questo significa che, secondo la giustizia tedesca, appena 138 persone in due anni sono state ritenute colpevoli di aver pagato tangenti all'interno della Germania. Un numero ridicolo se si pensa alla stima di Schneider secondo la quale le tangenti in Germania pesano per 250 miliardi ed è ancora più ridicolo se si pensa che in un solo anno, il 2012, le denunce per corruzione sono state, come detto, più di 8mila. Il confronto con i dati italiani è, a questo punto, d’obbligo. Nel 2011 le denunce per corruzione e concussione e abuso d’ufficio sono state 1820 (1.587 nel 2012, ultimi dati disponibili) mentre le persone condannate per peculato, malversazione, concussione, e corruzione sono state 800. In Italia si denuncia meno, ma si condanna molto di più. Come mai? Il rapporto della Commissione Europea sulla corruzione sembra mettere in relazione abbastanza diretta questa differenza tra denunce (molte) e indagini (poche) in Germania con il fatto che la magistratura tedesca, a differenza di quella italiana, è soggetta al potere politico. In alcuni specifici casi, infatti, il ministero della Giustizia di Berlino ha il diritto di “istruire” il magistrato titolare di un’inchiesta su come condurre le indagini e su quale particolare concentrare le sue attenzioni. E’, quindi, possibile che i magistrati tedeschi siano indirizzati dal governo a trascurare i casi di corruzione per concentrarsi su altri reati. E non sembra che questo stato di cose scandalizzi più di tanto i magistrati stessi: solo il 50% di essi, infatti, vorrebbe l’abolizione del potere di indirizzo delle indagini da parte del governo. Certo, quasi tutti gli indici di corruzione, stando al rapporto della Ue, sono migliori rispetto alla media europea, ma il rapporto fa notare che l'Ocse ha più volte chiesto alla Germania di rendere esecutive le sentenze (poche) che ricadono sotto il reato di corruzione visto che“la maggior parte delle sentenze vengono sospese”. Strano, è la stessa accusa che si rivolge all'Italia. Per di più il Greco, Group of States Against Corruption, nel suo rapporto sulla Germania del novembre del 2012, ha criticato il paese di Frau Merkel per le sue regole di finanziamento ai partiti poco rigorose (rafforzate nel 2013), per la corruzione dei parlamentari e per gli scarsi progressi nell'adozione delle raccomandazioni dell'organizzazione.
Il campionato di calcio più corrotto d’Europa. Quello tedesco non sembra un popolo “antropologicamente” onesto. Se l’Italia ha avuto Calciopoli, i tedeschi hanno avuto il “caso Bochum”, dal nome della piccola procura tedesca che, nel 2007, iniziò a indagare sulla Bundesliga. Ben presto l’inchiesta si allargò a tutta Europa portando alla luce tre partite della Champion’s League truccate e 323 incontri manipolati in diversi campionati europei 69 dei quali in Germania per un giro di mazzette di 12 milioni di euro a arbitri e dirigenti sportivi, oltre a 175 milioni di “premio partita”. Sono state arrestate complessivamente 347 persone quasi la metà delle quali residenti in Germania. Il processo tenutosi in Germania nel 2009 ha portato alla condanna di 3 sole persone (due a 5 anni e 6 mesi e una a 1 anno e 6 mesi), a 17 sanzioni disciplinari comminate dalle autorità sportive mentre 12 persone, a 5 anni dall’inizio delle indagini, erano ancora in attesa di una sentenza definitiva. Sempre a proposito della “società civile”: nel 2013 l’associazione dei medici tedeschi ha accusato mille propri iscritti di aver ricevuto regali (soldi, viaggi, beni di consumo) da case farmaceutiche per prescrivere ai loro pazienti farmaci dei quali, spesso, non avevano bisogno. Secondo il presidente dell’associazione Frank Ulrich Montgomery, intervistato dal settimanale tedesco Der Spiegel più della metà dei casi riguarda regali fatti dalla società israeliana Ratiopharm. Nel frattempo a Leipzig due primari sono stati sospesi perché scoperti a manipolare i file dei pazienti in attesa di trapianto in cambio di favori e casi simili sono stati scoperti anche a Gottingen, Monaco e Regensburg.
Deutsche mazzette. Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari. Nel 2009 scoppia anche il caso del colosso Man che paga 150 milioni di euro per risolvere un processo nel quale veniva accusata di aver pagato tangenti per vincere contratti, anche all'estero. Altri 500mila euro (andati in beneficenza) sono stati versati anche dall'allora amministratore delegato, lo svedese Hakan Samuelsson, che si è sempre dichiarato innocente. In seguito Samuelsson è diventato capo della Volvo, carica dalla quale si è poi dimesso. Ma, per dare un'idea di come si alimenta un luogo comune, il profilo di Samuelsson su Wikipedia non fa cenno né allo scandalo tangenti, né alla multa né ai veri motivi delle sue dimissioni da capo della Man, società che, sotto la sua guida, ha realizzato profitti record assicurandogli una remunerazione di 7,2 milioni di euro nel solo 2009.
Tangenti greche. Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l'affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euroche inizia una decina d'anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All'inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all'arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal. Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l'accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall'affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti”a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane. E si potrebbe continuare per ore: il presidente del Bayern Monaco finito in carcere per essere stato scoperto a pagare mazzette; la società Bilfinger accusata dagli Usa di aver pagato tangenti in Nigeria (multa di 32 milioni di euro); i dipendenti della Basf accusati di avere accettato soldi in nero da dei fornitori per beni e servizi poi non forniti, ma la differenza tra Italia e Germania è ormai chiara. Mentre da noi il problema è vissuto come un difetto “morale” che attiene al “carattere” nazionale, in Germania la corruzione è vista come un problema “amministrativo” per le aziende (che pagano per chiudere ogni pendenza) e penale per i suoi manager che (raramente) finiscono in carcere. Sui giornale tedeschi nessuno si sogna di accusare uno scadimento morale ma, piuttosto, si preoccupano che le mazzette, una volta scoperte, non interrompano la “normale” attività economica di una società.
La politica corrotta. La stampa tedesca, nel dare il giusto risalto a questi episodi, ha comunque un atteggiamento assolutorio verso i manager tedeschi. La tesi, in genere, è: non siamo noi corruttori che paghiamo le tangenti, sono i politici stranieri che sono corrotti perché le accettano, o le pretendono. Può essere. Ma secondo Markus Funk, copresidente della Aba's Global Anti Corruption Task Force, “negli anni recenti la Germania è stata seconda solo agli Stati Uniti in quanto a numero di casi di corruzione all'estero”. E, d’altra parte, anche i politici tedeschi, in quanto a scarsa trasparenza, non scherzano. A gennaio l’amministratore delegato delle ferrovie tedesche, Rudiger Grube, ha offerto al braccio destro di Angela Merkel, Ronald Pofalla, un posto in consiglio d’amministrazione (pagato 1 milione di euro l’anno) con il compito di occuparsi di relazioni istituzionali. Nulla di illegale, per carità, tranne che passare da capo di gabinetto del primo ministro a lobbista di una società pubblica non è quello che ci si aspetterebbe da un popolo “antropologicamente” etico. Anche le dimissioni del presidente federale Christian Wulff sono state raccontate come la decisione di un uomo integerrimo che, sopraffatto dal senso dell’etica, decide di abbandonare la poltrona per una piccole, umana, debolezza: essersi fatto offrire un soggiorno di pochi giorni all’Oktoberfest. In realtà Wulff è stato costretto a dimettersi nel 2012 perché ha tentato di depistare le inchieste giornalistiche che indagavano su una donazione di 500mila euro proveniente da un ricco amico della moglie quando era governatore della Bassa Sassonia. Wulff fu costretto a dimettersi non per un peccato veniale, ma perché in una corrispondenza, diventata pubblica, da presidente della Repubblica, ha praticamente minacciato l'editore della Bild che stava per pubblicare la notizia. Riguardo al caso Oktoberfest: quel soggiorno è stato pagato dal produttore cinematografico David Groenewold a favore del quale, successivamente, Wulff scrisse una lettera al Ceo della Siemens chiedendogli di finanziare un lungometraggio che l'amico stava producendo. Due anni dopo la sentenza del processo originato dall’ospitata fu di assoluzione: non è stata ravvisata alcuna relazione tra l'invito all'Oktoberfest e la lettera di raccomandazione e Wulff, assolto da tutte le accuse, ha scritto perfino un libro per raccontare la sua versione dei fatti. Un risultato, quello dell’assoluzione, non dissimile dai molti processi che hanno coinvolto politici italiani. Che, però in troppi hanno interesse a dipingere, loro e tutti gli italiani, come persone corrotte “dentro”.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Germania, il presidente si dimette, scrive "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2012. Il presidente tedesco Christian Wulff si dimette. E salta la visita di Angela Merkel a Roma. Prima che Wulff annunciasse di voler lasciare la carica, la Cancelliera ha annullato l'incontro con il premier Mario Monti, che avrebbe dovuto tenersi alle 12 a Palazzo Chigi, e quello con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il portavoce della Merkel, Steffen Seibert, però assicura che la cancelliera conta di poter organizzare «al più presto un nuovo incontro», possibilmente la settimana prossima. «I contatti con l'Italia rimangono molto stretti in questi giorni», ha sottolineato, in vista dell'eurogruppo sulla Grecia. Da metà dicembre il presidente della Repubblica tedesca è finito nel tritacarne mediatico per un prestito privato a tassi agevolati ricevuto dalla moglie di un uomo d'affari e per alcune vacanze pagate da ricchi amici, quando era ancora ministro-presidente della Bassa Sassonia, e per aver cercato di condizionare la stampa. Giovedì la procura di Hannover, nel nord della Germania, ha annunciato di aver chiesto l'annullamento dell'immunità per Wulff. «La Germania ha bisogno di un presidente che non ha solo il sostegno della maggioranza ma di una grande maggioranza di cittadini», ha spiegato Wulff a Bellevue annunciando le dimissioni. «Ho fatto errori ma sono stato sempre in buona fede. Negli ultimi mesi ho subito una serie di pressioni, da cui io e mia moglie siamo stati feriti». Wulff ha voluto ringraziare comunque tutti, ma soprattutto la sua seconda e attuale moglie, «da sempre convinta di una Germania moderna e audace e che mi ha dato sempre un grandissimo sostegno. E auguro al Paese - ha concluso - un futuro migliore in cui uomini e democrazia possano convivere al meglio». La Merkel ha preso atto con «dispiacere» e «rispetto» della decisione di Wulff di ritirarsi. «Wulff è della convinzione di essersi sempre comportato bene e nonostante tutto ha abbandonato sua carica perché non poteva più servire il popolo. Lo rispetto molto», ha detto la Cancelliera. «Sono convinta - ha aggiunto - che noi tutti dobbiamo ringraziare lui e la moglie per il loro impegno». La Merkel ha annunciato anche che «i partiti si riuniranno per trovare un accordo per un successore: vogliamo portare avanti i colloqui in maniera veloce per un accordo rapido sul prossimo presidente della repubblica», ha chiarito. Prima che Wulff parlasse, la Cancelliera aveva chiamato Monti per annunciare di dover rinviare la visita per «ragioni di politica interna». Si è trattato, si apprende, di una telefonata cordiale, durante la quale la Merkel ha assicurato di voler venire in Italia al più presto.
Germania, Bettina ritorna da Wulff, l'ex presidente riabilitato: e il Paese si commuove, scrive Fabio Morabito su “Il Messaggero” il 6 maggio 2015. Un mutuo più che agevolato, vacanze gratis, conti pagati da altri. In una sola parola: corruzione. Era stata una tempesta politica insolita in Germania, e mai avvenuta al livello della prestigiosa carica da Presidente della Repubblica. Christian Wulff, classe ’59, predecessore di Joachim Gauck, fu costretto tre anni fa a dimettersi da Presidente, travolto dalla scandalo di vecchie storie che si riferivano a quando era un politico di assai minor peso, governatore regionale della Bassa Sassonia. E si ruppe così l’immagine del Presidente più affascinante d’Europa, sempre elegante e con accanto una moglie bella come poche, Bettina, di 14 anni più giovane, sposata nel 2008. Bettina lo lasciò, non senza aver avuto anche lei la mortificazione di un gossip feroce, e sembrò la storia del politico abbandonato quando cade in disgrazia. Anche se Bettina, nel giorno delle lacrime, le dimissioni per scandalo, non abbandonò Christian, e aspettò che si spengesse la luce dei riflettori. Della separazione si è venuto a sapere dopo, e il divorzio (separazione dei beni, con figlio affidato a lei) è avvenuta nel giro di un anno. Nel frattempo però l’immagine di Christian Wulff si è ricomposta, e gli è stato restituito l’onore. Il 27 febbraio dell’anno scorso il tribunale di Hannover, che lo vedeva imputato per corruzione, lo ha assolto senza ombre. Peraltro della sfilza di accuse che lo avevano sbattuto in prima pagina per mesi, ne era rimasta solo una in piedi, un notte d’albergo a Monaco durante l’Oktoberfest (la festa della birra) di sette anni fa, quando Wulff era appunto governatore regionale, con il conto pagato da un suo amico, il produttore cinematografico David Groenewold. Ma anche quest’ultima accusa (secondo la procura, Wullf poi avrebbe aiutato l’amico ad avere un finanziamento per un suo film da un colosso privato delle comunicazioni) si è poi dissolta, riabilitando il presidente che, per un po’, era stato anche il più amato della Germania, definito anni fa «il fidanzato che tutte le madri sognano per le figlie». Ora questa vicenda ha un nuovo lieto fine. L’ultimo coccio si è ricomposto, e Bettina è tornata a vivere con l’ex marito. E l’ex presidente, che nonostante la riabilitazione non ha avuto il risarcimento di vedersi restituita l’immagine vincente di un tempo, ora torna a infiammare il gossip, ma stavolta per versare miele sulle ferite da rotocalco e social network. La bella moglie, fascino classico ma modernamente tatuata, è tornata accanto al marito riabilitato, e la pratica di divorzio è pronta per il cestino.
Germania si è dimesso Guttenberg il ministro della difesa: aveva copiato la tesi di dottorato, scrive Danilo Taino su "Il Corriere della Sera" il 1 marzo 2011. Alla fine ha lasciato. Il ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, stella nascente della Cdu si è dimesso a seguito del cosiddetto copygate. La notizia era stata anticipata dall'edizione online della Bild. Il quotidiano precisa che il ministro ha già consegnato le sue dimissioni alla cancelliera Angela Merkel. Termina così in maniera drammatica la vicenda nata dalla scoperta che il ministro della difesa aveva copiato gran parte della sua tesi di dottorato. Sulla vicenda era intervenuto di nuovo anche il presidente del Bundestag, il conservatore Norbert Lammert (Cdu), che già nei giorni scorsi era stato critico nei confronti di Guttenberg: il caso, aveva detto lunedì al quotidiano Mitteldeutsche Zeitung, rappresenta un «chiodo nella bara della fiducia nella nostra democrazia». Parole forti, che erano seguite alla pubblicazione di una lettera aperta indirizzata alla Merkel e firmata da circa 23 mila tra accademici, dottorandi e semplici cittadini: nella missiva si criticava la gestione della cancelliera, che fa una «parodia» del dottorato di ricerca. Se fino alla settimana scorsa Guttenberg era stato assediato solo dalle forze politiche d'opposizione, quindi, da oggi la pressione comincia a salire anche all'interno della coalizione di governo. «È la decisione più dolorosa della mia vita» ha detto il ministro della Difesa tedesco, Karl-Theodor zu Guttenberg, in una breve dichiarazione alla stampa dopo aver rassegnato le dimissioni dall'incarico. «Non si lascia facilmente un incarico che si è svolto con il cuore», ha aggiunto il 39enne Guttenberg nella sede del suo ex ministero, precisando che non si è dimesso per la vicenda in sé, ma perché il peso dello scandalo ricade ora su tutti i militari. Tutti i media focalizzano l'attenzione sulla sua persona e sulla sua tesi di dottorato, ha lamentato l'ormai ex ministro, invece di concentrarsi sui soldati feriti o uccisi in Afghanistan.
Un altro ministro tedesco nei guai. "La sua tesi? Era un copia-incolla". Un esperto di plagi accusa la compagna di partito della Merkel. È il terzo scandalo in pochi anni. Ma lei si difende, scrive Lucio Di Marzo Lunedì 28 settembre 2015 su “Il Giornale”. Non è la prima volta e neppure la seconda. In Germania il vizietto di copiare le tesi di laurea sembra avere colpito negli anni molti di quelli che poi hanno ottenuto un posto da ministri. È un esperto di plagi a puntare il dito questa volta, sostenendo che Ursula von der Leyen, titolare della Difesa, il suo lavoro l'abbia scopiazzato senza farsi troppi problemi. Il ministro della Cdu, partito della cancelliere Angela Merkel, ha "chiaramente oltrepassato il limite tollerabile" di citazioni, accusa Martin Heidigsfelder, che già aiutò a smascherare i plagi di altri due ministri. Nel testo di ginecologia con cui nel 1991 concluse il suo percorso accademico, all'università di Hannover, la von der Leyen, pare non esserci un granché di originale. "Il titolo di dottore le dovrebbe essere revocato, sostiene l'esperto. Ed è da capire cosa succederà ora. Quando nel 2013 il ministro dell'Istruzione Annette Schavan fu colta in flagrante dovette rassegnare le sue dimissioni e fu costretto a farlo anche un altro ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg, che lasciò quattro anni fa. Von der Leyen non ci sta però e ribatte che non è una novità "che attivisti su internet cercano di seminare dubbi sulle tesi di laurea dei politici". Oltre a rigettare le accuse, ha chiesto al suo ateneo di fare analizzare da un "garante neutrale" il suo lavoro, per fugare ogni dubbio.
Anche la Volkswagen bara, anche a Wolfsburg truccano i motori peggio di un pischello con le marmitte a espansione in borgata: ma siamo sicuri che siamo rimasti sbalorditi, stupefatti e dispiaciuti solo perché, è chiacchiera generale, così ci crolla il mito dell’affidabilità tedesca, del rigore teutonico, della serietà alemanna? Di chiede di Warsamè Dini Casali su “Blitz quotidiano”. Se proprio dobbiamo impiccarci alla corda del luogo comune, dovremmo dolerci, noi italiani, di non detenere più il record della frode immaginativa, della sòla artistica: il napoletano intrinseco che fa parte del carattere nazionale si esalta connivente o scrolla la testa disapprovando ogni volta che rivede Totò-truffa vendere al pollo americano la Fontana di Trevi? Dovremmo biasimare viceversa il mancato aggancio italiano alla sofisticazione tedesca che permette di truffare il mondo intero e potenzialmente attentare alla salute globale. Un software civetta nascosto nella centralina di un motore diesel è capace di capire se si guida anonimi e non visti oppure in presenza di un vigile testatore di emissioni nocive. Tecnicamente sembra che alla Volkswagen abbiano la tecnologia per fare una macchina segnala pizzardoni a distanza. La verità è che ruba, tira a fregare, prende scorciatoie proibite l’uomo in sé, senza targa o nazionalità che lo assolvano. Ieri i greci con i conti pubblici, benevolmente assistiti da funzionari e revisori compiacenti, tedeschi su tutti. Oggi tutti i produttori di motori diesel se, come risulta dai dati ufficiali, le vere emissioni di ossidi di azoto superano di sette volte lo standard Euro 6. Può essere utile lo scandalo Volkswagen per evadere l’angusto recinto dei preconcetti. Quello dove può nascere la triste associazione mentale tra Das Auto (lo slogan pubblicitario VW) e Gas Auto (titolo a 9 colonne de Il Tempo) in cui si allude ancora ai campi di sterminio, al lupo tedesco che non ha perso il vizio di gasare (tweet di Maurizio Bianconi, Forza Italia).
Scandalo Volkswagen, la Germania delle regole colpita al cuore. Merkel e quel passo indietro da fare. La casa automobilistica tedesca ha ammesso di aver falsificato i test sull’inquinamento, scrive Danilo Taino, corrispondente da Berlino, il 21 settembre 2015 su “Il Corriere della sera”. C’è il crollo dei titoli in Borsa. C’è la multa che sarà comminata negli Stati Uniti e potrebbe essere molto, molto alta. Ci saranno le conseguenze sul vertice e forse sugli assetti azionari. Nel caso dei dati truccati sulle emissioni di alcuni modelli in America, c’è però anche la perdita di prestigio per il gruppo Volkswagen. E, a dire il vero, non solo per la casa automobilistica: più in generale per la “Deutschland AG” che della correttezza, dell’affidabilità, del rispetto delle regole ha fatto negli anni non solo una bandiera ma anche uno scudo anticrisi. E che oggi si trova invece esposta in uno scandalo - perché di scandalo si tratta - nato proprio in quel gruppo che era fino a ieri il modello numero uno dell’industria tedesca e del suo modo di operare e conquistare i mercati. E c’è soprattutto un imbarazzo per la Germania stessa - a sentire molti commenti, a Berlino, compreso quello del ministro dell’Economia e vicecancelliere Sigmar Gabriel: se l’industria dell’auto è un orgoglio nazionale, la Volkswagen ne era l’avanguardia, con la sua collezione di oltre dieci marchi di prestigio e la sua continua espansione globale. Fino a ieri. Oggi è diventata un guaio in un momento delicato per il Paese. La questione non è formale. O di generico danno d’immagine. Da qualche tempo, soprattutto in occasione delle crisi europee in questo 2015, la Germania sta sviluppando una propria leadership. Magari non l’ha cercata, in buona parte le è stata imposta dagli eventi. Fatto sta che l’ha assunta e, soprattutto, l’ha caratterizzata con un concetto che per i tedeschi è indiscutibile: le regole si rispettano. Che il maggiore campione dell’industria nazionale, più volte sostenuto e protetto dal governo di Berlino proprio in tema di emissioni e di obblighi europei, abbia imbrogliato sulle regole fa vacillare la credibilità e la non negoziabilità dell’essere in toto e sempre in linea con le norme. L’accusa di essere rigidi con gli altri e furbi quando si viene ai propri comportamenti già sta circolando. Il gruppo dirigente della Volkswagen, a cominciare dal numero uno Martin Winterkorn, prenderà le sue iniziative. Che dovranno essere radicali, non una semplice inchiesta interna. Ma anche il governo di Berlino farebbe bene a non spendere, sul caso, solo parole. Questa è un’occasione per mettere più distanza tra la politica e il Big Business: quando la vicinanza è troppa, come sicuramente lo è da sempre tra Volkswagen e tutti i governi di Berlino, le aziende si sentono inattaccabili perché protette: onnipotenti e sopra le regole. Dovrebbe essere il resto dell’industria tedesca il primo a pretenderlo: una concentrazione esagerata di potere politico ed economico è sempre un danno per i mercati e per i consumatori. E anche Angela Merkel potrebbe fare una riflessione: questa volta, la vera leadership sta nel fare un passo indietro.
Heribert Prantl: "Un colpo al mito della Germania Superaffidabile". Il membro della direzione della "Sueddeutsche Zeitung" commenta a caldo lo scandalo Volkswagen: "Il caso è ancora più grave di quello del pilota suicida di Germanwings", scrive Andrea Tarquini su “La Repubblica”. "E' un grave colpo all'immagine della Germania come potenza attendibile. Il danno va ben oltre la sua dimensione economica e di mercato". Così Heribert Prantl, membro della direzione della "Sueddeutsche Zeitung", commenta a caldo lo scandalo Volkswagen.
Dottor Prantl, quanto è grave il danno d'immagine e di sostanza, non solo per Vw ma per il sistema-paese Germania?
"Lo scandalo è un duro colpo all'immagine del sistema-paese in generale e non solo per il colosso dell'auto che ne è protagonista. Ciò perché la Germania e le aziende tedesche hanno sempre avuto, nel dopoguerra e anche prima, dal Kaiser alla Repubblica di Weimar, la fama di Paese e di aziende che rispettano le regole in modo persino troppo puntiglioso. E che hanno successo anche per questo. Se adesso un'azienda globale simbolo della Germania manipola e trucca dati in tal modo come Vw è accusata di aver fatto, ciò significa una grande perdita di reputazione".
Solo per Vw o anche per il Paese?
"Sicuramente per l'azienda, ma probabilmente per l'intera industria dell'auto tedesca. Cioè per un comparto-chiave della prima economia europea".
Le indagini americane potrebbero avere conseguenze giuridiche per Vw anche in Germania: dunque danno d'immagine anche a casa?
"Sicuramente il danno colpisce anche a casa. Vedremo quanto sarà alta la multa che verrà imposta dalle autorità americane, credo avrà pesanti conseguenze sulle vendite in tutto il mercato americano e sui mercati internazionali. E per un'azienda-simbolo del sistema- Paese ci vorrà tempo e molto lavoro per riparare tale grave crepa d'immagine. Può darsi persino che le autorità americane dicano che il mercato avrà già punito abbastanza la Vw, a tal punto da rinunciare alla multa. Non sarebbe la prima volta che un big global player tedesco cade vittima della severa vigilanza Usa: è già successo con Daimler in passato. Credo che le autorità Usa non saranno così draconiane con Vw, ma il punto, insisto, è un altro: il danno che resta all'immagine dell'azienda e dell'affidabilità del sistema-Paese".
Accuse di truffa a un'azienda tedesca, non di altri Paesi più spesso ritenuti corrotti. Che significa per la fiducia del mondo nella Germania?
"Naturalmente il danno più grande è stato fatto alla fiducia. Il vertice di Vw dovrà faticare molto per restaurare la fiducia, e il danno fatto al Paese. Le prime reazioni sono state almeno di ammettere di essere dalla parte del torto".
Insisto, Vw è un simbolo del modello tedesco, il capitalismo sociale dal volto umano: quali danni a questo mito?
"I danni economici, ma anche politici e culturali, sono chiari e certo non da poco, perché appunto Vw è un simbolo dell'economia tedesca e del miracolo postbellico. Dovremo fare molta pulizia a casa".
Prima il pilota suicida di Germanwings, poi lo scandalo Vw: due colpi in un anno non sono tanti per il perfetto sistema- Paese Germania?
"Il caso del pilota suicida fu tragico: era malato e nessuno se ne era accorto. Ma questo secondo caso è molto più serio: mostra errori consapevoli e penalmente perseguibili dei top manager. Colpisce ben più pesantemente la reputazione della Germania. Eppure confido nella capacità del sistema di difendere il buon nome del suo capitalismo sociale e dal volto umano, alcuni manager criminali non distruggono il nostro modello. Però dobbiamo fare più attenzione alle regole, con umiltà rigorosa".
Tutti i trucchi tossici di Volkswagen, scrive Michele Pierri su “Formiche”. Chissà cosa sarebbe accaduto se al posto di un colosso tedesco ci fosse stata un’azienda italiana, magari la nuova Fca guidata da Sergio Marchionne. Invece ad essere colpita da uno scandalo di proporzioni internazionali è stavolta la Volkswagen, gigante dell’automotive dell’efficientissima – almeno sulla carta – Germania. Con un comunicato diffuso nella giornata di ieri, il gruppo di Wolfsburg ha riconosciuto l’uso intenzionale di software progettati per falsare la misurazione degli scarichi di gas dei veicoli diesel venduti negli Stati Uniti, con l’intento di aggirare gli standard ambientali del Clean Air Act. Un’eventualità che, sulla scia dello scandalo, ha spinto l’azienda a fermare la vendite delle vetture diesel quattro cilindri dei brand Audi e Vw negli Usa. In particolare le accuse riguardano circa 482.000 vetture diesel vendute negli Stati Uniti dal 2009: le Volkswagen Jetta, Beetle, Golf e Passat, e l’Audi A3. Cifre che hanno spinto l’ad Martin Winterkorn a scusarsi e ad annunciare l’avvio di un’inchiesta indipendente per chiarire l’accaduto e recuperare la fiducia di clienti e mercati, apparentemente compromessa. A testimoniarlo c’è in primo luogo il crollo del titolo, a picco sul listino di Francoforte, dove ha perso il 22%, bruciando in poche ore 16 miliardi di capitalizzazione, scendendo a 60,4 miliardi di euro. Mentre il rating “A”, con outlook stabile, che Fitch Ratings ha assegnato a Volkswagen potrebbe essere rimesso in discussione se questa crisi dovesse ulteriormente peggiorare. Non solo. “Visti i precedenti della concorrenza – ha spiegato Andrea Malan sul Sole 24 Ore -, “è possibile che lo stesso manager (o qualcuno dei suoi sottoposti) sia costretto a chiedere scusa in pubblico di fronte al Congresso, come era accaduto a Mary Barra di Gm e Akio Toyoda della Toyota. La prima per il caso dei blocchetti di accensione difettosi, per il quale Gm è stata colpita di recente dal dipartimento della Giustizia con una multa da 900 milioni di dollari; Toyota cinque anni fa, per lo scandalo dei veicoli che acceleravano improvvisamente senza che il conducente potesse frenarli”. La notizia giunge come un terremoto a pochi mesi dal vertice di Parigi sul clima di novembre e in un momento di massimo impegno sul tema da parte dell’amministrazione Usa, che si propone come leader mondiale della lotta al climate change. Elementi che lasciano presagire una misura esemplare. Secondo le previsioni dell’Ente americano per la protezione ambientale Usa (Epa), raccolte da Reuters, il gruppo tedesco rischierebbe infatti una multa di ben 18 miliardi di dollari. “Non mi stupirebbe affatto”, commenta a Formiche.net Ernst Ferrari, consulente delle concessionarie automobilistiche e in passato nel Gruppo Fiat. “Siamo di fronte a un fatto gravissimo, mai avvenuto a mia memoria”. In passato, ricorda l’esperto, “abbiamo assistito al ritiro massiccio dal mercato di milioni di prodotti con problemi. Ma mai ciò è dipeso, per ovvi motivi, dalla volontà dell’azienda. In questo caso siamo invece di fronte a una cosa ben diversa, una frode voluta, che forse non affosserà un gigante come Volkswagen, ma gli arrecherà di certo, come minimo, un colossale danno d’immagine, con conseguenze sul lungo periodo”.
Dopo giorni di smentite, lunedì 20 gennaio 2014, l’Adac, il potente Automobil Club tedesco (con oltre 19 milioni di iscritti il più grande d’Europa) ha ammesso di aver falsificato non solo i numeri del concorso di quest’anno per l’elezione dell’auto più amata dai tedeschi (che ancora una volta era risultata la Volkswagen Golf), ma anche dei concorsi precedenti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”. A rivelare la vicenda era stata la Süddeutsche Zeitung, martedì scorso, poco prima dell’assegnazione degli ambiti premi. La prima testa a cadere è stata quella del responsabile della comunicazione. Ma la bufera che ha travolto l’ente tedesco non è ancora finita. Inizialmente l’Adac aveva rispedito al mittente ogni accusa di manipolazione, bollato come «assurdità» e «scandalo giornalistico» ogni insinuazione riportata dai media. Ora, Michael Ramstetter, responsabile della comunicazione e direttore di Motorwelt (la rivista da 16 milioni di lettori che l’Automobil Club di Monaco di Baviera invia gratuitamente agli iscritti), è stato costretto a dimettersi da tutte le sue funzioni. Si è scusato ed ha ammesso che i voti ottenuti dalla Golf come auto dell’anno da parte dei lettori erano stati «gonfiati». Nel concorso «Gelber Engel» (che non ha nulla a che vedere con il «Car Of the Year»), infatti, sarebbero arrivati solo 3.409 voti alla Golf, non 34.299 come comunicato ufficialmente a dicembre, aveva raccontato la Süddeutsche Zeitung. Il numero dei voti espressi nella categoria dell’«auto più amata dai tedeschi» sono stati «gonfiati» e «abbelliti» per anni, ha confermato anche Karl Obermair, a capo di Adac. Le scuse di Ramstetter - che si è assunto «tutta la responsabilità» - sono arrivate quattro giorni dopo la sfarzosa cerimonia di premiazione che si è tenuta giovedì nell’ex residenza reale di Monaco. Il danno all’immagine e alla credibilità è enorme. Nessun ente ha mai goduto di tanta fiducia tra i tedeschi come l’Adac, scrive lo Spiegel. L’intera vicenda - aggiunge la rivista - è una questione di potere «e di cosa accade quando un ente si sente troppo potente». L’Automobil Club tedesco, infatti, si è trasformato negli anni in un vero e proprio colosso: gestisce di tutto, dalle assicurazioni ai tour operator fino al noleggio auto. Domenica, i responsabili a Monaco di Baviera hanno cercato di contenere lo tsunami spiegando che l’errore ha riguardato «solo» il numero assoluto di voti assegnati alla vettura premiata, mentre la classifica riguardante tutte le auto in concorso è rimasta invariata. Seccata da tanto clamore, la casa automobilistica più grande d’Europa, Volkswagen, che si è vista tirata in ballo. Un portavoce si è limitato a dire che Adac deve fare assoluta chiarezza, puntualizzando però che «naturalmente bisogna dare loro anche la possibilità di spiegare i fatti». «Continuiamo ad essere convinti che la Golf è l’auto più amata dai tedeschi», sottolineano da Wolfsburg. Alcuni esperti del settore automobilistico ora mettono in dubbio anche i test e le statistiche fatti in questi anni dall’Adac, come quelli sulla sicurezza dei tunnel o i crash test. Anche dalla politica si alzano le prime voci col ministro dei Trasporti tedesco, Alexander Dobrindt, che invita l’ente a «mettere tutte le carte in tavola».
Scandalo in Germania: Golf auto dell’anno con imbroglio. L’ammissione del capo comunicazione: per il premio “Angelo giallo” decuplicati i voti per la Golf, scrive Laura Lucchini il 21 gennaio 2014 su “L’Inkiesta”. Per i tedeschi è stato come svegliarsi un giorno da bambini e scoprire che Babbo Natale non esiste. O peggio ancora: che ruba. Quando la scorsa settimana un’inchiesta giornalistica ha denunciato la frode del club dell’automobile tedesco, l’Adac, nel concorso per l’auto dell’anno (da non confondere con il premio europeo Auto dell’anno, ndr), nessuno si aspettava che di lì a poco sarebbe crollato per sempre un mito. Il presidente del secondo club più potente al mondo ha ammesso stamane che per anni il concorso è stato truccato e i numeri gonfiati. Responsabile diretto sarebbe stato il capo della comunicazione, Michael Ramstetter: voleva rendere il premio più significativo e famoso nel mondo, secondo quanto ha confessato rassegnando le dimissioni. Per capire le dimensioni dello scandalo sono necessarie alcune premesse: con una imponente sede centrale a Stoccarda e 19 milioni di membri, l’Adac, l’equivalente dell’Aci in Italia, è il secondo club automobilistico al mondo, dopo quello statunitense. Il suo capo della comunicazione, Ramstetter, è allo stesso tempo direttore della rivista Motorwelt, la bibbia degli automobilisti, che vanta 16 milioni di lettori, molti più di Der Spiegel. Il club è formato da una associazione per gli utenti e 40 filiali che sono società di capitali: il fatturato complessivo del 2012 ha superato il miliardo di euro. Sono circa 8.500 i dipendenti in tutto il Paese. Con un potere simile, questa organizzazione è raramente oggetto di scandali che possano metterne in discussione il ruolo. Almeno fino ad ora. In occasione della consegna del premio «Angelo Giallo» — il colore simbolo — che si consegna all’auto più amata dai tedeschi per il 2014, i voti raccolti tra i lettori di Motorwelt sono stati vistosamente truccati. Infatti solo in 3.409 avrebbero scelto la Golf di Volkswagen contro i 34.299 dichiarati dall’influente pubblicazione. Dopo alcuni giorni di veementi smentite, Ramstetter ha internamente ammesso i suoi errori ed è stato licenziato con effetto immediato. Alla Süddeutsche Zeitung ha ammesso questa mattina di aver fatto «una porcata»: «Ho gonfiato i numeri per anni. Per questo traggo ora le conseguenze delle mie azioni». Ma lo scandalo non finisce qui. Il prestigioso premio esiste dal 2005 e non è certo un mistero che la sua consegna influenzi anche il mercato. Per questo l’Adac ha annunciato un’inchiesta interna. Una commissione analizzerà tutti i dati del sondaggio dalla prima edizione del premio nel 2005. Non sarà un compito facile perché, a quanto pare, molti dati sarebbero stati distrutti ad arte dopo la consegna del riconoscimento. Per l’Adac, l’affaire è una catastrofe di immagine: l’organizzazione vive della fiducia dei membri e dell’opinione pubblica nei suoi test e nei suoi consigli agli automobilisti. Lo ha ammesso il presidente dell’Associazione Karl Obermair questa mattina: «La credibilità e la fiducia sono i nostri valori fondamentali: proprio per questo gli eventi ci colpiscono profondamente». Nell’ammettere gli errori ha annunciato che comparirà di fronte alla stampa e ai rappresentanti del mondo dell’automobile tedesco per chiedere scusa. Lo stesso Obermair, la scorsa settimana, di fronte a 400 ospiti invitati, aveva descritto le accuse della stampa come «speculazioni senza senso» e aveva parlato di «scandalo per il giornalismo». Solo dopo la consegna del premio, messo sotto torchio dal presidente in persona, Ramstetter avrebbe mandato alla dirigenza un file excel con i veri numeri del concorso truccato. Poche ore ore più tardi veniva licenziato. Il presidente assicura ora che nessuno, ai vertici, avrebbe mai potuto immaginare cosa succedeva con il concorso. La stampa tedesca crede però che la frode fosse a conoscenza dei piani alti, altrimenti non si spiegherebbe la fuga di notizie alla Süddeutsche Zeitung. Lo scandalo è la prova di fuoco anche per il nuovo ministro dei trasporti, l’ultraconservatore bavarese Alexander Dobrindt che ha invitato il potente club a «mettere tutte le carte in tavola», solo cosí «potrà riconquistare la fiducia perduta». Per altri invece questa storia è solo all’inizio, il muro di silenzio sull’associazione si è rotto ed è lecito aspettarsi ulteriori scandali.
I trucchi dei crucchi. Lo scandalo Volkswagen travolge la Germania. (di Fiorenzo Caterini). La notizia è deflagrante. Eccola qua, tratta dal sito di Repubblica.it: Volkswagen nella bufera: ha truccato i dati sui gas di scarico. In pratica gli americani hanno scoperto il trucco. Nelle auto Volkswagen, e quindi anche nelle Audi, una centralina serviva a truccare i risultati delle emissioni. Scrive Repubblica.it: “…installando un software per aggirare gli standard ambientali per la riduzione dello smog nelle vetture Audi e Volkswagen a 4 cilindri prodotte tra il 2009 e il 2015. Si tratta di un software capace di rilevare quando la macchina è sottoposta ai test sulle emissioni, in modo da tenere attivo il sistema di controllo sulle emissioni solo in quel periodo di tempo. Negli altri momenti, è l’accusa dell’Epa, i veicoli inquinano molto più di quanto comunicato dalla casa produttrice. Il software è stato creato per nascondere l’emissione di monossido di azoto “. Incredibile. Non è ancora dato sapere se lo stesso stratagemma sia stato usato in Europa. Il colosso automobilistico tedesco, che proprio l’anno scorso ha superato per la prima volta la giapponese Toyota al vertice della graduatoria delle auto più vendute al mondo, è nell’occhio del ciclone, il suoi vertici si scusano, imbarazzatissimi, il governo tedesco promette inchieste, mentre il titolo va a picco. Ricordo che la Toyota, a sua volta, aveva nel 2012 superato al vertice della graduatoria mondiale l’americana General Motors, che si è trovata, dunque, a passare dalla posizione di leader indiscusso del mercato mondiale al terzo posto. Lotte tra titani, senza esclusione di colpi, a quanto pare. La VW aveva iniziato una politica molto aggressiva di espansione nel mercato americano, e forse non è un caso, che l’agenzia per l’ambiente americana, l’EPA, sia riuscita a scoprire il trucco. Non so perché, ma questa storia mi ricorda l’inchiesta della giustizia americana sugli imbrogli della FIFA, l’organizzazione mondiale del calcio guidata dallo svizzero Blatter, per l’affidamento del mondiale (una vetrina promozionale enorme che suscita molta apprensione in america) alla Russia. Uno scandalo gigantesco, com’è noto. Banalizzando, diciamo che gli americani, quando vogliono, sanno come difendersi. Ma se la Germania è sotto choc, anche in Italia, diciamolo pure, crolla un mito. Il mito della tecnologia tedesca, della stessa VW che in Italia gode di una vastissimo pubblico di estimatori e, più in generale, della integrità del Germania. Dopo le tangenti per le armi alla Grecia, corollario di una crisi che ha visto la Germania sotto accusa per la sua politica economica piuttosto aggressiva e speculativa, ora si scopre che una casa automobilistica nota per la sua serietà, utilizzava la famosa “tecnologia tedesca” per un imbroglio che, peraltro, incide pesantemente nella salute degli abitanti. In Italia ci è sempre piaciuto pensare che si, noi siamo un po’ cialtroni e imbroglioni, ma altrove no. Una sorta di rifugio psicologico dove coltivare l’illusione che in un altrove più o meno identificato con il nord Europa ci fosse una umanità redenta, efficiente e retta. Nicola Gratteri, magistrato e scrittore, uno dei massimi esperti della criminalità organizzata del mondo, in una recente intervista radiofonica, ha sostenuto che la corruzione, purtroppo, è diffusissima in tutto il mondo, anche in paesi insospettabili (citava il Canada e l’Australia come ambiti poco noti del riciclo del denaro sporco). Spesso il fenomeno emerge grazie a buone leggi e all’organizzazione di forze di polizia e magistratura abituati ad affrontare la criminalità. Ma spesso, in paesi insospettabili, il fenomeno resta sommerso. Chi studia antropologia sa, insomma, che esiste nel mondo una costante sincronica che si definisce come “sostanziale uniformità della psicologia umana”. In altri termini, è il vecchio detto: “tutto il mondo è paese”. (Si precisa che il termine “crucco” è usato nella sua accezione scherzosa. Cogliamo anzi l’occasione per salutare gli amici tedeschi che ci leggono).
Il falso mito della superiorità morale ed industriale tedesca, scrive Guido da Landriano. Cosa rivela il recente scandalo Volkswagen dell’industria tedesca? Che la decantata “Superiorità calvinista” tedesca, fatta di laboriosità, di sacrifici, di tante formichine parche nei consumi ed attentissime nella produzione NON ESISTE, è un parto di una comunicazione attenta e senza scrupoli tesa all’autocelebrazione, che i gonzi esterofili di tutto il mondo, soprattutto nostrani, ripetono come utili idioti. Del resto è noto che questi germanofili, adoratori sciocchi dell'“Ordoliberismo”, hanno schiena flessibile come il giunco e disposta a piegarsi al minimo alito di vento. Ci chiediamo dove sia la “Performance excellence” tanto decantata dai loro manager: sta forse nell’eccellenza nel barare, nel falsare i dati in modo da apparire superiori, quando assolutamente non lo sono? Oggi abbiamo visto lo scandalo Volkswagen, pensate che sia l’unico scandalo dell’industria teutonica? Allora vi ricordiamo qualche altro episodio recente: 2010 La Mercedes viene condannata ad una multa di 185 milioni di dollari da parte delle autorità USA per un vastissimo giro di tangenti mondiali, su un territorio di 22 paesi e con l’utilizzo di un giro enorme di conti off-shore. Questo scandalo coinvolgeva stati come la Tailandia, la Grecia, la Russia e l’Iraq. La Mercedes ha pagato e promesso di “Far pulizia”, il tutto per non far proseguire le indagini penali. 2015 13 manager della Siemens sono stati rinviati a giudizio in Grecia per corruzioni. Sarebbero stati accusati di aver pagato tangenti ai dirigenti OTE, la società telefonica greca, allora pubblica. Secondo il giornale inglese Independent ha denunciato l’invio di armi all’Arabia Saudita in cambio del suo appoggio all’assegnazione della Coppa del Mondo 2006 alla Germania. Ci fermiamo qui, ma potremmo andare avanti. La superiorità della Germania, basata sulla visione “Calvinista”, tanto decantata un secolo fa da Weber NON ESISTE PIU’, se mai è esistita. La Germania, che fa la morale a tutta Europa è anche lei sentina di corruzione, piegata agli interessi plutocratici di pochi disposti a qualsiasi cosa per arricchirsi ulteriormente. Insomma… alla fine il decadente SUD ed il moralista NORD non sono che la due facce della stessa medaglia di malaffare. Quindi cerchiamo ognuno di curare i propri mali e non prendiamo cattivi esempi da chi non ha proprio nulla da insegnare. Un po’ di dignità e di onesta, non ci vuole altro, e queste materie non si possono importare.
Germanopoli di Nino Sunseri su “Libero Quotidiano”. Caso Volkswagen: tutte le fregature che ci hanno rifilato i tedeschi. Il mito della perfezione industriale tedesca si è infranto su un motore a gasolio: un brevetto depositato il 23 febbraio 1892 a Berlino dal signor Rudolf Diesel. Per noi italiani sarebbe come dire che la pizza margherita l’hanno inventata gli svizzeri. Il governo di Washington ha accusato i vertici della Volkswagen di essere degli imbroglioni. Neanche fossero tanti Totò quando voleva vendere il Colosseo (sempre agli sprovveduti americani). Ma che vergogna per i tedeschi che si considerano i più grandi motoristi del mondo (e che godimento per noi la Mercedes di Hamilton che si spegne a Singapore e quella di Rosberg arrosto a Monza). L’agenzia Usa per la protezione ambientale ha stabilito che Golf e Audi emettono una quantità di biossido di carbonio eccessivo. E fin qui, tutto sommato, si poteva anche transigere: vedi mai che sulle 500 mila auto ritirate c’erano gli iniettori un po’ sporchi. Ma poi si scopre che il problema era in fabbrica e il costruttore non avendo saputo (o voluto) abbattere le emissioni aveva aggirato il problema montando un software con il compito di depistare i controlli. Un trucco che suscita indignazione anche nei quartieri spagnoli di Napoli o ai mandamenti di Palermo. Ora Vw rischia una sanzione da 18 miliardi. In questo complicato 2015 il mito dell’onestà e del senso di responsabilità sembra essere stato dimenticato dai tedeschi nei saggi di Max Weber. Perchè a luglio 2015 è stato annunciato il ribaltone alla Deutsche Bank, orgoglio della finanza di Francoforte. Entrambi gli amministratori delegati Anshu Jain e Juergen Fitschen sono stati licenziati. Il primo in tronco, il secondo dopo l'assemblea del prossimo maggio. In sostituzione John Cryan. Un manager inglese alla testa della prima banca tedesca che ha in pancia 54.700 miliardi di euro di derivati e se succede qualcosa la finanza mondiale diventa cenere. Le dimissioni arrivano dopo gli scandali costati due maxi multe (una di 2,51 miliardi di dollari in Usa e di una di 344 milioni di dollari a Londra) per presunte manipolazioni dei tassi interbancari, in particolare del Libor. Per non parlare del coinvolgimento in una vicenda di denaro sporco da parte di alcuni clienti russi. E vogliamo raccontare dei capitani felloni? Noi abbiamo Francesco Schettino. Loro Andres Lubitz che ha ammazzato 150 passeggeri nonostante fosse noto che non poteva più fare il pilota d’aerei. Da noi si sarebbe subito aperto il processo ai responsabili della negligenza. Non risultano, invece, dimissioni in Lufthansa da cui Germanwings dipendeva.
Un mito infranto, tedeschi sotto shock. Lo sconcerto è superiore a quello per i falsi diari di Hitler, scrive Angelo Allegri su “Il Giornale”. Come se agli italiani avessero toccato la Ferrari, Armani e tutto il made in Italy messo insieme. O come se l'imbattibile nazionale di Müller, Göetze e Özil fosse all'improvviso accusata di aver vinto gli ultimi mondiali dopo aver truccato le partite decisive. Ieri Angela Merkel ha invocato «piena trasparenza in una situazione difficile». E il ministro dei trasporti Alexander Dobrindt ha annunciato una commissione d'inchiesta governativa, che è gia pronta a recarsi al quartier generale della Volkswagen. Reazioni forti che però non rendono del tutto lo sconcerto che lo scandalo dei gas di scarico truccati ha provocato in Germania. Perché la vicenda ha toccato due simboli. A torto o a ragione i tedeschi dell'auto si considerano gli inventori. E non c'è ingegnere a Nord delle Alpi che non sia in grado di recitare a memoria la nazionale made in Germany della storia dell'automobile: Rudolf Diesel, Carl Benz, Gottlieb Daimler, Ferdinand Porsche (e si potrebbe continuare a lungo). Altra tradizionale fonte di orgoglio sono le cosiddette «virtù tedesche»: onestà, serietà, diligenza. Tanto più degne di nota se paragonate a quelle dei vicini del Sud. «L'Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero... Onestà tedesca ovunque cercherai invano», scriveva Goethe, a cui pure l'Italia piaceva non poco. Il risultato è che questi giorni sono destinati a rimanere nella memoria collettiva. Come e più di altre vicende: la bufala dei falsi diari di Hitler, presentati come veri dal settimanale Stern e poi rivelatisi frutto della creatività di un abile faccendiere; le spericolate operazioni finanziarie della Deutsche Bank, uno dei simboli appannati del potere economico tedesco. O come lo scandalo, che tanta indignazione ha provocato tra gli automobilisti tedeschi, dell'Adac, l'Automobile Club locale, che per darsi peso e importanza moltiplicava a dismisura gli iscritti. Robetta, in confronto a quanto sta emergendo ora sulla Volkswagen. E così il numero uno della Porsche, che pure appartiene al gruppo, ha dichiarato di essere «inc... nero». Politici ed economisti hanno parlato di «catastrofe per l'industria tedesca», con possibili ricadute non solo sull'occupazione nel gruppo Vw ma su tutto l'export del Paese. Il sito della Bild, termometro infallibile della sensibilità popolare, ha mantenuto per tutto il giorno come prima notizia il video del numero uno della società Martin Winterkorn che si profonde in umilianti scuse. Più pratico Bernd Osterloh, capo dei sindacati della Vw, che hanno fior di posti nel consiglio di sorveglianza del gruppo: «Ci saranno conseguenze personali, dovranno cadere delle teste». E le teste cadranno. Perché, e questa è un'altra differenza con i vicini del Sud, i tedeschi praticano poco la virtù del perdono. L'ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg aveva copiato parte della tesi e fu costretto a dare subito le dimissioni. Era il marzo 2011. Per un peccato tutto sommato veniale è, da allora, il paria più illustre della politica tedesca.
Truffe e corruzione: non solo Italia e Germania, ma tutta Europa….
BRUXELLES CORROTTA, EUROPA INFETTA.
Le mani di Cosa nostra sui terreni agricoli Cinque miliardi di fondi Ue sul piatto. Pressioni. Intimidazioni. Documenti falsificati. Per avere più appezzamenti. E ricevere più soldi dall'Europa. Grazie anche a una normativa inadeguata. Una docu-inchiesta racconta questo fenomeno sotto traccia. Che adesso rischia di costare all'Italia 400 milioni per la sua inerzia, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. A 82 anni suonati Gaetano Riina, fratello del più celebre Totò, resterà in prigione fino al 2022 per mafia ed estorsione. Eppure un cognome e una parentela tanto pesante non gli ha impedito di incassare fino a un decennio fa, quando aveva in mano le redini del mandamento di Corleone, oltre 40 mila euro di fondi europei destinati all'agricoltura. Riina junior non è solo. A Salvatore Seminara, ritenuto il reggente di Cosa nostra a Caltagirone fino al suo arresto nel 2009, è andata anche meglio: in una dozzina d'anni ha ricevuto assieme a sua moglie 700 mila euro di contributi Ue, un terzo dei quali grazie a contratti d’affitto di terreni agricoli ritenuti falsi dai magistrati. Bernardo Provenzano, invece, non ha potuto usufruire degli aiuti erogati da Bruxelles sotto forma di sostegno al reddito a favore di pastori, allevatori e contadini. In compenso, durante la sua decennale latitanza ha avuto modo di andare a caccia a Caltanissetta nei 300 ettari dell'azienda agricola dell'imprenditore Paolo Farinella. Pure questa finanziata, nemmeno a dirlo, con oltre 1 milione di euro dall'Unione europea. Tra fatti di sangue, l'ascesa della nuova borghesia mafiosa e traffici più redditizi, relativamente poca attenzione è stata riservata a uno dei più acuti canali di finanziamento della criminalità organizzata: le sovvenzioni comunitarie. Una torta che, solo per il programma di Politica agricola comune, vale a livello nazionale 50 miliardi, 5 dei quali in Sicilia. Una fetta così ghiotta da dare vita a pressioni fortissime sui veri agricoltori, spinti ad abbandonare i loro campi con minacce, intimidazioni e in qualche caso perfino gabbati da inesistenti atti di compravendita scoperti al momento della richiesta di contributi. Perché l'Europa, per un terreno di proprietà o anche solo preso in affitto, arriva a elargire oltre 1.000 euro per un ettaro. E quindi più terreni, più soldi. A raccontare questo fenomeno sotto traccia sono Diego Gandolfo e Alessandro di Nunzio con la docu-inchiesta "Fondi rubati all'agricoltura", vincitrice dell'ultima edizione del premio Morrione dedicato al giornalismo investigativo e in programmazione nel fine settimana al festival di Internazionale a Ferrara. Un affresco livido, che mette in luce inerzie, complicità, rassegnazione ma anche atti di eroismo quotidiano di chi non accetta di piegare la testa. Il documentario-inchiesta di Diego Gandolfo e Alessandro di Nunzio, vincitore del Premio Morrone e proiettato al Festival di Ferrara, che descrive come Cosa nostra abbia messo le mani sui fondi Ue per l'agricoltura. Possibile che un mafioso, anche con un cognome che non passa inosservato, riesca a incassare soldi senza colpo ferire? Sì, perché i controlli antimafia sono previsti solo per i contributi superiori a 150 mila euro. Insomma, basta fermarsi sotto quella soglia per evitare seccature burocratiche. Mentre i Centri di assistenza agricola dell'Agea, l'agenzia ministeriale che eroga i fondi europei, non sono tenuti a verificare la regolarità dei contratti d'affitto di chi richiede le sovvenzioni. Con risultati sorprendenti: grazie a funzionari compiacenti e prestanome, a Caltagirone un'organizzazione criminale è riuscita a ricevere denaro perfino dichiarando la proprietà di terreni della Diocesi di Agrigento e dell'aeroporto di Trapani. Le conseguenze di questo lassismo sono pesantissime. Non solo perché per la Corte dei conti ormai due terzi dei fondi rubati all'agricoltura sono diventati impossibili da recuperare. Ma anche perché Bruxelles accusa apertamente l'Italia di non essersi data abbastanza da fare. Nei mesi scorsi, in una lettera riservata al ministero delle Politiche agricole e all'Agea, la Commissione europea parla di “gravi carenze” riguardo i “controlli relativi alla gestione dei debiti e delle irregolarità” da parte risalenti agli anni precedenti al 2009. E per questo ipotizza una “rettifica finanziaria” di 389 milioni. Tradotto: la decurtazione dei fondi. Eppure, come in ogni storia che si rispetti, qualcuno si ostina a rifiutare quello che sembra il naturale corso delle cose. Anche a rischio della propria vita. Come Giuseppe Antoci, il presidente del Parco dei Nebrodi, la più vasta area protetta della Sicilia coi suoi 86 mila ettari, finito sotto scorta per aver bloccato le assegnazioni dei terreni e aver iniziato a richiedere il certificato antimafia agli affittuari. “Finirai scannato tu e Crocetta”, gli hanno scritto in una lettera minatoria. Sotto tutela è finito pure Fabio Venezia, sindaco di Troina, in provincia di Enna, il cui territorio - che ricade all'interno del Parco - ha 4 mila ettari di terreni. Il motivo? Aveva deciso di alzare i canoni di affitto dei poderi demaniali, dati da tempo immemore a prezzi stracciati sempre alle stesse famiglie. Anche perché nessuno, fra gli agricoltori della zona, ha mai osato presentarsi alle gare. Il giovane Sebastiano Ciciulla di Calentini (Siracusa), imprenditore agricolo poco più che ventenne, da mesi subisce invece le angherie e le minacce dei ras della zona, interessati alle sue terre al punto da avergliele fatte trovare recintate col filo spinato, come fossero loro. E poi c'è Emanuele Feltri, il coraggioso pastore catanese di cui l'Espresso è stato fra i primi a occuparsi, vittima di innumerevoli intimidazioni culminate con lo sgozzamento delle sue pecore. Sue le parole di commiato: «Questi fondi devono arrivare dove ci sono realtà che veramente hanno una visione chiara di sviluppo sostenibile, non a questi soggetti ambigui che alla fine non lasciano nulla alla nostra terra».
Quando la corruzione dilaga in Europa. Per dieci anni Bruxelles, capitale dell'Unione Europea, è stata controllata e gestita da una cricca: senza mazzette non era possibile entrare in alcun appalto. E il dilagare degli scandali ha portato al crollo della fiducia nelle istituzioni continentali, scrive con la sua inchiesta Gianluca De Feo su “L’Espresso”. È un tour tra gli edifici più importanti della città: dalla residenza reale al museo di belle arti, dagli uffici ministeriali alle carceri, dall'osservatorio astronomico al palazzo di giustizia. Per dieci anni a gestirli è stata una cricca: ogni appalto una mazzetta, altrimenti non si lavorava. Tutti sapevano, nessuno ha mai denunciato la rete criminale che ha trasformato il cuore del paese in una vera tangentopoli. Non stiamo parlando delle gang romana di Mafia Capitale, questa è Bruxelles: due volte capitale, del Belgio e dell'Europa. E due volte corrotta, nell'intreccio d'affari tra poteri locali e autorità continentali. Lo racconta "l'Espresso" nel numero in edicola da venerdì 2 ottobre, con un'inchiesta che analizza la metamorfosi dalle vecchie bustarelle al sistema delle lobby, capace di condizionare in profondità la reputazione dell'Unione. Senza correre rischi: gli investigatori Ue hanno poteri minimi mentre la giustizia belga appare lenta e inefficace. Nei 28 stati, il 70 per cento dei cittadini ritiene che la corruzione sia entrata nelle istituzione europee. E un sondaggio Demopolis evidenzia il crollo della fiducia, che si è dimezzata in 15 anni: oggi solo il 28 per cento degli italiani crede nella Ue. Una reputazione minata dall'incapacità di rispondere alla recessione economica e all'emergenza profughi, ma anche dai tanti conflitti di interesse irrisolti. Come quello del presidente Juncker sul sistema di tasse del suo Lussemburgo. «Finora la Commissione è stata passiva su questa materia», sottolinea Eva Joly, per anni il giudice istruttore più famoso di Francia ed ora eurodeputato verde: «La follia è che abbiamo al vertice dell'Europa l'uomo che ha arricchito il Lussemburgo grazie alle tasse rubate agli altri, con guadagni che continuano a crescere. Nel Parlamento i verdi hanno imposto la creazione di un comitato speciale: il primo rapporto sarà pronto tra un mese e sarà molto duro. Anche i conservatori ora hanno capito e c'è la volontà di piegare i paradisi fiscali: sono convinta che il Lussemburgo dovrà adeguarsi o uscire dall'Unione». "L'Espresso" passa in rassegna gli scandali degli ultimi anni, tra parlamentari che vendono emendamenti e un commissario dimissionario per una storia di mazzette da 60 milioni, evidenziando come gli organismi di controllo oggi appaiano divisi e demotivati. E manca anche la volontà di introdurre regole più rigide sulle lobby: «Nel Parlamento non esiste una maggioranza disposta a farlo», ammette l'eurodeputato Bart Staes. Mancano anche sanzioni efficaci contro chi inganna la legge, come è accaduto con il caso Volkswagen: «Questa è la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo, in cui si agisce tramite logaritmi che falsificano i dati dei computer: la realtà si riduce a schermate digitali, mentre Volskwagen otteneva fondi per produrre auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l'inquinamento che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il rispetto delle regole non è più un valore. Le nazioni che hanno costruito questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni».
Bruxelles corrotta, Europa infetta. Tangenti. Sprechi. Inefficienza. Istituzioni al servizio di lobby potenti e occulte. Ecco tutti i pubblici vizi della capitale. Che affossano la fiducia nell’Unione. Bandiere davanti alla Commissione Europea a BruxellesÈ un tour tra gli edifici più importanti della città: dalla residenza reale al museo di belle arti, dagli uffici ministeriali alle carceri, dall’osservatorio astronomico al palazzo di giustizia. Sono maestosi, coperti di marmi e statue a testimoniare la solidità della virtù pubblica. Eppure per dieci anni a gestirli è stata una cricca: ogni appalto una mazzetta, altrimenti non si lavorava. Tutti sapevano, nessuno ha mai denunciato la rete criminale che ha trasformato il cuore del Paese in una vera Tangentopoli. Non stiamo parlando delle gang romana di Mafia Capitale, questa è Bruxelles: due volte capitale, del Belgio e dell’Europa. E due volte corrotta, nell’intreccio d’affari tra poteri locali e autorità continentali. Qui non si decide soltanto la vita di una nazione lacerata dalle tensioni tra valloni e fiamminghi, ma il destino di mezzo miliardo di persone, cittadini di un’Unione che mai come in questo momento si mostra debole e inconcludente. Dall’inizio del millennio la fiducia degli italiani, come evidenzia il sondaggio Demopolis, è crollata e solo uno su quattro crede ancora nell’Europa. Bruxelles però è anche il laboratorio in cui la corruzione si sta evolvendo. La mutazione genetica delle vecchie bustarelle in un virus capace di intaccare in profondità la reputazione delle istituzioni europee, diffuso silenziosamente da quei soggetti chiamati lobby. Realtà estranee alla tradizione democratica dei nostri Stati nazionali e molto diverse dai modelli statunitensi, perché qui non ci sono leggi che le regolino, né sanzioni che le spaventino: le lobby sono invisibili e allo stesso tempo appaiono onnipotenti. Il simbolo è Place Poelaert, la grande piazza panoramica affacciata sul centro storico di Bruxelles. Da un lato c’è il palazzo di giustizia, con la cupola dorata che svetta sull’intera città: una muraglia di impalcature lo imprigiona da cima a fondo, soffocando le colonne dietro un gigantesco castello di assi che marciscono tristemente. Il cantiere dei restauri è abbandonato da otto anni, da quando i titolari sono stati arrestati, assieme ad altri 33 tra imprenditori e funzionari accusati di avere depredato l’intero patrimonio immobiliare statale. Proprio di fronte al palazzo della giustizia impacchettato c’è uno splendido complesso rinascimentale, con un giardino impeccabile. È la sede del Cercle de Lorraine, “the business club”, come recita la targa: l’associazione che raccoglie gli industriali più prestigiosi del Paese, baroni e visconti da sempre padroni del vapore assieme ai manager rampanti della new economy. Lì, tra sale affrescate e camerieri in livrea, promuovono i loro interessi. Insomma, sono una lobby. Una delle oltre seimila che presidiano la capitale europea, con più di 15 mila dipendenti censiti mentre altrettanti si muovono nell’oscurità. A Bruxelles il colore degli affari rispecchia il cielo perennemente coperto: si va dal grigio al nero. Non a caso, la frase magica della cricca degli appalti era «bisogna che il sole splenda per tutti». Oggi la città è tutta un cantiere. Sono centinaia. Dall’aeroporto al quartiere generale della Nato, dalla periferia al centro storico si vedono ovunque gru e ruspe all’opera. Per non essere da meno, anche il Parlamento europeo vuole abbattere l’edificio dedicato a Paul-Henri Spaak, completato nel 1993 con un miliardo di spesa: il progetto prevede altri 750 uffici per i deputati del presente e del futuro, rappresentanti delle nazioni che aderiranno all’Unione negli anni a venire. Se però dal Palazzo di Giustizia si va verso il Parlamento percorrendo la chaussée d’Ixelles, la frenesia cementizia si mostra in una luce diversa. La lunga arteria è stata completamente rifatta nel 2013, solo che al momento dell’inaugurazione c’è stata una sorpresa: i marciapiedi erano troppo larghi e gli autobus finivano per incastrarsi l’un contro l’altro. Hanno ricominciato da capo, di corsa. Appena riaperta al traffico, però, la pavimentazione allargata non ha retto al peso dei pulmann e si è riempita di buche, manco fosse Roma. E giù con la terza ondata di lavori: ora la strada sembra una chilometrica sciarpa rattoppata. Ixelles è un comune autonomo, perché Bruxelles in realtà è un insieme di diciannove piccoli municipi indipendenti, ciascuno con il suo borgomastro. In questo periodo il meno sereno è il sindaco di Uccle, che per undici anni è stato pure presidente del Senato belga. Come avvocato ha difeso una masnada di magnati kazaki, ottenendone l’assoluzione. In cambio ha ricevuto 800 mila euro. «Compensi professionali», ha spiegato Armand De Decker. Il sospetto invece è che la scarcerazione degli oligarchi sia il tassello di un intrigo internazionale: una clausola del patto segreto tra il presidente kazako Nazarbayev e l’allora collega francese Sarkozy per la vendita di elicotteri, in cui era previsto anche «di fare pressione sul senato di Bruxelles». Un’accusa formulata dagli inquirenti parigini, perché le procure locali si guardano bene dall’indagare. Gli investigatori belgi non hanno fama di efficienza né di indipendenza. La storia recente del Paese è costellata di scandali che si perdono nel nulla, tra trame occulte e massoneria: i parallelismi con l’Italia sono forti e anche qui prospera una cultura del sospetto, che porta i cittadini a diffidare della giustizia. L’inchiesta sulla tangentopoli capitale è partita nel 2005, le sentenze di primo grado ci sono state solo quattro mesi fa. I dieci dirigenti della Régie des Batiments, che per un decennio hanno intascato almeno un milione e 700 mila euro, se la sono cavata con condanne irrisorie. «I fatti sono gravi, ma ormai antichi», ha riconosciuto la corte. Questa giustizia lenta e spesso inefficace è anche arbitro di parecchi dei misfatti che avvengono nei palazzi della Ue. Sono le magistrature nazionali a procedere penalmente contro i corrotti, perché le agenzie europee possono minacciare soltanto sanzioni amministrative: la punizione massima è il licenziamento, una rarità, mentre più frequenti sono le retrocessioni di grado e soprattuto le lettere di richiamo. Di certo, non un grande deterrente per rinsaldare la moralità dei commissari, dei 751 deputati e dei 43 mila funzionari che gestiscono ogni anno oltre 140 miliardi di euro e scrivono leggi vincolanti per 28 Paesi. Mentre anche dalla loro onestà dipende la credibilità di un organismo sempre meno rispettato. L’istituto statistico più autorevole, Eurobarometro, due anni fa ha lanciato l’allarme: il 70 per cento dei cittadini ritiene che la corruzione sia entrata nelle istituzioni europee. Lo credono 27.786 persone, selezionate scientificamente per rappresentare l’intera popolazione dell’Unione. È un dato choc. La Commissione ha reagito annunciato una crociata contro le tangenti in tutto il Continente. Ovunque, tranne che nei suoi uffici: nel 2014 il primo rapporto anti-corruzione nella storia della Ue ha sezionato i vizi di ogni Paese, senza però fare cenno ai peccati dentro casa: quella che la Corte dei Conti europea ha definito nero su bianco «un’infelice e inspiegabile omissione». D’altronde la presidenza di Jean-Claude Juncker è cominciata nel peggiore dei modi. Le rivelazioni di LuxLeaks - pubblicate in Italia da “l’Espresso” - hanno messo a nudo il suo ruolo nel trasformare il Lussemburgo nel Bengodi delle aziende in cerca di tasse irrisorie. Per riscattarsi, Juncker ha promesso una sterzata contro l’iniquità fiscale legalizzata. «Ma finora la Commissione è stata passiva su questa materia», sottolinea Eva Joly, per anni il giudice istruttore più famoso di Francia, che ha portato alla sbarra i crimini delle grandi aziende, ed ora è eurodeputato verde: «La follia è che abbiamo al vertice dell’Europa l’uomo che ha arricchito il Lussemburgo grazie alle tasse rubate agli altri, con guadagni che continuano a crescere. Nel Parlamento i verdi hanno imposto la creazione di un comitato speciale: il primo rapporto sarà pronto tra un mese e sarà molto duro. Anche i conservatori ora hanno capito e c’è la volontà di piegare i paradisi fiscali: sono convinta che il Lussemburgo dovrà adeguarsi o uscire dall’Unione». Quello che Juncker costruito in Lussemburgo, a Malta lo ha realizzato John Dalli, il ministro che ha fatto dell’isoletta una piazzaforte finanziaria, graditissima agli investitori italiani più spregiudicati e ai miliardi rapidi delle scommesse. Poi nel 2010 Dalli è entrato nel governo dell’Unione: come commissario per la salute ha avuto in mano dossier fondamentali, incluso il via libera alle coltivazioni ogm. Finché la sua carriera non si è trasformata in circo. Letteralmente. Il suo vecchio amico Silvio Zammit, pizzaiolo e impresario circense part-time, è andato in giro chiedendo soldi per conto del «boss». Ha prospettato a una holding svedese la possibilità di spalancare il mercato europeo a un prodotto che piace molto agli scandinavi: lo snus, il tabacco da masticare. Una passione da pirati e cowboy, finora proibita nel resto della Ue, con potenzialità miliardarie: rimpiazza le sigarette anche dove il fumo è vietato. In cambio Zammit ha chiesto una somma niente male: 60 milioni di euro, poco meno della storica tangentona Enimont. La questione è arrivata sul tavolo dei detective dell’Olaf, l’unità antifrode europea guidata dall’italiano Giovanni Kessler. Con investigatori provenienti dalla Guardia di Finanza, perquisendo di notte l’ufficio del commissario, sono stati trovati «indizi plurimi» del coinvolgimento personale di Dalli. Nell’ottobre 2012 l’allora presidente Barroso ha obbligato il maltese alle dimissioni, firmate molto controvoglia. Tant’è che quando, dopo la sostituzione del capo della polizia, l’indagine penale nell’isola è stata archiviata, Dalli ha cominciato a sparare denunce dichiarandosi vittima di un’ingiustizia. E il parlamento ha criticato l’azione dell’Olaf: «Dal rapporto dei supervisori emergono molti dubbi sui metodi del nostro istituto antifrode più importante, che nei resoconti manipola le statistiche per presentare risultati migliori del reale», sancisce l’eurodeputato verde Bart Staes, membro di spicco del comitato che vigila sul budget, altro caposaldo del sistema di controllo. L’Olaf si è trovata ai ferri corti pure con la Corte dei conti, a cui ha contestato appalti oscuri. Che a sua volta ha rimandato le accuse al mittente. Insomma, un tutti contro tutti, con esiti abbastanza deprimenti per l’affidabilità dei custodi di Bruxelles. Oggi l’Europa sembra avere tanti cani da guardia litigiosi. E tutti con la museruola: abbaiano, ma non mordono. Il loro compito infatti si limita a suggerire provvedimenti. Fuori dai palazzi della Commissione, non hanno poteri e devono invocare l’aiuto delle polizie nazionali. Che - tra interessi patronali e differenze normative - non sempre collaborano. I detective europei hanno bisogno di un’autorizzazione pure per ascoltare i testimoni. All’Olaf ogni indagine è affidata a una coppia di ispettori, senza assistenti: si fanno da soli pure le fotocopie e passano più tempo a difendersi da tiro incrociato delle altre autorità che non a investigare. Il feeling che si respira è negativo, come se la lotta alla corruzione interna non fosse una priorità, anzi. Eppure i campanelli d’allarme non mancano, anche in Parlamento. L’ultimo a essere condannato due mesi fa è stato un ex deputato inglese, Ashley Mote, che ha rubato 355 mila euro grazie a rimborsi gonfiati. È stato uno dei primi eletti del movimento anti-europeo inglese: nei comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsificava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con la moglie del leader Nigel Farage - 4350 euro invece di 1350 - mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un reporter del “Sunday Times” si è finto lobbista, offrendo denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua società, tre deputati hanno abboccato subito. Due - un austriaco e uno sloveno - si sono dimessi e sono stati condannati in patria. Il terzo, l’ex ministro degli Esteri romeno Severin, è ancora al suo posto mentre l’istruttoria a Bucarest langue. Distinguere tra lobbisti veri e falsi non è facile. A Bruxelles è stato istituito un registro per queste figure, senza vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita. L’attivissima sezione europea di Transparency International un mese fa ha dimostrato che metà delle 7821 dichiarazioni ufficiali delle lobby erano «incomplete o addirittura insensate». E in tanti si sottraggono al censimento, a partire dagli studi legali: un’armata che esercita un’influenza nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria l’iscrizione al registro», spiega Carl Dolan di Transparency. «E bisogna vietare ogni contatto con chi non è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere però che in Parlamento non esiste una maggioranza favorevole al registro obbligatorio. Noi verdi, come i 5stelle italiani e alcuni esponenti socialdemocratici, ci stiamo battendo, molti invece sono contrari». Tra i palazzi delle istituzioni e quelli dei potentati economici ci sono tante porte girevoli. Si passa dagli uffici della Commissione a quelli delle corporation e viceversa. Figure come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura Ue che si occupa di mercati finanziari. O il caso sensazionale di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come presidente del comitato etico che dirime i conflitti d’interesse nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti, spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore. Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso. L’Ombudsman europeo, l’autorità etica più piccola e dinamica, apre un’istruttoria dietro l’altra. Senza spezzare la cortina di ferro che protegge gli intrallazzi. «Bisogna incrementare al massimo la trasparenza, deve esserci sempre una traccia scritta di chi interviene nelle discussioni interne», sintetizza Carl Dolan. I conflitti di interessi pullulano: nel 2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti europei con incarichi extra. Quelli sanzionati sono una ventina, quasi sempre con reprimende scritte o verbali. L’impunità è pressoché certa. Per anni il funzionario Karel Brus ha fatto sapere in anticipo agli emissari di due colossi dei cereali, l’olandese Glencore e la francese Univivo, i prezzi stabiliti dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie d’oro, che permettevano di investire a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che abbia incassato almeno 700 mila euro. Prima della condanna penale però sono passati dieci anni e il travet è sparito in Sudamerica. E per le due società c’è stata solo una multa: mezzo milione, un’inezie rispetto ai profitti. La Commissione ha in mano un’arma micidiale: può bandire le aziende corruttrici da tutti i contratti europei. Misura applicata solo due volte negli ultimi anni. Perché la volontà di fare pulizia sembra labile. Prendiamo il dieselgate di Volskwagen: gli uffici tecnici dell’Unione avevano segnalato i trucchi della casa tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia è rimasta lettera morta fino all’intervento delle autorità statunitensi. «Questa è la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo, in cui si agisce tramite logaritmi che falsificano i dati dei computer: la realtà si riduce a schermate digitali, mentre Volskwagen otteneva fondi per produrre auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni». In quello shoccante 70 per cento di cittadini che percepisce un’Europa corrotta si proietta una sfiducia più vasta. «È un dato che nasce dallo sconcerto per la debolezza della reazione davanti ai problemi: la crisi economica, il tracollo greco e adesso l’esodo dei migranti», commenta Bart Staes: «La gente sente i racconti sulle pressioni delle lobby, si diffonde il sospetto che l’Unione serva più per tutelare gli interessi economici che i cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen: quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti vengono risolti, allora avrà di nuovo fiducia». Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento troppo rapido dei confini, il confronto con un’economia globalizzata, la crisi dei modelli religiosi - all’epoca i nuovi culti importati nell’Urbe, adesso l’Europa cristiana alle prese con l’Islam - e il contrasto tra i privilegi dei patrizi e l’impoverimento dei ceti popolari, logorano le istituzioni democratiche. Un’analisi che riecheggia le parole scritte da Altiero Spinelli nel 1941, in quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e bancari... che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.
"Noi detective facciamo il massimo". Parla Giovanni Kessler, dal 2011 alla guida degli ispettori antifrode Ue dell'Olaf. Giovanni Kessler viene spesso indicato come l’italiano più potente negli uffici della Ue. In patria la sua carriera si è alternata tra magistratura e politica: pubblico ministero a Trento e Bolzano, con due anni da volontario a Caltanissetta per le indagini sulle stragi di mafia. Poi è stato eletto nel 2001 deputato, diventando poi uno dei costituenti del Pd e quindi presidente della provincia di Trento. Dall’inizio del 2011 è alla guida dell’Olaf, i detective antifrode dell’Ue, che vigilano sulla gestione dei fondi e sull’etica di tutta la vita comunitaria.
Kessler, il 70 per cento dei cittadini europei crede che la corruzione sia entrata nelle istituzioni Ue. Lei ritiene fondata questa percezione?
«Io credo che le istituzioni europee abbiano un sistema di controllo più avanzato che altrove e che funziona bene. Ci sono stati casi di frode e ce ne saranno altri che non conosciamo: non esistono organismi immuni dalla corruzione. Ma se ci fossero sacche profonde di malaffare lo sapremmo e non ci sono. Queste istituzioni sono sane e hanno qualcosa che non esiste in nessuno degli stati membri: l’Olaf, appunto. Siamo un servizio ispettivo indipendente: è questa la parola chiave, che lo rende diverso dalle altre strutture esistenti nel mondo».
Ma voi formalmente siete parte della Commissione, ossia del governo europeo.
«Noi amministrativamente facciamo parte della Commissione, io ho la qualifica di direttore generale, ma viene garantita l’indipendenza per tutto quello che riguarda la nostra attività di investigatori. Possiamo indagare su tutti gli organismi europei, incluso il parlamento. Non siamo generici ispettori: riceviamo notizie o agiamo autonomamente. Le istituzioni hanno l’obbligo di segnalarci sospetti di malversazione, ma anche i cittadini possono rivolgersi direttamente a noi, pure in forma anonima».
E avete poteri sufficienti?
«Il limite è che facciamo indagini amministrative, non abbiamo strumenti come l’accesso ai conti bancari per tracciare le transazioni sospette. Ma per quello che riguarda inchieste interne abbiamo poteri significativi. Ad esempio i commissari non hanno immunità nei nostri confronti: possiamo ottenere tutto quello che li riguarda, biglietti aerei, note spese, documenti. Possiamo persino entrare nei loro uffici, guardare nei cassetti e nei computer».
Le statistiche indicano che in questi anni la vostra produttività è aumentata considerevolmente.
«Nel 2012 abbiamo rivisto la nostra organizzazione. Oggi il numero di inchieste è raddoppiato mentre si sono ridotti i tempi medi. C’è stato un cambiamento di mentalità: cerchiamo di essere più orientati ai risultati, sempre nel rispetto delle procedure. Ossia alla conclusione dell’indagine, che porti all’archiviazione o a una incriminazione».
Si è parlato spesso di potenziare la vostra capacità operativa: un rapporto di Transparency international giudica insufficiente le vostre risorse.
«Un dirigente dirà sempre che vuole più risorse, infatti le ho chieste in tutte le sedi. Credo però che quella che abbiamo raggiunto in questi anni sia la nostra “velocità di crociera” e mi chiedo se può avere un senso aumentarla ancora. L’Olaf dispone di circa 300 persone per l’attività investigativa, se anche avessi il doppio del personale, sarebbe sempre una goccia rispetto alle dimensioni dell’Europa».
L’indagine sul commissario Dalli è stata la più importante. Però dopo questo successo siete stati voi a finire sotto accusa. Alcuni deputati hanno chiesto persino le sue dimissioni.
«Non mi aspettavo certo una simile reazione. Il dibattito si è spostato dalle aule del tribunale al parlamento, dove siamo stati contestati da alcuni settori. Immagino che possa avere contribuito il rendersi conto per la prima volta che l’Olaf è realmente un potere autonomo, che non si può imbavagliare in alcun modo e che può avere un ruolo determinante nella lotta alla corruzione. Ma in questa vicenda ho notato l’assenza di un’opinione pubblica europea che facesse sentire il suo peso. È stato accertato che Dalli ha avuto incontri nascosti con i rappresentati dei produttori di tabacco, vietati dai codici Ue».
Lobby e consulenze, il record europeo di Soru. I numeri dell'Integrity Watch di Transparency International fotografano lo stato del lobbismo in Europa. E nella lista nera finisce l'ex presidente della regione Sardegna, continua “L’Espresso”. E le aziende italiane come fanno lobby in Europa? L’unico modo per tentare una radiografia sono i dati sugli incontri condotti dai lobbisti con commissari e alti dirigenti della Ue, che vengono censiti dallo scorso dicembre. Il monitoraggio è possibile grazie al sito Integrity Watch di Transparency International. Che spiega come fino a luglio la più attiva sia stata Confindustria, con 14 meeting nel carniere e 12 rappresentanti autorizzati a entrare in Parlamento mentre i dipendenti schierati nella capitale sono solo 9. Più tesserini che persone? Forse i badge sono stati richiesti per i vertici italiani dell’associazione industriali o forse per consulenti tecnici. Nella hit parade troviamo società di energia, acciaio e banche assieme a Mediaset. Fiat Chrysler ha avuto solo due colloqui di alto livello europeo e schiera due addetti a Bruxelles. Una pattuglia ridotta. Ma la compagnia di Sergio Marchionne, che si presenta come registrata a Londra, ha un cuore che batte negli Usa, nonostante solo due anni fa abbia ottenuto sei milioni dalla Ue per un programma di ricerca. Tra gli europarlamentari, invece, lo stesso osservatorio punta un faro su Renato Soru, ex presidente sardo e fondatore di Tiscali, che è al quinto posto assoluto per mole di incarichi esterni. È stato incluso in una lista nera di nove deputati contestati per i rapporti economici con compagnie di pubbliche relazioni o associazioni industriali. Il polacco Michal Boni per esempio ha omesso di dichiarare le sue consulenze per il colosso della lobby dal nome evocativo di Lewiatan. Ma chi tace non corre rischi. L’ex ministra francese Rachida Dati viene attaccata per il silenzio sui nomi dei clienti che arricchiscono il suo studio legale mentre siede in Parlamento. E uno degli eletti in Belgio si è scordato di rendere nota la proprietà di stock option per cinque milioni di euro: un vero sbadato.
Così l'Italia regala i fondi europei ai big delle consulenze. Le multinazionali Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers fanno il pieno di fondi strutturali. Con risultati spesso non all'altezza delle parcelle da record, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. L’Italia, si sa, non è brava a spendere i fondi strutturali europei. È però bravissima a utilizzarli per pagare consulenze, a volte con procedure che riducono al minimo la concorrenza e fanno felici quasi sempre le stesse aziende. Due, per la precisione: Ernst & Young e Pricewaterhouse Coopers.
I numeri aiutano a comprendere il fenomeno. Di tutti i fondi strutturali ricevuti dall’Unione europea per lo sviluppo del Mezzogiorno, ne abbiamo spesi più in consulenze che per settori cruciali come il turismo e la cultura. Il dato emerge dai documenti della Ragioneria dello Stato sui fondi europei assegnati a Roma dal 2007 al 2013, l’unico periodo su cui finora sono state pubblicate cifre definitive. Dei 31,4 miliardi da spendere in questi sette anni con l’obiettivo ufficiale di sviluppare il Sud, il 3,3 per cento è andato a quella che viene definita “assistenza tecnica”. Tradotto dal burocratese: la consulenza è costata un miliardo di euro. Spesa che, in teoria, un senso ce l’avrebbe. Per usare al meglio gli aiuti europei, regioni e ministeri si possono infatti affidare a società esterne che hanno competenza in materia. Nella pratica non funziona sempre così. Lo dicono i risultati ottenuti finora. E lo fanno capire ancora meglio due bandi di gara recenti. Uno, pubblicato a maggio dal ministero dell’Interno, cerca consulenti per migliorare il sistema di accoglimento dei richiedenti asilo. Vale 13,4 milioni di euro, quasi l’equivalente di quello che l’Unione europea spende in cinque mesi per l’operazione di pattugliamento del Mediterraneo chiamata Triton. L’altro bando per la consulenza, aperto a luglio dal ministero dell’Istruzione, promette 48 milioni di euro, che possono salire a 81,6 milioni senza ulteriore gara, per un progetto di innovazione scolastica. Di strano c’è che nessuna delle due offerte richiede esperienza specifica nella gestione del problema oggetto di gara. Entrambi i bandi impongono però come condizione necessaria un “fatturato specifico”. Cifre alte: nel primo caso dev’essere pari a quasi 10 milioni di euro, nel secondo addirittura a 24 milioni. L’anomalia sta proprio qui. Significa che può vincere la commessa solo chi ha già fatto soldi (e tanti) con la consulenza sui programmi finanziati dall’Ue, e poco importa se quella consulenza non aveva nulla a che fare con i migranti o la scuola. Una stranezza italiana, dimostra uno studio della Confindustria: il fatturato specifico è richiesto nel 90 per cento delle gare bandite da noi, mentre nel Vecchio Continente la media è del 18 per cento. Il risultato è che i possibili vincitori dei ricchi contratti appena offerti dai ministeri guidati da Angelino Alfano e Stefania Giannini sono, appunto, due: Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers. Si tratta di colossi del settore, multinazionali con base a Londra e sedi in ogni angolo del globo. L’alta probabilità che siano loro a vincere dipende dai numeri. Solo queste due società possono infatti vantare fatturati specifici del genere. Perché sono loro ad aver fatto finora la parte del leone nella spartizione delle consulenze sui fondi europei destinati all’Italia. Lo dicono i dati pubblicati dal governo sul sito opencoesione.gov.it. Si legge che PricewaterhouseCoopers ha incassato dal 2007 al 2013 circa 42 milioni di euro, Ernst & Young è arrivata a fatturare più di 44 milioni. Cifre enormi, rispetto a quelle incamerate dai concorrenti (a cui non rimane che consorziarsi per cercare di raggiungere le soglie di fatturato richieste). E il merito non è solo dei concorsi tagliati su misura, a volte è anche dei continui rigonfiamenti dei costi. Come nel caso di una gara bandita nel 2009 dal ministero dell’Istruzione, il cui valore è passato in meno di tre anni da 26 a 47 milioni di euro. Praticamente raddoppiato grazie ai ritocchi decisi da alcuni dirigenti di Stato. Ad aggiudicarsi l’appalto, sul quale la Procura di Roma ha avviato un’indagine, è stato un consorzio di cui fa parte Ernst & Young. Sulla vicenda dovranno fare chiarezza i magistrati romani, ma di certo i dati dimostrano che in Italia vale una regola particolare: consulente che vince non si cambia. Un sistema che ostacola la concorrenza. E non aiuta a risparmiare fondi pubblici, né a usare bene i pochi soldi che otteniamo dall’Europa per la crescita del malandato Sud.