Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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1968
LA TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA
DI ANTONIO GIANGRANDE
INDICE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PRESENTAZIONE DELL’ARGOMENTO.
SCUOLA ED UNIVERSITA’: ISTRUIRE ED EDUCARE LE MASSE.
PROFETI E CATTIVI MAESTRI.
PLASMARE LE MASSE. LA SCUOLA DI FRANCOFORTE.
IL SENSO DEI FRANCESI PER LA RIVOLTA.
1968: COSA SUCCESSE...
1968: NASCONO GRILLISMI E POPULISMI.
IL '68 VISTO COME UNA RIVOLUZIONE E/O COME UN SUCCESSO.
IL '68 VISTO COME UNA FREGATURA E/O COME UN FALLIMENTO.
CHI HA FATTO CARRIERA PER IL ’68.
IL SESSANTOTTO ED I SERVIZI D’ORDINE.
IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.
I FIGLI DEGENERATI DEL '68: IL TERRORISMO.
IL '68 ED IL SINDACATO.
1968 ED IL GIORNALISMO PEDAGOGICO.
LA MORALIZZAZIONE DEL '68: POTERE AI COMPAGNI MAGISTRATI.
IL FEMMINISMO E LE RAGAZZE DEL '68.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.
Sono un guerriero e non ho paura di morire.
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.
Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
PRESENTAZIONE DELL’ARGOMENTO.
Sessantotto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Sessantotto (o movimento del Sessantotto) è il fenomeno socio-culturale avvenuto nel 1968 nel quale grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, attraversarono quasi tutti i Paesi del mondo con la loro forte carica di contestazione sui pregiudizi socio-politici. La portata della partecipazione popolare e la sua notorietà, oltre allo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto e intenso, contribuirono a identificare il movimento col nome dell'anno in cui esso si manifestò (o fu più attivo). Il Sessantotto è stato un movimento sociale e politico che ha profondamente diviso l'opinione pubblica e i critici, tra chi sostiene sia stato uno straordinario momento di crescita civile (che abbia portato ad un mondo «utopicamente» migliore) e chi sostiene invece sia stato il trionfo dell'asineria, che rovinò la società italiana, e del conformismo di massa in cui i figli della borghesia avrebbero voluto abbattere il sistema borghese.
Il movimento nacque originariamente a metà degli anni sessanta negli Stati Uniti e raggiunse la sua massima espansione nel 1968 nell'Europa occidentale col suo apice nel Maggio francese. A Berkeley, nel 1964, l'università californiana, i cui aspetti elitari più avanzati sono uno dei simboli della società statunitense, scoppiò una rivolta senza precedenti. Il contagio fu immediato. Nei campus americani la protesta giovanile mise insieme classi, ceti, gruppi, investì la morale e i rapporti umani. Gli studenti si schierarono contro la Guerra del Vietnam, a favore delle battaglie per i diritti civili e alle filosofie che esprimevano il rifiuto radicale verso un certo stile di vita. Al contempo, alcune popolazioni del blocco orientale si sollevarono per denunciare la mancanza di libertà e l'invadenza della burocrazia di partito, gravissimo problema sia dell'Unione Sovietica che dei Paesi legati ad essa. Diffusa in buona parte del mondo, dall'Occidente all'Est comunista, la «contestazione generale» ebbe come nemico comune il principio di autorità come giustificativo del potere nella società. Nelle scuole gli studenti contestavano i pregiudizi dei professori e del sistema scolastico scarso e obsoleto. Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l'organizzazione del lavoro. Facevano il loro esordio nuovi movimenti che mettevano in discussione le discriminazioni all'etnia. Gli obiettivi comuni ai diversi movimenti erano il miglioramento della società sulla base del principio di uguaglianza, l'anti corruzione della politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l'eliminazione di ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale.
Il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Il movimento americano per i diritti civili aveva costituito, fin dall'inizio degli anni sessanta, il prototipo di questa dinamica. Nato nelle Università del Nord degli Stati Uniti, il movimento studentesco si era dato come obiettivo essenziale la piena attuazione di quella democrazia promessa alla fine del conflitto mondiale garantito dalla Costituzione americana ma non attuata come promesso, in quanto piena di corruzione che tollerava la persistenza della segregazione razziale negli Stati del Sud, reprimeva le forme di opposizione al sistema corrotto e dittatoriale (come evidenziato dal recente fenomeno del maccartismo contro i comunisti e, più in generale, dall'avversione talvolta violenta nei confronti degli stili di vita alternativi) e favoriva il militarismo. Negli Stati del Sud, negli anni cinquanta era venuto maturando un movimento nero per l'eguaglianza, promosso dalle comunità di colore. Uno degli atti più significativi fu il boicottaggio degli autobus di Montgomery, Alabama, lanciato nel 1955 per protesta contro la segregazione delle razze. Nel 1959 la Corte Suprema americana ordinò la fine della segregazione nelle scuole: si trattò di uno dei più importanti risultati conseguiti dal movimento. A questo punto si temeva che lo sviluppo del movimento nero portasse alla fine dell'esclusione di fatto della popolazione di colore dal voto, praticata in tutto il Sud, con l'aiuto dell'organizzazione violenta e razzista del Ku Klux Klan. In appoggio al movimento nero del Sud, gli studenti di molte università del Nord degli Stati Uniti diedero inizio alle «marce al Sud», massicce campagne d'invio di militanti – la maggior parte dei quali bianchi – durante l'estate, con il compito di proteggere il diritto di voto della popolazione nera. Come risposta vi furono numerosi assassinii e linciaggi, mentre i tradizionali leader politici assumevano posizioni di aperto sostegno alla violenza. Nonostante tutto, il movimento ottenne significativi successi politici, contribuendo al superamento della segregazione. A partire dal 1963-1964 le agitazioni dei neri si svilupparono rapidamente anche nelle grandi città del Nord degli Stati Uniti. Qui però il problema non era la segregazione istituzionale: la rivendicazione della piena uguaglianza coi bianchi infatti, non si accompagnava (come nel movimento per i diritti civili del Sud) con la volontà di un'integrazione sociale totale nella «comunità dei bianchi», ma al contrario voleva preservare la diversità e la specificità, culturale e sociale. Eguaglianza e diversità, soppressione dei privilegi bianchi ma autogoverno dei neri nella loro comunità.
La nascita della «Nuova Sinistra». L'espressione «Nuova Sinistra» (New Left) nacque nel 1960 dal sociologo americano Charles Wright Mills, uno degli intellettuali che più influenzarono i movimenti giovanili. Gli elementi di novità nei movimenti giovanili erano vari e molteplici. Innanzitutto era ritenuto estremamente importante il riferimento alle lotte dei popoli del Terzo mondo, alle rivoluzioni del mondo arabo, dell'Asia e di Cuba. Mentre l'Unione Sovietica era ritenuta, insieme con gli Stati Uniti, un ordine da abbattere. La nuova sinistra rifiutava la convinzione, comune alla sinistra politica tradizionale, secondo cui l'evoluzione storica lavorava necessariamente in favore dell'emancipazione del proletario (idea simile a quella ottocentesca di progresso) e dei popoli oppressi. Il timore di una razionalizzazione capitalistica che integrasse i ceti proletari dei paesi avanzati nello sfruttamento dei popoli del Terzo mondo, sopprimendo ogni spazio reale di dissenso e di libertà personale, rendeva la ribellione una necessità morale oltre che un compito politico. Infine la nuova sinistra era assai diffidente nei confronti dell'organizzazione di tipo leninista e stalinista e proponeva forme di agitazione e di aggregazione che valorizzassero la partecipazione di massa ai processi decisionali. Nel corso degli anni sessanta, mentre negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili prima e l'opposizione studentesca alla guerra del Vietnam poi facevano delle organizzazioni come la Students for a Democratic Society (SDS), una forza politica di grande peso, o il Peace and Freedom Party (PFP), in Europa il movimento della «Nuova Sinistra» toccava un'area minoritaria ma crescente. Le agitazioni promosse dai movimenti giovanili si diffusero in vaste aree del pianeta tra la fine del 1967 e l'autunno del 1968. Francia, Cecoslovacchia e Germania Ovest furono attraversate da crisi politiche di vasta portata: in Polonia questo periodo segnò l'inizio di movimenti destinati a svilupparsi ulteriormente in seguito.
La morte di Che Guevara. Nell'ottobre 1967 i militari boliviani annunciarono la morte di Che Guevara. Leader della rivoluzione guerrigliera assieme a Fidel Castro a Cuba e poi, dopo la vittoria della rivoluzione, Ministro dell'Economia del nuovo regime socialista, si era allontanato dall'isola l'anno precedente per iniziare una nuova rivoluzione nelle montagne della Bolivia. Nella primavera del 1967 era stato reso noto un suo appello ai rivoluzionari del mondo, dal titolo Creare due, tre, molti Vietnam. Compito dei rivoluzionari, secondo Che Guevara, era affiancare il Vietnam con numerosi altri movimenti insurrezionali in tutte le aree del mondo, che vanificassero l'azione «di polizia» della superpotenza americana, garantendo la vittoria del Fronte nazionale di liberazione in Vietnam e la sconfitta dell'imperialismo statunitense. La morte da guerrigliero in territorio boliviano nel 1967 contribuì a fare di Che Guevara un simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione. La sua tensione ideale divenne un esempio di utopia rivoluzionaria che contraddistinse la protesta studentesca europea alla fine degli anni sessanta. A partire dal novembre 1967, in diversi Paesi europei si diffusero agitazioni studentesche: dapprima concentrate nelle Università, che vennero occupate e dove il movimento tentò di dar vita a forme di «controeducazione alternativa» a quella ufficiale attraverso volantini ciclostilati, l'opposizione «extraparlamentare», come all'epoca veniva definita, progettava di investire progressivamente l'intera società a partire dalla base stessa.
Il movimento negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti le lotte si polarizzarono contro la Guerra del Vietnam; ad essa si combinarono le battaglie dei neri per il riconoscimento dei loro diritti civili e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. In questo contesto negli Stati Uniti nacque il movimento dei cosiddetti hippy, parola di gergo che voleva dire «uno che ha mangiato la foglia», in seguito ribattezzati «figli dei fiori», poiché la loro unica arma erano appunto i fiori. Si distinsero per costumi molto liberali e ampio uso di sostanze stupefacenti, soprattutto LSD, un allucinogeno che proprio in quegli anni fu immesso sul mercato con rapida diffusione e di cui si teorizzavano le doti di espansione della mente. Gli hippy si battevano contro la guerra nel Vietnam. Si trattava di un sanguinoso conflitto che dal 1962 vedeva impegnati gli Stati Uniti, che combattevano l'unificazione tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud, poiché al Nord vi era un governo comunista, mentre al Sud vi era un governo filoamericano. Il timore americano era l'unificazione del Vietnam sotto un regime comunista, che si sarebbe potuto diffondere anche ad altri Stati asiatici. Nel Sud filoamericano, inoltre, vi era un nutrito gruppo di comunisti (i Viet Cong) che si battevano per l'unificazione del Vietnam e perciò, con l'appoggio del governo del Vietnam del Nord e della Cina, diedero vita ad atti di guerriglia. Gli Stati Uniti si ritirarono dal conflitto solo nel 1973, con gli accordi di pace di Parigi, a causa della sopraggiunta impossibilità di vincere la guerra, ma anche sull'onda delle proteste dell'opinione pubblica mondiale, oramai largamente contraria al conflitto. La guerra, tuttavia, si concluse il 30 aprile 1975 con la caduta di Saigon. In America questo movimento si unì alle battaglie dei neri per la conquista dei più elementari diritti civili. Le battaglie per il riconoscimento dei diritti civili ai neri si dividevano sostanzialmente in due filoni. Il primo era quello pacifista che auspicava la progressiva integrazione delle masse di colore nella società bianca; era guidato da Martin Luther King, un pastore battista apostolo della nonviolenza, che fin da giovane si era dedicato alla lotta contro la discriminazione razziale. Il suo celebre discorso, in cui auspicava l'uguaglianza tra i popoli (I have a dream) scatenò un'ondata di proteste e di violenze, culminate nel suo assassinio nel 1968. Il secondo filone, più intransigente, fu quello delle Pantere Nere, che chiedeva la formazione di un potere nero (Black Power), contrapposto a quello dei bianchi. Il movimento era di orientamento marxista e chiedeva inoltre libertà e occupazione, case e istruzione per tutti, la fine delle oppressioni anche verso le minoranze etniche. Era guidato da personalità del calibro di Angela Davis, e Malcolm X. Quest'ultimo era un avvocato allevato da una coppia di bianchi che gli avevano dato il cognome «Little»: divenuto adulto preferì cancellarlo con una X. Egli era propenso ad un'alleanza tra tutti i popoli neri e lottava per la superiorità razziale del suo popolo. Secondo lui la divisione razziale era inevitabile ma accusava i bianchi, da lui reputati persone intelligenti ma responsabili della condizione dei neri, di non fare abbastanza o il necessario per risolvere questi problemi. Morì in circostanze poco chiare nel 1965, assassinato da tre membri della Nation of Islam, organizzazione che aveva lasciato da poco. Mesi prima della sua morte dopo un viaggio in Egitto e Arabia Saudita rinnegò le sue teorie sul potere nero, dicendo che esistevano dei bianchi sinceri e che era amico di buddisti, cristiani, indu, agnostici, atei, bianchi, neri, gialli, marroni, capitalisti, comunisti, socialisti, estremisti moderati.
Il movimento in Francia. In Francia la protesta assunse toni molto violenti nel maggio del 1968 e parve trasformarsi in una rivolta contro lo Stato. Essa ebbe origine da un progetto governativo di razionalizzazione delle strutture scolastiche mirante a renderle più rispondenti alle esigenze dell'industria: cosa che significava favorire i settori tecnologicamente più avanzati, facendo pesare l'incremento della produttività sulla classe operaia. Il piano di riforma scolastica prevedeva, al termine degli studi secondari, una severa selezione da effettuarsi attraverso un esame supplementare che avrebbe ridotto considerevolmente il numero degli studenti universitari e consentito l'accesso agli studenti più dotati. In questo modo l'Università avrebbe corrisposto meglio alle esigenze di alta qualificazione e specializzazione tecnica previste per i quadri dirigenziali. L'approvazione di questo piano, chiamato piano Fouchet, provocò un'immediata risposta da parte delle masse studentesche. Contro lo spirito tecnocratico del piano Fouchet, gli studenti e i professori progressisti dell'università di Nanterre decisero di scioperare. La protesta si allargò rapidamente e il 22 marzo prese il via il movimento più noto tra quelli sorti nella primavera del 1968. Questo movimento era capeggiato da un giovane anarchico, Daniel Cohn-Bendit, e denunciava l'esistenza di un'unica condizione di oppressione che accomunava studenti e operai. L'agitazione studentesca diventò acuta, a inizio maggio, alla Sorbona e a Nanterre. I motivi di fondo erano anche l'inadeguatezza delle istituzioni, la richiesta di una maggior partecipazione studentesca alla gestione degli atenei, la ribellione alla dittatura «baronale». Ben presto le motivazioni politiche e ideologiche presero il sopravvento[4]. L'occupazione alla Sorbona da parte degli studenti (2 maggio) rappresentò il momento di rottura, contrassegnato da scontri con la polizia. Inizialmente la sinistra francese prese le distanze dalle proteste studentesche, con Georges Marchais che espresse un giudizio sprezzante dicendo: «I gruppuscoli gauchisti, unificati in quello che chiamano il movimento del 22 marzo diretto dall'anarchico tedesco Cohn-Bendit, potrebbero solo far ridere. Tanto più che in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l'impresa di papà e sfruttare i lavoratori». Il 6 maggio manifestarono a Parigi 15.000 persone e il giorno dopo 50.000. I loro propositi erano «l'immaginazione al potere», «siamo tutti indesiderabili», «proibito proibire», «siate ragionevoli, chiedete l'impossibile». Era una continua improvvisazione che rifiutava la logica in quanto borghese. Da quel momento iniziarono a scendere in piazza anche gli operai: i sindacati erano incerti, la sinistra «legale» era contemporaneamente affascinata e impaurita dalla deflagrazione improvvisa e largamente spontanea, che era anche una dichiarazione di guerra al generale Charles de Gaulle e al suo Primo Ministro Georges Pompidou. In seguito a una manifestazione del 13 maggio, ci furono scontri tra operai e studenti, che avevano sfilato insieme, poiché questi ultimi rifiutarono di sciogliere i loro assembramenti occupando la Sorbona e, di conseguenza, entrarono in sciopero le maestranze della Renault, mentre i teatri di Stato e l'Académie française finirono in mano agli estremisti. Nel Paese si scatenò l'anarchia, con il blocco delle scuole, delle fabbriche, delle ferrovie, delle miniere e dei porti: ci furono devastazioni, tumulti, le prime code di gente presa da panico davanti ai negozi di alimentari. Il segretario del Partito Comunista, Waldeck Rochet, propose la costituzione di un governo «popolare», ma il capo della Confédération générale du travail (il sindacato comunista) Georges Séguy, che per lo spontaneismo studentesco aveva un'avversione profonda, non volle lo sciopero insurrezionale. Charles de Gaulle, in quel momento in Romania per una visita istituzionale, rientrò a Parigi in anticipo e il 24 maggio pronunciò un discorso televisivo di sette minuti in cui promise d'indire, entro giugno, un referendum: «Se doveste rispondere no, non c'è bisogno di dire che non continuerei ad assumere per molto le mie funzioni. Ma se, con un massiccio sì, esprimerete la vostra fiducia in me, comincerò con i pubblici poteri e, spero, con tutti coloro che vogliono servire l'interesse comune, a cambiare ovunque sia necessario le vecchie, scadute e inadatte strutture e ad aprire una via più ampia per il sangue giovane di Francia». Nonostante il videomessaggio continuarono i disordini in città, e nel teatro dell'Odéon gli studenti proclamarono il proprio attacco alla «cultura dei consumi»: dichiararono che i teatri nazionali cessavano di essere tali diventando «centri permanenti di scambi culturali, di contatti tra lavoratori e studenti, di assemblee continue. Quando l'Assemblea nazionale diventa un teatro borghese, tutti i teatri borghesi devono diventare assemblee nazionali». Jean-Paul Sartre tenne discorsi alla Sorbona, ricevendo acclamazioni ma anche grida ostili, mentre il Ministro dell'Educazione Alain Peyrefitte rassegnò le dimissioni e i sindacati approvavano una bozza di accordo con miglioramenti salariali e normativi, facendo un passo indietro rispetto alle richieste iniziali. Dopo un incontro con il generale Jacques Massu, che comandava le forze francesi in Germania Ovest, de Gaulle parlò nuovamente in televisione, annunciando lo scioglimento dell'Assemblea nazionale, indicendo le elezioni politiche il 23 e 30 giugno, revocando il referendum per motivi di ordine pubblico e scagliandosi contro gruppi «da tempo organizzati» che esercitavano «l'intossicazione, l'intimidazione e la tirannia». Nelle votazioni di fine giugno la destra gollista ottenne 358 seggi su 485 a disposizione, mentre la coalizione di sinistra ne perse 61 (Pierre Mendès France non fu rieletto). Il 16 giugno, una settimana prima delle votazioni, la Sorbona era stata evacuata dai duecento della «Comune studentesca» che ancora la occupavano; il 17 finirono i residui scioperi mentre il 27 giugno fu sgomberata l'École des beaux-arts. Il generale de Gaulle aveva vinto, e dopo la vittoria elettorale sostituì il Primo Ministro Pompidou con Maurice Couve de Murville. Il movimento sessantottino francese fu liquidato grazie alla «maggioranza silenziosa», che aveva affermato il suo diritto e dovere di governare contro le frange estremiste, radunando agli Champs-Élysées tra le 600.000 e 1.000.000 di persone[5] che manifestarono contro gli estremisti e riportarono la stabilità nel Paese.
Il movimento in Germania Ovest. Il movimento del Sessantotto ebbe anche in Germania Ovest un certo peso. Leader più significativo fu Rudi Dutschke, l'esponente dell'SDS (organizzazione degli studenti socialdemocratici tedeschi), che venne gravemente ferito da colpi di pistola l'11 aprile 1968.
La Primavera di Praga. Situazione ben diversa si aveva nei Paesi del Patto di Varsavia, dove le manifestazioni chiedevano più libertà di espressione e una maggiore considerazione delle opinioni e della volontà della popolazione sulle scelte politiche. La più alta delle manifestazioni di protesta fu la rivolta studentesca in Cecoslovacchia, che condusse alla svolta politica chiamata «Primavera di Praga». L'avvento al potere di Leonid Il'ič Brežnev significò per la società sovietica la fine di ogni spinta riformatrice. Questa politica di conservazione riguardò anche tutti i Paesi del Patto di Varsavia, ma in Cecoslovacchia si era realizzato un originale tentativo di rendere democratico il sistema stalinista. Il progetto riformatore prevedeva l'allargamento della partecipazione politica dei cittadini e la ristrutturazione dell'economia, con la rinuncia del potere assoluto da parte dello Stato. A sostenere questo tentativo ci fu proprio il movimento politico e culturale della Primavera di Praga. Tuttavia, nel timore che questo processo di democratizzazione contagiasse anche gli altri Paesi del blocco sovietico, l'URSS decise di soffocare con la forza il movimento di riforma. Con questa scelta così violentemente autoritaria molti partiti nazional-comunisti sparsi nel resto del mondo si dichiararono in totale disaccordo.
La rivoluzione culturale in Cina. Nella Repubblica Popolare Cinese il Sessantotto rappresentò il momento più acuto della rivoluzione culturale avviata nel 1966. Tutto il sistema di potere di questo Paese venne completamente trasformato. Partito dai gruppi di studenti universitari che protestavano contro i privilegi culturali ancora presenti nella società cinese, il conflitto fu subito appoggiato da Mao Zedong e dai suoi sostenitori, che lo radicalizzarono come strumento di pressione contro l'opposizione interna. Nell'estate del 1967 e agli inizi del 1968 lo scontro sembrò raggiungere un tale livello di acutezza da far temere una guerra civile. Successivamente però la tensione si allentò, numerosi dirigenti giovanili furono allontanati dalle città e inviati nelle zone rurali. Si imposero ovunque i «Comitati rivoluzionari» che recuperarono i vecchi dirigenti. Infine gli avversari di Mao vennero emarginati.
Il movimento in Polonia. In Polonia, l'8 marzo, una massiccia agitazione studentesca portò ad una manifestazione all'Università di Varsavia, dove gli studenti protestavano contro l'espulsione dei compagni Adam Michnik ed Henryk Szlajfer. La manifestazione fu duramente repressa dalla polizia in borghese e molti dimostranti furono arrestati. I dipartimenti vennero chiusi e si vietò agli studenti di proseguire gli studi. La situazione si risolse politicamente con una violenta campagna antisemita che portò una ondata di emigrazioni. Furono tra venti e trentamila i cittadini polacchi di origine ebraica che emigrarono, rifiutando la propria cittadinanza polacca per ottenere in cambio un biglietto di sola andata Varsavia-Tel Aviv, via Vienna. Gli intellettuali protagonisti del marzo che rimasero in Polonia avranno una funzione di rilievo in relazione alle successive agitazioni operaie del 1970 e, più tardi, degli anni ottanta.
Il movimento in Jugoslavia. In Jugoslavia, la rivolta degli studenti di Belgrado del giugno 1968, si concluse con l'accoglimento di alcune richieste e con una presa di posizione del maresciallo Titoin favore della critica e della mobilitazione di massa anche in regime socialista.
Il movimento in Giappone. In Giappone l'organizzazione giovanile di sinistra Zengakuren raccoglieva il forte sentimento anti-americano e promuoveva scontri furibondi con la polizia.
Il movimento in Messico. Un'altra importante manifestazione sessantottina fu quella messicana. Anche questa fu repressa nel sangue: un numero impressionante di studenti manifestava contro le drammatiche contraddizioni sociali del Paese e per la democratizzazione del sistema politico, che vedeva al potere dal 1929 il Partito Rivoluzionario Istituzionale. Il 2 ottobre una grande manifestazione a Città del Messico si concluse con lo sterminio di più di cento studenti (massacro di Tlatelolco).
Il movimento in Italia. Il 24 gennaio 1966 avvenne a Trento la prima occupazione di un'Università italiana ad opera degli studenti che occuparono la facoltà di Sociologia. L'occupazione sarà ripetuta lo stesso anno in ottobre, protestando contro il piano di studi e lo statuto (entrambi erano in fase di elaborazione) e proponendone stesure alternative. Questa occupazione si concluse a causa dell'alluvione di Firenze che interessò gran parte dell'Italia Settentrionale e Centrale. Molti studenti si mossero come volontari per portare aiuto nelle aree più colpite, e questo primo movimento ed incontro spontaneo di giovani, provenienti da tutta Italia e anche dall'estero, contribuì a far sorgere in molti di essi lo spirito di appartenenza ad una classe studentesca prima sconosciuta. Il Sessantotto italiano ebbe inizio nel 1966: quell'anno, infatti, il giornale studentesco del Liceo Parini La zanzara pubblicò un'inchiesta-sondaggio su tematiche sessuali intitolata Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso, a firma di Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano. Nell'articolo c'era scritto: «Vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità.» e «Sarebbe necessario introdurre una educazione sessuale anche nelle scuole medie in modo che il problema sessuale non sia un tabù ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza. La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa». I redattori della Zanzara e il preside dell'Istituto, Daniele Mattalia, furono incriminati e processati. Luigi Bianchi D'Espinosa, presidente del Tribunale di Milano, assolse tutti dicendo: «Non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete». L'Università necessitava di una ventata rinnovatrice: nel 1956-1957 gli iscritti ai corsi di laurea erano circa 212.000, mentre dieci anni dopo erano saliti a quota 425.000, per cui quella che era l'Università d'elite diventò Università di massa. L'insegnamento era in mano ai «baroni», i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, era sottovalutata o ignorata l'esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all'attività professionale, e molti professori erano «ferroviari» (comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano). Per la soluzione di questi problemi gli studenti si sarebbero dovuti battere e il governo avrebbe dovuto provvedere (con Università serie in cui gli studenti poveri e bravi fossero stipendiati ed esentati da ogni tassa, con laboratori, biblioteche e aule decenti, con collegi ordinati, e con una meritocrazia equa a vantaggio dei più meritevoli). Invece i governi che si alternarono scelsero la strada più facile e meno utile: quella del «facilismo». Le Università aprivano i battenti, per l'iscrizione, a tutti i diplomati delle scuole medie superiori (l'esame di maturità veniva svuotato di contenuti a tal punto che la quasi totalità dei candidati era promossa) – aggravando i problemi organizzativi – e un'esigua ma ben organizzata minoranza degli studenti che promuoveva la contestazione, non aveva a cuore né l'Università né le riforme efficienti (come la legge 2314, proposta dal Ministro Luigi Gui e respinta dai contestatori), bensì la demagogia e l'opportunismo, ispirandosi al «gran rifiuto» di Herbert Marcuse, mentre tra coloro che contestavano i «baroni» ce n'erano parecchi che aspiravano soltanto a diventare «baroncini», e che lo divennero. Nel 1967 furono occupate, sgomberate e rioccupate la Statale di Pisa (dove si elaboravano le «Tesi della Sapienza»), Palazzo Campana a Torino, la Cattolica di Milano, e poi Architettura a Milano, Roma, Napoli. Nella facoltà di Sociologia di Trento praticamente non si riuscì a tenere nessun corso, perché i suoi locali erano permanentemente occupati. Il movimento di contestazione creò i suoi miti e i suoi leader. Tra i più noti ci furono: Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero a Milano, Luigi Bobbio e Guido Viale a Torino; Massimo Cacciari, Toni Negri ed Emilio Vesce a Padova; Franco Piperno e Oreste Scalzone a Roma; Gian Mario Cazzaniga e Adriano Sofri a Pisa. La scintilla fu determinata da due situazioni di disagio per gli studenti universitari dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e della facoltà di Architettura a Torino. Nel primo caso l'università decise di raddoppiare le tasse universitarie mentre a Torino venne deciso il trasferimento alla Mandria, una sede periferica molto disagiata. Il 15 novembre 1967 entrambe le università vennero occupate e subito sgombrate dalla polizia. I leader iniziali erano Mario Capanna e Luciano Pero in Cattolica, e Guido Viale a Torino. Dopo tre giorni 30.000 studenti sfilavano per Milano fino all'arcivescovado e la rivolta si allargò a macchia d'olio. La presenza della polizia, con il battaglione Padova della Celere pronto a intervenire sugli studenti, finì con il costituire il propellente per la diffusione della protesta. L'Università di Trento nacque nel 1962 come Istituto universitario superiore di Scienze Sociali, ad opera di Bruno Kessler: i democristiani avevano chiesto e ottenuto la creazione di questo ateneo, pensando di creare una fabbrica di manager. Invece i professori, pur essendo di livello, si dimostrarono tolleranti alle utopie di un giovanilismo spensierato e di un rivoluzionarismo «da salotto». Tra gli studenti ci furono Marco Boato, Margherita Cagol, Renato Curcio e Mauro Rostagno. A Palazzo Campana Guido Viale ricordò che «la commissione delle facoltà scientifiche compiva l'estremo atto liberatorio nei confronti del Dio libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno a ognuno dei membri», mentre i miti della contestazione italiana erano Mao Zedong (il Libretto Rosso fu diffuso in milioni di copie nelle università occidentali) Ho Chi Minh, il generale Võ Nguyên Giáp, Yasser Arafat, Che Guevara[3], Karl Marx, Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse, Rudi Dutschke e Sigmund Freud. Ai professori veniva negato il diritto di valutare gli studenti: l'esame doveva essere un tu per tu alla pari, anche se lo studente era impreparato (a volte capitava che il docente fosse un «barone» con poca pazienza, che non aveva mai speso un po' del suo tempo per capire i dubbi e le problematiche degli alunni). La cultura veniva disprezzata, scrivendo Kultura con la «K». A Roma il rettore Pietro Agostino D'Avack, disperato e impotente contro il dilagare del disordine, si risolse infine a mettere tutto «nelle mani del potere democratico dello Stato», ossia a invocare la forza pubblica. A Roma, si erano avute già ad inizio d'anno «azioni spettacolari come l'occupazione di più giorni della cupola di Sant'Ivo alla Sapienza, manifestazioni e la creazione di gruppi di studio caratterizzavano la mobilitazione romana». Il 1º marzo 1968, nei giardini di Valle Giulia a Roma, ci fu uno scontro tra studenti e forze dell'ordine senza precedenti, con centinaia di feriti, 228 fermi e 10 arresti. L'Unità scrisse che «la polizia è stata scatenata contro gli studenti romani», ma poi la cronaca del quotidiano comunista riferiva che «davanti alle gradinate bruciavano roghi di jeep e di pullman» senza peraltro spiegare chi avesse appiccato il fuoco. In soccorso ai dimostranti era intervenuta La Sinistra, una rivista che aveva pubblicato un manuale per la fabbricazione di bottiglie Molotov, con tanto di illustrazioni. Commentando la battaglia di Valle Giulia Pier Paolo Pasolini scrisse: «Avete facce di figli di papà. Vi odio, come odio i vostri papà: buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo, siete pavidi, incerti, disperati. Benissimo; ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con i poliziotti io simpatizzavo con i poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri, hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia, ma prendetevela con la magistratura e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi, per sacro teppismo, di eletta tradizione risorgimentale di figli di papà, avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe e voi, cari, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi; mentre i poliziotti, che erano dalla parte del torto, erano i poveri.» I docenti universitari, in particolare quelli della facoltà di Architettura, subivano le intimidazioni studentesche: al Politecnico di Milano il preside di Architettura Paolo Portoghesi acconsentì gli esami di gruppo, l'autovalutazione e il 27 sempre garantito (gli studenti usciti da Architettura durante la sua gestione hanno dovuto ricominciare da capo, oppure si sono accontentati di lavori occasionali). Sempre a Milano, il 12 aprile 1968, il Corriere della Sera fu assalito da un gruppo di giovani che alzarono le barricate e si scontrarono contro la polizia. Nove giorni dopo Eugenio Scalfari prese posizione su L'Espresso: «Questi giovani insegnano qualcosa anche in termini operativi. L'assedio alle tipografie di Springer per bloccare l'uscita dei suoi giornali è un mezzo nuovo di lotta molto più sofisticato ed efficace delle barricate ottocentesche o degli scioperi generali. Ad un sistema "raffinato" si risponde con rappresaglie "raffinate". L'esempio è contagioso. Venerdì sera a Milano un corteo di studenti in marcia per dimostrare sotto il consolato tedesco si fermò a lungo e tumultuando sotto il palazzo del Corriere della Sera. Può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate ormai da lunghissimo tempo a nascondere le informazioni e a manipolare l'opinione pubblica. Ammesso che sia mai esistita, la società ad una dimensione sta dunque facendo naufragio. Chi ama la libertà ricca e piena non può che rallegrarsene e trarne felici presagi per l'avvenire». Il Movimento Studentesco milanese era il gruppo più organizzato e incontrastato: aveva come leader Mario Capanna, che si era iscritto alla Statale dopo essere stato espulso dalla Cattolica, e instaurò una dittatura esercitata attraverso un «servizio d'ordine» i cui membri, chiamati «katanghesi», erano armati di chiave inglese. Nel maggio 1968 tutte le Università, esclusa la Bocconi, erano occupate: nello stesso mese la contestazione si estese, uscendo dall'ambito universitario, un centinaio di artisti, fra cui Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro, Ernesto Treccani e Gianni Dova occupano per 15 giorni il Palazzo della Triennale, ove era stata appena inaugurata l'esposizione triennale, chiedendo «la gestione democratica diretta delle istituzioni culturali e dei pubblici luoghi di cultura».
Il movimento operaio. Nel 1969 ci fu l'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica, che si saldò con il movimento degli studenti che contestavano i contenuti arretrati e parziali dell'istruzione, e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata. Dalla contestazione studentesca che fu inizialmente sottovalutata dai politici e dalla stampa, si passò repentinamente alle rivendicazioni operaie. La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni sessanta, dovuto al fatto che il «miracolo economico» non era stato accompagnato – né a livello governativo, né a livello imprenditoriale – da una visione lungimirante dei problemi che ne derivavano: dalle migrazioni interne all'inquinamento. Le tasse venivano pagate prevalentemente dai lavoratori dipendenti, e l'evasione era molto alta. Era necessaria una spinta riformistica vigorosa. Alla fine di novembre del 1968 ad Avola, 3.000 braccianti scesero in piazza a scioperare contro gli agrari, chiedendo il rinnovo del contratto di lavoro. Due giorni dopo ci furono gravi incidenti, con le forze dell'ordine che aprirono il fuoco contro un blocco stradale: due braccianti, Giuseppe Sibilia e Angelo Sigona, persero la vita, mentre ci furono molti feriti tra la polizia. Quattro mesi dopo, a Battipaglia, la popolazione scese in piazza per chiedere posti di lavoro, e mentre a Roma era andata una delegazione per discutere con il Ministro dell'Industria, in paese si scatenarono scontri con le forze dell'ordine in cui morirono il tipografo Carmine Citro e l'insegnante Teresa Ricciardi. Le agitazioni presero origine per il rinnovo di 32 contratti collettivi di lavoro chiedendo, tra l'altro, l'aumento dei salari uguale per tutti, la diminuzione dell'orario. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e quello studentesco erano uniti fin dalle prime agitazioni su molte questioni del mondo del lavoro, provocando nel Paese tensioni sempre più radicali, sfiorando in alcuni casi l'insurrezione, visti i proclami, e i fatti che accadevano in Italia. I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), che esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomachi sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l'efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica. Nel numero del luglio 1969 dei Quaderni piacentini compariva un lungo documento che affermava: «Cosa vogliamo? Tutto. Oggi in Italia è in moto un processo rivoluzionario aperto che va al di là dello stesso grande significato del maggio francese... Per questo la battaglia contrattuale è una battaglia tutta politica». Gli imprenditori italiani furono colti da un sentimento di paura che confinava con il panico: a Valdagno, durante una dimostrazione operaia, fu abbattuto il monumento a Gaetano Marzotto (creatore del complesso industriale), nelle fabbriche l'atmosfera diventò invivibile per dirigenti, i «capi» e «capetti», che si sentirono intimiditi e minacciati. Aumentavano il fenomeno dell'assenteismo e gli episodi di sabotaggio, intimidazione e violenza. Uno degli episodi più significativi avvenne alla FIAT, il 29 ottobre 1969, in concomitanza all'apertura del Salone dell'Automobile, nel corso degli scioperi articolati per il nuovo contratto di lavoro. Un folto gruppo di scioperanti, armati di sbarre e bastoni, prese d'assalto lo stabilimento di Mirafiori, devastando le linee di montaggio dei modelli «600» e «850», il reparto carrozzeria e le strutture della mensa. Quando la FIAT individuò e denunciò 122 operai responsabili delle devastazioni, si contrapposero mobilitazioni politiche e sindacali, con il Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin che costrinse l'azienda a ritirare le denunce. La discussione dei contratti si svolse in un clima di forte tensione, con l'autunno caldo che provocò, o concorse a provocare, la fuga dei capitali, l'impennata dell'inflazione, e più in generale un decennio di recessione. Ciò fu dovuto all'aggressività eversiva in contrasto con le scelte passate di molti «padroni» che si accontentarono di mettere in salvo oltre frontiera le ricchezze accumulate negli anni precedenti. Il 21 dicembre, con una mediazione, furono accolte quasi tutte le richieste dei sindacati e ritornò una calma apparente. Ma gli operai ottennero alcuni risultati: aumenti salariali, interventi nel sociale, pensioni, diminuzione delle ore lavorative, diritti di assemblea, consigli di fabbrica[3]. E gettarono le basi dello Statuto dei lavoratori (siglato poi nel 1970).
La destra e la contestazione studentesca. Nei primi momenti della contestazione studentesca gli universitari di destra sono tra i capofila del movimento. La battaglia di Valle Giulia all'Università di Roma del 1º marzo 1968 sarà l'ultima azione in cui studenti di sinistra e di destra saranno insieme, perché il 16 marzo successivo con l'assalto alla facoltà di Lettere dell'Università La Sapienza, voluta dai vertici del MSI timorosi di perdere quella definizione di «partito dell'ordine» ci sarà la frattura tra «movimentisti» e «reazionari». Nel momento in cui il Movimento Studentesco divenne così dominato dalla sinistra, nacque da parte degli studenti di destra che non volevano seguire la linea anti-contestazione degli universitari missini del FUAN, il Movimento studentesco europeo, particolarmente attivo a Roma e Messina, lanciando il Manifesto degli studenti europei. Nel marzo 1969 a Messina, guidati di Giovanbattista Davoli, occuparono insieme ai colleghi reggini il rettorato[14]. Nello stesso anno, il 15 aprile, scoppiò verso le 23:00 una carica esplosiva nello studio di Guido Opocher, rettore dell'Università di Padova. Per questo attentato, cinque anni dopo, il magistrato Gerardo D'Ambrosio manderà a processo Franco Freda, Giovanni Ventura e Marco Pozzan. Il 25 aprile esplose un'altra bomba, alla Fiera di Milano, distruggendo lo stand della FIAT – rimasero ferite una ventina di persone, ma il vero obiettivo era una strage – e tre ore dopo, alla Stazione Centrale, un altro ordigno danneggiò l'ufficio della Banca Nazionale delle Comunicazioni[3]. Altre otto bombe collocate sui treni esplosero nella notte tra l'8 e il 9 agosto, provocando 12 feriti. Nello stesso mese furono compiuti altri attentati dinamitardi nell'Ufficio Istruzione del Tribunale a Milano e Torino: dieci anni dopo, per queste azioni eversive, verranno condannati i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, militanti di Ordine Nuovo. Nel 1970 gli studenti di destra saranno tra le barricate nella rivolta di Reggio Calabria. A innescare la rivolta fu la scelta di Catanzaro come sede dell'Assemblea regionale, ma i moti avevano origini in mali antichi e in nuove contraddizioni, come la disoccupazione, la precarietà e l'esodo verso il Nord industrializzato[3]. Inizialmente la destra missina definì i dimostranti teppisti e cialtroni, ma quando il comitato di azione locale finì sotto il controllo di Ciccio Franco, segretario provinciale della CISNAL, iniziò a sostenere la rivolta. Nacque lo slogan «Boia chi molla». Ordine Nuovo attribuì alla rivolta un ruolo storico: «È il primo passo della rivoluzione nazionale in cui si brucia questa oscena democrazia».
La politicizzazione degli anni settanta. La natura controculturale e anticonformista del movimento sessantottino gli attribuiva un carattere creativo e «rivoluzionario» che avrebbe accomunato nel conflitto i partiti che istituzionalmente rappresentavano la sinistra. La lotta iniziale contro ingiustizie, corruzioni e inefficienze tenderà, con il trascorrere del tempo, a trasformarsi in forme di opposizione sempre più estreme. Il Partito Comunista Italiano (PCI) registrò la scissione del gruppo del Manifesto – Lucio Magri, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda – che aveva fondato una rivista di ricerca politica e di contestazione a sinistra della linea ufficiale del partito[3], mentre il PSI subì una scissione che portò la nascita del PSIUP. Vi è poi chi ha ritenuto di leggervi anche una valenza contestatrice nei gruppi di destra verso il MSI. La rivolta generazionale era un movimento nel quale si riconosceva una intera classe giovanile, che non aveva avuto né «credo di provenienza» né «appartenenza politica» e rivolgeva domande alla società, tra le quali il diritto allo studio. Del resto i cambiamenti maggiori che esso produsse, se si eccettua il mutamento radicale nella presa di coscienza generalizzata del ruolo paritario della donna, furono a livello di costume. Nel Movimento Studentesco inizialmente ci fu molta goliardia: il giorno di Sant'Ambrogio del 1968 furono lanciati pomodori e uova contro gli spettatori che s'avviavano alla rappresentazione inaugurale della Scala. Successivamente si passò a una seconda fase che, col tempo, generò il fenomeno del terrorismo: il professor Pietro Trimarchi, figlio del primo presidente della Corte d'appello di Milano, fu «sequestrato», insultato, sputacchiato perché non intendeva piegarsi alle imposizioni dei contestatori, rifiutando gli esami di gruppo, la promozione obbligatoria e la rinuncia alla meritocrazia. Si ribellavano anche i detenuti, che chiedevano «diritto di assemblea, di commissioni di controllo su tutta l'attività che si svolge nel carcere, apertura all'esterno con possibilità di colloqui senza limitazioni, abolizione della censura, diritto ai rapporti sessuali... possibilità di commissioni esterne d'indagine sulla funzione di funzionari, magistrati e direttori fascisti». I contestatori – per la maggior parte provenienti da famiglie borghesi – giravano per le strade urlando «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi», «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero» e «Uccidere un fascista non è reato», spaccando vetrine e a volte anche crani, mentre Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi e le abitudini dei «nemici del popolo» o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa finirono in sedia a rotelle. Apparve anche, per la prima volta, una bottiglia incendiaria di facile confezione, utilizzata dai partigiani sovietici contro i carri armati tedeschi e chiamata «Molotov». Si creò una nuova forma di conformismo: se prima era obbligatorio frequentare l'Università in giacca e cravatta, con la contestazione (e negli anni successivi) era obbligatorio l'eskimo. Inoltre c'era il vizio di picchiare chi la pensasse in maniera diversa, spesso in dieci, venti, trenta, contro uno. Nel febbraio 1972 i «katangesi» picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano, accusato a capocchia di essere un infiltrato della CIA: questo pestaggio era stato preceduto da un altro, contro il sindacalista Giovanni Conti, accusato di nefandezze politiche e di amare la vita notturna. Dando una sua interpretazione al termine «spranga», il manifesto scrisse: «Il Movimento studentesco della Statale di Milano, organizzato nonostante il nome come un gruppo a sé, inquadra i suoi militanti in uno dei più efficienti servizi d'ordine paramilitari e lo battezza Katanga, riprendendo la denominazione parigina del maggio. I manici di piccone vengono ribattezzati Stalin. I Katanga si incaricano di gestire gli scontri con la polizia ma anche di garantire l'egemonia del Movimento studentesco nella Statale vietando praticamente l'entrata agli appartenenti agli altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Più che ai periodici scontri con la polizia, l'importanza crescente che la spranga assume nella sinistra extraparlamentare è legata al confronto quotidiano con i fascisti». Sul piano politico, durante gli anni settanta la classe dirigente del PCI riuscì a recuperare (soprattutto grazie alla sua presenza nelle fabbriche) un ascendente sulla massa giovanile, e lo fece sottraendola al «brodo di coltura» del terrorismo delle Brigate Rosse e dei gruppi satelliti (lo snodo fondamentale fu, in proposito, la denuncia di esponenti genovesi del terrorismo rosso da parte di Guido Rossa, delegato di fabbrica del PCI, e la reazione che portò al suo assassinio nel 1979). Analoghi comportamenti furono tenuti dal Partito Radicale (grazie soprattutto a Marco Pannella) e dal MSI che rinnegò e scomunicò la destra extraparlamentare violenta, mentre la DC assunse un atteggiamento passivo (almeno fino al delitto Moro), sperando che il fenomeno si esaurisse da solo. Al di là del tormentato rapporto con la «sinistra ufficiale», vi è però una diffusa opinione secondo cui la distinzione assoluta tra momento di creazione alternativa – in cui tutti i giovani erano in fondo d'accordo nel voler cambiare la società – e la sua degenerazione politica successiva, se è accettabile nel senso generale, è però praticamente inapplicabile ogniqualvolta si analizzi nello specifico un momento o un luogo preciso. In Italia quel momento «apolitico», se ci fu, fu rapidissimo, e la politicizzazione esplicita del movimento fu pressoché immediata).
La fine del movimento. Il Sessantotto non si verificò in tutto l'Occidente: nel Nord Europa ognuno era libero di fare ciò che voleva, rispettando la legge e senza pregiudizi da parte dell'opinione pubblica. Le mete preferite dai ragazzi erano Amsterdam e Londra, oltre a Ibiza in cui si radunavano i giovani olandesi, inglesi e scandinavi (c'era libertà sessuale e di fumare marijuana). Nel resto d'Europa (in particolare in Francia e in Germania Ovest) e negli Stati Uniti la protesta si spense all'inizio degli anni settanta, senza aver riportato apparentemente risultati significativi: la libertà sessuale e il femminismo esistevano già al tempo dei Beatles e di Mary Quant. Le principali resistenze al Sessantotto vanno ricercate nei ceti neoconservatori (che idealizzavano i valori tipici della società tradizionale come la famiglia, il potere economico e politico, l'amore per la Patria e la sua storia), oltre che nell'incapacità di tradurre le aspirazioni in programmi concreti e in strutture organizzative in grado di realizzarli. In Italia il movimento non si spense, ma si trasformò aumentando d'intensità e continuò per tutto il decennio successivo. A partire dal 1973, quando il PCI iniziò a elaborare un progetto di incontro con le forze socialiste e cattoliche, la sinistra extraparlamentare vide la nuova strategia come un tradimento nei confronti della classe operaia e una resa nei confronti della DC. Di giorno in giorno si sviluppò una minoranza esigua, ma ben risoluta, che scelse la strada della lotta armata, e l'estremismo politico diventò violenza quotidiana[3], con Milano capitale dell'eversione[4]. Alla fine di giugno del 1976 si tenne al Parco Lambro di Milano l'ultima edizione del Festival del proletariato giovanile, organizzato dalla rivista Re Nudo a cui parteciparono più di 400.000 persone. Il festival fu segnato da gravi problemi di ordine pubblico (aggressioni e saccheggi) e segnò l'inizio del Movimento del '77. Il Movimento teorizzava un paradossale rifiuto al lavoro (utilizzando i termini «esproprio», «autoriduzione», «ronda», «occupazione» e «spesa proletaria»), e aveva come nemici principali il PCI e i sindacati: per questi motivi il TIME lo descrisse come «il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente».
Effetti socio-culturali. A partire dagli anni cinquanta si sviluppò in Europa la «società industriale nella fase del capitalismo avanzato» o di quella «civiltà di massa» o «civiltà dei consumi» della quale i sociologi hanno esaminato tutte le caratteristiche: dal consumismo ai persuasori occulti (che attraverso una serie di canali di comunicazione trasformano l'uomo in consumatore diretto), dall'omogeneizzazione del gusto collettivo alla mercificazione di qualsiasi tipo di valori. Questo aspetto si identificò col discorso dell'industria culturale. Quest'ultima è causa ed effetto assieme di una situazione tipica della società odierna: il mercato dell'arte si allarga a dismisura, la richiesta dei beni culturali non si diversifica più da quella dei prodotti industriali, poiché anch'essi sono simboli di promozione sociale, prima ancora che di promozione culturale. Ciò comporta la riduzione del prodotto artistico a merce che segue le leggi del mercato; è la domanda a determinare l'offerta, e quindi la produzione, ed è il sistema a provocare la domanda. In ultima analisi, il prodotto artistico per essere fruibile ed accetto al mercato deve essere gradevole, aproblematico, cioè omologo al sistema. Di conseguenza il raggiungimento di questo obiettivo pone una pesante ipoteca sull'attività dell'artista che, condizionato dalle leggi del mercato, si può ridurre a docile produttore di asettici beni di consumo. A questo proposito scrisse Theodor W. Adorno: «La cultura che, conforme al suo senso, non solo obbediva agli uomini ma continuava anche a protestare contro la condizione di sclerosi nella quale essi vivono e, in tal modo per la sua assimilazione totale agli uomini, faceva ad essi onore, oggi si trova invece integrata alla condizione di sclerosi; così contribuisce ad avvilire gli uomini ancora di più. Le produzioni dello spirito nello stile dell'industria culturale non sono, ormai anche delle merci, ma lo sono integralmente». In questa situazione è abbastanza agevole capire come mai, a partire dalla fine degli anni cinquanta, si sia avuto nel mondo letterario, e soprattutto in quello delle arti figurative, un pullulare di ricerche, sperimentazioni, «neoavanguardie». Di fronte alla negatività di certi fenomeni prodotti dall'industria culturale, scrittori e artisti hanno tentato, isolatamente o legandosi in «scuole» o «gruppi», la contestazione della prassi e dei valori della società di massa, con una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che nelle arti figurative sembra avere assunto una volontà eversiva più marcata che nella letteratura. È però indispensabile sottolineare che quel sistema che si vuole contestare ha ormai talmente perfezionato le sue tecniche di penetrazione e di condizionamento, e ha un tale potere di mercificare ogni prodotto culturale, che riesce a strumentalizzare anche quest'arte di contestazione a fini commerciali, presentandola con l'attrattiva della novità. E così, a livello di costume, il sistema commercializza la contestazione giovanile e ne canonizza un abbigliamento rituale, realizzando così grossi affari: ad un diverso livello, mercifica e banalizza i moduli dell'arte informale, riducendo il recupero dell'arte popolare a mode naïf, a recupero del rustico, del primitivo.
I cambiamenti nell'arte. Sebbene vi siano una bibliografia e/o dei collegamenti esterni, manca la contestualizzazione delle fonti con note a piè di pagina o altri riferimenti precisi che indichino puntualmente la provenienza delle informazioni. Puoi migliorare questa voce citando le fonti più precisamente. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Questi cambiamenti ben presto porteranno a una nuova espressione dell'arte, del tutto originale, che si adatterà alle nuove esigenze del mondo culturale: l'arte di tutti, la pop art. In precedenza, i pittori erano diventati un tutt'uno col mondo fisico esterno, tanto che era impossibile capire quanto fosse dovuto all'autore e quanto lo influenzasse il mondo esterno. L'immaginazione di tutti, e in particolare dei pittori, era stata fortemente impressionata dalle esplosioni nucleari, le quali non hanno confini, fondono tutto ciò che incontrano alla loro elevatissima temperatura. Da ciò derivò una pittura di tipo espressionistico, in cui nulla era distinguibile, tutto si consumava in un unico fuoco. All'inizio degli anni sessanta tutto cambiò: allontanato il terrore di una guerra atomica e cresciuta l'approvazione per la tecnologia, vista come dispensiera d'abbondanza e ricchezza, s'innescò il fenomeno del boom industriale e del connesso consumismo. A questo punto, diveniva inutile l'aggressione alle cose da parte degli artisti: era meglio ritirarsi e lasciarsi penetrare dalla forza del progresso, rappresentata dagli oggetti prodotti in gran numero dall'industria ed esaltati dalla pubblicità. Colui che riuscì a rappresentare, nel migliore dei modi, questo mutamento repentino fu Roy Lichtenstein: con lui gli oggetti penetrano, si stampano da protagonisti nelle tele dell'artista. Ma ad essere rappresentati non sono le cose appartenenti a uno stato di natura, ma gli oggetti usciti dal ciclo produttivo dell'uomo, definiti oggetti-cultura, oggetti «non trovati» o «raccolti», ma volutamente fabbricati per soddisfare fabbisogni di massa. Proprio da qui giunse il connotato «popolare» di quest'arte, dalla cui abbreviazione in inglese derivò il termine pop. «Arte popolare» intesa non in senso di degradazione, ma perché si serviva di oggetti-merce: suo obiettivo era quello di esaltare l'oggetto industriale (trascurato dall'arte), estraniandolo dal proprio ambito al fine di farci notare la sua esistenza, concentrando l'attenzione su di esso. La tecnica usata era quella dello straniamento, ottenuta attraverso il ricorso a diverse tecniche, tutte atte a decontestualizzare gli oggetti all'interno di una composizione artistica, in modo da giungere, mediante la loro libera associazione, a un significato inedito. All'interno della pop art ebbe successo anche il combine painting, cioè ricombinazioni di cose vere con la pittura. I principali rappresentanti della pop art sono stati Claes Oldenburg, Andy Warhol e Roy Lichtenstein: il primo prendeva le forme della vita, le isolava, le ingrandiva e ne studiava i dettagli; il secondo puntava sulla riproducibilità dell'opera d'arte, da considerare anch'essa bene di consumo, rappresentando divi e politici del tempo come Marilyn Monroe o Mao Zedong, ma anche i barattoli della zuppa Campbell,s o le bottiglie della Coca-Cola, in multiplo, e con una produzione seriale grazie all'utilizzo della serigrafia. Lichtenstein affrontò l'intero mondo della mercificazione; difatti, una sua prima affermazione si compì attraverso la riproduzione dei prodotti alimentari, come le carni nei supermercati, impacchettate nella plastica al pari di qualsiasi altro prodotto confezionato, e di tutti gli altri prodotti esposti negli stessi supermercati – materiale elettrico, bombolette spray, articoli sportivi. Alla fine, quando la scena era già stata preparata ed addobbata, si dedicò al protagonista: l'essere umano. Anche per l'uomo entrava in scena la pubblicità, tuttavia lo riguardava anche un'altra forma di consumo, la narrazione di storie sentimentali: infatti, in quegli anni si consumava tanta stampa rosa, pagine e pagine di immagini tracciate con linee larghe, flessuose e sintetiche rotte dal levarsi dei fumetti, nuvolette che scandivano frasi stereotipate, che scorrevano in sequenza. Intervenendo su un materiale del genere, Liechtenstein si fece forte di un nuovo strumento di «straniamento»: ingigantiva su tele di ampio formato una singola casella di una «striscia», arrestandone il flusso, determinando l'effetto del blocco. Lichtenstein utilizzò nella sua pittura il puntinato Ben-Day, che diventerà una sua cifra stilistica inconfondibile, esasperando una tecnica tipica della stampa tipografica, con l'uso di retini di grandi dimensioni per dare l'idea di una realtà mediata dalla mole di immagini che nella realtà contemporanea vengono stampate e trasmesse. Anche in Europa si diffuse rapidamente questo fenomeno, tuttavia andò trasformandosi in varie tendenze che sconfinavano in altre (Nouveau Réalisme). Tra gli italiani coinvolti ci furono Mimmo Rotella, Valerio Adami ed Enrico Baj.
I cambiamenti nella musica. La contestazione non si esauriva a quei modelli culturali che investivano le forme d'arte, quelle letterarie e morali, giacché riuscì a trovare nella musica un ulteriore canale di diffusione, sicuramente più incisivo. Il modello musicale che si sviluppava in contemporanea alla beat generation fu il rock and roll, un tipo di musica in uso fra la popolazione bianca, che interpretava il senso di inquietudine, di protesta e di ribellismo dell'epoca. Esso si proponeva come un veicolo anti-tradizionalista e anticonformista, che voleva mettere al bando la musica melodica e sentimentalista e produrre un nuovo sound provocatorio. Con questo genere quindi si arrivava ad un punto in cui libertà in musica, nei costumi e libertà sessuale si fondevano prepotentemente, fra i maggiori interpreti ricordiamo i Rolling Stones, Bill Haley, Jim Morrison, Jimi Hendrix, i Beatles ed Elvis Presley. Al movimento della beat faceva seguito quello degli hippy, «figli dei fiori», particolarmente presente durante gli anni della guerra del Vietnam. I maggiori interpreti del pacifismo e della solidarietà tra i popoli furono Joan Baez, John Lennon e Bob Dylan, di quest'ultimo bisogna necessariamente citare la sua Blowin' in the Wind. In Italia, in realtà, il Sessantotto si visse qualche anno più tardi, ma, dal punto di vista musicale, le prime tracce della ribellione appaiono come fenomeno di massa già nel 1966, quando Franco Migliacci e Mauro Lusini scrissero il testo di C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. La canzone fu cantata da un Gianni Morandi inedito. Il cantante bolognese era il classico interprete di testi facili e sentimentali come La fisarmonica e Se non avessi più te, per cui la sua avventura folkbeat fu scoraggiata da più parti. L'ostacolo più grande venne dalla Rai, la cui censura si scagliò contro il testo eccessivamente esplicito, che citava la guerra in Vietnam, che proprio in quegli anni stava scrivendo alcune fra le pagine più sanguinose della storia contemporanea. Le idee e le atmosfere evocate, tipiche della gioventù dell'epoca, contribuirono a un successo senza precedenti per una canzone di questo tipo e soprattutto senza confini, dato che fu ripresa da Joan Baez che la consacrò quale inno alla pace. Da citare anche Lucio Battisti con Uno in più e la «Linea Verde» di Mogol. Molte canzoni furono scritte sugli avvenimenti di quegli anni, le più significative della musica italiana furono quelle composte da Fabrizio De André raccolte nell'album Storia di un impiegato. Anche Francesco Guccini, cantautore dichiaratamente anarchico, dedicò agli avvenimenti in Cecoslovacchia un pezzo naturalmente intitolato Primavera di Praga, dall'album Due anni dopo del 1970, e citò il periodo anche nella canzone Eskimo («Infatti i fori della prima volta, non c'erano già più nel Sessantotto»), nell'album Amerigo del 1978. Di grande importanza è anche la canzone Come potete giudicar dei Nomadi, vero e proprio inno alla libertà che con le sue parole toccò i problemi di quegli anni. In rapporto alla guerra nel Vietnam e alla musica in voga in quel 1968 significativa è stata, sia sotto l'aspetto professionale che umano, l'esperienza vissuta dal gruppo musicale de Le Stars raccontata nel volume Ciòiòi '68 - In Vietnam con l'orchestrina.
Lo sport e la politica. Le grandi manifestazioni sportive mondiali, negli anni sessanta, si rivelarono un utile e importante strumento di pressione politica o una ideale cassa di risonanza per atti e manifestazioni che con lo sport non avevano nulla a che fare. Il fenomeno ebbe molto risalto, ad esempio, ai Giochi olimpici del 1968 a Città del Messico con la protesta antirazzista degli atleti di colore statunitensi Tommie Smith e John Carlos, sprinter di colore, oro e bronzo nei 200 metri, che, sul podio della premiazione, alzarono il pugno chiuso in un guanto nero, simbolo del movimento Black Power (Potere Nero), e chinarono la testa quando venne suonato l'inno nazionale statunitense. Smith, disceso dal podio disse: «Se io vinco sono un americano, non un nero americano. Ma se faccio qualcosa di sbagliato, allora diranno che sono un negro. Noi siamo neri e siamo orgogliosi di essere neri. L'America nera comprenderà ciò che abbiamo fatto stanotte». Il comitato olimpico americano li bandì dai giochi olimpici.
SCUOLA ED UNIVERSITA’: ISTRUIRE ED EDUCARE LE MASSE.
Educare le masse, va bene, scrive Luca Sofri l'1 dicembre 2011 su "Il Post. In cerca di definizioni chiare e sintetiche per le promozioni giornalistiche delle prime settimane del Post, a un certo punto dissi ad Anna Masera della Stampa che me lo immaginavo un “prodotto elitario per maggioranze”. A volte quando fai così dici una totale sciocchezza, a ripensarci: ma quella volta lì invece la definizione aveva senso e ci sono ancora affezionato, è il discorso di Un grande paese, fare le cose bene e di qualità e non autocompiacersi di essere nicchia o minoranza, anzi averne fastidio e umiliazione. Oggi c’è una bella intervista di Repubblica a Roman Vlad, che è un signore di 92 anni grande musicista e intellettuale, che sta in Italia da quasi sempre, e a un certo punto dice: «La situazione è degradata è vero, ma certi valori s’impongono sempre. Il rischio da evitare è che si riformi una élite… Tutti, invece, dovrebbero far parte dell’élite». Ma prima ancora Vlad dice un’altra cosa ottima e importante, a proposito di un altro tema caro quaggiù, quello della responsabilità dei media e delle leadership culturali, e dei criteri che debbano muoverli, se pedagogici o commerciali: «Ho conosciuto Adorno. Aveva previsto questo destino e individuato il ruolo dei media nel portare la cultura alle masse; solo che la mercificazione della cultura ha avuto l’effetto opposto: è il livello della cultura che è stato abbassato al livello delle masse e non il contrario. Invece di educare le masse ci si è conformati al loro gusto».
Don Milani, i maestri «rossi» e la meritocrazia dimenticata, scrive Pucci Cipriani su “L’Occidentale”. Ma quello che dette il colpo definitivo a don Milani e alla sua lettera fu non il professor Berardi o la professoressa Calderini (considerati due pericolosi «liberali») ma un illuminato giornalista di “Repubblica”, il professor Sebastiano Vassali che demolì, con una serie di articoli sul quotidiano considerato una sorte di “Bibbia laica e progressista”, il mito di don Milani. Papale, papale, verga il professor Giuliano Vassalli: “Povera Italia! E povera Sinistra! Don Milani (...) volle dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, e si scelse un bersaglio di comodo, gli insegnanti. In questo senso (...) il suo libro fu una mascalzonata: attribuiva tutti i mali ai professori («la vostra scuola», «i vostri programmi») istigava al linciaggio morale di un nemico (...) gli insegnanti sembravano messi là apposta per far da bersaglio alla rivoluzione dell’epoca come i poliziotti di Valle Giulia (...) Povera Italia e povera Sinistra, che dal ’68 o forse dal ’45 non ha saputo far altra politica che quella d’applaudire tutte le primedonne che hanno calcato la platea del bel paese» (cfr. Vassalli in “Repubblica” del 4 luglio 1992, pag 34). E sempre su “Repubblica” il professor Vassalli, inesorabile, continua: «Don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori di un tempo hanno veramente saputo che nella “Lettera” c’è l’apologia della frusta (a pag. 82) e, che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate” e “qualche salutare cignata”?). Un autocrate che non credeva nella pedagogia – in nessuna pedagogia, all’infuori della propria - e che trattava con sufficienza e sarcasmo chi si azzardava a parlargli si sviluppo della personalità degli alunni e di altrettante “sciocchezze borghesi”. Tutto questo in “Esperienze pastorali” ma - scrive ancora Vassalli - «e lo stesso principio era stato da lui sviluppato con molta chiarezza nella Lettera a una Professoressa, dove si delinea: “una concezione collettivistica delle educazione vista come indottrinamento”: una concezione non dissimile - per chi ha ancora memoria di quegli anni - dai modelli educativi della così detta “rivoluzione culturale” cinese”. (cfr. Vassalli in “Repubblica”cit). Tra i miei ricordi di gioventù (avevo allora sedici anni, nda) la mia contestazione a quel gruppo culturale progressista “La Ginestra” che si rifaceva alle idee del prete di Barbiana. E a loro (pretori democratici, presidi, docenti universitari) giocai un tiro maestro e, durante una delle loro riunioni arrivai in compagnia di un giovane, laureato di fresco, già amante degli studi seri, un giovane distinto e preparatissimo: con lui ci recammo al Comune di Borgo San Lorenzo e iniziammo (meglio dire che fu il “giovane professore” a iniziare) con un fuoco concentrico: egli parlò di meritocrazia, quella meritocrazia che, sola, avrebbe salvato gli “ultimi”, parlò di scuola seria che richiedeva sacrifici e non chiacchiere, una scuola che non creasse discriminazioni ma nemmeno odio nei confronti dei “Pierini” ovverosia dei “Signorini attaccati alla scuola media di un tempo” ai quali don Milani voleva trovare un posticino nei confortevoli Gulag dei compagni sovietici. Quel giovanissimo e intrepido professore rispondeva e tuttavia risponde al nome di Franco Cardini che era ed è (anche se lui sembra non crederci) un mio grande amico oltre che uno dei più grandi, se non il più grande studioso del Medioevo a livello mondiale. Fu lui che ebbe per Maestro Attilio Mordini, l’anima del tradizionalismo cattolico non solo a livello fiorentino, un grande mistico di cui, negli ultimi giorni della sua vita, avvenuta lo scorso anno, mi parlava un altro grande mistico: don Divo Barsotti. Fu lo stesso Cardini, in un successivo incontro, a presentarmi Attilio Giulio Schettini (che divenne un caro amico colto prematuramente da “sorella morte”) che iniziò, con la mia collaborazione, una serie di servizi sui “Preti rossi della Toscana” sul settimanale cattolico “Lo Specchio” allora diretto da Giorgio Nelson Page. Anche il servizio su Don Milani (apparso sullo stesso settimanale a firma di uno dei redattori, Pier Francesco Pingitore) posso assicurare che fu preparato da Giulio Schettini. Oggi lo stesso professor Franco Cardini, fa sul quotidiano “La Nazione” l’apologia di Don Milani anche se - come al solito - ha l’onestà intellettuale (merce rara oggigiorno) di ammettere che allora la pensava diversamente: «Si era all’indomani del Concilio Vaticano II - scrive Cardini - che secondo me e secondo quelli del mio gruppo al quale appartenevamo, era stato un grande pericolo per la Chiesa e che alcuni dei suoi interpreti rischiavano di trasformare in una tragedia e in una apostasia». Però Franco Cardini che è un personaggio di grande rilievo e di grande richiamo dovrebbe usare un po’ più di prudenza e astenersi da molte gravissime inesattezze (per esser buoni!) e cercare di rifuggire una certa retorica di cui egli non ha bisogno. Lasciamo perdere l’obbedienza di don Milani, una delle grandi favole, create “ad hoc” da certo sinistrismo (basterebbe andare a consultare il suo carteggio con la Curia!). Don Milani non è vero che - come invece afferma il professor Cardini - scrisse sempre con il permesso della Curia... anzi (a parte la vergognosa parentesi di quell’unico “imprimatur” ottenuto con l’inganno per “Esperienze pastorali”) gli altri libri non ebbero mai l’imprimatur che allora si richiedeva. E queste non sono cose da poco...
Dal ’68 alla lottizzazione politica: così l’ideologia ha preso il controllo della scuola, scrive il 26 Ottobre 2018 Giuseppe Gagliano su Primato Nazionale. Sono numerosi i modi con i quali storicamente si può dimostrare come la politicizzazione abbia gravemente nuociuto sia al mondo accademico che alla scuola. Ad esempio il connubio tra la pedagogia e le ideologie politiche viene illustrato con eloquenza – e anche con una certa dose di amarezza – da uno dei più noti pedagogisti cattolici italiani del novecento Giuseppe Flores d’Arcais. Nel suo saggio autobiografico, l’autore ripercorre la sua formazione accademica soffermandosi su alcuni aspetti di estrema rilevanza. In primo luogo, rilevando come la presenza della politica era capillare già durante i primi anni del secondo dopoguerra all’interno delle commissioni concorsuali universitarie, presenza volta a promuovere quei candidati di provata fede politica. Come testimonia esplicitamente Flores d’Arcais, il concorso per la cattedra di Pedagogia del 1955 fu politicamente pilotato e due autorevoli protagonisti della politica cattolica italiana presenti all’interno della commissione concorsuale – Guido Mancini e Balbino Giuliano – ebbero modo di fare da garanti politici all’autore. Ma sarà l’incontro con Aldo Moro che risulterà essere decisivo per la sua carriera universitaria. D’altra parte d’Arcais ha modo di sottolineare come negli anni ‘50, all’interno delle facoltà umanistiche, il contrasto politico si rifletteva anche nella contrapposizione tra le due ideologie dominanti e cioè quella cattolica e quella marxista, all’interno delle quali incominciò a inserirsi gradualmente quella laicista grazie a Ernesto Codignola e a Lamberto Borghi. Un altro aspetto che l’autore sottolinea è relativo al movimento del ‘68 e alla sua influenza in ambito universitario. Secondo Flores d’Arcais la contestazione giocò la carta della controcultura. Di fronte ad essa il mondo accademico si trovò sostanzialmente impreparato anche perché non pochi studenti sostennero e promossero questa controcultura e vennero supportati da determinate forze politiche; a livello ministeriale, di fronte alla violenza diffusa in ambito universitario e alla contestazione studentesca nel suo complesso, vi fu un atteggiamento di assoluta indifferenza e di lassismo. Significativo, ed insieme paradossale, il fatto che ebbero modo di accedere al mondo universitario a partire dagli anni ’70 proprio coloro che avevano polemizzato contro la baronia universitaria. Ebbene, se nell’ università attuale – osserva amaramente d’Arcais – si è sviluppato un vero e proprio neocorporativismo, questo è stato determinato dal fatto che la politica, il sindacalismo e la burocrazia si sono impadroniti della realtà universitaria. Un altro esempio del ruolo rilevante giocato dalla politica all’interno della pedagogia è ravvisabile nell’affermazione esplicita da parte dell’autore che una delle più celebri riviste accademiche in ambito pedagogico: Rassegna di pedagogia era nata per legittimare un’impostazione spiritualistica (d’altra parte il Pci aveva fondato la rivista Riforma della scuola con finalità analoghe alla rivista cattolica mentre la terza forza – di matrice laica e sorta grazie ai contributi di Codignola, Borghi, Capitini etc – pose in essere la rivista Scuola e città). A tale proposito è utile ricordare – al di là delle critiche apocalittiche al sistema capitalistico e al di là degli scenari utopici che coesistevano in modo contraddittorio con più modeste richieste riformiste e gradualiste – che uno dei principali bersagli politici che accomunò la riflessione pedagogica marxista a quella ispirata da Codignola sarà la scuola privata cattolica, la politica confessionale dei ministri dell’istruzione e l’egemonia democristiana. Non a caso il programma pedagogico avviato proprio da Codignola a partire dal 1962 ebbe come sua finalità quella di creare un sistema di alleanze con socialisti, comunisti e laici in funzione antidemocristiana. Di analogo interesse risultano le riflessioni di Vittorio Enzo Alfieri. In primo luogo, durante il ‘68 il regime assembleare permetteva alle piccole minoranze organizzate di dominare la massa amorfa degli studenti e a questo disordine non osarono opporsi le autorità accademiche. Dopo il ‘68 la scuola da rivoluzionaria è diventata – secondo lo studioso- una scuola baraonda. In secondo luogo, la politicizzazione della scuola come dell’università ha determinato la formazione di professori ignoranti ma profondamente ideologizzati e di studenti sfrenati e ubriachi di parole vuote. A questo va aggiunta l’insensatezza dei politici – aiutati e stimolati dai pedagogisti ciarlatani – che ha rovinato l’istituzione scolastica. Coloro infatti che hanno avuto o avranno poteri decisionali dovranno barcamenarsi tra partiti e sindacati, i veri e propri padroni delle istituzioni formative. In merito al ruolo della politica all’interno dell’Università e della scuola pubblica, le riflessioni di Alfieri sono state altrettanto spietate: secondo lo studioso italiano la politica si è ormai impadronita da un pezzo dell’Università e la politicizzazione attuata dai teppisti del ‘68 è stata subita spesso dei professori o per paura o per amore del quieto vivere; in taluni casi è stata regolata e stabilizzata dal governo. Di fronte poi alle continue e permanenti agitazioni studentesche, alcuni magistrati per propensioni populiste, per influenza della prevalente opinione pubblica e per reminiscenze sessantottesche hanno assunto un atteggiamento di comprensione e di implicita legittimazione delle azioni studentesche; altri magistrati invece sono stati accusati di zelo inquisitorio, di invadenza nel terreno della pubblica amministrazione o addirittura di protagonismo. Tutto ciò ha determinato l’incertezza del diritto che ha finito per paralizzare i responsabili scolastici. Un altro aspetto che si è manifestato nel ‘68 è stato l’incremento delle agitazione studentesche che è stato, nella stragrande maggioranza dei casi, determinato dalla politica. L’agitazione studentesca è stata – ed è – sostanzialmente un fatto politico. Si pensi, ad esempio, che l’assemblea generale è diventato il luogo di prevaricazione della minoranza contestatrice e protestataria; quanto poi all’autogestione questa è stata – e sovente è – una vera propria violenza nei confronti delle persone e delle cose ma risulta essere comunque una violazione della norma. D’altronde le ripetute manifestazioni di piazza da parte di studenti rappresentano – secondo l’autore – un vero e proprio segnale della malattia della democrazia poiché non costituiscono un atto di libertà ma sono il segno dell’incapacità delle istituzioni a rispondere alle esigenze di studenti. Ed oggi a cosa aspira il docente? Da un lato ci sono docenti unicamente interessati a diventare funzione obiettivo, funzione strumentale o animatori digitali. Più prosaicamente a intascarsi i quattrini del bonus premiale e dei progetti. Insomma si va affermando la figura di un docente /servomeccanismo, perfettamente integrato nel demoniaco sistema capitalistico che contribuisce a trasformare la scuola in una raccapricciante azienda. Dall’altro lato ci sono i nostalgici del Pci e del sessantotto, che proseguono indisturbati con il loro indottrinamento (lottizzando le scuole superiori anche grazie a concorsi per dirigenti pilotati politicamente da determinate forze politico-sindacali) ora attraverso la pedagogia della resistenza ora attraverso coordinamenti culturali che propinano il pacifismo irenico – conducendo i giovani in tal modo a disprezzare le istituzioni militari tout court – ora attraverso iniziative politico-culturali volte a cantare le lodi di Marx, Marcuse e del sessantotto-pensiero globalmente intenso. Giuseppe Gagliano
I danni del ‘68. Ripristiniamo il confine saltato maestri-allievi, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 Marina Valensise su Il Messaggero. C’è poco da sperare se la moda dei cattivi maestri prende piede anche nei nostri migliori licei. Certo, per ora sono casi rari, unici, isolati, e di sicuro la stragrande maggioranza del corpo docente nelle scuole italiane è indenne da comportamenti aberranti. Ma è bene alzare la guardia e chiarire subito che urge prendere seri provvedimenti per salvaguardare non solo i professori dall’infamia generalizzata, ma evitare ai nostri figli, e loro allievi, il danno che nasce quando si mina il rapporto di fiducia nei maestri, che è alla base dell’apprendimento. Al liceo Tasso di Roma un professore di Storia e filosofia si intratteneva con le sue allieve minorenni su Whatsapp, andando molto oltre il lecito. Messaggi erotici, rapporti sessuali, molestie. Dopo una pioggia di denunce da parte delle famiglie, è stato sospeso. All’Istituto Massimo di Roma, roccaforte della tradizione pedagogica dei Padri Gesuiti, è un professore di lettere ad aver ammesso di aver sbagliato. Approfittando delle ripetizioni di latino a un’allieva quindicenne, Massimo De Angelis, 53 anni, ha abusato di lei, della sua giovane età, della sua fragilità, andando anche in questo caso ben oltre i limiti della corretta paideia. Le mandava messaggini, audiomessaggi a sfondo erotico, persino foto di lui nudo, chiedendole a sua volta di ricambiare. La tresca durava dall’estate. Denunciato, anche lui è stato sospeso ed è finito in carcere. Da dove nasce questa deriva erotico-sentimentale che abolisce ogni barriera tra docenti e discenti, confonde i confini tra un professore e l’allievo, travolge ogni limite di sicurezza, scardinando gli argini del rispetto umano e professionale, e facendo saltare gerarchie e tabù? E’ figlia dei tempi, dicono alcuni, è frutto dei social network che azzerano le distanze tra le persone, vanificano ogni confine, trasformando ognuno di noi nel terminale diretto e a portata di mano di chiunque si muova entro la dimensione perfettamente orizzontale della connessione in rete. Personalmente, non credo che la deriva sia solo l’effetto dell’impetuosa trasformazione che viviamo. In realtà, abolire la cortina del rispetto, squarciare il velo un tempo invalicabile che dovrebbe separare maestri e allievi è l’ennesimo frutto marcio prodotto dal ‘68 e dalla cultura del ‘68: un’utopia radicale ormai inservibile e obsoleta che in nome dell’eguaglianza, del ripudio delle forme, della guerra alla gerarchia e alle differenze ha finito per logorare la vita pubblica, privando il corpo sociale dei suoi anticorpi e delle valvole di sicurezza necessarie al suo funzionamento. Così, tenere le distanze sembra sia diventato un insulto, un’offesa grave, un vulnus intollerabile per la dignità delle persone. Difficile resistere al costume generale e andare controcorrente. Oggi, il professore refrattario alle distinzioni sociali, ribelle alla grammatica dei ruoli, non solo dà ai suoi allievi del tu, ma pretende che glielo diano anche a lui, insieme con l’email, al numero di cellulare, e l’amicizia su Facebook per poterli chiamarli a tutte le ore del giorno e della notte. Non solo, ma veste anche come loro, jeans e scarpe da tennis, e soprattutto parla loro con profluvio di “nel senso che”, “ci sta che”, “il tema è che…”, col che certificando la morte dell’eloquenza. Come educatore, ha totalmente perso la sua aura, ha rinunciato al suo prestigio professionale, a porsi come modello, del punto di riferimento. Che valore può avere la sua lezione in un’aula dove sono saltati i confini tra chi insegna e chi impara? Nessuno. Forse è troppo tardi per tornare indietro, per sognare come il presidente francese Macron e prima di lui Sarkozy, gli allievi che si alzano in piedi quando entra in classe il professore. Ma visto che l’amicizia erotica tra maestri e allievi rischia ora di far saltare l’ultimo argine al rispetto dei ruoli, urge trovare un rimedio. Prima di reclutare gli insegnanti in base a test psicoattitudinali, sarebbe il caso di formarli con una nuova pedagogia più severa, dove la psicologia dell’età evolutiva, la cooperazione, il senso di fiducia, il rispetto per se stessi e per gli altri da sé, che si trovano in posizione di inferiorità o di debolezza, rendano il docente del tutto impermeabile a ogni tentazione di prossimità coi suoi allievi.
Come siamo ridotti! Nel '68 c'erano i cattivi maestri, oggi le brave maestre, scrive Marco Taradash il 24 ottobre 2008 su L'Occidentale. Che dire di un movimento che nel ’68 era guidato dai cattivi maestri e nello ’08 è trascinato nelle piazze dalle brave maestre elementari? Quanto meno che non farà danni epocali, certo, ma anche che si iscrive nel riflusso conservatore (nel senso italiano di anti-liberale) che pervade la cultura politica nazionale. Ha fatto bene Berlusconi a precisare il suo pensiero e a smentire ciò che non aveva “né detto né pensato". Ossia “manderò la polizia nelle scuole e nelle università”, frase mai pronunciata come ciascuno può verificare sul sito di Repubblica che pretenderebbe di convincerci del contrario. La forzatura è tipica di un sistema dell’informazione che non riesce ancora a comprendere la strategia mediatica del premier. Il quale non procede per “stop and go” come scrive il pur acuto Minzolini, ma per “spot and go”: messaggi brevi e semplici che rassicurano la maggioranza silenziosa del suo elettorato e al tempo stesso lasciano ampio margine al pragmatismo. La polizia nelle scuole sarebbe un anacronismo perché i bravi ragazzi dello Zerootto non vogliono né la rivoluzione né il potere e nemmeno la fantasia al potere. Gli basterebbe uno sconto sui tagli decisi dal ministro Tremonti. Certamente non è nel loro registro contestare il meccanismo ingiusto di tagli che pongono tutti gli atenei sul letto di Procuste e ne mozzano le risorse senza discriminare fra i pochi che investono sul futuro e i più che campano d’assistenzialismo. Tanto meno s’interrogano sull’opportunità che venga abolito il valore legale del titolo di studio, figuriamoci. Con gran soddisfazione di rettori e famiglie a carico. “Lottano” invece contro una riforma Gelmini che non c’è, se non nel buon senso di introdurre un minimo di disciplina fra gli studenti e un po’ di sana amministrazione da buon padre di famiglia nella mangiatoia sindacale. A proposito: perché non imporre d’autorità la visione del film “La Classe” nelle scuole italiane? Ha vinto a Cannes e quindi ha un marchio doc di classe (v. Sotis, non Luxemburg) e di sinistra -i docenti non faranno obiezione- ma ci racconta dell’angoscia che ogni serio professore non può non provare di fronte al danno esistenziale che il permissivismo incide nella vita degli studenti nati nel quartiere sbagliato della società benestante. Gli studenti oggi non vogliono neppure il diciotto per tutti, che d’altronde non fu un mito culturale esclusivo della sinistra sessantottina: Ennio Flaiano ricordava che durante gli anni del fascismo gli studenti manifestarono una sola volta, appunto per chiedere il diciotto agli esami...No, il movimento di oggi sa solo cosa non vuole, come di fronte a ogni fremito riformista dei ministri dell’istruzione del passato, e non sa far altro che ripetere gli slogan stanchi dell’opposizione parlamentare, anche se poi ne fischia i rappresentanti ufficiali. I paragoni col passato sono dunque impossibili. Il Sessantotto fu un fenomeno cataclismatico planetario, la fine della grande glaciazione seguita alla ripresa postbellica, nessuno poté sottrarsi alla ventata antiautoriatria e di autoaffermazione dei figli e delle figlie contro i padri, nelle famiglie come nelle istituzioni. In Italia rifluì presto in schermaglia ideologica fra bande marxiste degenerando via via nell’intolleranza politica e nel carrierismo individuale. Il Settantasette fu un fenomeno tutto italiano, la scintilla che scocca dalla collisione fra la paranoia anticapitalista alimentata dalla cultura egemone e la politica compromissoria di un Partito comunista che già allora sapeva tutto ma non aveva capito nulla. Fu la ginnastica maoista del primo mattino che preparava il viaggio nella clandestinità e preludeva alla notte del terrorismo. Lo Zerootto è soltanto un bancone di prodotti surgelati a saldo nella Coop dei docenti nullafacenti. C’è la fila, e scomposta, sì, ma non vale la testa rotta di uno studente o di un carabiniere.
Che c’entra il ‘68 con i prof che chattano con gli studenti? Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure si fanno saltare i confini generazionali, scrive Luciano Lanna il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Nel 1968 s’era diffusa una massima che venne spontaneamente assunta a slogan dello spirito di quell’anno di trasformazioni: «Non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni». Era un monito ironicamente offerto come consiglio da Charlton Heston ai giovani e ribelli scimpanzé nel grande successo hollywoodiano di quell’anno, Il pianeta delle scimmie. Uno slogan che si trasformò via via in una modalità esistenziale e in un rapporto nuovo rapporto, dialettico e critico, nelle relazioni tra generazioni. Anche per questo non capiamo come si possa sostenere – l’abbiamo letto sul Messaggero a firma Marina Valensise, una giornalista e studiosa peraltro documentata e sofisticata – l’esistenza di un nesso tra alcune recenti denunce di molestie e abusi a scuola, in particolare relativi a casi riguardanti sconfinamenti in questa direzione tra professori e allievi, e la cultura del ’ 68. La quale, filologicamente, si muoveva semmai verso un altro orizzonte: quello della diffidenza o della messa in discussione critica rispetto alla presunta autorevolezza delle generazioni precedenti. Cosa c’entra, insomma, il non fidarsi più a scatola chiusa e il cominciare a verificare criticamente i rapporti con gli adulti, fossero essi genitori, professori, politici, che è uno dei portati storicamente più importanti del ’ 68, con quella «deriva erotico- sentimentale che abolisce ogni barriera tra docenti e discenti, confonde i confini tra un professore e l’allievo, travolge ogni limite di sicurezza, scardinando gli argini del rispetto umano e professionale»? Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure, è il caso opposto, si fanno saltare i confini generazionali e si ipotizza come normale che con un docente si possa chattare come se si trattasse di un coetaneo. Come tanti altri, sia ben chiaro, Marina Valensise mostra di non avere dubbi: «Abolire – scrive – la cortina del rispetto, squarciare il velo un tempo invalicabile che dovrebbe separare maestri e allievi è l’ennesimo frutto marcio prodotto dal ’ 68 e dalla cultura del ’ 68». Mostrando così di seguire la vulgata ormai egemone, e diffusa da anni a destra, a sinistra e al centro, secondo cui il Sessantotto – anno che viene trasformato in un feticcio, in una entità ideologica – da anno cronologico si trasforma nell’origine di tutti i mali, sociali, antropologiche, culturali. Nient’altro che in un’utopia, «inservibile e obsoleta – leggiamo ancora sul Messaggero – che in nome dell’uguaglianza, del ripudio delle forme, della guerra alla gerarchia e alle differenze ha finito per logorare la vita pubblica, privando il corpo sociale dei suoi anticorpi e delle valvole di sicurezza necessarie al suo funzionamento». Niente di nuovo, in realtà. È la solita e trita litania sulla rovina della scuola, sul tramonto del principio di autorità, sulla fine della famiglia borghese, sull’eclisse della meritocrazia. Quando invece, e la storia stessa lo attesa, il ’ 68 fu più che altro la messa in discussione e lo scoperchiamento di tutta l’ipocrisia che aleggiava nella percezione vissuta di queste dimensioni sociali. Non ci stupiamo comunque del fatto che la pubblicistica sia ricaduta nella ripetizione di questa lettura. Sin dal primo decennale, nel 1978, e a proseguire nei tre seguenti anniversari tondi, non è mancato il profluvio di lamentazioni postume all’insegna della massima “da allora tutto non fu più come prima”. Con il sospetto che davanti alle solite esortazioni del tipo “finiamola col sessantottismo”, “è tempo di archiviare la cultura del ’ 68”, sia più che legittimo il dubbio che in realtà si voglia parlar d’altro senza averne il coraggio e senza lo sforza dell’elaborazione di nuove categorie adeguate a interpretare la complessità dei fenomeni a noi contemporanei. È la scorciatoia del pensiero pigro: è facile trovare una causa generale per tutto ciò che non comprendiamo e di fronte a cui ci troviamo spiazzati. È come il personaggio di Alberto Sordi che di fronte ai suo fallimenti diceva “io c’ho avuto la malattia” o “io ho passato la guerra”. Sarebbe invece il caso, ora che siamo al cinquantenario, di “storicizzare” finalmente il ’ 68, di raccontare cioè quell’anno, con tutte le sue “rotture”, per quel che è stato veramente. E di smetterla di presentarlo come un feticcio ideologico da utilizzare come causa di tutti i nostri mali. Oltretutto, da allora è passato mezzo secolo, un periodo così lungo e complesso, attraversato da altre faglie e altri sommovimenti globali, che è davvero impossibile quando non fuorviante individuare – come nel caso da cui siamo partiti – nei fatti del ’ 68 l’origine di fenomeni del tutto inediti e spiegabili solo con processi davvero molto lontani da quell’anno. Cosa avrebbe a che fare, insomma, il chattare in rete in una dimensione orizzonte e privata tra docenti e studenti e le eventuali conseguenze con le intuizioni dell’anno vissuto all’insegna dell’immaginazione al potere? Un anno denso di eventi rivoluzionari come il Vietnam e le proteste contro la guerra, gli studenti contro la polizia a Valle Giulia, il Maggio francese, la Primavera di Praga, gli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy, le convenzioni per le elezioni americane che videro la vittoria di Nixon, la nascita del femminismo… «Con stupore ed entusiasmo – annota Mark Kurlansky nel fondamentale ‘68. L’anno che ha fatto saltare il mondo (Mondadori) – si scoprì che a Praga, a Parigi, a Roma, in Messico, a New York, si stavano facendo le stesse cose. Grazie a nuovi strumenti quali i satelliti per le telecomunicazioni e i videotape, la televisione stava rendendo ognuno consapevole di quanto stavano gli altri. E questo era elettrizzante perché, per la prima volta nell’esperienza umana, eventi importanti e remoti erano vissuti in diretta». Questo, non altro, fu il ’ 68. Il professore che non solo dà ai suoi allievi del tu, ma pretende che glielo diano anche a lui, insieme con l’e- mail, al numero di cellulare e all’amicizia su Facebook per poterli chiamare a tutte le ore del giorno e della notte non capiamo cosa avrebbe dello “spirito del ’ 68”. Uno spirito che, semmai, muovendoci sul piano dell’immaginario andrebbe storicamente visto nella presenza e nel ruolo di un premio Nobel come Bob Dylan e di un intellettuale come Francesco Guccini nello scenario odierno. Queste sì, due vere “lezioni” viventi del Sessantotto.
L'eredità del '68 è la mediocrità, scrive Giancarlo Mazzuca, Domenica 14/01/2018, su "Il Giornale". Il Sessantotto della mia giovinezza. Sono trascorsi esattamente cinquant'anni, mezzo secolo in un sol colpo, dai tempi delle grandi contestazioni studentesche che sconvolsero il mondo universitario e tutta l'Italia. Un fiume in piena che ha lasciato vittime, speranze fallite, sogni infranti, macerie e tanta mediocrità. Indro Montanelli diceva che siamo abituati a ragionare con la testa rivolta all'indietro perché continuiamo a guardare al nostro passato invece di concentrarci sul futuro. Eppure certi «flash-back» possono essere, ancora oggi, molto utili per non ripetere gli errori già commessi: la lezione della storia. E proprio il grande Direttore che, sull'onda di quei moti di piazza, lasciò in seguito il Corriere per andare a fondare il Giornale - aveva le idee molto chiare sulle grandi disillusioni della contestazione giovanile: «Il Sessantotto non può pretendere di averci lasciato crescite di civiltà. Io vidi nascere una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana e anche quella privata portando in ogni luogo i segni della propria ignoranza». Da parte sua, Norberto Bobbio definì il movimento del 68 «un'esaltazione collettiva», una specie di raptus che colpì migliaia e migliaia di ragazzi manovrati da leader improvvisati e pronti a contestare chiunque rappresentasse una qualsiasi autorità politica, professionale, morale. Escluse le prime manifestazioni alla «Cattolica» di Milano, con Mario Capanna in prima linea, e all'Istituto di scienze sociali di Trento - sulle ali dei «figli dei fiori» dei campus universitari californiani e sulle note di Bob Dylan contro la guerra nel Vietnam -, tutto cominciò il 27 novembre 1967 con l'occupazione della sede delle facoltà umanistiche a Torino. Da allora, una continua «escalation» di rabbia e di paura all'insegna delle «lezioni autogestite», del «diciotto politico», dei cortei di lotta e di potere. Nasceva, così, una nuova casta di giovani intoccabili, con l'entusiastico appoggio, perché faceva molto «chic», di tanti intellettuali e giornalisti di sinistra e con la benedizione dell'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, che, senza mezzi termini, definì la contestazione come parte integrante di un grande processo rivoluzionario: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo». Le università furono degradate a campi di battaglia, con la maggioranza degli studenti sempre più battaglieri e con tantissimi professori intimoriti, talvolta pavidi, che furono travolti da una violenza inutile capace di generare solo frutti avvelenati. Mi chiedo: cosa ha davvero lasciato in eredità il Sessantotto? È sufficiente riesaminare a freddo i risultati di quella che tanti hanno considerato una travolgente ondata libertaria per rendersi, invece, conto di una realtà molto amara: c'è stato solo un fiume carsico di mediocrità che ha minato le basi stesse della società finendo per intaccare certi principi fondanti come lo studio, la preparazione ed il merito. Un egualitarismo spinto all'eccesso che, almeno in Italia, non è stato mai sconfitto: in effetti, basta rileggere, in questi giorni, certi slogan elettorali di alcuni leader grillini per riscoprire proprio quel «rigurgito d'infantilismo» che Giorgio Amendola, a differenza di Occhetto, trovò nel movimento studentesco del '68. Meglio ancora: dilettantismo allo sbaraglio.
La sinistra e i professori non si vogliono più bene, scrive Francesco Boezi l’8 agosto 2016 su “Il Giornale”. Si erano tanto amati, la sinistra ed i docenti. Incontratisi per la prima volta sulle scale dell’università, si fusero nell’enfasi marxista; quindi la sinistra con tono impositorio disse: “Ora, se vorrete guadagnare la vera libertà, leggerete Marcuse tre volte, sovvertirete il sistema borghese, brucerete jeep, appiccherete roghi, occuperete facoltà e predicherete la fine dei costumi dei padri. Solo così diverrete veramente liberi!” Fu colpo di fulmine. I docenti, che allora erano solo degli studentelli sbarbati, credettero. Era il 1968’. “Ricordi? Sbocciavan le molotov.” Lei seduceva con l’inchiostro. Loro, in fin dei conti, erano solo i figli di quella borghesia da distruggere: la leva ideologica di un ventennio. Pier Paolo Pasolini pensava fossero vittime di un gigantesco equivoco: non sono rivoluzioni quelle fatte con i soldi di papà. L’esito? Un po’ l’inconsistenza, la finzione e la disperazione del terrazzo radical chic di Jep Gambardella, un po’ la “spada de’ foco” di Carlo Verdone nel salotto di Mario Brega. Vennero i governi e le riforme, la fantasia al potere, in televisione ed in cattedra. Gad Lerner e Michele Santoro, Marco Boato e Massimo Cacciari. Il sentimento tenne. Dalle aule delle università, vennero occupati i conti correnti: dicono i grafici di Bankitalia che il reddito medio di quella generazione crebbe molto di più rispetto quello delle successive. Sinistra progressista e classe docente, unite per la vita. “Encore!”, dice Lacan, è la domanda dell’amore. Ancora! Senza soluzione di continuità. Dal 18 politico con l’eskimo, al modello 730 con la barca a vela. A braccetto, nella buona e nella buonissima sorte. Anche gli insegnanti malpagati gridarono: “Encore!” Nei momenti di crisi si sparò a zero contro l’avversario politico, fatto qualche girotondo, andati al cinema insieme. Una passione filtrata dai decenni e mai interrotta. Neppure “La Cosa” di Achille Occhetto poté farci nulla. Persino il Partito Democratico andò giù liscio come l’olio. Ci voleva un algoritmo impazzito per distruggere un amore. Un nemico difficile contro cui girotondare perché, alla fine, è solo un numeretto. Che rende la vita precaria ancor prima del lavoro. Che ti spara dal sud al nord come la pallina di un flipper: docenti con punteggi altissimi costretti a lasciare la famiglia per trasferirsi a 700 km di distanza, altri con punteggi minori che possono insegnare sotto casa. L’evoluzione neoliberista della sinistra governativa europea. In Italia lo hanno fatto quelli che dicevano di voler visitare una scuola ogni settimana ed aumentare gli stipendi dei professori. Ve la ricordate la prima Leopolda sì? Senza famiglia a due passi, però, diventano tutti irascibili. Persino le truppe dell’egemonia gramsciana. La voglia di instabilità relazionale millantata nel 68’ era pura propaganda. L’idea di Marx per cui la borghesia avrebbe ridotto tutte le libertà a quella della mercificazione, meno. La sinistra e i professori no, non si vogliono più bene.
PROFETI E CATTIVI MAESTRI.
Dibattito. Sessantotto e la Chiesa fra profeti e cattivi maestri, scrive Carlo Cardia, venerdì 10 agosto 2018 su Avvenire. Il Concilio indicò la strada “riformatrice” e Paolo VI seppe leggere come pochi i tempi. Ma alcuni fratelli nella fede abbracciarono una contestazione che ebbe anche effetti di secolarizzazione. A seguire la cronologia, la Chiesa cattolica ha preceduto il ’68 rispetto a ogni istituzione o movimento, prima con l’intuizione del Concilio Vaticano II, poi con l’audacia riformatrice di Paolo VI che segna il Novecento con la realizzazione del Concilio e la sua rivoluzione dello spirito. Però, paradosso dei paradossi, proprio Paolo VI è stato uno dei bersagli preferiti da molti sessantottini laici e cattolici. E ciò è avvenuto quando il 68 ha divorziato dalla voglia di cambiare il mondo, e ha preso sfumature di fondamentalismo. Papa Montini è tra i protagonisti che hanno valutato nei suoi sviluppi il movimento dispiegatosi fino al 1978, collegando esplicitamente le riforme della Chiesa al rinnovamento della società. Il cuore del programma paolino sta nel definire un nuovo rapporto della Chiesa con il mondo, e la società internazionale, nel cambiare le strutture di governo dopo 5 secoli di sostanziale stabilità.
Paolo VI, papa lucido e profetico. Aprire i confini della Chiesa è l’obiettivo strategico dell’Ecclesiam Suam del 1964, con la celebre immagine dei tre «cerchi concentrici, in cui la mano di Dio ci ha posti». Del «primo, immenso cerchio, non riusciamo a vedere i confini: si confondono con l’orizzonte, cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Tutto ciò che è umano ci riguarda. In questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione e in diversissime forme, si professano atei». A loro si rivolge con cura e attenzione, perché «noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione«, e li vediamo spesso «invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’Assoluto e del Necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del principio e del Fine divino»; «non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pure sono cristiane, tali espressioni di valori morali?». Questo il linguaggio profetico di una spinta missionaria verso i più lontani ai quali prima si guardava con la negazione e la condanna. La spinta di Paolo VI è verso l’unità del genere umano, col dialogo interreligioso che interessa il secondo cerchio, «immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo». Infine, col cerchio «a noi più vicino, del mondo che a Cristo s’intitola» il dialogo, che si qualifica ecumenico, è già aperto. Paolo VI è uno dei papi in cui di più il pensiero coincide con l’azione. Si reca all’Onu nel 1965 per riconoscerle in ambito temporale un ruolo analogo a quello che la Chiesa assolve «in campo spirituale, unica e universale»; interpreta la «voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita», e formula il suo grido per la pace: «non gli uni contro gli altri, non più, non mai». Il paradosso di Paolo VI si compie nel 68 con la più grande enciclica della modernità, la Populorum Progressio, che delinea il programma planetario di liberazione dei popoli, della loro uguaglianza e libertà, e anticipa l’era della globalizzazione. Per il Papa, i popoli della terra interpellano la Chiesa per divenire protagonisti della storia, anziché sudditi inconsapevoli, mentre cessa ogni altra dipendenza: la Chiesa non appartiene a nessuno, è di tutti, agisce a favore dei deboli e di tutti i poveri della terra. Però, anziché valersi della primogenitura riformatrice di Paolo VI e del Vaticano II, parte del movimento contestatore si rivolge a lui con asprezza. Prevale l’incapacità di legarsi all’orizzonte riformatore, di tradurre in cambiamento la spinta utopica che animava il movimento giovanile. Montini, all’inizio del decennio 1968-1978, guarda alla contestazione con lungimiranza. Nel 1969, osserva che «l’uomo ha acquistato la coscienza sia delle deficienze in cui si svolge la sua vita, sia delle possibilità prodigiose con cui si possono produrre mezzi e forme nuove di esistenza, egli non sta più tranquillo: una frenesia lo prende, una vertigine lo esalta, e talora una follia lo invade per tutto rovesciare (ecco la contestazione globale) nella cieca fiducia che un ordine nuovo (parola vecchia), un mondo nuovo, una palingenesi ancora non prevedibile sta per sorgere fatalmente». E aggiunge: «non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione, questo bisogno di rinnovamento, che per tante ragioni ed in certe forme è legittimo e doveroso». Quindi, il Concilio «tende a produrre rinnovamento. Ma quale rinnovamento?».
Il panorama del dissenso. Papa Montini vive tutto intero il travaglio che investe la Chiesa e la sua persona, e non è possibile riassumere eventi ed episodi della contestazione che Paolo VI deve subire. Essi riguardano personalità singole, e movimenti collettivi, che arricchiscono il panorama del cosiddetto dissenso: Dom Franzoni, Giulio Girardi, don Enzo Mazzi, Ernesto Balducci. Ciascuno ha un carattere proprio, e compie scelte che segnano alcuni anni. Quelle di Giovanni Franzoni, abate dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, che dà vita per anni a una contestazione continua sugli orientamenti della Santa Sede, dal Concordato alla guerra in Vietnam, dal divorzio all’aborto, al celibato. E di altri religiosi, che seguono strade più complesse, Ernesto Balducci teologicamente e culturalmente più ricco, don Enzo Mazzi che anima comunità alternative a quelle parrocchiali, perché «ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze profonde, vere e evangeliche del popolo». La contestazione, anche di segno opposto, coinvolge gruppi e movimenti di più vasta portata, che colpiscono l’opinione pubblica ecclesiale. È il caso del vescovo francese Marcel Lefebvre che rimprovera la Chiesa di Roma di cedere a correnti moderniste, fino a un mini-scisma mai davvero ricomposto. Ciò che più ferisce, però, investe la teologia, la vita religiosa, il processo di secolarizzazione che non conosce confini. Alcune crisi sono localizzate, ma assai dolorose, come quella della Chiesa olandese che giunge quasi sulla soglia della separazione. Altre, sono prevenute e sanate dalla lungimiranza di Paolo VI che con il suo messaggio di liberazione, anche socioeconomica, di tutti i popoli frena la deriva marxisteggiante della Teologia della Liberazione.
Il 68 e il mondo cattolico: contatti e distanze. Alla Chiesa possono adattarsi, con prudenza, alcune riflessioni generali sul 68. Il messianesimo laico s’amalgama a volte con pulsioni utopiche religiose, e la carica antistituzionale con spinte profetiche verso palingenesi strutturali. Dopo il decennio 1968-’78 non tutto è riferibile alle radici sessantottine, ma da lì prendono spunto: il femminismo religioso, le comunità di base, la critica antropologica su etica e sessualità, la nebbia secolarizzante che ha tanti volti. Agostino Giovagnoli propone più spunti ricostruttivi sistemici. A cominciare dalla «contaminazioni e influenze reciproche» tra Chiesa e 68, che induce a un nuovo rapporto con la parola e il linguaggio, sconvolgendo quello che Foucault ha chiamato l’“ordine del discorso”, e che porta alle «divaricazioni tra cattolici che probabilmente costituisce l’evento più tipico dell’area cattolica». Le diversità sono molte e sorprendenti. L’approdo secolarizzato si compie per spinte intellettuali di March Bloch per il quale «solo un ateo può essere un buon cristiano», o per prassi ben visibili, per cui «si perde la fede non appena si entra in politica». Anziché animare la politica con la fede è la politica che secolarizza la fede, provoca la separazione tra fede, cultura, modo d’essere di vita, indicata da Christopher Dawson come speciale forma di secolarizzazione personale. Dentro questo fenomeno si consuma l’abbandono della vita religiosa di prestigiose personalità, che al termine della curva contestatrice, vivono quasi delle crisi esistenziali. Per Giovagnoli, il 68 ha insegnato che si può non subire il mondo in cui viviamo, ma rimane in molti memoria e nostalgia della fede che s’era quasi persa nell’ansia di una modernità apocalittica. L’intreccio tra utopia religiosa e secolarista resta quella delineata da Franco Rodano, quando nel 1977 osserva che il messianismo religioso colpiva anche la sfera della laicità e del realismo che deve pur sempre salvaguardare la politica come alternativa riformatrice, per non cedere alle derive fondamentaliste. Che poi era lo spartiacque tra il realismo dell’azione politica del pci e di Berlinguer dalla strategia del dissenso cattolico.
I frutti buoni del 68 cattolico. C’è un cattolicesimo forte e ancora diverso, figlio anch’esso del 68, con personalità e percorsi, che animano nuovi movimenti, e impongono le tematiche del futuro. Spicca la personalità di don Lorenzo Milani che innesta nel cattolicesimo italiano l’obiezione di coscienza e la critica alle leggi ingiuste che attira i giovani. E la personalità di don Luigi Giussani che coglie in anticipo la radicalità del secolarismo e della separazione tra fede e cultura, e con Comunione e Liberazione fa propri alcuni tratti del 68, tra i quali un certo orgoglio identitario, e la forza di una fede che resiste. Ancora, la Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, avvia un originale impegno sociale anche internazionale che guarda al futuro. La stessa scelta religiosa dell’Azione cattolica, che vive duramente la fase dell’abbandono, prepara un cattolicesimo libero dal collateralismo politico. All’area cattolica, tranne qualche punta estrema, non si adattano critiche feroci che si rivolgono al 68. Quella di essere una «maratona delle chiacchiere», secondo la definizione di Raymond Aron; e l’altra che vede sfumare il 68 in un indistinto patologico o tragicomico, per il quale «se avete i capelli lunghi, andate a lavorare in jeans senza cravatta, se siete vegetariani, fate yoga o fate comicoterapia» ringraziate il ’68 come dicono Jacopo Fo e Sergio Parini. Si può, invece, rivolgere una più solida critica che riguarda lo specifico dell’area cattolica. A un certo punto il mondo che c’era collassò come un castello di carte, e si perse quella dimensione della razionalità che nella fede e cultura religiosa ha un forte caposaldo. Ma l’analisi critica può anche rovesciarsi e vedere come la mentalità sessantottina sia stata superata nell’area cattolica per una serie di anticorpi che essa aveva ed ha geneticamente innestati: la capacità di guardare lontano, come fece soprattutto Paolo VI, che ha rafforzato nel cattolicesimo la capacità di rinnovamento, senza mai cedere al pessimismo e al nichilismo antropologico. Papa Montini è rimasto il Papa del cambiamento, e della speranza aperta a tutti.
I falsi profeti del ’68. Tratto da: Il Timone, n. 43, maggio 2005, p. 14-15, di Michele Brambilla [I falsi profeti del Sessantotto]. Un’intera generazione ubriacata dall’odio e dalla violenza ideologica. Colpa dei cattivi maestri, di una classe intellettuale che seminava il male con le parole. In questo articolo, nomi e cognomi di chi ha sulla coscienza gli orrori di un’epoca da non dimenticare. Negli ultimi mesi i giornali hanno dedicato molto spazio alla strage di Primavalle, nella quale due fratelli vennero arsi vivi nel rogo della loro casa, incendiata da estremisti di sinistra.
Qual era il clima in cui si consumò quella strage, nell’aprile 1973? Com’è possibile che qualcuno sia arrivato a dar fuoco, di notte, alla casa di un povero spazzino per «punirlo» della sua fede politica? E ancora: com’è possibile che gli sciagurati che appiccarono quell’incendio – uccidendo un ragazzo di ventidue anni e un bambino di otto – abbiano potuto farla franca grazie a una così diffusa rete di solidarietà? Insomma: ma che paese era, quell’Italia degli anni Settanta? Come mai tanti giovani si fecero inebriare dalla violenza? Per arrivare a rispondere a queste domande, non si può prescindere dal contesto in cui accaddero quei fatti. Perché, in quel «contesto», grande fu la responsabilità della classe intellettuale italiana (quasi tutta). Cominciamo con la lettera aperta che nell’ottobre 1971 fu inviata al Procuratore della Repubblica di Torino, il quale aveva denunciato direttori e militanti di Lotta Continua (un movimento di estrema sinistra, lo diciamo per i più giovani) per istigazione a delinquere. Nella lettera aperta si scriveva: «Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, amiamo le masse”, lo gridiamo con loro». Ma ecco il passaggio finale di quella lettera: «Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro».
Chi erano i firmatari di questa lettera, che si impegnavano a «combattere con le armi in pugno»? Cinquanta esponenti del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Nomi sorprendenti. Ecco alcuni firmatari di quell’appello in cui si annunciava la propria adesione alla lotta armata: Umberto Eco, Tinto Brass, Cesare Zavattini, Carlo Gregoretti, Enzo Paci, Giulio A. Maccacaro, Giulio Carlo Argan, Salvatore Saperi, Pasquale Squitieri, Natalia Ginzburg, Tullio De Mauro, Paolo Portoghesi, Lucio Colletti, Paolo Mieli, Sergio Saviane, Serena Rossetti, Nelo Risi, Giovanni Roboni. Come si vede, professori universitari, registi cinematografici, filosofi, storici, futuri ministri, poeti, scrittori, giornalisti. In una parola, gente che ricopriva una posizione centrale nel mondo in cui si formano le coscienze di un popolo.
Degli isolati, quei cinquanta firmatari? Macché. Furono più di ottocento i rappresentanti della cultura italiana che sottoscrissero un documento pubblicato su “L’Espresso” il 13 giugno 1971, documento in cui il commissario Calabresi veniva definito «un torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli». Prima di elencare alcuni nomi di quegli ottocento firmatari, va ricordato che il commissario Calabresi fu ritenuto innocente della morte dell’anarchico Pino Pinelli con una sentenza emessa dal giudice (dichiaratamente di sinistra) Gerardo D’Ambrosio; e che lo stesso Calabresi venne ucciso in un agguato il 17 maggio 1972 al culmine di una campagna di odio e di false accuse scatenata contro di lui. Ed ecco dunque alcuni di quegli ottocento che calunniarono Calabresi: i filosofi Norberto Bobbio, Lucio Colletti e Lucio Villari; i registi cinematografici Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Salvatore Saperi, Ugo Gregoretti, Nanni Loy; i poeti Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni e Giovanni Giudici; i pittori Renato Guttuso, Andrea Cascella, Ernesto Treccani; gli editori Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli; i critici Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Morando Morandini, Fernanda Pivano; la scienziata Margherita Hack; gli architetti Gae Aulenti, Giò Pomodoro, Paolo Portoghesi; gli scrittori Alberto Moravia, Umberto Eco, Domenico Porzio, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Natalino Sapegno, Primo Levi, Lalla Romano; i politici Umberto Terracini, Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Paietta; i sindacalisti Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti; i giornalisti Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Giuseppe Turani, Carlo Rossella, Camilla Cederna, Tiziano Terzani. Si potrebbe continuare a lungo. Ma crediamo che basti per dimostrare che il novanta per cento (per non dire il novantanove) della cultura italiana era, allora, orientata in tal senso. Quello era il clima. Un clima che non risparmiò i giornali. Se molti intellettuali flirtarono (a parole, beninteso) con l’estremismo, quando non addirittura con la lotta armata, molti giornalisti furono maestri di disinformazione. Per anni su quasi tutti i giornali italiani si denunciò, giustamente, la violenza “nera” (che, sia chiaro, c’era) ma si nascose l’esistenza di una violenza “rossa”. Ecco che cosa scrisse Giorgio Bocca su “Il Giorno” il 23 febbraio 1975: «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile…». Mentre Bocca scriveva quel pezzo, le Brigate Rosse avevano già ucciso tre persone (i missini Mazzola e Giralucci a Padova e il maresciallo dei carabinieri Maritano a Robbiano di Mediglia), rapito un giudice (Mario Sossi) e organizzato l’evasione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Ma erano in tanti, come Bocca (che anni dopo fece un’onesta autocritica) a scrivere che le Brigate Rosse erano “sedicenti”, fascisti o poliziotti mascherati. Ha scritto Gianpaolo Pansa, giornalista di sinistra e quindi non sospettabile di faziosità destrorsa: «A sinistra dinanzi a quei primi colpi di pistola molti non vollero vedere né sentire. Alzava la testa un nemico nuovo, eppure non si avvertì il pericolo e non si riconobbe da che parte veniva. Soltanto alcuni ebbero l’onestà di ammettere subito che il terrorismo delle Brigate rosse e dei gruppi affini nasceva in casa, tra le file delle sinistre, e andava messo nel conto del Sessantotto, tra i frutti marci di quella straordinaria stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori». Per dare un’idea di quanto quel clima condizionò perfino la cosiddetta “stampa borghese”, si pensi che lo stesso rogo di Primavalle (vedi il capitolo ‘L’omicidio dei fratelli Mattei) fu definito dal “Messaggero” di Roma come «una faida tra fascisti» e che quando, il 2 giugno 1977, Indro Montanelli fu ferito dalle Brigate Rosse, il “Corriere della Sera” di Piero Ottone riuscì nel miracolo giornalistico di non mettere nel titolo il nome di Montanelli. Cose che succedevano in quell’Italia, e che oggi molti vorrebbero dimenticare per sempre. Ecco il contesto che spinse tanti ragazzi – i più fragili probabilmente – a pensare di risolvere le ingiustizie con altre, tragiche, ingiustizie.
PLASMARE LE MASSE. LA SCUOLA DI FRANCOFORTE.
Si riporta un contributo di Timothy Matthews pubblicato su centrosangiorgio.com il 23 gennaio 2013. Chiediamo venia ai nostri lettori se proponiamo un altro articolo sulla Scuola di Francoforte, ma - a nostro avviso - rispetto a quello precedente questo apporta altri importanti elementi di riscontro. Siamo convinti che la piena comprensione del ruolo giocato da questo Istituto nell'opera di dissoluzione della civiltà occidentale e cristiana sia fondamentale, tanto che sarebbe impossibile capire come siamo giunti allo stato attuale delle cose senza aver compreso la reale portata della rivoluzione culturale degli anni Sessanta. A riprova della grande influenza esercitata da questa Scuola, c'è il fatto indiscusso che nonostante essa abbia cessato ogni attività nel lontano 1953, i suoi slogan e i suoi «ideali» godono ancora di ottima salute anche ai nostri giorni. «Ai nostri giorni, la civiltà occidentale sta attraversando una crisi che è essenzialmente diversa da qualsiasi cosa che sia mai stato sperimentato in precedenza. Le società del passato hanno cambiato le loro istituzioni sociali o le loro credenze religiose sotto l'influsso di forze esterne o a causa del lento sviluppo dovuto alla crescita interna. Ma nessuno, come nella nostra epoca, ha mai dovuto affrontare consapevolmente la prospettiva di un cambiamento fondamentale delle convinzioni e delle istituzioni su cui poggia il tessuto di tutta la vita sociale [...]. La civiltà è stata sradicata dalle sue fondamenta naturali e tradizionali, ed è stata ricostituita come una nuova organizzazione che è artificiale e meccanica come una fabbrica moderna». Christopher Henry Dawson (1889-1970).
Introduzione. Satana desidera che la maggior parte del suo lavoro nel mondo rimanga nell'ombra Per questa ragione, ho cercato recentemente di fare luce sulle sue macchinazioni pubblicando due scritti. Il primo, un breve articolo pubblicato sull'Association of Catholic Women’s ACW Review; il secondo, un commento (che mi ha alquanto sorpreso) proveniente da un sacerdote russo secondo il quale ora noi, in Occidente, viviamo in una società comunista. Questi due articoli possono aiutarci a spiegare l'assalto furioso della burocrazia che in molti Paesi in tutto il mondo si sta adoperando per rimuovere i diritti dei genitori ad essere gli educatori primari e i difensori dei loro figli. L'ACW Review ha preso in esame l'attività corrosiva della Scuola di Francoforte, un gruppo di studiosi tedesco-americani che svilupparono prospettive estremamente provocatorie e originali sulla società contemporanea e sulla cultura, attingendo da Hegel, da Marx, da Nietzsche, da Freud e da Weber. Non che la loro idea di una «rivoluzione culturale» fosse particolarmente nuova. «Finora - scrive Joseph de Maistre (1753-1821), che per quindici anni fu massone - le nazioni sono state uccise per conquista, vale a dire per penetrazione; ma a questo punto si pone una grande domanda: una nazione può morire unicamente sul proprio suolo, senza trapianto, né penetrazione, per putrefazione, ossia lasciando giungere la corruzione fino al punto centrale e fino ai principî originali e costitutivi».
Cos'era la Scuola di Francoforte? Nei giorni che seguirono la Rivoluzione bolscevica in Russia si credeva che la rivoluzione dei lavoratori si sarebbe rapidamente estesa all'Europa ed, eventualmente, anche agli Stati Uniti. Ma non fu così. Verso la fine del 1922, l'Internazionale Comunista (il Komintern) cominciò a prendere in esame le ragioni di questa mancata espansione. Su iniziativa di Lenin venne organizzata una riunione segreta all'Istituto Marx-Engels di Mosca. Lo scopo della riunione era di chiarificare il concetto di rivoluzione culturale marxista e renderla effettiva. Fra i presenti c'erano: György Lukács (1885-1971), un aristocratico ungherese figlio di un banchiere, che era divenuto comunista durante la Prima Guerra Mondiale. Come teorico marxista, egli sviluppò l'idea di «Rivoluzione ed Eros» - ossia l'istinto sessuale usato come un strumento di distruzione Willi Münzenberg (1889-1940), il quale propose come soluzione di «organizzare gli intellettuali e utilizzarli per far imputridire la civiltà occidentale. Solamente dopo che essi avranno corrotto tutti i suoi valori e avranno reso la vita impossibile potremo imporre la dittatura del proletariato». Come ha scritto lo studioso Ralph de Toledano (1916-2007), l'autore conservatore e co-fondatore della National Review, «si trattò di una riunione forse più dannosa per la civiltà occidentale di quanto non lo fosse la stessa Rivoluzione bolscevica» 4. Lenin morì nel 1924. A partire da quel momento, tuttavia, Stalin (1879-1953) iniziò a sospettare che Münzenberg e Lukács fossero pensatori revisionisti. Nel giugno del 1940, Münzenberg fuggì nel Sud della Francia dove, su ordine di Stalin, una squadra di sicari della NKVD (la polizia segreta sovietica) lo raggiunse e lo impiccò ad un albero. Nell'estate del 1924, dopo essere attaccato per i suoi scritti dal 5º Congresso del Komintern, Lukács si trasferì in Germania dove presiedette la prima riunione di un gruppo di sociologi filo-comunisti, un incontro che portò alla fondazione della Scuola di Francoforte. Questa «Scuola», il cui progetto era di arricchire il programma rivoluzionario, venne inizialmente impiantata nell'Università di Francoforte, nell'Institut für Sozialforschung. All'inizio. la Scuola e l'Istituto erano indistinguibili. Nel 1923, l'Istituto venne ufficialmente stabilito e fondato da Felix Weil (1898-1975). Quest'ultimo era nato in Argentina, ma all'età di nove venne mandato a frequentare la scuola in Germania. Egli frequentò le Università di Tübingen e di Francoforte, dove si laureò con un dottorato in Scienze Politiche. Mentre frequentava queste Università crebbe in lui l'interesse per il socialismo e per il marxismo. Secondo lo storico intellettuale Martin Jay, il tema della sua disquisizione furono «i problemi pratici nel perfezionare il socialismo». Carl Grünberg (1861-1940), il direttore dell'Istituto dal 1923 al 1929 era un marxista dichiarato, anche se l'Istituto non fosse affiliato ufficialmente ad alcun partito.
Ma nel 1930, Max Horkheimer (1895-1973) assunse il controllo e credette che la teoria di Marx doveva essere la base delle ricerche dell'Istituto. Quando Adolf Hitler (1889-1945) salì al potere, l'Istituto venne chiuso e i suoi membri, per vie diverse, fuggirono negli Stati Uniti e si installarono nelle migliori Università (Columbia,Princeton, Brandeis, California e Berkeley). La Scuola annoverava fra i suoi membri il guru della nuova sinistra degli anni '60 Herbert Marcuse, Max Horkheimer, Théodor Adorno(1903-1969), il popolare scrittore Erich Fromm (1900-1980), Leo Löwenthal (1900-1993) e Jurgen Habermas, probabilmente il rappresentante più influente della Scuola di Francoforte. Fondamentalmente, la Scuola era convinta che finché un individuo ha la fede - o anche la speranza in una credenza religiosa - è persuaso che il dono divino della ragione possa risolvere i problemi della società. In queste condizioni, quella società non avrebbe mai raggiunto lo stato di disperazione e di alienazione giudicata necessaria per provocare una rivoluzione socialista. Il loro compito, perciò, era di minare il più rapidamente possibile l'eredità cristiana. Per raggiungere tale obiettivo, essi applicarono la critica distruttiva più negativa possibile ad ogni sfera della vita allo scopo di destabilizzare la società e abbattere quello che essi consideravano l'ordine «oppressivo». Essi speravano che le loro idee si sarebbero diffuse come un virus, «continuando l'opera dei marxisti occidentali servendosi di altri mezzi», come disse uno dei membri della Scuola. Per favorire la loro «pacifica» rivoluzione culturale - ma senza rivelare a nessuno i loro piani per il futuro - la Scuola raccomandò (fra le altre cose):
La creazione del reato di razzismo;
Il cambiamento incessante per creare confusione;
L'insegnamento del sesso e dell'omosessualità ai bambini;
L'indebolimento dell'autorità scolastica e degli insegnanti;
L'aumento dell'immigrazione per distruggere l'identità;
La promozione del consumo di alcolici;
La propaganda anticlericale per svuotare le chiese;
La creazione di un ordinamento giuridico inattendibile che non tuteli le vittime del crimine;
La dipendenza dallo Stato o dai benefici statali;
Il controllo dei mass media e la possibilità di silenziarli;
L'incoraggiamento della separazione o del divorzio.
Una delle idee principali della Scuola di Francoforte era quella di sfruttare l'idea freudiana di «pansessualismo», della ricerca del piacere, dello sfruttamento delle differenze tra i sessi e dell'abbattimento delle relazioni tradizionali tra uomini e donne. Per favorire la realizzazione dei loro scopi essi si prefiggevano:
Di attaccare l'autorità paterna, di negare i ruoli specifici di padre e madre, e di strappare alle famiglie il loro diritto ad essere gli educatori principali dei loro figli;
Di abolire le differenze nell'istruzione tra ragazzi e ragazze;
Di abolire tutte le forme di dominio maschile (anche mediante la presenza di donne nelle forze armate);
Di dichiarare che le donne sono una «classe oppressa» e gli uomini degli «oppressori».
Münzenberg riassunse l'obiettivo a lungo termine della Scuola di Francoforte con queste parole: «Corromperemo così tanto l'Occidente che puzzerà» 5. La Scuola credeva che ci fossero due tipi di rivoluzione: (a una politica e (b una culturale. La rivoluzione culturale demolisce dall'interno. «Le forme moderne di sottomissione sono caratterizzate dalla dolcezza» 6. Essi lo considerarono un progetto a lungo termine e per vie delle loro concezioni si concentrarono sulla chiaramente sulla famiglia, sull'istruzione, sull'informazione, sul sesso e sulla cultura popolare.
La famiglia. La «teoria critica» della Scuola ha insegnato che la «personalità autoritaria» è un prodotto della famiglia patriarcale, un'idea presa direttamente in prestito dall'opera di Friedrich Engels (1820-1895) intitolata L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), un libro che promuove il matriarcato. Già Karl Marx aveva scritto, sia ne Il Manifesto del Partito Comunista (1848) che in L'ideologia tedesca (1845), parlando della nozione integrale della «comunità delle donne», parole denigratorie sull'idea della famiglia come unità di base della società. Si trattava di uno dei dogmi fondamentali della «teoria critica»: la necessità di abbattere la famiglia contemporanea. Gli studiosi dell'Istituto sostenevano che «anche un crollo parziale dell'autorità dei genitori all'interno della famiglia avrebbe potuto aumentare la capacità di una futura generazione di accettare un cambiamento sociale». Seguendo Karl Marx, la Scuola sottolineò il fatto che la «personalità autoritaria» è un prodotto della famiglia patriarcale (come abbiamo visto, fu Marx che denigrò l'idea della famiglia come unità basilare della società). Tutti ciò preparò il terreno ad una guerra contro il genere maschile condotta negli anni Sessanta da Herbert Marcuse (1898-1979) sotto le sembianze della «liberazione della donna» e del movimento della nuova sinistra. Essi proposero di trasformare la cultura occidentale in un modello di società dominato dalla donna. Nel 1933, Wilhelm Reich (1897-1957), uno dei membri della Scuola, scrisse nell'opera Psicologia di massa del fascismo che il matriarcato era l'unico tipo di famiglia genuino di una «società naturale». Anche Eric Fromm era un fautore attivo della teoria matriarcale. La mascolinità e la femminilità, diceva Fromm, non erano dovuti alle diversità sessuali «essenziali», come avevano pensato i romantici, ma derivavano «dai diversi ruoli nella vita che in parte erano già socialmente determinati» 8. Il suo dogma fu il precedente su cui si fondarono le dichiarazioni delle femministe integrali che, oggi, appaiono su quasi tutti i giornali più conosciuti e in molti programmi televisivi. I rivoluzionari sapevano benissimo quello che volevano fare e come farlo. E ci sono riusciti.
L'istruzione. Lord Bertrand Russell (1872-1970) aiutò la Scuola di Francoforte nel suo intento di creare una nuova ingegneria sociale di massa e ne parlò nel suo libro del 1951 The Impact of Science on Society («L'impatto della scienza sulla società»). Egli scrisse: «La fisiologia e la psicologia offrono campi per la tecnica scientifica che attendono ancora di essere sviluppati». L'importanza della «psicologia di massa è stata enormemente aumentata dalla crescita dei metodi moderni di propaganda. Di questi il più influente è quello denominato "educazione". Gli psicologi del futuro disporranno di un gran numero di classi di bambini scolarizzati su cui sperimenteranno diversi metodi per produrre l'incrollabile convinzione che la neve è nera [...]. Altri risultati si faranno presto strada: primariamente, che le influenze familiari sono un ostacolo. Secondariamente, che non si può fare gran che se l'indottrinamento non inizia prima dell'età di dieci anni [...]. Terzo, certi versi messi in musica e intonati ripetutamente sono molto efficaci. Quarto, coloro che manterranno l'opinione che la neve è bianca dimostreranno di provare un gusto morboso per l'eccentricità. Io già lo prevedo. Sta agli scienziati del futuro scoprire con precisione quanto costerà a testa far credere ai bambini che la neve è nera, e quanto costerebbe meno fargli credere che essa è grigio scuro. Quando la tecnica sarà stata perfezionata, ogni governo responsabile dell'istruzione di una generazione sarà in grado di controllare i suoi soggetti in tutta sicurezza senza il bisogno di esercito o di polizia». Scrivendo nel 1992 sulla rivista Fidelio, Michael Minnicino osservò che gli attuali eredi di Marcuse e di Adorno dominano completamente le Università, «insegnando ai loro studenti a sostituire la ragione con esercizi rituali di "Politicamente Corretto". Ci sono pochissimi libri teorici sull'arte, sulle lettere o sulla lingua (pubblicati negli Stati Uniti o in Europa) che non diano apertamente credito al loro debito verso la Scuola di Francoforte. La caccia alle streghe nelle Università di oggi è soltanto la realizzazione del concetto marcusiano di "tolleranza repressiva" - ossia tolleranza per movimenti di sinistra, ma intolleranza per movimenti di destra - una nozione imposta dagli studiosi della Scuola di Francoforte».
Le droghe. Il Dr. Timothy Leary (1920-1996) ha dedicato uno riferimento fugace al lavoro della Scuola di Francoforte nel suo resoconto dell'operato dell'Harvard University Psychedelic Drug Projectintitolato Flashbacks. Egli cita una conversazione avuta con Aldous Huxley (1894-1963), iol quale gli disse: «Queste droghe cerebrali, prodotte in massa nei laboratori, provocheranno cambiamenti enormi nella società. Ciò accadrà con o senza lei o me. Tutto ciò che possiamo fare è diffondere la parola. L'ostacolo a questa evoluzione, caro Timothy, è la Bibbia». Leary prosegue dicendo: «Ci siamo schierati contro il concetto cristiano di un unico Dio, di una sola religione e di un'unica realtà che ha contaminato l'Europa per secoli e l'America fin dai giorni della sua fondazione. Le droghe che aprono la mente a realtà multiple ci portano inevitabilmente ad una prospettiva politeistica dell'Universo. Sentiamo che è giunta l'ora dell'avvento di una nuova religione umanista basata sull'intelligenza, sul pluralismo amichevole e sul paganesimo scientifico» 10. Uno dei direttori del progetto Authoritarian Personality, Nevitt Sanford (1909-1996), ebbe un ruolo importantissimo nell'uso delle droghe psichedeliche. Nel 1965, egli scrisse in un libro pubblicato dal braccio editoriale del Tavistock Institute britannico: «L'America sembra essere ossessionata dai 40.000 tossicodipendenti che la popolano e che sono considerati persone ribelli che devono essere tenute a freno a tutti i costi da costose attività di polizia. Solamente un puritanesimo scomodo potrebbe augurarsi il controllo dei tossicodipendenti (anziché dei cinque milioni di alcolizzati) trattandoli come un problema di polizia e non come una faccenda medica, sopprimendo droghe innocue come la marijuana e il peyote insieme ad altre più pericolose». I principali propagandisti odierni della lobby della droga basano le loro argomentazioni in favore della legalizzazione degli stupefacenti sulla stessa ciarlataneria scientifica esposta anni fa dal Dr. Sanford. Tra i propagandisti figura anche l'ateo multimiliardario George Soros che ha scelto, come uno dei suoi primi programmi nazionali, di contrastare l'efficacia della guerra alla droga dell'America con uno stanziamento di 37.000.000.000 all'anno. Il Lindesmith Center, finanziato da Soros, è diventato il portavoce principale di quegli americani che vogliono depenalizzare l'uso delle droghe. «Soros è il papà della legalizzazione delle droghe», ha affermato Joseph Califano Jr., del Columbia University's National Center on Addiction and Substance Abuse.
Musica, televisione e cultura popolare. Adorno divenne il capo dell'unità sugli «studi sulla musica». Basandosi sulle sue teorie sulla musica moderna, egli promosse la prospettiva di diffondere musica popolare atonale come un'arma per distruggere la società, e forme degenerate musicali in grado di causare malattie mentali. Adorno disse che gli Stati Uniti sarebbero stati messi in ginocchio mediante l'uso della radio e della televisione incoraggiando una cultura del pessimismo e della disperazione. Alla fine degli anni '30, lui e Horkheimer emigrarono a Hollywood. Anche la diffusione dei videogiochi violenti rientra negli scopi perseguiti dalla Scuola di Francoforte.
Il sesso. Nel suo libro The Closing of the American Mind («La chiusura della mente americana»), il filosofo Allan Bloom (1930-1992) osserva come Marcuse attrasse gli studenti universitari negli anni Sessanta presentando una combinazione di Marx e di Freud. In Eros e Civiltà (1955) e in L'uomo a una dimensione (1964), Marcuse promette che la sopraffazione del capitalismo e della sua falsa coscienza avrebbe dato luogo ad una società in cui le più grandi soddisfazioni sarebbero state quelle legate al sesso. La musica rock tocca nel giovane lo stesso tasto. La libera espressione sessuale, l'anarchia, la penetrazione dell'inconscio irrazionale e il poter andare a briglie sciolte è ciò che essi hanno in comune.
I mezzi di comunicazione. I mass media moderni - incluso il New York Times, diretto dal 1992 da Arthur «Pugno» Sulzberger Jr. - si sono fortemente ispirati allo studio della Scuola di Francoforte intitolato The Authoritarian Personality 12. Nella sua libro Arrogance 13, l'ex reporter della CBS News Bernard Goldberg dice che Sulzberger «crede ancora in tutte quelle vecchie nozioni degli anni Sessanta sulla "liberazione" e sul "cambiare il mondo dell'uomo" [...]. Infatti, gli anni di "Pugno" sono stati una marcia continua su PC Boulevard, con una sala-stampa dedicata fieramente ad ogni tipo di diversità, eccetto quelle di genere intellettuale». Nel 1953, l'Istituto si ritrasferì all'Università di Francoforte. Adorno morì nel 1955 e Horkheimer nel 1973. L'Istituto di Ricerca Sociale continuò nelle sue ricerche, ma la Scuola di Francoforte cessò di esistere. Il «marxismo culturale» che da allora ha preso possesso delle nostre scuole e delle Università - con il suo «politicamente corretto» che sta distruggendo i nostri legami familiari, le nostre tradizioni religiose e tutta la nostra cultura - è uscito dalla Scuola di Francoforte. Furono questi intellettuali marxisti che, più tardi, durante le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, coniarono la frase «fate amore, non fate la guerra»; furono questi intellettuali che promossero la dialettica della «critica negativa»; furono questi teorici che sognarono un'utopia governata dalle loro regole. Furono i loro concetti che hanno portato alla mania secondo cui bisogna necessariamente riscrivere la storia, e alla moda della «decostruzione». Ecco i loro mantra: «Le diversità sessuali sono una convenienza sociale»; «Se è bello, fallo»; «Fà ciò che ti va di fare». In un'allocuzione dell'agosto del 1999 indirizzata all'Accademia Navale degli Stati Uniti, il Dr. Gerald L. Atkinson fornì un'informativa di fondo sulla Scuola di Francoforte, ricordando al suo pubblico che egli fu il «fante» della Scuola di Francoforte che introdusse le tecniche di «sensitivity training» utilizzate nelle scuole pubbliche già nei trent'anni precedenti (e ora impiegate dall'esercito degli Stati Uniti per istruire le truppe sulle «molestie sessuali»). Durante le sedute di «sensitivity training» nelle scuole, agli insegnanti venne detto di non insegnare, ma di «agevolare». Le classi divennero dei centri di introspezione in cui i bambini parlavano dei loro sentimenti soggettivi. Questa tecnica venne progettata per convincere i bambini che erano l'unica autorità nella loro vita. Atkinson continuò affermando: «L'opera "The Authoritarian Personality", preparata in America dalla Scuola di Francoforte negli anni Quaranta, spianò la strada alla guerra successiva contro il genere maschile promossa da Herbert Marcuse e dalla sua banda di rivoluzionari sociali sotto le sembianze di "liberazione della donna" e di "movimento della nuova sinistra" degli anni Sessanta. L'evidenza che queste tecniche psicologiche destinate a cambiare la personalità erano in realtà destinate alla castrazione del maschio americano, è offerta da Abraham Maslow, fondatore di "Third Force Humanist Psychology" e promotore della psicoterapia di classe, il quale scrisse che "il prossimo passo nell'evoluzione personale sarà una trascendenza della mascolinità e della femminilità in una umanità generale"». Il 17 aprile 1962, Abraham Maslow (1908-1970) tenne una conferenza ad un gruppo di suore all'Università del Sacro Cuore, la facoltà delle donne cattoliche del Massachusetts. Egli annotò sul suo diario come il suo discorso riscosse un «grande successo», ma che aveva trovato questo fatto sconcertante. «Esse non dovrebbero applaudirmi - scrisse - ma attaccarmi. Se fossero completamente consapevoli di ciò che sto facendo dovrebbero contrastarmi».
Conclusione. Se permetteremo che la sovversione dei valori continui, sarà inevitabile che le generazioni future perderanno tutto ciò per cui i nostri antenati hanno sofferto e sono morti. Siamo stati avvisati, dice Atkinson. Una lettura della Storia ci dice che stiamo per perdere una delle cose più preziose che abbiamo: la nostra libertà individuale. «Ciò che stiamo attualmente sperimentando - scrive Philip Trower in una lettera all'autore - è una miscela di due scuole di pensiero; la Scuola di Francoforte e la tradizione liberale che risale all'illuminazione intellettuale del XVIII secolo. La Scuola di Francoforte ha chiaramente le sue origini remote nell'Illuminismo del Settecento. Ma come il marxismo di Lenin, essa è un movimento di rottura. Gli scopi immediati del liberalismo classico e della Scuola di Francoforte sono stati principalmente gli stessi, ma la mèta finale è diversa. Per liberali si trattava di "migliorare" e "perfezionare" la cultura occidentale, mentre la Scuola di Francoforte vuole provocare la sua distruzione. A differenza dei marxisti della linea dura, la Scuola di Francoforte non ha pianificato alcun futuro. Ma tale Scuola sembra essere più perspicace dei nostri classici liberali laicisti. Almeno essi sembrano consapevoli del fatto che le deviazioni morali che promuovono renderanno la vita sociale impossibile o intollerabile. Ma questo lascia un grande punto interrogativo sul futuro che ci vogliono regalare». Nel frattempo, la «rivoluzione pacifica» avanza...
IL SENSO DEI FRANCESI PER LA RIVOLTA.
Il senso dei francesi per la rivolta. Dalla “Grande jaquerie” del 1358 al movimento dei gilets gialli passando per la rivoluzione del 1789: quando la violenza politica è nel Dna della nazione, scrive Daniele Zaccaria il 6 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Jean le Bel scrittore e storico del XIV Secolo descriveva con queste parole la Grande jacquerie del 1358: «Si portavano avanti senza consigli e senza armature, agitando bastoni chiodati e coltellacci, più selvaggi e spietati dei Saraceni, entrarono in una casa e uccisero un cavaliere, il suo scudiero, sua moglie e i bambini, poi gli diedero fuoco e continuarono così nelle case e i castelli di tanta brava gente. Nessuno li guidava ma loro continuavano a uccidere e a bruciare tutto senza misericordia alcuna». Il punto di vista di le Bel, intellettuale aristocratico e vicino alla Corona è senz’altro fazioso e il suo racconto ricco di enfasi, ma la rivolta contadina contro i privilegi dei signori feudali e della grande nobiltà fu davvero un’orda ferocissima e priva di controllo; nelle campagne dell’Ille de France, della Picardia, dell’Artois e della Normandia la violenza dilaga sfrenata, nessuno si mette a capo del movimento nessuno guida le migliaia di “Jacques Bonhommes” ( il nome collettivo affibbiato ai paysans) inferociti e vessati dalle gabelle che la nobiltà pretendeva avidamente dalle loro tasche. La rivolta fu poi repressa nel sangue con i mercenari assoldati dai conti e i marchesi del nord, in particolare gli scagnozzi di Charles II di Navarra, che restituirono con gli interessi le violenze ai contadini in una dialettica rivoluzione/ repressione che caratterizzerà la storia della Francia, dal medioevo ai nostri giorni. Molti politologi paragonano con un certo disprezzo la protesta dei gilets gialli contro le “gabelle” del presidente Macron alla Grande Jacquerie del 1358 giocando con suggestivi punti di contatto: la provenienza rurale, la ribellione fiscale, l’odio verso le élites, la mancanza di strategia e di leader politici. La similitudine però non tiene, i gilets che da tre settimane paralizzano la Francia sono classi medie impoverite di una società industriale avanzata, compararli ai contadini del 1300 quando l’Europa era flagellata dalla peste nera e dalla Guerra dei cent’anni è un modo alquanto pittoresco di leggere il conflitto sociale. C’è però un filo rosso che lega i tumulti delle jacqueries alla guerriglia urbana che nell’ultimo week end ha incendiato i quartieri chic di Parigi: il senso dei francesi per la rivolta, una disposizione permanente, quasi iscritta nel Dna della nazione, trasversale agli schieramenti politici. La Rivoluzione del 1789 guidata dalle élites cittadine del Terzo Stato ha una profonda radice contadina; tutti gli storici concordano che la Guerra delle farine del 1773 et 1774, con gli agricoltori che si ribellano al potere assoluto per l’aumento del prezzo del grano annuncia con 15 anni di anticipo la caduta della monarchia. Quel grumo di violenza rappresa esplode poi nelle giornate rivoluzionarie dove il fanatismo dei giacobini (per dirla con Engels) si impone in una spirale di rappresaglie infinite. Nel cerchio di sangue del Terrore nasce un’altra rivolta contadina, stavolta di segno opposto: è l’insurrezione della Vandea monarchica e clericale che reagisce prendendo le armi agli espropri e alla leva obbligatoria istituita dal governo rivoluzionario. «Distruggete la Vandea!», tuonò il deputato della Montagna Bertrand Barère alla Convenzione il 1 agosto e la Vandea effettivamente fu messa a ferro e fuoco dall’esercito repubblicano: oltre 170mila morti in una repressione che per alcuni studiosi assomiglia a un vero e proprio genocidio. Nell’incedere dei conflitti a ogni ribellione della società segue una reazione ancor più brutale da parte dei poteri. E’ accaduto nel 1848 dopo i moti che portarono alla nascita della Seconda Repubblica e alla caduta di Luigi Filippo; il governo conservatore uscito dalle elezioni soffocò nel sangue le proteste operaie con i reggimenti del generale Cavaignac che spararono contro la folla in piazza uccidendo migliaia di persone. Stesso climax per la Comune di Parigi (1871), un’altra rivolta popolare repressa con una spietatezza senza pari (30mila vittime) dalle forze controrivoluzionarie. Attraversando guerre e rivoluzioni i francesi, di destra, di centro e di sinistra, hanno continuato ciclicamente a ribellarsi, dai “qualunquisti” di Poujade negli anni 50 alle contestazioni studentesche e operaie del ’ 68, al movimento dei ferrovieri del ’ 95 e dei “berretti rossi” in Bretagna nel 2013, fino agli odierni gilets gialli, l’ultima incarnazione di quel demone che da otto secoli segna i passaggi cruciali della storia francese.
1968: COSA SUCCESSE...
50 anni fa l'alluvione del Biellese. Tra il 2 ed il 5 novembre 1968 il Piemonte fu colpito da un'eccezionale ondata di maltempo: 100 morti. La Valle Strona spazzata via con le storiche industrie tessili, scrive Edoardo Frittoli il 6 novembre 2018 su "Panorama". A mezzo secolo esatto dall'ondata di maltempo che ha colpito l'Italia, ricordiamo la tragica alluvione che colpì il Piemonte ed in particolare il Biellese. A Campore di Vallemosso (Valle Strona) la prima vittima del maltempo fu sepolta da tonnellate di detriti già nel primo pomeriggio del 2 novembre 1968. Si trattava di una operaia di una ditta tessile che rientrava dal turno di lavoro e fu travolta dalla piena del torrente che tagliava in due la stretta valle. Il Biellese (e tutto il Piemonte) erano stati investiti già dal giorno precedente da una violentissima perturbazione atlantica con venti umidi di scirocco provenienti dal basso Piemonte, già colpito da forti piogge e allagamenti. Mentre la valle scivolava nel buio a causa dell'improvviso e prolungato black-out, l'impeto del torrente Elvo trascinava con sè due anziane signore che avevano cercato invano di rifugiarsi all'interno della loro merceria. Cominciava così una delle più gravi tragedie del maltempo del dopoguerra, che cancellerà circa un centinaio di vite in poche ore, provocando miliardi di danni all'industria e all'agricoltura della zona. Tra questi cento morti, la maggior parte erano concentrati nel biellese, in particolare lungo la Valle Strona sommersa dalle devastanti frane scaricate dai fianchi delle montagne.
La valle della morte. Nell'occhio del ciclone si venne a trovare il paese di Vallemosso, allora in provincia di Vercelli, situato in fondo alla Valle Strona. Fu talmente evidente l'entità del disastro da essere ribattezzata "la valle della morte". Lungo il corso del torrente Strona la furia dell'alluvione metteva in ginocchio Crosa, Strona, Mosso Santa Maria, Camandona, Bioglio. Erano crollate le case, inghiottite le strade, devastate le fabbriche. E come se non bastasse, per un soffio non cedette la diga di Camandona, alimentata dal torrente che dà il nome alla valle. I primi morti furono accatastati alla meglio nei pochi capannoni rimasti in piedi dopo il passaggio della valanga di fango e detriti dai superstiti dei paesi rimasti completamente isolati. Il giorno successivo ne avevano contati già 70. Sulla strada tra Quaregna e Cossato si aggiunsero altre vittime per il crollo di un ponte sul quale stavano transitando alcune auto. Molte furono le persone sepolte dal crollo delle loro case oppure colti dall'onda di piena nelle strade e nelle fabbriche. Altre furono trascinate in basso dall'impeto delle acque, molti furono gli abitanti colti dalla morte nel sonno, poiché l'ondata di piena più grave si era abbattuta sui paesi piombati nel buio.
I torrenti e l'effetto diga. La principale causa della piena dello Strona fu dovuta al carico eccezionale subito dalle piene degli affluenti che in quota avevano subito il cosiddetto "effetto diga" per l'ostruzione degli alvei dovuta alle numerose frane. La situazione, mentre imperversava il maltempo sulle teste chine dei soccorritori, era apocalittica. Oltre alle vittime, ingentissimi i danni non soltanto alle infrastrutture ma anche alla maggior parte delle aziende dello storico distretto tessile biellese.
Addio al tessile della prima rivoluzione industriale. Su 40mila addetti al settore, ben 10mila erano rimasti senza lavoro per gli effetti dell'alluvione. 120 stabilimenti su 400 della zona Valle Strona-Valsessera-Valsesia non esistevano più. Tra le punte di diamante del distretto costrette ad interrompere la produzione c'erano Loro Piana, Zegna, Barbero, Pietro e Serafino Bertotto, Tessil-Union, Verlanda, Sella, Reda, Giuseppe e Gregorio Botto. Circa il 50% della fornitura laniera nazionale (la maggior parte della quale destinata all'export) era stata spazzata via dalla furia delle acque, mentre sopra ai pochi tetti rimasti intatti volteggiavano gli elicotteri del Soccorso Aereo di Milano Linate, dell'Aviazione Leggera dell'Esercito, di Carabinieri e Vigili del Fuoco decollati dall'aeroporto di Cameri dove era stata allestita la base del Soccorso aereo. I segni della terribile alluvione di 50 anni fa furono evidenti fino alla pianura attorno al capoluogo Vercelli, dove il fiume Sesia raccolse la piena dello Strona e degli altri affluenti, riversandosi e danneggiando le campagne circostanti e danneggiando la fitta rete di canali delle risaie, sopra tutti lo storico canale Cavour. Quando il 7 novembre i primi cingolati dell'esercito giungevano faticosamente in ciò che rimaneva dell'abitato di Vallemosso, il bilancio delle vittime nel solo comune era di 58 morti. Le famiglie senza tetto della zona ben 300. Le ultime vittime della tragedia di mezzo secolo fa si registrarono a Piedimulera in Val d'Ossola, dove si era spostata l'ondata di maltempo. Per il crollo di della loro casa, fu cancellata un'intera famiglia di 8 persone.
Belice, 50 anni dal terremoto. La notte del 15 gennaio 1968 un violento sisma sconvolgeva la Sicilia occidentale. Centinaia di morti, migliaia di feriti, scrive Edoardo Frittoli il 14 gennaio 2018 su "Panorama". Esattamente mezzo secolo fa un violentissimo sisma sconvolgeva la Sicilia occidentale tra le province di Trapani, Palermo ed Agrigento. La scossa più forte, alle 3 del mattino del 15 gennaio 1968, raggiunse una magnitudo di 6,4. I centri più colpiti furono i paesi di Gibellina, Poggioreale e Montevago nella zona della valle del fiume Belice nell'entroterra trapanese. Le vittime del terremoto saranno circa 400, più di 1.000 i feriti e circa 90.000 gli sfollati dall'area più vicina all'epicentro.
Valle del Belice, Sicilia occidentale. Notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968. Le scosse più violente erano state anticipate da altre di minore intensità poco dopo le 13,30 del giorno precedente, il 14 gennaio, alle quali le autorità e la popolazione non avevano dato eccessivo peso. Infatti le prime voci di cronaca avevano parlato soltanto di alcuni edifici lesionati e di nessuna vittima. Poche ore più tardi però, appena dopo le 16, una scossa più violenta aveva creato danni estesi in diversi comuni del Belice, tanto che buona parte degli abitanti aveva deciso di trascorrere la notte fuori dalle case o di rifugiarsi in casolari isolati di campagna. Il sisma fu avvertito in maniera allarmante anche a Palermo, dove i cittadini avevano intasato le strade cercando la fuga fuori dal centro abitato. Ma le scosse del pomeriggio furono soltanto il preludio al devastante sisma che avrebbe colpito durante le prime ore del 15 gennaio con una serie di violente scosse a partire dalle ore 2:34. La devastazione giunse mezz'ora più tardi con la scossa più forte dell'intero sciame sismico. Alle 3:01 i centri abitati di Montevago, Gibellina e Poggioreale furono letteralmente cancellati dalle carte geografiche. Le vecchie case e gli edifici religiosi completamente costruiti in tufo non opposero alcuna resistenza alla violenza delle scosse, disintegrandosi in pochi secondi e trasformandosi in cumuli di macerie, che divennero la tomba di centinaia di cittadini. I crolli furono ulteriormente aggravati dai numerosi incendi che divamparono a causa del contatto tra le travi dei tetti in legno e le molte stufe accese nel freddo del mese di gennaio.
L'alba del giorno dopo. Ai primi e poco organizzati soccorritori che già nelle immediate circostanze del sisma tentarono con i pochi mezzi a disposizione di portare soccorso ai centri maggiormente colpiti, si presentò uno scenario apocalittico, oltre al fatto che le strade di accesso ed i ponti erano stati inghiottiti dalla terra sconvolta dal terremoto. Sotto le macerie, migliaia di persone erano ancora in vita nella lunghissima attesa di essere riportate alla luce dai Vigili del Fuoco. Alle prime luci dell'alba a Montevago la conta dei morti aveva già superato le 200 vittime accertate. La macchina dei soccorsi evidenziò sin da subito i gravi limiti dovuti ad un'organizzazione approssimativa, tanto che negli interventi svolti senza pensare a misure di sicurezza perirono 10 soccorritori sepolti da crolli successivi durante le 16 scosse più lievi che colpirono la zona il 15 gennaio. Anche gli ospedali più prossimi al Belice furono lesionati dagli effetti del terremoto, rendendo ancora più difficile lo smistamento dei feriti e l'afflusso degli aiuti che iniziavano ad arrivare da tutta Italia per mezzo della Croce Rossa. Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il ministro dell'Interno Emilio Taviani si recarono sui luoghi della tragedia atterrando all'aeroporto militare di Trapani-Birgi dove toccarono il suolo anche gli aerei da trasporto C-119 dell'Aeronautica Militare con a bordo uomini e strumenti di soccorso. Le difficilissime operazioni continuarono nei giorni successivi rese ancora più difficili dal fango cresciuto per la pioggia e dall'impraticabilità di molte strade cancellate dal terremoto oltre che rallentate dalle oltre 345 scosse dello sciame sismico che si sviluppò tra il gennaio ed il settembre del 1968.
La ricostruzione: arte ed appalti. Il calvario dei terremotati del Belice non finì con il placarsi dell'attività sismica. I tre paesi rasi al suolo nella notte del 15 gennaio non saranno mai riedificati nei loro antichi siti originari e la ricostruzione sarà un'ulteriore piaga nel fianco della Sicilia occidentale ferita dal sisma. Alla metà degli anni '70 infatti, decine di migliaia di sinistrati vivevano ancora in baracche provvisorie prive di servizi essenziali. Le baracche furono inoltre costruite con materiali cancerogeni come l'Eternit, facendo crescere sensibilmente l'incidenza dei tumori tra i sopravvissuti. Nonostante gli stanziamenti a favore della ricostruzione nei 30 anni successivi al sisma sarà solo nel 2006 che le ultime baracche saranno smantellate, mentre la ricostruzione dei centri cancellati dal terremoto sarà oggetto di dure polemiche. Gibellina Nuova, sarà ricostruita a circa 20 km a valle dei ruderi dell'antico abitato quale città-modello, alla cui progettazione furono coinvolti artisti come Alberto Burri e Pietro Consagra. Successivamente aderirono alla città-museo anche Arnaldo Pomodoro, Mario Schifano, Mimmo Paladino, Andrea Cascella, Leonardo Sciascia. L'intento sperimentale sarà tuttavia offuscato dalle questioni legate alla ricostruzione avvenuta su terreni di proprietà di famiglie mafiose e dalla mancata attenzione alla situazione infrastrutturale e dei servizi. Si preferì infatti dare la precedenza alla costruzione dell'autostrada Palermo-Mazara del Vallo piuttosto che implementare la rete stradale locale o ricostruire linee ferroviarie un tempo molto frequentate come la Castelvetrano-San Carlo Burgio, dismesse già alla fine degli anni '50. Le grandi opere la fecero da padrone, prendendo la precedenza sull'emergenza abitativa che dieci anni dopo il sisma era ancora una triste realtà. Le inchieste giudiziarie relative alla ricostruzione, si sono tutte concluse con le assoluzioni del 1990.
Oggi, a 50 anni dal terremoto, le rovine dei paesi rasi al suolo rimangono a testimoniare il dolore di una ferita al cuore della Sicilia, solo parzialmente cicatrizzata dal tempo.
1968: L'Italia vince gli Europei di calcio. Graziati dal sorteggio della monetina con L'Urss in semifinale, gli Azzurri ripeteranno la finale contro la Jugoslavia vincendola per 2-0. Era il 10 giugno 1968, scrive Edoardo Frittoli il 8 giugno 2018 su "Panorama". Il Campionato Europeo del 1968 (ospitato a partire dai quarti negli stadi italiani) fu per gli Azzurri di Ferruccio Valcareggi la vittoria del rischio e del coraggio, misto ad una buona dose di azzardo. La Nazionale italiana era infatti arrivata in finale dopo la vittoria decisa dalla sorte quando Giacinto Facchetti lanciò in aria la famosa monetina che cadde dal verso giusto. Nel 1968 il regolamento non prevedeva infatti i calci di rigore al termine dei tempi supplementari finiti in parità e questo fu il caso della semifinale del 5 giugno contro l'Urss, terminata al San Paolo di Napoli sullo 0-0. Dopo che la fortuna ebbe guidato la mano del capitano azzurro che centrò il giusto 50% delle probabilità, all'Italia non restava che sfidare la Jugoslavia davanti ai tifosi dell'Olimpico la sera dell'8 giugno 1968.
L'Italia fatica ai quarti. Il percorso della Nazionale di Ferruccio Valcareggi non fu privo di ostacoli e difficoltà. Per la prima volta nella storia della competizione, le qualificazioni alle semifinali non avvennero per eliminazione diretta ma furono decise da 8 gironi che si affrontarono nei due anni precedenti decidendo l'accesso ai quarti, oltre che all'Italia, ad Inghilterra, Ungheria, Spagna, Francia, Urss, Bulgaria e Jugoslavia. Nelle due partite (andata e ritorno) contro la Bulgaria l'Italia rischiò molto: perse il primo incontro per 3-2 riuscendo a recuperare nella seconda sfida vincendo 2-0. La futura sfidante degli azzurri invece, la Jugoslavia, ebbe ragione di una Francia irriconoscibile vincendo le due gare con una goleada: 6-1 e 3-0. Nelle semifinali l'Italia trovò di fronte a sé i Sovietici, mentre gli Jugoslavi mandarono a casa l'Inghilterra di Bobby Charlton con lo scarto di una sola rete.
Italia-Urss: la partita della sorte. Nella partita contro l'Urss, Valcareggi portò in campo Zoff, Burgnich, Facchetti, Ferrini, Bercellino, Castano, Domenghini, Juliano, Mazzola, Rivera, Prati. La partita comincia in salita per gli Azzurri. Al quarto minuto in un contrasto con Bishovets Rivera si infortuna, continuando a giocare zoppicando vistosamente. I Russi sono fisicamente superiori. Mazzola è schiacciato dagli avversari mentre Valcareggi deve arretrare una punta e affidarsi a Gigi Riva. Dopo i tempi regolamentari a reti inviolate, durante i supplementari una cannonata dalla distanza di Domenghini dà l'illusione del gol ma il botto metallico del palo raggela gli 80.000 tifosi. Tutto rimandato, ed il fantasma della Corea appare nel cielo di Napoli. Alla fine le invocazioni alla sorte daranno ragione agli Azzurri dopo una serata di patimento in cui anche Bercellino deve cedere per una distorsione alla caviglia.
Le due finali: 8 e 10 giugno 1968. L'appuntamento per la finale contro gli Jugoslavi, che per fortuna degli Azzurri sono rimasti decimati dagli infortuni dopo la vittoria contro l'Inghilterra. La sera dell'8 giugno 1968 all'Olimpico finirà 1-1ancora dopo i supplementari. La Jugoslavia è superiore nel gioco e gli azzurri patiscono la manovra che porta alla rete avversaria al 38' siglata da Dzajic dopo un'esitazione di Zoff su un cross teso e un pasticcio di Burgnich in difesa. La stanchezza azzurra è evidente e gli unici a spingere sono Facchetti e Guarneri. Gli Jugoslavi sbagliano tre reti facili, mentre Anastasi sciupa di fronte al portiere. Il miracolo del pareggio arriverà dal piede magico di Domenghini che insacca una punizione perfetta all'80'. Poi le reti inviolate dei supplementari costringono alla ripetizione della finalissima, non essendo previsto il sorteggio in finale. Due giorni dopo il Ct Valcareggi gioca il tutto per tutto rivoluzionando la squadra. Il modello è quello dell'Inter dei lanci lunghi a saltare il centrocampo. La Jugoslavia è ancora provata dalla finale pareggiata dopo l'illusione della vittoria. Gli Azzurri della seconda finale del 10 giugno 1968 sono: Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. Tutti avanti, quindi, anche se l'Italia non può schierare il nerazzurro Luisito Suarez o Jair ad interpretare lo schema che il ct azzurro, giocando d'azzardo, vuole replicare. Con 5 uomini freschi senza la prima finale di 240' nelle gambe la formula funziona. Al 12' Gigi Riva segna in fuorigioco non ravvisato dall'arbitro spagnolo Ortiz de Mendebil. La strada è spianata e le sgroppate di Mazzola supportate dai tocchi di "Picchio" De Sisti portano al raddoppio di Anastasi al 32'. Il sogno è mantenuto e gestito nel secondo tempo con gli avversari fisicamente esausti che permettono agli uomini di Valcareggi di abbassare il ritmo. Poi il triplice fischio della vittoria arriva questa volta dopo i 90' regolamentari, permettendo di tingere per una volta di azzurro il cielo del "rosso" 1968.
Roma-Fiorentina in Europa: ecco come andò nel 1968. L'unico precedente tra le due squadre italiane risale agli anni Sessanta nella Coppa delle Alpi. Vinsero i giallorossi, ma non festeggiò nessuno, scrive Dario Pelizzari il 27 febbraio 2015 su "panorama". Prima delle sfide da lustrini e pailettes della Champions League e delle avventure meno gratificanti eppure ricche di risvolti da prima pagina dell'Europa League, il terreno di scontro e di incontro continentale delle squadre italiane si chiamava Coppa dei Campioni, Coppa Uefa, Coppa delle Coppe, ma pure Coppa Mitropa, Coppa Anglo-Italiana e Coppa delle Alpi. Ed è proprio nell'edizione del torneo che nel 1995 ha dato vita, insieme alla Coppa Mitropa e alla Coppa Piano Karl Rappan, alla Coppa Intertoto Uefa che il 15 giugno del 1968 si incrociarono Roma e Fiorentina in quello che rimane il loro unico bisticcio internazionale. Dodici squadre in tutto, divise in due gironi da sei. Roma e Fiorentina rappresentavano il tricolore nel girone A, mentre Cagliari e Juventus difendevano il calcio made in Italy nel girone B. Nel mezzo, quattro squadre svizzere (Basilea, Servette, Lucerna e Young Boys) e quattro squadre tedesche (Eintracht Francoforte, Schalke 04, Colonia e Kaiserlautern). Gare di sola andata, chi vince il girone vola in finale. Eccola qui la Coppa delle Alpi 1968, un concentrato d'Europa a dodici spicchi. Non l'evento dell'anno, ma nemmeno l'amichevole della domenica. Pronti e via e tira aria di derby. Roma e Fiorentina si stringono la mano ad Augusta, in Germania, per la prima giornata del trofeo. Si gioca in campo neutro, vince chi la sa più lunga. La Viola faceva la voce grossa ormai da anni nella Serie A e l'anno successivo avrebbe vinto lo scudetto. Altra storia per i giallorossi, che tiravano invece a campare nella parte destra della classifica. La Fiorentina poteva contare su giocatori da copertina come De Sisti, Maraschi, Amarildo, Rogora, Pirovano, Albertosi. Dirigeva l'orchestra la coppia Bassi-Ferrero. La Roma produceva sogni conJair, Taccola, Cordova, Ferrari, Losi e Pizzaballa. Allenava e insegnava mister Oronzo Pugliese. Ad Augusta, va in scena l'Italia del pallone che sgomita per farsi bella nella piccola Europa. Le cronache dell'epoca raccontano di una gara a senso unico nel primo tempo, con i gigliati padroni del campo e vicini al gol prima con Maraschi (a lato di poco), quindi con Ferrante (traversa). Al ritorno dagli spogliatoi, cambia la musica. Al 63' la Roma passa in vantaggio grazie a una deviazione sotto porta di Taccola (scomparso pochi mesi dopo per un attacco cardiaco), lesto a ribadire in rete un tiro di Jair non trattenuto da Superchi. Uno a zero e palla al centro. La Fiorentina prova a riportare in equilibrio la gara, ma non ci riesce e così i primi 2 punti del torneo finiscono nelle tasche dei giallorossi. Che al termine del girone saranno però costretti a dire addio alla finale per colpa di un mattoncino nella differenza reti, che premia il Basilea, poi sconfitto nella partita decisiva dallo Schalke 04. Roma 1 Fiorentina 0. Se n'era andato Taccola, non festeggia nessuno.
Il festival di Sanremo del 1968. L'edizione di 50 anni fa, vinta da Sergio Endrigo con al debutto Baudo. Presenti Albano, Ranieri, Leali e Don Backy contro Celentano, scrive Edoardo Frittoli il 7 febbraio 2018 su "Panorama". L'appuntamento davanti a milioni di Italiani era per giovedì 1 febbraio 1968, sul palco del Casinò di Sanremo. La giornata si era aperta con l'assedio dei fotografi davanti all'ingresso dell'Hotel des Anglais che si accalcavano per immortalare per primi la bellezza sexy di Eartha Kitt, la cantante soul afro-americana chiamata ad esibirsi tra gli stranieri che avrebbero cantato in coppia con gli italiani nella 18a edizione del Festival di Sanremo. Fin dai primi scatti fu chiaro l'intento degli organizzatori capeggiati da Gianni Ravera di dare scandalo davanti ad un paese ancora bigotto e conformista. Bastava guardare il vestito succinto della Kitt. Seguì l'uscita dall'albergo dell'imponente sagoma di un colosso della musica nera d'oltreoceano: Louis Armstrong, accompagnato dal grande xilofonista jazz Lionel Hampton. Il "Satchmo" sgrana gli occhi, forse ancora incredulo per il cachet stratosferico offerto per la sua partecipazione. Dichiara alla stampa di essere felice e di amare gli spaghetti, sorridendo a mille denti nelle foto insieme a Claudio Villa e Lara Saint Paul. Gli altri stranieri che si esibiranno al Casinò saranno Wilson Pickett, Dionne Warwick, Paul Anka, Roberto Carlos, Timi Yuro, Shirley Bassey
Arrivano i "nostri". Tra i "nostri", si parte con un'esclusione: la canzone scritta da Domenico Modugno per il festival viene scartata dalla giuria (della quale fa parte anche Renzo Arbore). Il testo di "Meraviglioso" fu scartato per gli espliciti riferimenti al suicidio quando su Sanremo ancora aleggiava l'ombra di Luigi Tenco, che proprio nei giorni del festival di un anno prima si era tolto la vita sparandosi in testa. Il Domenico nazionale dovrà accontentarsi di cantare una canzone scritta da altri in coppia con Tony Renis.
Celentano contro Don Backy, la faida nel "Clan". Al sorriso raggiante della Kitt e di Armstrong fecero da contraltare alcuni malesseri: quelli fisici dell'esordiente Albano Carrisi, afflitto dall'influenza, e quelli personali di Celentano, scuro in volto per lo scontro con il suo storico braccio destro nel Clan, Don Backy. Quest'ultimo aveva denunciato il molleggiato per una presunta "doppia contabilità", truffa a svantaggio dei cantanti della sua etichetta. Si ritroveranno in gara l'uno contro l'altro, con Adriano "costretto" ad interpretare proprio un brano dell'ex-amico, "Canzone", in coppia con Milva. Alle prove del pomeriggio Celentano è irriconoscibile: si tiene la pancia e accusa malessere. Se la prende con i tecnici per la qualità del suono sul palco e poco dopo sparisce senza lasciare traccia.
Esordienti promettenti. Si attendono esordienti che avranno un grande peso negli anni a venire: in primis il presentatore Pippo Baudo, allora trentaduenne. Con lui l'attrice e giornalista lombarda Luisa Rivelli. Sul palco saliranno per la prima volta Massimo Ranieri ("Da bambino" in coppia con I Giganti), Fausto Leali ("Deborah" di Paolo Conte e Pallavicini, in coppia con Wilson Pickett). E ancora Nino Ferrer ("Il Re d'Inghilterra", in coppia con Pilade). Tra i big si attendono le esibizioni di Celentano, Gigliola Cinquetti, Iva Zanicchi, Ornella Vanoni, Little Tony, Tony Renis, Domenico Modugno, Johnny Dorelli, Antoine, Gianni Pettenati.
Il Festival: le canzoni, i vincitori, i sogni proibiti. È il ciuffo di Little Tony ad aprire la kermesse, con "Un uomo piange solo per amore", in coppia con Mario Guarnera. Canta anche Gigliola Cinquetti che presenta "Sera" in coppia con Giuliana Valci. La canzone è di Roberto Vecchioni, e sarà ripresa nel 1971 dal cantautore milanese nel suo album "Parabola" (quello di Luci a San Siro) con il titolo "Lui se n'è andato". Alla fine della serata è in testa la Vanoni con la giovane Marisa Sannia, che avevano presentato "Casa bianca". Il clou fu però l'esibizione di Eartha Kitt, anche se sarà eliminata alla prima esibizione. Canta "Che vale per me" (Terzi, Rossi) e toglie il sonno agli Italiani, con le seppur vaghe trasparenze del lungo abito bianco in contrasto con la pelle scura. Ancheggia vagamente, cantando in un italiano veramente poco comprensibile per lo scarso preavviso e la breve preparazione del pezzo. Il giorno dopo si aprirà un dibattito: come si porranno le nostre Orietta Berti, Iva Zanicchi, Ornella Vanoni di fronte alle movenze "sexy" delle star americane? Sono ormai lontane le braccia generose di Nilla Pizzi? Se l'Italia ha voglia di cambiamento, un aiuto arriva anche dal cantante francese Antoine. Durante la seconda serata presenta il futuro tormentone, "La Tramontana", assieme a Gianni Pettenati. Tre modelle venute da Milano spieganoin carne ed ossa (e gambe) al pubblico qual'è il motivo per cui il cantante è disorientato nel testo della canzone. Un ingenuo feticismo sottende al significato del ritornello: è il pizzo delle sottane delle tre ragazze che ballano agitandosi assieme ad Antoine, la ragione del turbamento. Nasce un putiferio, interviene la censura RAI. Al francese sarà vietato di ripetere l'esibizione con le tre bellezze ballanti. A meno che queste non stiano immobili a fare da sfondo. Ma ormai l'immagine è sdoganata da milioni di telespettatori che sognano un'Italia meno puritana, che vada almeno di pari passo con le conquiste economiche del boom.
Il verdetto. La sera del verdetto arriva preceduta dal precipitare degli eventi tra Celentano e Don Backy. Si vocifera addirittura che Adriano potrebbe essere arrestato per ordine del Procuratore di Milano Vaccari durante gli interrogatori ai dipendenti del Clan. Il molleggiato replica annunciando che, dopo l'ultima interpretazione della canzone scritta da Don Backy per Sanremo 1968, avrebbe bloccato tutti i dischi dell'ex socio chiedendo 200 milioni di danni. Le canzoni di Don Backy passano entrambe in finale. Vincerà il festival Sergio Endrigo, con oltre 30 voti di scarto sulla seconda classificata, proprio una canzone di Don Backy. "Casa Bianca" porta alla ribalta la navigata Vanoni assieme alla giovane cantante sarda Marisa Sannia, la futura "gazzella di Cagliari" . La canzone sarà utilizzata nella colonna sonora del film "Alfredo Alfredo" di Pietro Germi. Al terzo posto ancora una canzone firmata Don Backy e cantata dall'ormai nemico Celentano in coppia con Milva, "Canzone". Al momento della premiazione, Adriano si nega lasciando a Don Backy spazio per criticarne l'esecuzione. Il primo degli esordienti nella classifica finale sarà Fausto Leali con la canzone scritta da Conte e Pallavicini.
"Perdere la tramontana". Sergio Endrigo vince il festival con "Canzone per te", scritta dallo stesso in coppia con Sergio Bardotti ed eseguita assieme al cantante brasiliano Roberto Carlos. La colonna sonora dell'anno della contestazione cominciava con il trionfo di una canzone profonda e malinconica su un amore finito, il cui ricordo è coltivato come un fiore da vedere sbocciare. Quando i riflettori si spensero sul palco del Casinò si accenderà la rivolta degli studenti che chiederanno di rompere con il "sistema", anche nelle canzonette. Si aprirà la strada all'impegno politico ed all'affermazione della lunga stagione del cantautorato, mentre le star degli anni a venire si erano affacciate nella tre giorni ligure, Pippo Baudo in primis. Le braccia materne di Nilla Pizzi, simbolo della società cristallizzata del decennio precedente, non erano mai state così lontane. Meglio "perdere la tramontana" alla fine, e sognare le tre modelle di Antoine.
I dieci album fondamentali usciti nel 1968, scrive Gianni Poglio il 24 settembre 2018 su "Panorama". Ad inaugurare un anno speciale per la musica fu (il 21 gennaio) la colonna sonora del film Il Laureato (con Dustin Hoffman). Nella tracklist alcuni brani di Simon & Garfunkel (inclusi The sound of silence e Mrs Robinson) e pezzi strumentali firmati da Dave Grusin. Tra gli album indimenticabili del 1968 ne abbiamo scelti 10, iconici e fondamentali al tempo stesso:
1) Otis Redding - The Dock of the Bay. Il primo di una lunga serie di album postumi. Il disco contiene (Sittin' On) The dock of the Bay, brano leggendario che Redding incise pochi giorni prima di morire in un incidente aereo nel dicembre del 1967. Uno dei singoli tratti dal 33 giri, The Glory of love, fu composto da Billy Hill e inciso da Benny Goodman nel 1936.
2) The Mothers Of Invention - We're only in it for the money. Il terzo album in studio della band di Frank Zappa. Un disco geniale e "politico", infarcito di satira e riferimenti ilari nei confronti della cultura hippie e dei movimenti americani ultraconservatori. In origine, la cover del disco era stata pensata come una parodia della celebre copertina di Sgt. Pepper's dei Beatles. Ma, alla fine, la foto che riproduceva in chiave ironica lo storico scatto del Fab Four venne utilizzata per l'artwork interno del disco. Zappa non gradì la decisione della casa discografica. Tra i brani essenziali, Absolutely Freee Flower Punk.
3) At Folsom Prison - Johnny Cash. Storica live performance in un carcere californiano. Lo show tra i detenuti andò in scena il 13 gennaio del 1968. Nel corso della sua carriera Cash ha registrato altre tre dischi all'interno di un penitenziario: At San Quentin, Pa Osteraker e A Concert behind prison walls. At Folsom Prison ha venduto ad oggi oltre tre milioni di copie. Tra i classici, una versione live della canzone Folsom Prison Blues che ha avuto molto successo negli Stati Uniti.
4) A saucerful of secrets - Pink Floyd. Il secondo album della band inglese, oltre che il canto del cigno di Syd Barrett. In questo disco compare per la prima volta David Gilmour che poi sostituirà definitivamente Barrett, ormai in condizioni critiche per gli abusi di Lsd. La visionaria Set the controls for the heart of the sun è l'unico brano del gruppo suonato da tutti e cinque i componenti della band (Gilmour, Barrett, Mason, Waters e Wright). Psichedelia, space rock e intuizioni geniali fanno di A saucerful of secrets un album seminale. Tra le perle, Let there be more light, Remember a day, oltre a Jugband blues composta interamente da Barrett.
5) Os Mutantes - Os Mutantes. L'album di debutto di una delle band più geniali ed influenti di sempre. Appartenenti al movimento artistico brasiliano noto come Tropicalia, gli Os Mutantes realizzarono una contaminazione in chiave psichedelica tra la tradizione brasiliana e il pop rock anglosassone. Tra i brani indimenticabili, Bat Macumba, scritta da Gilberto Gil e Caetano Veloso, Panis et Circensis e A Minha Meninacomposta da Jorge Ben. Capolavoro!
6) Music from Big Pink - The Band. Il titolo dell'album viene dal colore delle pareti esterne della leggendaria abitazione di West Saugerties, nello stato di New York, dove vennero composti molti dei brani. In tre canzoni dell'album, tra folk, rock e country, compare come autore Bob Dylan (che realizzò anche il disegno per la copertina del disco): Tears of rage, This wheel's on fire e il capolavoro I shall be released. Il brano più popolare dell'album è The weight, composto da Robbie Roberston e presente in una scena di Easy Rider. Nella classifica delle 500 migliori canzoni di sempre, stilata da Rolling Stone, The weight compare al numero 41.
7) The White Album - The Beatles. Non solo il capolavoro dei Fab Four, ma uno degli album più importanti e influenti di sempre. Molte delle canzoni del doppio 33 giri sono state composte tra il marzo e l'aprile del 1968 durante un corso di meditazione trascendentale in India. I brani vennero poi registrati agli Abbey Road Studios di Londra tra il 30 maggio e il 14 ottobre di quell'anno. Per la prima volta i Beatles incisero su un registratore a 8 piste. Le recording session furono tumultuose anche a causa della presenza in studio di Yoko Ono, la nuova compagna di John Lennon. Il risultato, in ogni caso, fu un disco straordinario con classici senza tempo come Helter Skelter, Dear Prudence, Blackbird, While my guitar gently weeps, Back in the U.S.S.R. e Happiness is a warm gun.
8) Astral Weeks - Van Morrison. Il secondo album in studio del vocalist e compositore irlandese. Il disco venne inciso ai Century Sound Studios di New York tra il 25 settembre, e il 15 ottobre del 1968. Perfetto esempio della commistione tra jazz e folk, Astral Weeks venne registrato da musicisti di grande talento come Richard Davis al basso, Jay Berliner alla chitarra, John Payne al flauto e al sax, Warren Smith alle percussioni e al vibrafono e Connie Kay alla batteria. Tra i classici, la title track, Cyprus Avenue, Sweet Thing e The way young lovers do.
9) Beggars Banquet - The Rolling Stones. Pubblicato il 6 dicembre del 1968, Beggars Banquet è uno dei classic album della band. Chiusa la fase pisichedelica con il disco precedente, Their Satanic Majesties Request, gli Stones tornano prepotentemente al rock blues. Il titolo del disco nacque da un'idea dell'artista Christopher Gibbs che stava decorando la casa di Mick Jagger a Chelsea. Gibbs propose di intitolare l'album Beggars Banquet(il banchetto dei mendicanti) ispirandosi forse alla cena dei mendicanti presente nel film Viridiana di Luis Bunuel. Tra gli evergreen, Street fighting Man e Symphaty for the Devil.
10) Cheap Thrills - Big Brother and The Holding Company. La band di cui Janis Joplin era la lead singer. Pubblicato nell'estate del 1968, vendette un milione di copie in pochi mesi raggiungendo la prima posizione nella classifica di Billboard. Un disco di puro rock and roll a tinte blues, per molti il capolavoro della Joplin. Tra le canzoni indimenticabili, oltre all'hit Piece of My heart, il remake di Summertime (George Gershwin), Turtle blues e Ball and chain registrata live al Fillmore di San Francisco.
1968: i dieci film più belli (che compiono cinquant'anni). Il cinema di un anno fatidico nell’evoluzione di forma e contenuti. Per una "classifica" fatta di capolavori e opere che hanno rivoluzionato i generi, scrive Claudio Trionfera il 30 gennaio 2018 su "Panorama". Cinquant’anni fa. Il 1968. Quello del cinema, del Festival di Cannes interrotto con le dimissioni di Monica Vitti e degli altri componenti della giuria, della Mostra di Venezia che incomincia a traballare sotto il peso della contestazione ma riesce a premiare col Leone d’oro Artisti sotto la tenda del circo: perplessi di Alexander Kluge – e con questo, forse, tutto quel fantastico movimento del Giovane Cinema Tedesco - prima di andare in apnea per una decina d’anni. Poi i film, soprattutto quelli. Nell’autonomia delle loro consistenze, dei loro argomenti, della loro ispirazione creativa; e con le realtà del tempo che li attraversano senza forzarne il contenuto ma orientandone, in qualche caso, l’altro polo costitutivo, cioè la forma. Sicché non è difficile individuare i film più belli del 1968 guardandoli oggi a distanza e, insieme, contestualizzandoli nel loro presente: proprio per quelle caratteristiche speciali che li offrono al confronto col pubblico e con la critica in una fase di complessità storica e culturale. Qualche capolavoro, qualche film-simbolo. Curioso. Tutti a celebrare il loro cinquantenario. E che autori, poi. Messi insieme, il gruppo che si costituisce è imbarazzante per solennità e imponenza, ricordando quelli che (troppi, oramai) non ci sono più. In fondo, poi, anche quel cinema – nel senso del farlo e del fruirlo – non c’è più o s’è comunque ritratto lasciando il posto a differenti misure di schermi e modalità di consumo. Eccoli, allora, i magnifici dieci scovati nell’insieme di valore: mai troppo facile formulare una top ten ma ci si prova, se pur da personalissima prospettiva. Con l’obbligo, tuttavia, di segnalare, subito, due “fuori-quota” eccezionali come passaggi cruciali e documentali sulla musica planetaria dell’epoca e i suoi riflessi sociali.
ONE PLUS ONE di Jean-Luc Godard. L’ascesa dei Rolling Stones e i movimenti estremi giovanili. Collateralmente alle sedute di registrazione della band britannica il film-documentario realizza sequenze provocatorie dando la parola ai Black Panters e ad altri gruppi di contestazione. È l’ultimo film di Godard (sottotitolo Sympathy For the Devil) col gruppo Dziga Vertov e il suo impegno nella ricerca collettiva su un nuovo cinema politico.
MONTEREY POP di Donn Alan Pennebaker. Considerato il capolavoro nel genere dei film-concerto, è il reportage di straordinario valore sociologico sul Festival pop d Monterey del 1967 con il concorso, fra gli altri, di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Otis Redding, Simon & Garfunkel, The Animals, The Who, Ravi Shankar. Rilevante il contributo, alla fotografia, di Albert Maysles, pioniere col fratello David del cinema documentario all’interno della corrente Direct Cinema.
10) L’ORA DEI FORNI di Octavio Getino e Fernando Solanas. Girato in tre anni e in totale clandestinità, questo film di montaggio e lunga durata rimane l’opera più importante della nuova cinematografia argentina degli anni Sessanta, manifesto di un cinema rivoluzionario che ripercorre la storia del Paese dalla sua liberazione passando per il neocolonialismo, le crisi, le speranze sollevate dal peronismo, l’avvento dei militari golpisti e l’affacciarsi del “Che” nell’America Latina.
9) C’ERA UNA VOLTA IL WEST di Sergio Leone. Il prototipo di un genere, chiamato western spaghetti, un po’ schifato all’inizio dalla critica che finisce in verità per conquistare e affascinare tutti. Tra romanzo picaresco, opera buffa e commedia dell’arte riscrive il western classico con dosi di violenza e di erotismo e la musica lancinante di Ennio Morricone, orientandosi sul ritratto acido di un mondo mutante che assiste al tramonto dell’eroismo pionieristico.
8) BACI RUBATI di François Truffaut. Da portiere di notte in un albergo a apprendista detective, Antoine Doinel prosegue le sue avventure incominciate con I 400 colpi. Uno dei migliori film di Truffaut girato in piena mobilitazione pro Henri Langlois: con lo charme lunare di Jean-Pierre Léaud, la leggerezza e la commozione, l’originalità dei dialoghi, l’immagine nostalgica di “quella” Parigi, la canzone di Charles Trenet Que reste-t-il de nos amours?
7) FACES di John Cassavetes. Una crisi matrimoniale risolta ai limiti del paradosso in doppio tradimento e rara concertazione di commedia drammatica: che Cassavetes costruisce in un magistrale happening d’una potenza brutale diviso tra riso e dolore. Corpi e linguaggi s’incrociano sul set trascrivendo ciò che realmente vi accade, con gli attori a raccontarsi e a raccontare “come dal vero” paure e disfacimenti d’un calvario coniugale.
6) HOLLYWOOD PARTY di Blake Edwards. Cinema nel cinema e gaffe su gaffe dell’attore indiano di second’ordine invitato per sbaglio al party d’un produttore hollywoodiano. Peter Sellers è irresistibile come la comicità emanata da questa perla della commedia americana, nata come pastiche de La Notte di Antonioni - della quale Edwards riprende l’estetica fredda e geometrica – sviluppata con lo spirito di Jacques Tati nella diffusione corale dei gag.
5) JE T’AIME, JE T’AIME di Alain Resnais. La vita e la morte, la sospensione nel tempo, il passato e il presente del protagonista Claude, la scienza confusa e impotente. Nel puzzle affascinante del maestro francese si compone un’atmosfera angosciosa per un film indimenticabile e misteriosissimo all’interno di un profondo dramma psicologico. Dal quale scaturisce una sorta di poesia grave e smorzata nell’enigma temporale in conflitto fra conscio e inconscio.
4) ROSEMARY’S BABY di Roman Polanski. La giovane coppia felice che viaggia verso l’incubo satanico incarna una stupefacente allegoria del Male. In un autentico must del cinema fantastico – una delle migliori opere di Polanski - elaborato sul trionfo della suggestione e dell’invisibile, dunque dell’occulto, senza effetti speciali, solo con la distillazione progressiva della tensione e della paura. Destino beffardo e oscuro del cineasta: nel ’69 ci sarà la strage di Bel Air.
3) IL PIANETA DELLE SCIMMIE di Franklin J. Schaffner. Il capostipite della serie, probabilmente inarrivato per capacità di attrazione e allarmati turbamenti. La vicenda degli astronauti, calati nella civiltà spaziale sconosciuta con le tre razze di scimmie, genera un impatto filosofico di rara profondità, esaltato dalla mise en scène dinamica e dei formidabili trucchi. Fantascienza sì, ma anche avventura e favola capace di leggere il nostro presente e il nostro futuro.
2) LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI di George A. Romero. L’apoteosi della metafora, la parabola antirazzista e pacifista - nell’America angosciata del post-Vietnam - presa a modello narrativo in questo simbolo d’intelligenza e di efficacia cinematografica. 16 millimetri, basso costo, bianco e nero, stile documentario, sci-fi e horror mescolati in cifra sociologica per un “risveglio dei morti” che riscrive i canoni del cinema di genere, diventando anzi genere a parte. Una meraviglia.
1) 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO di Stanley Kubrick. Ancora oggi, a 50 anni di distanza, questo capolavoro sorprende, rapisce e sconcerta, lasciando aperti gli interrogativi sul monolito nero del quale neppure Kubrick stesso volle spiegare la natura. Che si considera aliena se si segue la traccia indicata da Arthur Clarke, artefice letterario della storia. Fascinazione perenne per un film incapace d’invecchiare nel suo enigmatico messaggio sul ruolo dell’essere umano nell’universo.
Vietnam: 50 anni fa l'offensiva del Tet. Alla fine di gennaio del 1968 un vasto attacco nordvietnamita si spinse fino a Saigon. Fu un punto di svolta nella guerra in Vietnam, scrive Edoardo Frittoli il 30 gennaio 2018 su "Panorama". Alla fine del gennaio 1968, per ordine del generale nordvietnamita Vo Nguyen Giap, si scatenò una azione coordinata contro più di 100 città e paesi del Vietnam del Sud. L'intenzione del comandante militare dell'esercito di Ho Chi Minh era quello di fomentare la ribellione di militari e civili nel Sud del Paese e di convincere gli Americani a considerare il disimpegno dal Vietnam dopo l'escalation degli anni precedenti.
UNA FESTA DI SANGUE. L'offensiva dell'esercito nordvietnamita e dei Vietcong del Sud fu fissata in coincidenza con la celebrazione del nuovo anno lunare, chiamata in Vietnam la festa del Tet. Era il 31 gennaio 1968 quando oltre 70.000 uomini ai comandi del generale Giap sferrarono l'attacco lungo un estesissimo fronte che comprendeva importanti centri abitati e postazioni militari presidiate dagli Americani e dall'esercito sudvietnamita (ARVN). L'attacco di fine gennaio seguì di pochi giorni quello diversivo contro la base dei Marines di Khe Sanh, al confine con il Laos.
UNA TREGUA TRADITA. Gli Americani furono colti di sorpresa quando vennero attaccati nei giorni di festa considerati informalmente un periodo di tregua tra i combattenti. Molte postazioni e città caddero nelle mani del Nord comunista. Non fu risparmiata neppure la capitale Saigon, sede del governo e dei comandi militari. Fece particolarmente impressione l'assalto compiuto da un manipolo di Vietcong all'Ambasciata degli Stati Uniti, che riuscirono a penetrare all'interno dell'edificio prima di essere neutralizzati dai militari americani.
IL MASSACRO DI HUE. L'occupazione nordvietnamita delle postazioni strappate agli Americani non durò che pochi giorni, prima di essere respinte dal fuoco superiore degli avversari subendo perdite consistenti. In particolare nella città antica di Hue si tennero combattimenti particolarmente cruenti, dal momento in cui le forze comuniste occuparono la città vecchia procedendo al rastrellamento e all'esecuzione dei collaborazionisti. Quasi 3.000 corpi saranno trovati dagli Americani in fosse comuni, mentre altrettanti saranno i cittadini di Hue scomparsi. La battaglia costerà ai Marines 150 morti, 400 all'ARVN e oltre 5.000 alle forze del Nord Vietnam.
LA VITTORIA NON È PIU' CERTA. L'impatto dell'offensiva del Tet sull'opinione pubblica americana e mondiale fu grandissimo. Dal gennaio 1968 fu chiaro che la guerra in Vietnam non era nè vinta nè tantomeno vicina al termine. Al prezzo di molte perdite, il generale Giap centrò l'obiettivo: indebolire il morale americano, spaventare i Sudvietnamiti, convincere il mondo che gli Usa non erano più i vincitori per antonomasia. L'esito dell'offensiva del Tet spinse il generale William Westmoreland a richiedere altri 200.000 soldati, incrinando ancora di più il fronte interno. Pochi mesi dopo il Presidente Lyndon Johnson dichiarò la sospensione dei bombardamenti su gran parte del Vietnam del Nord, aprendo la strada ai futuri negoziati di pace. Poco dopo gli attacchi del gennaio-febbraio 1968 il Presidente Usa dichiarerà alla stampa di rinunciare alla propria candidatura per le future elezioni.
Martin Luther King a 50 anni dall'assassinio. Il 4 aprile 1968 il leader dei diritti civili degli afroamericani veniva ucciso da un colpo di fucile a Memphis, scrive Edoardo Frittoli il 3 aprile 2018 su "Panorama". Queste furono le parole dell'ultimo sermone pronunciato dal reverendo Martin Luther King Jr. il 3 aprile 1968. Il giorno seguente verrà assassinato a Memphis, Tennessee, con un unico fatale colpo di fucile. “I’ve seen the promised land. I may not get there with you. But I want you to know tonight, that we, as a people, will get to the promised land. And I’m happy tonight. I’m not worried about anything. I’m not fearing any man. Mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord.” "Ho visto la Terra Promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che stasera voi sappiate che noi, come Popolo, arriveremo alla Terra Promessa. E per questo stasera sono felice. Non ho paura di nulla. Non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore". L'ultimo sermone nella Memphis dell'odio razziale (febbraio-aprile 1968)
Dal febbraio 1968 il clima a Memphis, Tennessee si era molto surriscaldato. La città era governata dal sindaco razzista Henry Loeb, che si era sempre dichiarato a favore della segregazione razziale ed aveva mantenuto le leggi "Jim Crow" contro l'integrazione della comunità nera. La rabbia si era scatenata in città dopo la morte avvenuta il 1 febbraio di due dipendenti di colore della nettezza urbana cittadina, stritolati da un compattatore. L'incidente fu la causa dello sciopero ad oltranza dei netturbini, quasi tutti afro-americani, per protestare contro le condizioni di lavoro disagiate e le discriminazioni razziali subite dai superiori bianchi. Durante i giorni dello sciopero la polizia di Memphis si produsse in continue provocazioni contro i cortei degli scioperanti arrivando a scortare crumiri bianchi assoldati dal sindaco.
Il lungo cammino pacifico dei diritti civili. Martin Luther King arrivò in città il 3 aprile 1968, all'apice della sua fama di promotore dei diritti civili degli afro-americani. Negli anni '50 il reverendo era stato già protagonista della protesta nella forma della disobbedienza civile pacifica. Nel 1956 era riuscito assieme ad altri attivisti ad avere ragione sulla segregazione razziale nei luoghi pubblici del sud degli Stati Uniti promuovendo assieme ad altri attivisti il lunghissimo boicottaggio dei mezzi pubblici dopo l'arresto dell'attivista Rosa Parks che si era rifiutata di cedere il suo posto a un bianco. La protesta durerà per ben 381 giorni fino alla concessione della sospensione della separazione dei posti sui mezzi pubblici in base alla razza. Martin Luther King fonda subito dopo la SCLC (Southern Christians Leadership Conference) della quale diviene leader. Viaggia negli Usa ed in Europa per promuovere la sua battaglia pacifica per i diritti civili della popolazione di colore, culminata con la grandiosa marcia di Washington del 28 agosto 1963 dove il reverendo dell'Alabama terrà il suo memorabile discorso "I Have a Dream" di fronte ad una folla di circa 300.000 partecipanti. Nel 1964 è Nobel per la Pace. Vicino a John Fitzgerald Kennedy, che più volte intervenne in favore delle lotte promosse dall'SCLC, fu spesso duramente contestato dalla Nation of Islam di Malcolm X che riteneva l'atteggiamento pacifico di King un "regalo per i bianchi", con i quali bisognava rispondere con violenza in risposta alla violenza.
I poveri neri, i poveri bianchi e il Vietnam. Quando arrivò a Memphis per appoggiare la protesta dei netturbini, Martin Luther King aveva fatto un ulteriore passo, toccando i temi caldi della povertà (sia bianca che nera) e della guerra in Vietnam. Alcuni detrattori lo avevano più volte bollato come un "nero comunista", mentre i seguaci di Malcolm X continuavano a ritenerlo un traditore colluso con i bianchi.
Il discorso della montagna. Le ultime parole di Martin Luther King. La sera del 3 aprile 1968 Martin Luther King tenne il suo ultimo discorso al Mason Temple di Memphis, dove gli scioperanti si erano riuniti già dall'inizio della protesta dei netturbini. In alcuni passi l'ultimo sermone suonò come un presagio, quando King asserì di non avere paura della morte, sentendosi nelle mani di Dio dopo essere stato "sulla vetta della montagna" (il discorso è infatti ricordato con il titolo "I've been on the mountaintop"). Il giorno seguente il reverendo King alloggiava al Lorraine Motel assieme ad altri attivisti storici come Ralph Abernathy. Poco prima delle 18:00 il leader dell'SCLC uscì sul balcone della camera 306 al secondo piano. Alcuni istanti più tardi un rumore secco tagliò l'aria: era un colpo di fucile dal quale fu esploso il proiettile calibro 7,62 che, perforando la guancia destra del reverendo, spezzò le vertebre cervicali e tranciò la carotide. L'ispiratore e il promotore di tante battaglie e altrettante vittorie dei neri americani cadeva privo di sensi, dissanguandosi rapidamente nonostante fosse stato prontamente soccorso dagli amici e compagni di lotta. Il suo cuore cessava di battere un'ora più tardi al St. Joseph Hospital.
La rivolta delle città, l'omaggio all'uomo della pace. Alla notizia dell'assassinio, in più di 100 città degli Stati Uniti scoppiarono gravi tumulti, per cui fu necessario un appello alla calma da parte dello stesso Presidente Lyndon Johnson. Poco dopo fu trovata l'arma del delitto, un fucile Remington abbandonato poco lontano dalla scena del crimine. Quattro giorni dopo, guidati dalla vedova Coretta Scott King, una folla di oltre 40.000 persone rendeva omaggio alla salma di Martin Luther King ancora esposta a Memphis. Il giorno successivo si tennero i funerali solenni ad Atlanta, dove Martin Luther King Jr. era nato il 15 gennaio 1929. Per l'occasione si riunirono oltre 100.000 persone, compresa Jacqueline Kennedy e il Vicepresidente degli Stati Uniti Hubert Humphrey. Il sermone fu tenuto dall'amico di sempre Ralph Abernathy, mentre risuonavano le note di "Take My Hand My Precious Lord". Il feretro fu trasportato al cimitero cittadino su un carretto trainato da due muli della Georgia.
La caccia all'assassino. Sulle tracce dell'assassino si misero 3.500 agenti dell'Fbi e appena due mesi mesi dopo fu fermato all'aeroporto Heatrow di Londra il delinquente comune James Earl Ray mentre cercava la fuga nella Rhodesia dell'apartheid. Criminale recidivo, era noto per le sue idee razziste e si trovava a Memphis dopo essere evaso dal carcere nel 1967. Per l'omicidio di Martin Luther King fu condannato a 99 anni di carcere, dal quale riuscirà a fuggire per alcuni giorni nel 1977 dopo aver ritrattato nel frattempo la propria confessione, iniziando a ventilare l'ipotesi di una congiura per uccidere il leader della protesta pacifica degli afroamericani. Da queste dichiarazioni si faranno largo disparate teorie del complotto, che spaziano dalla Mafia ai Federali alla Polizia di Memphis. Nel 1997 Dexter King, uno dei figli del reverendo, incontrò James Earl Ray in carcere, convinto che la responsabilità non fosse unica. Ray confermò la teoria del complotto appoggiato anche dalla vedova Coretta che chiese la riapertura del processo che coinvolse Loyd Jowers il proprietario del Jim's Grill, il locale da cui partì il colpo fatale.Fu lui per primo a rilasciare dichiarazioni sul complotto di cui Ray sarebbe stato solamente il capro espiatorio. La morte dello stesso Ray il 23 aprile 1998 e la ritrattazione di molti testimoni del nuovo processo fecero decadere la teoria della cospirazione, archiviata dal Procuratore Generale Janet Reno nello stesso anno.
1968: la Citroen Méhari, l'auto di plastica del "maggio francese". La bicilindrica aveva la carrozzeria in materiale plastico (ABS) ed era completamente decappottabile. Fu prodotta fino al 1987. Oggi un icona di nicchia, scrive Panorama". Una macchina semplice, ma al contempo all'avanguardia. Una "spiaggina" nata per il tempo libero con la carrozzeria modulabile interamente realizzata in ABS (acronimo del materiale plastico Acrilonitrile Butiadene Stirene).
Nata nei giorni della "Révolution". Queste le caratteristiche originali della Citroen Méhari, un'auto pensata per i giovani che fu presentata ufficialmente durante il picco della contestazione studentesca del "maggio francese" dalla casa automobilistica del double chevron. La Méhari, telonata e completamente decappottabile poteva trasformarsi persino in un pick up a due posti grazie ai sedili posteriori ripiegabili a scomparsa nel pianale posteriore. Meccanicamente la piccola Citroen ereditava il propulsore e la meccanica delle sorelle 2CV e Dyane, equipaggiate con il sempiterno bicilindrico da 602cc. capace di spingere la "macchina di plastica" fino al limite dei 100 km/h. Anche le sospensioni a ruote indipendenti, ricordate per il famoso rollio in curva e per la lunga escursione degli ammortizzatori erano le stesse delle altre utilitarie Citroen. Caratterizzata da poche ma vivissime tonalità cromatiche della carrozzeria in stile con il gusto "hippy" del periodo (verde acido, arancio, rosso e giallo vivo), la Citroen Mehari viene presentata alla stampa nella Parigi delle barricate studentesche del "maggio francese", situazione che fu alla base un lancio stampa in sordina di una vettura essenzialmente di nicchia, che saprà tuttavia imporre la propria personalità nei vent'anni a venire.
Figlia di un nobile padre. Un'altra peculiarità della bicilindrica di plastica fu la propria nascita e il seguente sviluppo fuori dalle porte della Citroen. L'idea di una macchina in ABS fu infatti frutto dell'inventiva di un personaggio molto particolare: il blasonato conte Ronald Paulze D'Ivoy de la Poype. Il nobile Alverniate era stato un asso dell'Aviazione della Francia libera durante la guerra nei cieli di Russia. Dopo il congedo si dedicò allo studio e all'industria delle materie plastiche specializzandosi proprio nei componenti auto in ABS, di cui Citroen era tra i principali acquirenti. La sua idea "bizzarra" fu sviluppata a partire dallo chassis di una Fourgonnette 2CV, sul quale fu montato un semplice telaio sul quale venivano imbullonati i moduli della carrozzeria in ABS ondulato.
La Citroen apprezza l'idea dell' "auto in plastica". Per una volta, la dirigenza della casa francese volle fare propria la proposta del suo fornitore, che nel frattempo si stava organizzando per produrre un numero limitato di spiaggine in plastica con il nome commerciale di "Donkey". La Citroen pensò infatti di destinare allo stabilimento ENAC (che già produceva la 2CV Fourgonnette alla produzione della Méhari, mentre il padre della nuova vettura si sarebbe lanciato a breve in nuove avventure industriali, come ad esempio la produzione della microcar "Flipper". In seguito la produzione della Méhari passerà allo stabilimento Citroen di Levallois. La produzione della piccola Citroen non raggiungerà cifre esorbitanti nei suoi venti anni di carriera dal 1968 al 1987. Dagli stabilimenti usciranno in tutto circa 150.000 Méhari, che passeranno soltanto da un lieve restyling nel 1977. Nel 1979 fu presentata la versione 4x4, che rimarrà in listino soltanto 4 anni, oggi molto ricercata dai collezionisti. Durante gli anni di produzione la Méhari sarà limitatamente impiegata anche dall'Armée Française e dalla Gendarmerie Nationale. La simpatia e l'originalità della Méhari spinse la rivale Renault a sviluppare una spiaggina che potesse contrastare il successo della bicilindrica Citroen, dando vita alla sfortunatissima serie "Rodeo" basata sulle vetture di serie R4, R5 ed R6 che fallirono tuttavia l'obiettivo di strappare clienti alla concorrente in ABS. In Italia alcuni carrozzieri (Moretti, Fissore) si ispirarono negli anni 70 e 80 alla piccola francese decappottabile elaborando modelli su base Fiat 126 e 127. Nel 2016 Citroen ha presentato la nuova Méhari, la E-Méhari spinta da un propulsore elettrico caratterizzata dai colori vivaci della carrozzeria proprio come l'antenata venuta alla luce all'ombra della contestazione nella primavera del 1968.
1968: l'anno del Piaggio "Ciao". Il ciclomotore, semplice e robusto, entrò subito nel cuore dei giovani. Venderà 3,5 milioni di pezzi in ben 38 anni di produzione, scrive Edoardo Frittoli il 27 aprile 2018 su "Panorama". Un anno rivoluzionario, il 1968, ed un ciclomotore che lo fu altrettanto. Il Piaggio "Ciao" fu presentato a Genova l'11 ottobre 1967. La sua originalità sarà suggellata dalla longevità, tanto che il piccolo di casa Piaggio sarà prodotto ininterrottamente per quasi un quarantennio fino al 2006.
Semplice come dire "ciao"! Era un mezzo semplice robusto e leggero, ma l'apparente essenzialità celava in realtà un impegno tecnologico non indifferente per il periodo. Il "Ciao" era un ciclomotore a tutti gli effetti nonostante l'aspetto che ricordava le forme delle bici da donna, una scelta stilistica che garantiva alla Piaggio una clientela universale. Tuttavia il "Ciao" differiva moltissimo da quegli ibridi tra biciclette e motorini che avevano caratterizzato il panorama degli anni '50 (Mosquito, Velosolex e altri motori ausiliari). Il nuovo cinquantino della Piaggio vantava un design innovativo, lineare ma allo stesso tempo accattivante. Non vi erano ingombri "posticci" (come il serbatoio o altri accessori che caratterizzavano i ciclomotori degli anni '60). Nel "Ciao" tutti gli elementi si combinavano armonicamente. Il serbatoio da 2,8 litri era parte del telaio stampato, come nei "tuboni" che spopoleranno negli anni '80. Non vi erano organi meccanici a vista e le carenature laterali in plastica proteggevano il conducente dalle macchie spesso causate dall'olio motore. In poco meno di 40 kg. di peso a secco c'era tutto l'indispensabile, anche un pratico gancio portaborse ed un piccolo portapacchi sopra il parafango posteriore.
Un capolavoro di razionalità tecnologica. Ma il vero gioiello che caratterizzava il "Ciao" era il propulsore, un due tempi a cilindro orizzontale di 49,77cc. di cilindrata. Smontate agilmente le protezioni laterali in plastica, la vista si apriva su un motore estremamente compatto, che si incastonava perfettamente nello stretto spazio del telaio. Il motore del Ciao ereditava dalla sorella maggiore "Vespa" il volano alettato per il raffreddamento ad aria forzata. La distribuzione era regolata direttamente dall'albero motore, la frizione era automatica centrifuga ed era previsto il variatore di velocità (a seconda della versione) sulla trasmissione a cinghia trapezoidale come nei moderni scooter. Il cambio era monomarcia e l'accensione e lo spegnimento regolati da una piccola leva sul manubrio che azionava il decompressore al cilindro. Al momento del lancio, i prezzi del piccolo di casa Piaggio erano assolutamente competitivi e andavano dalla 55.000 alle 66.000 lire a seconda dell'allestimento e del propulsore con o senza variatore. Nei primissimi esemplari presentati, la versione base presentava la forcella anteriore rigida e il freno anteriore a pattini, come sulle biciclette. Questa configurazione fu presto scartata dalla Piaggio, che scelse di vendere il "Ciao" esclusivamente con forcella telescopica e freno a tamburo. La sospensione posteriore invece non fu mai applicata: l'ammortizzazione posteriore era garantita semplicemente da una coppia di molloni sotto la sella monoposto. Il "Ciao" rispettava le regole del Codice della strada per quanto riguardava la potenza e la velocità massima di 40 km/h. Il primo restyling del 1971 vedrà la sostituzione del faro anteriore con un proiettore rettangolare che rimarrà per buona parte della successiva produzione. Nel 1969 alle versioni base si era aggiunta quella "Special" con marmitta e finiture cromate oltre agli pneumatici con la fascia bianca, seguita l'anno successivo dal "Ciao Lusso" che aveva anche i parafanghi cromati e i copricarter neri come il faro. La struttura del ciclomotore Piaggio rimarrà pressoché invariata fino al restyling del 1979, che vide l'introduzione di un nuovo proiettore, di manopole in plastica e fanalino integrato nel portapacchi posteriore. Il piccolo di casa Piaggio sarà munito, nell'ultima fase di produzione, di miscelatore automatico e di omologazione Euro 3. Il "Ciao" ha fatto compagnia agli Italiani per quasi 40 anni, per la cifra record di oltre 3,5 milioni di unità prodotte.
1968: la Lambretta "Lui", lo scooter futuribile. Nato dalla matita di Nuccio Bertone per la Innocenti, lo sgargiante due ruote colpì per l'originalità e il design. Non fece seguito il successo per i limiti tecnici e la crisi della casa di Lambrate, scrive Edoardo Frittoli il 15 aprile 2018 su "Panorama". Nella primavera del 1968 la Innocenti di Lambrate mise sul mercato un piccolo scooter dalle linee totalmente rivoluzionarie, in linea con il clima di quell'anno. Ripercorriamone la storia con l'aiuto delle immagini e delle informazioni del libro dedicato alla Lambretta "Lui" scritto da Vittorio Tessera, punto di riferimento mondiale della storia e della memoria della casa milanese, titolare del più importante museo dello scooter a livello internazionale.
La corsa della Innocenti allo spazio (di mercato). Nel 1968 le due ruote stavano vivendo una nuova primavera. Dopo aver motorizzato l'Italia degli anni '50, le moto erano infatti entrate nel cono d'ombra dovuto alla sempre più ampia diffusione delle automobili. A risollevare il settore alla fine degli anni '60 era stata soprattutto la clientela dei giovani e giovanissimi, che verso la fine del decennio rappresentava una nuova ed allettante fascia di mercato soprattutto per le cilindrate da 50 a 125cc. La Innocenti di Lambrate aveva conteso alla Piaggio il mercato degli scooter già nell'immediato dopoguerra con le varie versioni della immortale Lambretta, iconica alternativa alla Vespa. Poi era rimasta indietro in modo particolare sull'offerta ai quattordicenni, che le altre case costruttrici avevano già pensato di soddisfare con una gamma molto differenziata di ciclomotori e motoleggere: da corsa, da cross, da turismo oppure semplici e robusti ciclomotori con pedali e senza le marce. Giusto nel 1968 la rivale Piaggio era uscita con il "Ciao", un motorino essenziale, economico e accattivante. A Lambrate i vertici della Innocenti iniziarono una corsa frenetica per colmare il gap e recuperare il terreno perso negli ultimi anni. Gli obiettivi della casa milanese erano alquanto ambiziosi: il nuovo scooter doveva essere il più economico della gamma ma allo stesso tempo avrebbe dovuto distinguersi da tutti gli altri motorini in circolazione. Fu tentato un primo prototipo disegnato negli uffici di Lambrate, ma non piacque alla Direzione della Innocenti. Divenne dunque necessario rivolgersi all'esterno per realizzare quanto sperato, così la scelta cadde su uno dei più grandi designer a livello mondiale del settore automotive: Nuccio Bertone.
Nuccio Bertone inventa una forma "spaziale". Il designer torinese, che era stato il padre di auto di prestigio assoluto come la Lamborghini "Miura", si mise al lavoro alla fine del 1967cercando di soddisfare i committenti e di stupire il pubblico. Quello che fu possibile intuire fino dai primi mockup in legno del piccolo scooter fu che Bertone si era lasciato liberamente ispirare dal fascino dello "spazio" e della corsa alla conquista della Luna, che stava diventando anche una moda ricorrente in molti campi. Alla fine di settembre il "Lui" era quasi completato, con il supporto economico della Innocenti che garantì a Bertone la possibilità di creare forme nuove che avrebbero richiesto importanti investimenti per la futura produzione di serie. Lo sforzo creativo fu ripagato appieno, quando il prototipo definitivo della versione "CL" montò quel memorabile manubrio futuribile di forma trapezoidale a traliccio, inserito in una linea essenziale che lasciava a nudo gli organi meccanici senza disturbare l'armonia avveniristica delle forme. Per quanto riguarda la colorazione la Innocenti osò proprio come aveva fatto con il disegno della carrozzeria a scocca portante del "Lui". Il piccolo di Lambrate fu vestito di colori accesissimi, che andavano dall'arancio carico al verde mela all'azzurro intenso. Per la campagna pubblicitaria si scelse una location che ricordava la superficie rocciosa della Luna, le scogliere erose della Costa Smeralda.
Tutti per Lui, Lui per tutti. La casa di Lambrate, dopo aver investito ulteriori risorse in un battage pubblicitario di tutto rispetto in Italia e all'estero, fece partire la linea di montaggio del "Lui". Era il marzo del 1968. Quando il "Lui" fu lanciato sul mercato, la Innocenti aveva pensato ad uno scooter destinato anche alla clientela estera. Perciò alla versione di 50cc fu affiancata un più performante e aggressivo "Lui" da 75cc.che in Italia ebbe naturalmente meno successo a causa dell'obbligo di patente, della targa ed età minima di 16 anni per poterlo guidare. All'estero i modelli "Lui" saranno chiamati con nomi che ricordavano direttamente l'ispirazione "cosmica" del progetto: "Luna", "Vega" e "Cometa". Gli allestimenti erano due: il più spartano "L", privo dell'innovativo manubrio di Bertone sostituito da uno classico a struttura tubolare e del fanalino posteriore speciale con cromatura. La versione "CL", con il gruppo manubrio/fanale di Bertone fu quello più venduto in assoluto. I prezzi erano assolutamente competitivi: la versione base, venduta a 89.500 Lire, costava circa la metà di una Vespa "50 Special". Per la "CL" il prezzo, comunque contenuto, arrivava a 95.000 Lire.
L'uomo conquista la Luna, ma il "Lui" non conquista il mercato. Nonostante l'impiego del genio di Bertone e l'effettiva originalità del "Lui", il successo non arriverà per motivi difficilmente superabili una volta uscito dalla catena di montaggio. Il piccolo scooter era infatti lento e instabile. I freni erano approssimativi ed il cambio (a 3 velocità sul 50cc e a 4 sul 75cc ) risentiva del design particolare per cui gli innesti a manopola sulla sinistra risultavano parecchio duri. Il propulsore era lo stesso della Lambretta J50, ma non superava i 40km/h imposti dal Codice della Strada nonostante fosse piccolo e più leggero della sorella di pari cilindrata. Non aiutavano la scarsa abitabilità, la sella corta, la mancanza della ruota di scorta e i cerchi di piccolo diametro che incrementavano l'instabilità su strada. Non c'era nemmeno la possibilità di avere un gancio portaborse come quelli montati sulla "Vespa". Infine lo scooter di Lambrate era anche difficile da "elaborare" senza ricorrere alla sostituzione del gruppo termico, rimanendo così fatalmente legato alla nomea di "lumaca", un aspetto che determinò l'allontanamento di quello che era stato il principale obiettivo di mercato della Innocenti: i giovanissimi. La vita breve della Lambretta "Lui" si chiuderà nel giugno del 1969con l'uscita di produzione del ciclomotore dal design in anticipo di 30 anni, che oggi è più apprezzato di allora. Alla fine del mese di luglio gli astronauti dell'Apollo 11 conquistavano la Luna, mentre su Lambrate iniziava un'eclissi che avrebbe portato alla fine della storia della "Lambretta" poco più tardi, nel corso del 1971.
La Fiera Campionaria di Milano del 1968. Viaggio fotografico nella fiera commerciale che dal 14 al 25 aprile ospitò più di 4 milioni di visitatori e quasi 14.000 espositori, scrive Edoardo Frittoli il 17 aprile 2018 su "Panorama". Riviviamo assieme ai documenti conservati nell'Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano (che conserva i documenti originali sin dalla prima edizione del 1920) il grande appuntamento mondiale del commercio e dell'industria di 50 anni fa. La Fiera Campionaria di Milano, una tra le più importanti esposizioni del mondo aprì i battenti il 14 aprile 1968, la domenica di Pasqua. Fu una partenza in sordina, poiché nessuna della autorità era presente per l'avvio della 10 giorni milanese punto d'incontro del commercio e dell'industria mondiali. Tutt'altro che sottodimensionate furono invece le cifre di quella edizione di 50 anni fa: la 46a edizione della Campionaria contava ben 13.687 espositori distribuiti su 471.000 Mq. di spazio con la rappresentanza di 67 paesi del mondo. Forte fu la rappresentanza, per la prima volta, dei paesi africani e dell'Europa dell'Est. Il cuore pulsante della kermesse fu rappresentato dalla novità del moderno "Centro Internazionale degli scambi" dotato della più avanzata tecnologia dell'epoca nel campo delle telecomunicazioni: postazioni telescriventi, circuiti televisivi, centralini teleselettivi e apparecchi per le telefoto che permettevano di trasmettere in tempo reale immagini e documenti delle novità esposte in fiera. Vetrina principale della grande industria italiana, la Fiera Campionaria ospitava nei più grandi e raffinati padiglioni le grandi aziende del Paese sia pubbliche che private. Ognuno di questi padiglioni era allestito secondo un tema: La Montecatini-Edison (poi Montedison) scelse di mostrare i progressi nel campo delle fibre sintetiche con il tema "La chimica ci veste", messe in mostra attraverso i giochi architettonici delle grandi rampe colorate di bianco ed illuminate di colori cangianti. Poco distante, rispondeva l'altro colosso del'industria privata: la Fiat, che proponeva il tema dello sviluppo tecnologico del motore a scoppio, dai primi prototipi ai reattori costruiti dalla fabbrica torinese per i caccia moderni. Tra gli altri il motore che equipaggiò l'idrovolante Macchi del record di velocità, l'M.C. 72 di Agello. L'ENI proponeva una gigantesca mappa interattiva delle trivellazioni nel mondo, introdotte da giovani hostess di colore vestite con vistose tute spaziali color argento. Non poteva mancare certo il grande padiglione dell'Enel, nazionalizzato solamente 6 anni prima: anche il mondo dell'elettricità si preparava ad affrontare le sfide del futuro. La riproduzione di una centrale idroelettrica e di una parte del "Centro di Dispaccio", un proto-computer atto a regolare la produzione di energia su vasta scala. Quindi lo sguardo si rivolge ai plastici e alle immagini dell'energia termonucleare delle centrali di Latina, delle foci del Garigliano e di Trino Vercellese. Le autorità visiteranno la Campionaria a partire da martedì 16 aprile. Arriverà il Ministro dell'Industria e del Commercio Giulio Andreotti, costretto a riparare al malcontento degli industriali del Nord presenti in forze in Fiera per i timori di questi ultimi riguardo a possibili ondate di austerità generate dallo sforzo del Governo teso allo sviluppo industriale del Mezzogiorno. Sarà poi la volta di Aldo Moro, Presidente del Consiglio in quell'aprile di mezzo secolo fa. E di oltre 4 milioni di visitatori fino al 25 aprile, quando la Fiera Campionaria di Milano chiuderà i battenti mentre il mondo fuori dai suoi cancelli cambiava rapidamente in quell'anno cruciale.
Maggio 1968: il processo al Talidomide. Calmante usato in gravidanza senza sperimentazione adeguata, fu causa di decessi e gravissime malformazioni (focomelia). Tra i responsabili, ex medici nazisti, scrive Edoardo Frittoli il 3 maggio 2018 su "Panorama". Doveva servire per alleviare le nausee della gravidanza ed accompagnare le donne verso la gioia più grande, quella di diventare madri. Per molte puerpere che avevano assunto il Talidomide il parto si trasformerà in un terrificante incubo che condizionerà la vita di intere famiglie e soprattutto dei loro figli nati gravemente menomati. Il farmaco causava infatti gravissime malformazioni fetali a carico degli arti superiori ed inferiori, note comunemente come "focomelia" per la somiglianza degli arti malformati con le zampe palmate delle foche. Non esistendo all'epoca l'ecografia, le malformazioni fetali non potevano in ogni caso essere diagnosticate. Nel cinquantesimo anniversario del processo alla casa farmaceutica Grunenthal, detentrice del brevetto del Talidomide, ripercorriamo la storia del più grave scandalo del XX secolo nel campo del mercato farmaceutico.
Gli inizi. La storia del Talidomide comincia alla metà degli anni '50 in Germania Ovest, quando l'azienda farmaceutica Grunenthal registrò il brevetto ventennale del Talidomide. La società era nata nel 1946 durante l'occupazione alleata della Germania Occidentale e fece la propria fortuna quando cadde il veto degli occupanti alla produzione locale di penicillina, che la fabbrica di Stolberg (vicino al confine belga) aveva iniziato a commercializzare con grandi ricavi. La Grunenthal era uno spin-off di una piccola azienda di saponi la cui proprietà era pesantemente implicata con il nazismo e che negli anni trenta si era impossessata di stabilimenti di proprietà di imprenditori ebrei. Nel 1945 la famiglia Wirtz assunse un gran numero di ex nazisti, tra i quali il Dottor Heinrich Muckter, già implicato negli esperimenti sugli ebrei polacchi del ghetto di Cracovia, il quale fu messo a capo della sperimentazione e della ricerca della Grunenthal. Con lui figuravano nell'organico aziendale altri due medici delle SS: Heinz Baumkotter e Ernst-Gunther Shenck. Dal 1960 al 1974 tra i vertici aziendali figurava Martin Stemmler, uno dei più accesi sostenitori della teoria dell'igiene razziale durante il nazismo.
1954-1957: la nascita del Contergan. Il Talidomide era un calmante ipnotico i cui studi iniziarono nel 1954 e proseguirono fino alla immissione sul mercato con il nome commerciale di Contergan avvenuta nel corso del 1957. Durante i tre anni di sviluppo del farmaco la Grunenthal condusse una sperimentazione clinica colpevolmente lacunosa, non testando mai il Talidomide su soggetti gravidi (sia animali che umani) e limitandosi solo in alcuni casi alla somministrazione a donne in allattamento. Nonostante ciò il farmaco ebbe via libera, alla quale seguì un grande battage pubblicitario del calmante "non-tossico". Al momento dell'immissione sul mercato internazionale, l'azienda sottolineò con insistenza l'azione benefica del farmaco proprio come rimedio alle nausee in gravidanza. Il Contergan, venduto sotto diversi nomi commerciali, sarà diffuso in 47 paesi del mondo e diventerà in breve il best seller della casa farmaceutica tedesca. Nessuno poteva all'epoca immaginare che la Grunenthal non fosse in possesso dell'evidenza clinica sulle donne in gravidanza riguardo ai possibili danni collaterali del Talidomide, così il farmaco fu largamente utilizzato essendo per di più un medicinale da bancovenduto senza obbligo di ricetta medica. I primi sospetti sulla presunta tossicità del Contergan giunsero alla Grunenthal dai medici tedeschi, che avevano notato un effetto tossico a livello neurologico negli anziani che lo utilizzavano come sonnifero. Da lì a pochi mesi fu notata una crescita dell'incidenza di gravi malformazioni e di mortalità nei bambini nati dopo la commercializzazione del medicinale. I report furono per lo più ignorati dai vertici della casa farmaceutica, che al contrario iniziò una capillare campagna per rassicurare medici, farmacisti e popolazione sull'assoluta sicurezza del calmante.
1961-1968 dal ritiro, al processo, allo scandalo. Solamente nel 1960 durante un convegno di pediatria, il medico tedesco Widikund Lenz mise in relazione l'incremento dell'incidenza delle malformazioni con il farmaco, tema ripreso l'anno successivo dall'autorevole giornale di medicina britannico "Lancet" con un articolo molto dettagliato a firma del medico australiano William McBride. Il 26 novembre 1961 la Grunenthal annunciò il ritiro del Talidomide dal mercato internazionale. Pochi giorni dopo il distributore britannico del farmaco tedesco annunciava l'azione legale nei confronti dell'azienda farmaceutica tedesca in nome delle famiglie del Regno Unito colpite dai danni causati dal Talidomide organizzando la prima class action. In Germania il processo fu fissato per il maggio del 1968 and Alsdorf, poco lontano dalla fabbrica del Talidomide, dopo oltre 6 anni e mezzo di raccolta di prove e documentazione da parte degli inquirenti. I capi d'accusa erano omicidio plurimo colposo nei casi di decesso per le gravissime malformazioni fetali; negligenza nei test clinici; lesioni e danni fisici plurimi e aggravati. Tra i principali imputati l'ex medico nazista Heinrich Muckter e il titolare della Grunenthal Hermann Wirtz. Quest'ultimo usò la scusa dell'età avanzata e della salute precaria per non presentarsi in aula, generando profondo sdegno nell'opinione pubblica mondiale che seguiva il caso dalle tv e dai giornali. Ancora più scandalosi saranno gli esiti dell'iter processuale, terminato già nel 1970 con un compromesso tra la Corte tedesca e l'azienda: la Grunenthal avrebbe pagato risarcimenti per 100 milioni di Marchi (meno di 30 milioni di dollari) mentre ai responsabili non fu inflitto neppure un giorno di reclusione. Inoltre la sentenza conteneva un'ulteriore beffa per le famiglie colpite dagli effetti del Talidomide: una clausola che impediva a queste ultime di intentare nuovamente causa dopo il risarcimento. La Grunenthal della famiglia Wirtz non ci mise molto a riaversi dal pagamento e dal danno d'immagine, ritornando ad essere una delle principali aziende farmaceutiche europee.
I danni del Talidomide. Si è calcolato che negli anni della sua commercializzazione, il Talidomide abbia causato decine di migliaia di aborti e di decessi post-partum. Su 10.000 bambini nati con gravi malformazioni, ne sono sopravvissuti circa 5,000 menomati negli arti superiori e inferiori, ad oggi raggruppati nelle varie associazioni nazionali delle vittime del farmaco (In Italia è attiva la V.I.T.A. - Associazione Vittime Italiane Talidomide). Nel 1973 vengono liquidati 429 bambini britannici con ulteriori 20 milioni di sterline, poi il silenzio fino al terzo millennio. Nonostante la gravità delle conseguenze, per decenni la famiglia Wirtz (tuttora nel consiglio di amministrazione della Grunenthal) è stata inserita nelle 50 famiglie più ricche della Germania.
Le scuse tardive (2012). Terminati i risarcimenti stabiliti dalla giustizia tedesca, il peso dell'assistenza passò interamente ai rispettivi Stati di residenza delle vittime del farmaco. Soltanto per l'iniziativa di una di loro, l'australiana Lynette Rowe, la Diageo (erede del distributore locale del Talidomide negli anni '60) fu costretta ad accordare un risarcimento milionario. E'il 2012 quando l'amministratore delegato di Grunenthal Harald Stock porge le scuse ufficiali all'audience costituita dalle vittime del farmaco inaugurando una statua commemorativa. Il Talidomide oggi. Nonostante gli incalcolabili danni causati, il Talidomide è stato impiegato efficacemente nella cura della lebbra, ed oggi è utilizzato in campo oncologico per le proprietà di contrasto del mielomamultiplo.
In vetta al 1968: l'impresa di Ettore Pagani. L'architetto, falegname e alpinista partecipa nel 1967 all'occupazione del Politecnico. L'anno successivo apre con Tiziano Nardella una via che battezza "Milano 1968" ancora oggi molto apprezzata, scrive Edoardo Frittoli il 7 giugno 2018 su "Panorama". L'occupazione della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano era durata due mesi: dal gennaio al marzo del 1967. Ettore Pagani, ventiquattrenne milanese di origini bergamasche è uno dei tanti studenti in lotta. Una occupazione pionieristica che, come quella dell'Università Cattolica, renderà Milano l'apripista dell'anno della contestazione, il 1968.
Il Sessantotto visto dalla ciminiera del Politecnico di Milano. Ettore ha un talento in più da mettere a disposizione per supportare la lotta degli studenti, per far sì che i Milanesi possano coglierne la portata ed il significato. Pagani è un alpinista abile nell'arrampicata, passione che coltiva dalla prima adolescenza. E così si arma di corde, imbracatura e moschettoni per salire fino in cima al comignolo che svetta dal vecchio edificio in stile liberty del Politecnico e lassù issa una bandiera rossa ben visibile a tutti dalle vie attorno a Città Studi.
Il Sessantotto visto dalla cima del Medale (Lecco). Questo è il prologo all'impresa alpinistica dell'anno successivo, che compirà in compagnia di Tiziano Nardella. La cornice è quella delle alte e ripide pareti rocciose che dominano Lecco, il Corno di Medale. Qui Ettore prepara la sua avventura, l'apertura di un percorso sul versante Sud-Est. Con Tiziano decide di attaccare la parete rocciosa vergine, in buona parte ricoperta da vegetazione, e di dedicare la nuova via alla città che a sua volta aveva aperto un'altra via, quella della lotta per il rinnovamento sociale e per un'Università svecchiata e più accessibile. Per questo Ettore Pagani e Tiziano decidono di lasciare una traccia evocativa di quei mesi unici battezzando la via aperta nel mese di aprile con il nome di "Milano '68". Simbolo di quell'impresa, l'immagine di Ettore durante l'ascesa, che scherza facendo la linguaccia all'obiettivo appeso lungo la parete rocciosa del Medale che raggiunge gradi di tutto rispetto, fino al 7a+. Sceso dalle alture lecchesi, per Ettore Pagani lo spirito del '68 non finirà con il tramonto della stagione delle lotte studentesche. Dopo la laurea in Urbanistica la sua voglia di sperimentare e creare lo indirizza verso l'arte della falegnameria. E quindi verso altre sue passioni: la navigazione sopra tutte, con le vele spiegate ad inseguire la libertà per cui lottò assieme agli altri studenti di architettura mezzo secolo fa. Coerente con le sue idee, non seguirà il riflusso ideologico alla fine della lotta, né trarrà vantaggi personali dal suo passato attraverso gli effimeri anni '80. Ettore Pagani non smetterà di voler conoscere il mondo e le sue genti viaggiando appena possibile. Sulla sua "Milano 68" tornerà nel 2001 assieme alla guida alpina ed amico Nicolò Berzi quando ormai la via era diventata un classico dell'arrampicata. I due alpinisti erano tornati per mettere in sicurezza la via e sostituire i 125 chiodi piantati allora -ormai arrugginiti e malsicuri - con i moderni "spit" i tasselli a bussola autoperforante. Per l'occasione viene realizzato da Alessio Viola il docufilm "Senza chiodi fissi", dove Ettore Pagani ripercorre la storia della sua via inquadrandola e discutendone le origini nel particolare periodo storico in cui fu aperta.
L'ultimo viaggio di Ettore (2003). Due anni dopo il riattamento della via del Medale, Ettore Pagani è in Niger con la moglie Simona Manfredini Pagani (come lui alpinista e appassionata di viaggi) ed altri compagni di avventura. Durante un trasferimento in fuoristrada nel deserto del Ténerè, la tragica fatalità. La macchina sulla quale sta viaggiando Pagani è investita in pieno dall'esplosione di una mina nascosta nella sabbia, che spezza la vita di Ettore e di altri due compagni di viaggio. Era il 3 gennaio 2003. Oggi Ettore Pagani continua a viaggiare, ricordato nelle attività dell'Associazione Altrispazi a lui dedicata, che tra le tante attività annovera dal 2017 l'organizzazione del Milano Mountain Film Festival. I chiodi originali della "Milano 1968" sono stati donati da Simona Manfredini Pagani all'associazione alpinistica Edelweiss di Milano.
La sciagura del volo Air France 1611: storia della "Ustica francese". L'11/9/1968 il volo Ajaccio-Nizza si inabissava. I parenti delle vittime sostengono da sempre la tesi del depistaggio per un missile partito per errore. E chiedono di togliere il segreto militare, scrive Edoardo Frittoli il 12 settembre 2018 su "Panorama". Esattamente cinquant'anni fa, al largo di Nizza, si consumava una sciagura aerea in cui persero la vita 95 persone. Mentre le indagini ufficiali parlarono di una fatalità, i parenti delle vittime sostennero per decenni la tesi del depistaggio da parte delle Autorità militari francesi, che avrebbero occultato le prove di un errore durante una sessione di tiro dal poligono dell'Ile du Lévant. Una vicenda che per molti versi può ricordare la strage di Ustica del 27 giugno 1980.
Aeroporto di Ajaccio-Campo dell'Oro. Ore 9:02 dell'11 settembre 1968. Il Sud-Aviation Se-210 Caravelle III dell'Air France marche F-BOHB(Hotel-Bravo) attende il via libera della torre di controllo per iniziare il volo verso l'Aeroporto di Nizza-Cote D'Azur. Il volo AF1611 ha imbarcato 89 passeggeri e 6 membri dell'equipaggio per il viaggio di routine stimato in circa 45 minuti. Il volo procede senza intoppi fino alle ore 9:31 quando il Comandante comunica alla torre di controllo di Nizza di avere un incendio a bordo. Il Caravelle è già in vista della costa e della città quando la torre fa scattare la procedura di emergenza. Un minuto più tardi dalla cabina di pilotaggio il drammatico audio: "On va crasher si ça continue…". L'ultima eco radar alle 9:33. Poi, nonostante i tentativi di ricontattare il volo AF1611 per altri 4 minuti, il segnale scompare per sempre dai monitor della torre di Nizza. Hotel-Bravo si era inabissato a circa 22-25 miglia nautiche a Sud della pista 05 dell'Aeroporto Nice-Cote D'Azur. Le ricerche partirono subito, ostacolate però dalle condizioni del mare e per la visibilità ridotta, sino a quando alcuni frammenti galleggianti sono individuati da un Constellation SAR poco dopo le 11 del mattino. Le ricerche dei frammenti del volo AF1611 saranno lunghe e difficoltose, a causa della difficoltà di individuazione dell'esatto punto d'impatto dell'aereo e per l'effetto delle forti correnti marine nel tratto di mare interessato. Dopo il recupero di frammenti dei propulsori inviati a Parigi e Londra per le analisi radiografiche, le Autorità inquirenti si affrettarono ad escludere categoricamente gli effetti di qualsiasi agente esplosivo all'origine dell'incidente. L'affermazione rimarrà invariata fino alla relazione finale nel 1972e all'archiviazione nel 1976.
La tesi degli inquirenti. Sulla base degli esami effettuati sui resti del Caravelle, che sarebbe precipitato integro ad una velocità eccessiva di circa 500-600 nodi (oltre 1.000 km/h) ed in base alle registrazioni effettuate durante la fase finale del volo, le cause dell'incidente sarebbero state individuate nei danni causati da un incendio provocato dalla combustione di un cestino dei rifiuti nella toilette di coda, dovuto verosimilmente dalla combustione di una sigaretta. Il 21 settembre 1968, appena 10 giorni dopo la sciagura, il settimanale francese "Paris Match" ipotizza per la prima volta la tesi dell'abbattimento a causa di un missile, svelando che nella zona dove l'aereo si inabissò fossero in corso esercitazioni di tiro. Fu allora che i parenti delle vittime cominciarono a fare pressioni per avere chiarezza, a seguito anche delle dichiarazioni di alcuni testimoni presenti quel giorno su imbarcazioni, che avrebbero visto un "lampo" colpire la sagoma del Caravelle prima dello schianto in mare. La chiusura delle indagini alla metà degli anni '70 non impedirà all'Associazione dei parenti delle vittime di proseguire nella contro-inchiesta, che nel 2009 (a 40 anni dal disastro) arriverà ad una svolta grazie alla dichiarazione spontanea di un testimone-chiave.
Il superteste Michel Laty. L'Esercito ha depistato le indagini. Michel Laty, malato terminale di cancro, segue da vicino il calvario dell'Associazione dei parenti che lottano contro il muro di gomma delle Autorità d'oltralpe. Conscio del poco tempo che gli resta da vivere, decide di parlare. L'11 settembre 1968 Laty era Segretario militare presso lo Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare francese di Tolone. Quella mattina ricevette un telegramma riservatissimo che annunciava il dramma del Caravelle. Fatto strano, poiché solitamente quel tipo di comunicazioni avvenivano tra enti civili. Poco dopo, il testimone avrebbe ricevuto l'ordine di trasmettere la risposta al mittente. Quello che Laty scrisse quel giorno non pareva lasciare dubbi: si spiegava che il volo AF 1611 "si era trovato a transitare nella zona di esercitazioni di tiro terra-aria al posto di un'aereo-esca". Si raccomandava pertanto il mantenimento del più stretto riserbo, ossia il "segreto militare". Il fatto che il Caravelle non fosse esploso in volo fu dovuto al fatto che il presunto missile non sarebbe stato armato di carica esplosiva. Tuttavia, l'impatto con uno dei motori e il danno conseguente avrebbero fatto precipitare il velivolo già in fase di discesa verso l'aeroporto che non raggiungerà mai.
A cinquant'anni dalla tragedia. La verità è (forse) vicina. A nulla valsero, fino alle dichiarazioni di Laty (morto poi alla fine del 2011) le richieste di riapertura delle indagini del 2006 e 2008. A seguito di una denuncia dell'Associazione parenti nei confronti del Ministero della Difesa per "occultamento aggravato di prove e depistaggio", il 20 marzo 2012 la Procura di Nizza disponeva la riapertura del caso. Nel 2018, dopo un altro interminabile iter, il Giudice Istruttore Alain Chenana dispone la richiesta di desecretazione. I ministeri sono guidati da Edouard Philippe ed quello dell'Interno di Gérard Collomb, il quale ha risposto confermando l'attivazione della Commissione sui segreti della Difesa, che avrà due mesi di tempo per dare una risposta. E, si spera, anche la pace per le vittime ed i loro parenti nel limbo da mezzo secolo.
50 anni fa l'Apollo 8 in orbita attorno alla Luna. Nel novembre 1968 i preparativi prima del lancio. Portò gli astronauti in una rotta translunare fino ad orbitare per 20 ore attorno al satellite della Terra, scrive Edoardo Frittoli il 26 novembre 2018 su "Panorama". "I'll see you on the dark side of the Moon" (ci vedremo sulla faccia oscura della Luna". Così cantavano i Pink Floyd nel 1973. La promessa contenuta nei versi del brano fu esattamente quello che 50 anni fa portò a compimento l'equipaggio della missione Nasa "Apollo 8". Per la prima volta nella storia l'uomo ebbe la possibilità di vedere la parte nascosta del satellite terrestre e di orbitare intorno ad esso in una missione piena di rischi e di incognite, che avrebbe tranquillamente potuto trasformarsi in una tragedia. Con i tre astronauti condannati alla terribile morte "spaziale" nel caso non fossero riusciti ad uscire correttamente dall'orbita lunare per rientrare sulla terra. La missione Apollo 8, iniziata nell'estate del 1968 seguì quella dell'ottobre di quell'anno, l'Apollo 7, che portò a termine con successo l'obiettivo dell'ingresso nell'orbita terrestre del modulo di comando (CSM) e il successivo rientro attraverso l'atmosfera della Terra. La missione Apollo 8 aveva una serie di target molto più ambiziosi e comprendevano, dopo il lancio in orbita grazie alla spinta del razzo vettore Saturno V, l'ingresso nell'orbita terrestre per poi abbandonarla mediante la spinta dei reattori del modulo verso l'orbita lunare. Una volta stabilita la rotta, il modulo avrebbe dovuto entrare nell'orbita lunare nascosto dietro il lato oscuro del satellite, senza possibilità di comunicare con il Centro Spaziale in Florida. Alla fine delle rivoluzioni stabilite i tre astronauti avrebbero dovuto riaccendere i propulsori per uscire correttamente dall'orbita lunare e riguadagnare quella terrestre. L'ultima e non meno rischiosa manovra sarebbe stato il rientro nell'atmosfera terrestre con l'ultima spinta dei razzi, resistendo alle altissime temperature d'attrito. Il tutto affidandosi alla tecnologia di mezzo secolo fa. Il programma Apollo 8 fu completato nell'autunno del 1968, in un clima mondiale di altissima tensione, nel pieno dello space race con i Sovietici e con la rivolta dei ghetti neri americani giunta all'apice della violenza. La buona riuscita della missione aveva dunque un importantissimo valore politico-strategico. i tre membri dell'equipaggio erano il comandante Frank Borman, il pilota del modulo lunare William A. Anders e il pilota del modulo di comando James A. Lovell. Due su tre erano veterani dello spazio. Borman e Lovell avevano infatti preso parte nel 1965 alla missione Gemini 7, stabilendo il record di permanenza in orbita attorno alla Terra. L'equipaggio di riserva dell'Apollo 8 era inoltre formato da due dei futuri conquistatori della Luna nel luglio del 1969, Armstrong e Aldrin. Il centro di controllo della missione si trovava presso la sede del Kennedy Space Center in Florida, a poca distanza da Cape Canaveral.
L'addestramento. Gli uomini della missione Apollo 8 arrivarono al Kennedy Space Center lo stesso giorno del rientro degli astronauti della missione precedente, l'Apollo 7. L'addestramento cominciò dall'evacuazione di emergenza dal modulo. Due giorni dopo i tre furono trasferiti a Galveston, Texas (nel golfo del Messico) dove si esercitarono all'uscita dalla navicella dalle acque dell'oceano. Gli astronauti dovevano in questo caso essere pronti a raddrizzare il modulo gonfiando una serie di palloni che avrebbero riportato il CSM (Command Service Module) dalla posizione ribaltata dell'ammaraggio a quella corretta. Durante tutto il periodo di addestramento, i tecnici Nasa furono impegnati a testare parallelamente i sistemi di navigazione computerizzati nonché la struttura del modulo di servizio fornito dalla North American-Rockwell, uno dei principali produttori del settore aerospaziale americano. La preparazione della missione Apollo 8 fu febbrile poiché era assolutamente necessario che il lancio avvenisse entro un mese, al fine di garantire i passaggi del modulo attorno alla Luna in condizioni ideali di luminosità tali da poter fotografare la superficie del satellite individuata come possibile zona di allunaggio per le missioni successive. La data del lancio fu stabilita per il 21 dicembre 1968, sfruttando la luce diurna. Il 19 dicembre, con il modulo montato sulla rampa e agganciato al razzo vettore Saturno V, iniziò il conto alla rovescia (T-28 ore). Durante questa fase si verificò un problema che per poco non vanificò la missione: nella riserva di ossigeno liquido della navicella fu trovata una contaminazione di azoto, guasto che fu riparato in extremis e risolto a sole 10 ore dal lancio. Tutti i serbatoi del Saturno V e del modulo furono riempiti e a due ore dal lancio Borman, Anders e Lovell presero posto ai comandi del modulo.
Kennedy Space Center, Florida, Launch Complex 39, Pad A: ore 07:51EST del 21 dicembre 1968. I motori del razzo vettore si accesero nel fragore del primo giorno del mite inverno della Florida. Dopo 2 minuti e 30 il primo stadio del Saturno V si staccava precipitando pochi istanti dopo nell'Oceano Atlantico. Dopo altri 3 minuti l'Apollo 8 entrava nell'orbita terrestre alla velocità di circa 28.000 km/h con un apogeo di 99,99 miglia nautiche (185,19 km)
A 42 minuti dal lancio furono espulse le protezioni degli obiettivi fotografici e gli astronauti cominciarono a testare le apparecchiature di trasmissione dati e di comunicazione con la stazione di Carnavon, Australia. Perfettamente inserito nell'orbita terrestre, l'Apollo 8 compì 1,5 rivoluzioni attorno alla Terra dopo aver fotografato e trasmesso al Kennedy Space Center le prime immagini nitide del nostro pianeta.
T Hour + 2:27: verso la Luna. Dopo 2 ore 27 minuti e 22 secondi dal lancio iniziò una delle fasi più delicate di tutta la missione, chiamata in codice TLI o Trans Lunar Injection. Si trattava di una spinta della stadio propulsore S-IVB che avrebbe proiettato il modulo fuori dall'orbita terrestre in direzione della Luna. Al Kennedy Space Center e sulla navicella dell'Apollo 8 salì la tensione in quanto durante il precedente test senza astronauti a bordo i razzi di spinta non si accesero. Fortunatamente, quella mattina del 21 dicembre di 50 anni fa tutto funzionò a dovere e l'Apollo 8 con i suoi tre uomini a bordo puntò dritto al satellite della terra. Al termine della spinta propulsiva, fu necessario staccare il vettore S-IVB dal modulo di comando. Nonostante l'esito perfetto dell'operazione, nei minuti successivi Frank Borman si accorse che il vettore appena espulso viaggiava troppo vicino al modulo CSM. Grazie ad un'operazione comandata dalla base in Florida e concordata con il comandante del modulo Apollo 8, si optò per un'ulteriore breve spinta propulsiva che separò i due moduli. Il vettore S-IVB si incamminò verso la sua futura sorte da relitto spaziale: passerà la Luna per entrare in un orbita solare di 340 giorni di rivoluzione per l'eternità. A 24.000 km dalla Terra, Borman Lovell e Anders furono i primi uomini ad attraversare la zona delle fasce radioattive di Van Allen (una cintura radioattiva ai limiti della sfera gravitazionale della Terra che si rivelarono alla fine innocue, come indicarono gli strumenti di rilevazione a bordo. Durante la fase translunare, l'equipaggio diede al modulo un lento assetto rotatorio attorno all'asse longitudinale in modo da proteggere l'involucro esterno dagli sbalzi estremi di temperatura durante la rotta, che variava dai 200°Cdell'esposizione alla luce solare ai -100°C della zona in ombra. Quando il modulo si avviò verso l'orbita lunare erano passate 11 ore dal momento del lancio. Gli uomini erano stati svegli per 16 ore in condizioni di estremo stress psicofisico. Frank Borman, comandante del CSM, fu il primo ad osservare il turno di riposo dopo aver ingerito un sonnifero. Disturbato dalle comunicazioni radio e dal rumore degli strumenti di bordo, l'astronauta si sveglio dopo un ora di sonno tormentato ed in preda ad un malore. Senza potersi appartare, Borman vomitò e fu colpito da un attacco di diarrea improvvisa, che riempì il modulo di deiezioni in forma di capsule a causa della ridotta gravità. Mentre in Florida si riuniva la commissione medica della Nasa, che diagnosticava una forma di enterite virale, gli astronauti pulivano gli angusti ambienti come potevano. Gli studi e le esperienze successive indicarono che Frank Borman soffrì del "mal di spazio", dal nome scientifico di SAS-Space Adaptation Syndrome. Durante la rotta verso la Luna, l'Apollo 8 trasmise le prime riprese televisive del suo viaggio alla Terra. Il primo video durò circa 27 minuti ed illustrò soprattutto gli interni del modulo di comando e il suo equipaggio. A causa della mancanza di filtri adatti, il tentativo di inquadrare la terra vista dallo spazio fallì, fornirono solo immagini di un globo luminoso e biancastro. Il video terminava con Lovell che augurava buon compleanno a sua madre.
T Hour +71:40: The dark side of the moon. Dopo 55 ore di volo, l'Apollo 8 si trovava a 326.415 Km dalla Terra e a soli 62.597 km dalla Luna. Mano a mano che il modulo si avvicinava al satellite terrestre, la velocità aumentava. Per la prima volta nella storia dell'umanità, l'uomo entrava nella sfera gravitazionale di un altro corpo celeste alla velocità relativa di 1220 metri/secondo (4392 Km/h). Quattordici ore più tardi Borman accendeva nuovamente i razzi propulsori per 4 minuti e, alla velocità di 5.988 km/h l'Apollo 8 entrava nell'orbita lunare sopra il lato oscuro, dove tutte le comunicazioni con la Terra furono interrotte. Furono i minuti più lunghi ed angoscianti per l'equipaggio. Se i calcoli relativi all'accensione dei propulsori fossero stati errati, l'Apollo 8 con i suoi occupanti si sarebbe persi nello spazio. Oppure, prospettiva altrettanto drammatica, si sarebbero potuti schiantare sulla superficie lunare. Quando i tre riaprirono gli occhi, il modulo si era inserito perfettamente nell'orbita del satellite. Il primo giro attorno alla circonferenza dell'astro celeste sarebbe durato circa due ore. Al termine del viaggio sopra la faccia oscura, James Lovell vide per primo il taglio di luce solare che illuminava il primo spicchio di Luna illuminato dal sole, mentre sulla Terra il personale della Control Room attendeva con il fiato sospeso la ripresa delle comunicazioni radio con l'Apollo 8. Esattamente all'ora calcolata, il modulo comparve di fronte alla faccia visibile della Luna, mentre l'antenna parabolica dell'Apollo gracchiò la voce degli uomini dell'equipaggio. L'operazione Lunar Orbit Insertion era perfettamente riuscita. La superficie rocciosa della Luna si svelò alla vista di Borman, Lovell e Anders ad appena 112 km di altezza dalla superficie grigia del satellite. Durante tutto il tragitto translunare gli astronauti non erano stati in grado di osservare la Luna, perché gli oblò del modulo rimasero appannati a causa delle condizioni estreme dell'atmosfera circostante. Entrati in orbita, i tre astronauti videro per la prima volta nella storia le gole ed i crateri, che Lovell descrisse come "spogli ed incolori, come il gesso di Parigi". La superficie lunare appariva nel dettaglio, con il Mare della Fertilità che appariva molto meno marcato di quanto si vedesse dai telescopi sulla Terra. I crateri erano arrotondati, ed apparivano come fossero stati creati dall'impatto con tanti meteoriti. L'equipaggio preparò le apparecchiature fotografiche, che immortalarono anche la futura zona di sbarco dell'Apollo 11 nel luglio 1969, il Mare della Tranquillità. Furono effettuate fotografie stereoscopiche per permettere l'analisi orografica dei rilievi, dei crateri e delle gole. Al termine delle 20 ore di orbitazione dell'Apollo 8 attorno alla Luna l'equipaggio riuscì a scattare 800 fotografie, perfettamente riuscite. Era la vigilia di Natale del 1968.
T Hour + 89:29: back to the Earth. Al quarto passaggio davanti alla faccia visibile della Luna, gli astronauti videro uno spettacolo unico: il sorgere della Terra dall'orizzonte lunare, che Lovell immortalò a colori nello scatto passato alla storia grazie anche alla copertina del settimanale Life. Dopo l'emozione della visione della Terra, Borman decise di concedere a sé ed ai compagni un periodo di riposo durante le ultime ore di rivoluzione attorno al satellite. Il primo ad addormentarsi fu proprio il comandante del modulo, che dovette tuttavia risvegliarsi poche ore dopo in quanto si accorse che i compagni stavano commettendo errori di interpretazione nelle comunicazioni con la base Nasa in Florida a causa della stanchezza eccessiva. Ripresi i comandi, Borman si ricordò dell'appuntamento natalizio in occasione del secondo collegamento televisivo con la Terra, durante la nona rivoluzione attorno alla Luna. Durante il collegamento il comandante descrisse nuovamente il satellite come una "vasta e solitaria distesa di nulla". Nel frattempo Anders, svegliatosi dal difficile riposo, lesse un passo della Genesi agli ascoltatori sulla terra, la storia della Creazione (Cap 1 versi 1-10). Dopo aver augurato buon Natale all'umanità l'equipaggio si preparò ad una delle manovre più delicate di tutta la missione, il rientro nell'orbita terrestre, pianificata due ore dopo il messaggio televisivo. La fase TEI (Trans-Earth Injection) era speculare rispetto a quella dell'ingresso nell'orbita lunare. Come la fase precedente, doveva avvenire in assenza di contatto radio con la Terra, con l'Apollo 8 nascosto dietro la Luna. L'iniezione dei propulsori cominciò in preciso orario, dopo 20 ore e 10 minuti di orbita lunare. I propulsori spinsero per circa 6 minuti, portando la velocità del modulo alla velocità di 9702 km/h dopo aver raggiunto durante le rivoluzioni la distanza massima dalla Terra di 377.748 km. L'ultimo brivido per l'equipaggio si consumò durante l'uscita dall'orbita lunare, a causa di un lieve errore di sincronizzazionedegli strumenti di comunicazione con la Terra, che generò una leggera deviazione dalla rotta prestabilita. Il contatto radio fu ristabilito con la Florida, con Lovell che informava via radio dell' "arrivo di Babbo Natale". Ripreso il moto rotatorio attorno all'asse longitudinale per proteggere la struttura esterna dagli sbalzi estremi di temperatura, un altro inconveniente fece tenere il mondo con il fiato sospeso. A causa della stanchezza, Lovell cancellò parte dei dati di navigazione contenuti nella memoria del computer di bordo, che dovettero essere nuovamente immessi manualmente mentre l'equipaggio procedeva la rotta a sestante basandosi sull'allineamento delle stelle Rigel e Sirio. Durante la fase di rientro, l'Apollo 8 si collegò ancora due volte con la Terra trasmettendo immagini degli interni del modulo e del pianeta in avvicinamento. Dopo 146 ore e 28 minuti fu espulso il modulo di servizio, che lasciò sola la piccola capsula di comando all'appuntamento con l'atmosfera terrestre. L'impatto fu spettacolare: la capsula con i tre astronauti subì una spinta inversa così forte da farle prendere quota ascensionale (passò da un'altitudine di 58.800 metri a 64.000 in pochi secondi) per poi ridiscendere ricoperta da un alone di luce bluastra dovuta alla ionizzazione. Aperto il paracadute, l'Apollo 8 ammarò nell'Oceano Pacifico alle 10:51 locali del 27 dicembre 1968 dopo 147 ore di missione. Si trovava a 1,4 miglia nautiche dal punto di rientro prestabilito e a 2,6 miglia nautiche dalla nave di recupero USS "Yorktown". Il modulo di comando galleggiava a testa in giù nelle gelide acque dell'oceano, e fu raddrizzato con l'ultima manovra dell'equipaggio che gonfiò i palloni di stabilizzazione dopo 6 minuti dall'ammaraggio. In quel punto dell'oceano la luce del sole non era ancora arrivata. Fu necessario attendere 43 minuti prima di procedere con il recupero del modulo, la cui superficie appariva brunita per l'attrito con l'atmosfera durante la fase di rientro.
Ford Island, Hawaii. 29 dicembre 1968: mission accomplished. Borman Lovell e Anders sbarcarono dalla USS "Yorktown" e si separarono dal modulo che li aveva portati attorno alla Luna. La capsula dell'Apollo 8, l'unico componente del sistema ritornato sulla terra, fu trasportato presso i laboratori della North American Rockwell per le analisi post-missione. Provati ma in buona salute, i tre astronauti erano stati i primi uomini ad entrare nell'orbita di un corpo celeste che non fosse la Terra. Il modulo di comando si dimostrò affidabile per futuri viaggi verso la Luna, sia dal punto di vista della trasmissione dati di navigazione che da quello strutturale, dove la tecnica di rotazione durante il tratto translunare e quello di ritorno verso la terra funzionò alla perfezione, preservando la cabina di comando e i sistemi del modulo. Il 90% delle immagini scattate durante la fase di rotazione attorno alla Luna erano risultate perfettamente leggibili e molto più dettagliate di quelle riprese dalla Terra o dai satelliti artificiali dell'epoca. Anche gli errori, come quello commesso da Lovell a causa dell'eccessiva stanchezza durante la fase di rientro fu utile alle missioni a venire. Le successive missioni Apollo furono infatti preparate in tempi più rapidi, grazie anche all'esperienza maturata dalla missione di Borman, Lovell e Anders che oggi ricordiamo a 50 anni dalla loro incredibile impresa, oscurata poco più di un anno dopo dallo sbarco dell'Apollo 11. Messa in ombra da quella parte nascosta della Luna che per primi avevano visto di persona.
E Venezia tornò nella ribalta politica. Subito dopo il festival di Cannes, dove la protesta è capeggiata da Godar e Truffaut, la ribellione scoppia anche a Venezia. In testa c’è Pier Paolo Pasolini, scrive Angela Azzaro il 2 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Sembra passata un’eternità da quando a Venezia studenti, registi e intellettuali occupano la sala Volpi al grido di “mostra libera” e “il cinema al popolo”. Oggi la discussione è se ci sia troppo o poco mercato, oppure se il cinema tradizionale sia obsoleto rispetto alla serie tv. E se un attore come Michele Riondino – padrino del festival – osa dire qualcosa contro Matteo Salvini viene subito bollato come “out”. Cinquant’anni fa il Sessantotto arriva anche al Lido chiedendo un cambiamento radicale dello statuto e della direzione verticistica. Alla guida c’è un vecchio regista come Luigi Chiarini incapace di capire lo spirito che anima i giovani e gli autori anche già affermati. Qualche mese prima c’era stato il festival di Cannes. Lì le contestazioni sono ancora più dure. Dopo qualche giorno dall’inizio della manifestazione, gli studenti occupano le sale dove si proiettano i film bloccandone la visione. Ma non sono soli. Con loro si schiera il meglio del cinema francese. A dire no allo status quo anche a Cannes, in sintonia con quanto avviene a Parigi, ci sono Jean Luc Godard, Francois Truffaut, Roman Polanski, Luis Malle. C’è il cuore del movimento della Nouvelle Vague che all’inizio degli anni Sessanta rivolta come un calzino stile, contenuti, modalità della settima arte. Il prestigioso festival francese finisce senza che molti film vengano proiettati, senza che venga attribuito il “palmares” e con un nuova sezione, ancora oggi la più prestigiosa, quella della Quinzaine des réalisateurs. Quando la direzione decide comunque di continuare, tre membri della giuria si dimettono, tra di loro c’è anche la nostra Monica Vitti. Dopo qualche mese il palcoscenico è quello di Venezia. Il festival, nato durante il fascismo, conserva ancora la struttura impressa dalle politiche culturali del Ventennio. E i registi italiani non possono essere a meno dei cugini francesi. Prima di arrivare al Lido c’è una discussione anche aspra sui giornali tra le diverse anime del cinema italiano. Non tutti sono d’accordo che si debba mettere in scena una protesta. Quell’anno i film selezionati sono di per sé “rivoluzionari” e questo sarebbe dovuto bastare a far soffiare il vento della ribellione anche alla Biennale. Tra i contrari alle proteste, c’è Pier Paolo Pasolini che deve partecipare alla Mostra con il film scandalo Teorema. Pasolini vuole a tutti i costi essere in gara, anche perché spera di vincere. A luglio su Paese sera scrive un duro articolo in cui critica la scelta di manifestare già annunciata dall’Anac, l’associazione che tutt’ora rappresenta i registi italiani. Pasolini non è d’accordo che si fermino le proiezioni, ma è favorevole a un mutamento della struttura verticistica della cabina di comando. Quando inizia il festival, davanti alle prime proteste, il grande regista e poeta cambia idea e fino all’ultimo resta tra i più forti contestatori. Il film Teorema viene proiettato contro la sua volontà e prima di andare nelle sale passa al vaglio di un processo perché considerato osceno. Ma questa è (quasi) un’altra storia. Pasolini in quel ’ 68 è in prima linea, convinto che la Mostra così come è sia da abolire. Non sta dalla parte della polizia, ma di chi manifesta. Il 25 agosto giorno fissato per l’inizio della kermesse arriva un rinvio del direttore Chiarini che appare come una sua sconfitta. Non è così. Il giorno dopo studenti e registi occupano la Sala Volpi al Palazzo del cinema, ma vengono sgomberati e il fronte della protesta si sgretola. I registi però organizzano un contro festival. Sono tanti gli autori che in quei giorni ci mettono la faccia: vogliono che l’industria del cinema cambi al pari della società, della scuola, della famiglia. Pasolini chiede che si crei una canale di distribuzione non controllato dal mercato, in tanti vogliono che le proiezioni del Festival non siano aperte ai giornalisti. Esattamente il contrario di quello che accade oggi: che pur di avere i giornalisti in sala si è disposti a tutto. In prima linea, quell’estate al Lido, ci sono Citto Maselli, Bernardo Bertolucci, Gillo Pontecorvo, Marco Ferreri, Ugo Gregoretti, Liliana Cavani. Il critico Steve Della Casa ha intervistato i protagonisti di quelle giornate all’interno di un documentario che è stato proiettato alla mostra di Venezia dieci anni fa, in occasione del quarantennale. Non sono mancate le critiche. Secondo Maselli l’opera non restituisce il clima di cambiamento, di entusiasmo, di lotta. Della Casa si è difeso dicendo che lui ha solo dato voce a chi aveva vissuto quell’esperienza, sarebbe toccato a loro trasmettere quell’entusiasmo. Qualsiasi cosa si pensi, quella è stata una pagina importante per il cinema e più in generale per la cultura del nostro Paese. Ma anche questo è un giudizio di parte. Ciò che forse bisogna ricordare per capire cosa fu il ’ 68 a Venezia è che il cinema, più di altre arti, è fortemente connesso con la società. Lo è stato 50 anni fa sulla spinta del movimento degli studenti e degli operai, ma lo è fin dall’esordio, quando il cinema nasce come fenomeno legato alle macchine e all’industria. Ogni film va giudicato in quanto film, ma è impossibile isolarne il valore, mettendolo su un piedistallo. Il cinema si è sempre sporcato le mani non solo per passione, ma per “natura”, perché nato con l’ambizione di catturare il reale impresso sulla pellicola. Non è tempo di un nuovo Sessantotto, ma inutile auspicarne purezza o distanza dalla realtà: il cinema sulle barricate c’è sempre stato.
L'eccidio di Padre Calleri e dei suoi missionari: storia di un "cold case". Il 1 dicembre 1968 nel cuore dell'Amazzonia venivano ritrovati gli scheletri di 8 religiosi. Il regime brasiliano e gli avventurieri diedero la colpa ai nativi. Dopo decenni, la verità, scrive Edoardo Frittoli il 30 novembre 2018 su "Panorama. Quella del Padre missionario Giovanni Calleri è una storia che avrebbe potuto tranquillamente diventare un film con una trama simile a quella di "Blood Diamond", la pellicola del 2006 con Leonardo Di Caprio. Purtroppo ciò che che successe nel cuore della foresta amazzonica esattamente mezzo secolo fa, fu tragica realtà. Il 1 dicembre 1968 venivano trovati dai parà brasiliani i resti martoriati di Padre Calleri e di otto dei suoi missionari. La notizia, che ebbe vasta eco, aprì un vero e proprio "cold case" risolto soltanto dopo decenni, senza che alcun responsabile venisse tuttavia condannato. Le lunghe ricerche condotte soprattutto da uno dei missionari compagni della vittima, fecero emergere il complotto operato da avventurieri occidentali decisi a tutto pur di arricchirsi con le ingenti risorse minerarie della foresta amazzonica abitate dalle tribù indio. Ripercorriamo gli avvenimenti di quella strage che si consumò nel tardo autunno del 1968.
Aeroporto di Milano Linate, 15 febbraio 1965. Sulla pista di asfalto dell'aeroporto internazionale lombardo cominciava l'avventura missionaria in Amazzonia di Don Giovanni Calleri da Carrù (Cuneo). La scena si svolge ai piedi della scaletta di imbarco tra i singhiozzi coperti dal fischio dei reattori di sua madre Lucia, che non rivedrà più il figlio con il suo viso disegnato da un folto pizzo che ricordava un po' il profilo dei cappellani degli Alpini come Don Gnocchi. Pochi minuti dopo il jet si staccava dalla pista, destinazione Brasile. Don Calleri coronava il sogno della sua vita da religioso: missionario in Amazzonia nella foresta della regione di Manaus, abitata dalle tribù indio.
Chi era Padre Giovanni Calleri. Il percorso di Don Giovanni fino alla vita missionaria non fu lineare, ma travagliato e spesso ostacolato dalla chiusura mentale della Chiesa degli anni '50. Nato a Carrù nel cuore della Langa, Calleri fu allevato dalla madre rimasta vedova prematuramente. Figlio di una famiglia benestante ebbe il suo contatto con gli ambienti del seminario fin dalla quinta elementare, per poi proseguire con gli studi superiori ed essere ordinato sacerdote nel giugno del 1957. Dotato di un carattere irrequieto ed anticonformista, venne diverse volte in contrasto con l'autorità ecclesiastica per le attività all'avanguardia nelle parrocchie prima di Niella Tanaro e quindi a Calizzano in Val Bormida. Animato dal vento riformista del Concilio Vaticano II, Don Giovanni tirò dritto puntando ad ottenere l'accesso alle missioni che rappresentavano l'obiettivo irrinunciabile della sua vocazione. Dopo un primo tentativo presso il PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) fallito a causa di pregiudizi e diffamazioni contro il giovane prete giudicato troppo intraprendente e indisciplinato, Don Giovanni bussava così alla porta delle Missioni Consolata di Torino, città dove viveva anche la sorella monaca di clausura che aveva sempre sostenuto il suo slancio in favore dei poveri del mondo. Finalmente, il 12 gennaio 1965 il prete di Carrù è ammesso alla professione religiosa e missionaria.
Foresta amazzonica della regione di Manaus, Brasile. Febbraio 1965. Padre Calleri, giunto in Brasile alla sede missionaria di Roraima, familiarizzò con il portoghese e con i costumi delle popolazioni native in compagnia di Padre Bindo Meldolesi assieme al quale aveva fondato la missione Catrimani nel cuore della giungla amazzonica, nella zona del rio Alalau. La regione era abitata dalla tribù indio dei Waimiri-Atroarì, un popolo primitivo e ostile nei confronti dei colonizzatori bianchi interessati allo sfruttamento delle immense risorse minerarie della zona. Il metodo di Calleri nell'avvicinare gli indio alla missione evangelica era delicato, mai invasivo. Ben presto il religioso piemontese riuscì a guadagnarsi la fiducia dei nativi sulle sincere intenzioni di pace e carità della missione italiana.
Cantiere della strada BR-174 al km 200, ottobre 1967: il contesto storico prima del massacro. Siamo negli anni della dittatura militare brasiliana, che considera le popolazioni indio un grave ostacolo allo sfruttamento economico delle risorse dell'Amazzonia, tanto da attuare una sistematica azione di violenta deportazione delle popolazioni native. Accanto alla repressione operata dai militari, si erano aggiunti interessi nello sfruttamento minerario di avventurieri Inglesi ed americani (alcuni di loro ritenuti vicini alla CIA), che si erano stabiliti in Guyana per poter mettere in atto i piani di sterminio delle tribù che si opponevano alla colonizzazione bianca. Contemporaneamente, la giunta militare di Brasilia iniziava la costruzione della strada BR-174 tra Manaus e Boa Vista, un'arteria di alto valore strategico per gli interessi del governo, che tagliava in due le zone abitate dalla tribù dei Waimiri-Atroarì, quelli con cui Padre Calleri fraternizzava da circa due anni. In quei giorni i nativi, sentendosi minacciati di violenze e deportazioni, decisero di opporsi con la forza alla costruzione della strada, bloccando il cantiere all'altezza del km.200. A poca distanza da dove si svolsero le proteste, quella di Calleri non era la sola missione evangelica. Con l'obiettivo di "aprire la strada" agli interessi dei connazionali, erano giunti nella zona gli uomini del Pastore americano Robert Hawkins, che aveva rapporti frequenti con un colonnello dell'esercito britannico agli ordini di un misterioso affarista statunitense, chiamato "Mister John". A questi si era unito un altro spregiudicato avventuriero americano che conosceva a fondo le tribù indio dell'Amazzonica, Claude Leawitt. Tutti i componenti del gruppo rispondevano a forti interessi nel campo dello sfruttamento minerario. Per forzare la mano e procedere all'eliminazione definitiva dei Waimiri Atroarì che ostacolavano gli interessi dei "bianchi", nacque il complotto che vide coinvolto Giovanni Calleri assieme ai componenti della sua missione. Nell'ottobre 1967 il prete italiano fu chiamato dal Dipartimento Nazionale delle Strade brasiliano (DNER) in qualità di mediatore con la tribù dei Waimiri al fine di tentare di convincere i membri del popolo nativo a spostarsi di circa 120 chilometri dal sito di costruzione della strada nella giungla. La figura di Calleri calzava a pennello per i piani dei cospiratori: gli indigeni si fidavano di lui ed avrebbero quindi ascoltato le sue richieste. Lo stesso missionario aveva più volte espresso la sua preoccupazione di un massacro imminente degli indio da parte delle forze armate brasiliane, ed accettò così l'incarico con la speranza di poterli salvare e di garantire la pace nella foresta amazzonica. "Mister John" e gli altri avventurieri maturarono così l'intenzione di inscenare una tragedia causata dagli stessi Waimiri per poi procedere alla loro eliminazione in qualità di colpevoli.
Aviosuperficie della missione americana di Kanaxen, Amazzonia. Marzo 1968. Dalla polvere alzata da un elicottero appena atterrato emergono le figure dei cospiratori. Sono arrivati alla missione del pastore Hawkins da dove partiva la nuova pista preparata per iniziare gli scavi minerari nel territorio degli indio ed eliminare una volta per tutte il problema dell'ostilità degli indigeni. Con l'aiuto di uomini della tribù rivale dei Wai-Wai danno fuoco ad un villaggio attribuendo la colpa a Calleri ed ai suoi missionari. Poco dopo l'azione si levano nuovamente in volo per tornare nel territorio della Guyana, al confine con la regione amazzonica di Boa Vista. Nella zona rimane solamente l'avventuriero Claude Leawitt in compagnia di quattro indigeni Wai-Wai.
Territorio della tribù dei Waimiri-Atroarì. Fine ottobre 1968. Pronto all'azione mediatrice, Padre Calleri si spostava con alcuni dei missionari in un "campo di contatto", ossia un accampamento avanzato all'interno dei territori abitati dagli indigeni in lotta contro l'avanzamento della strada BR-174. Al campo base era invece rimasto il missionario brasiliano Alvaro Paulo da Silva, che fu visto incontrarsi con Leawitt e con alcuni uomini armati e vestiti in mimetica e che sarà in seguito sospettato di essere il traditore che facilitò agli gli assassini il compito dello sterminio di Calleri e dei suoi. Era il 31 ottobre del 1968 quando il missionario italiano si venne a trovare a cospetto degli indio che, nonostante le calunnie sulla responsabilità del villaggio incendiato, si rifiutarono di attaccare Padre Giovanni. Fu necessario allora, per i cospiratori, intervenire direttamente: sotto la minaccia delle armi, Leawitt e i suoi costrinsero i Waimiri ad attaccare. Nonostante le intimidazioni dei cospiratori stranieri, ancora gli indio si dimostravano riluttanti. Fu così che uno degli "uomini bianchi" colpì a tradimento Giovanni Calleri che si trovava su un amaca. Colpito all'addome, il missionario cercò di mettersi in salvo ma fu raggiunto pochi secondi dopo da un nugolo di frecce scagliate dagli indigeni passati a Leawitt. Con lui cadevano anche 8 missionari che avevano accompagnato padre Giovanni. Dopo il massacro, i corpi dei religiosi venivano trasportati nel cuore della giungla nel tentativo di non farli mai più ritrovare. Poco dopo la notizia della scomparsa di Giovanni Calleri e dei suoi uomini, i cospiratori passavano alla seconda e più importante fase del piano: il massacro dei Waimiri-Atroarì, iniziato poco dopo l'eccidio di Calleri e dei suoi. Negli anni successivi, la popolazione indio sarà decimata e ridotta a poche centinaia di individui. Il corpo di Calleri sarà recuperato un mese più tardi quando un plotone di parà brasiliani ritrovò i resti dei missionari ridotti pressochè a scheletri spolpati dai predatori. Era il 1 dicembre 1968. Il giorno dopo i giornali e la televisione italiana riempirono le prime pagine ed i tg con la tragica notizia del ritrovamento del missionario piemontese e dei suoi nel cuore della giungla. La costruzione della strada BR-174 riprese speditamente nel 1972, 4 anni dopo i fatti, quando ormai l'ostilità degli indio era stata debellata con lo sterminio. Le autorità del regime brasiliano insabbiarono le responsabilità. Fu l'opera di uno dei compagni di missione di Calleri, Padre Silvano Sabatini, a cercare di fare luce sulle responsabilità giungendo dopo decenni di ricerche ai nomi dei responsabili, che non saranno mai condannati. Attraverso i contatti con i testimoni dell'epoca, il missionario giunse faticosamente alla ricostruzione verosimile della strage ed ai suoi moventi, raccolta nel libro "Massacre" pubblicato in Brasile. Nel 2009 la pronipote di Calleri, Margherita Allena, ha ripercorso la BR-174 sulle tracce della storia del prozio in compagnia della cugina. Incontrando le persone che lo avevano conosciuto mezzo secolo fa, si è potuta rendere conto della stima e dell'affetto indelebile lasciato dal missionario venuto dalla Langa nel cuore dell'Amazzonia ad incontrare il tragico destino. Padre Giovanni Calleri riposa in una chiesa di Boa Vista.
Alla Scala volano le uova. Addio ’68 inizia la rivolta…L’anno della rivolta inizia a Milano, col movimento studentesco che inzacchera le signore in pelliccia e Mario Capanna che arringa i poliziotti: «Siete figli di Avola», scrive Paolo Delgado il 9 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Cinquant’anni fa, nel dicembre 1968, si scoprì che l’anno della rivolta, in Italia, non sarebbe finito. A siglare quella scoperta, destinato a restare poi inciso nella memoria, fu un episodio in realtà minore ma ad altissimo impatto mediatico: la contestazione di fronte alla Scala, in occasione della prima, la sera del 7 dicembre. A Milano e forse in Italia occasione più mondana di quella non ce n’era. Era la serata giusta per tirare fuori gli smoking, i vestiti di lusso fatti fare apposta, per sfoggiare gioielli e acconciature da strillo. Non fu una manifestazione preparata con cura, quasi una decisione estemporanea, presa come reazione agli omicidi di Avola di cinque giorni prima, quando due braccianti erano stati uccisi nel corso di una manifestazione contro una ‘ gabbia salariale’ che divideva in due la provincia. Lo shock era stato immenso. L’uccisione di manifestanti era stata merce comune negli anni di Scelba e per tutti i ‘ 50, ma dopo la strage di Reggio Emilia nel 1960 il clima era cambiato, sembrava si fosse voltata pagina una volta per tutte. A organizzare quasi su due piedi la manifestazione era stato il Movimento studentesco della Statale di Milano, che si andava già delineando come un gruppo a sé all’interno del movimento, con un servizio d’ordine, i "katanga", particolarmente efferato anche, e forse soprattutto, nei confronti delle altre aree di movimento. Nel dicembre ‘68 quella divisione, che avrebbe poi segnato i ‘70 a Milano, non era però ancora evidentissima. Il passaparola non ebbe particolare successo. La sera, di fronte alla Scala, c’erano solo alcune centinaia di studenti. Per un po’ fu solo faccenda di fischi e cartelli, poi una coppia, lui in smoking, lei ingioiellata, ebbe la pessima idea di passare troppo vicino ai manifestanti, tenuti a distanza ma non troppo da una truppa esagerata di celere e carabinieri. Volò un uovo, inzaccherò di brutto lo smoking, schizzò sull’abito della signora. Seguirono parecchi altri lanci, di uova e di cachi. In un altro momento la carica sarebbe stata inevitabile. Dopo Avola, invece, l’ordine era di non intervenire se non strettamente necessario. La polizia lasciò che la pioggia di uova rovinasse i vestiti della festa senza intervenire. Quando la tensione sembrava vicina a esplodere, Mario Capanna, leader del Movimento studentesco ebbe l’idea di improvvisare un comizio rivolgendosi direttamente ai poliziotti. Un pistolotto tipo: «Siete lavoratori, fratelli dei braccianti uccisi ad Avola, venire da famiglie di contadini del sud. Non ce l’abbiamo con voi. Lottiamo tutti insieme». Fu sufficiente a stemperare la tensione, tanto più che l’evento mondano meritava una diretta Rai, così la notizia della contestazione aveva avuto ampia circolazione e i manifestanti si erano moltiplicati. A paragone di quello che era successo nei mesi precedenti e soprattutto di quello che si sarebbe verificato nell’anno successivo la contestazione del 7 dicembre era un fattarello. Ma la Scala è la Scala e la notizia fece il giro del mondo, dimostrando che in Italia il ‘ 68 non era affatto finito. Nel resto del mondo le cose stavano diversamente. In Francia la grande rivolta del maggio era già un ricordo. Il primo ministro del presidente De Gaulle, Georges Pompidou, si era mosso con intelligenza e accortezza. Sconfitta la rivolta con il referendum di giugno, aveva tuttavia varato in tempo record una quantità di riforme che miravano a intervenire sulle ragioni strutturali della protesta. A ogni buon conto, subito dopo l’estate, le strade di Parigi e in particolare del Quartiere Latino erano state cementate per togliere a eventuali ribelli l’arma più usata a maggio, il pavè. In Germania l’ondata di proteste seguite all’attentato contro Rudi Dutschke in aprile si era quietata. Ovunque la parola più adoperata era ‘ riflusso’ e in Italia le cose non sembravano diverse: l’ondata di occupazioni si era esaurita con la primavera. Il movimento, come in tutta Europa, segnava il passo. C’era stato, nei primi mesi dell’autunno, un elemento in controtendenza: la mobilitazione degli studenti medi. Assenti o quasi dalle manifestazioni della primavera, avevano dato vita a una quantità di occupazioni un po’ ovunque, rivendicando il diritto d’assemblea, una richiesta che all’epoca sembrava il colmo della sovversione. A Roma, nel liceo Mamiani, l’unico occupato già in primavera, la reazione era stata durissima: tre studenti erano stati sospesi per un anno dopo una protesta già in ottobre. La misura disciplinare, che in seguito sarebbe stata usata di frequente, non era mai stata adoperata prima. Sembrava, e all’epoca effettivamente era, il massimo del rigore. Le proteste avevano limitato a soli 15 giorni due delle tre sospensioni, ma per uno degli studenti, Stefano Poscia, appena quindicenne, era stata invece confermata la cacciata per l’intero anno e per il movimento era stata una sconfitta sonora. Era inoltre opinione comune che i medi, a differenza dei fratelli maggiori, sarebbero stati costretti a mettere la testa a posto con l’avvicinarsi della fine del qadrimestre. Nulla di troppo preoccupante. A sorpresa, il 3 e il 4 dicembre, due manifestazioni immense erano invece sfilate per le vie di Roma. Era il primo sciopero di tutte gli istituti superiori della capitale e l’adesione era andata oltre ogni aspettativa. Il 5 dicembre era già convocato uno sciopero generale e i fatti di Avola e le manifestazioni di Roma resero quel corteo imponente. Nei giorni successivi ci furono scioperi e occupazioni un po’ ovunque in Italia ma il vero braccio di ferro si ripropose al ‘ Mamiani’ dove dopo un’assemblea non autorizzata furono sospesi 200 studenti. Lo scontro si concluse però in maniera opposta di quello di ottobre. Dopo alcuni giorni di occupazione le sospensioni furono ritirate e il ministro della Pubblica istruzione Fiorentino Sullo, uno dei principali leader della sinistra Dc negli anni ‘ 60, decise di concedere ovunque il diritto di assemblea. Ma quel dicembre non riguardò solo gli studenti. A Torino le manifestazioni per Avola arrivarono alla Fiat e si conclusero con le prime assemblee comuni operai- studenti. A Milano le manifestazioni degli studenti correvano in parallelo con un conflitto operaio particolarmente lungo e teso alla Pirelli. Non era la fine del ‘ 68 ma l’inizio e l’anticipazione del 1969, il vero anno della rivolta in Italia, quello che avrebbe trasformato da noi ‘ l’anno degli studenti’, nel ‘ decennio rosso’. L’assemblea operai- studenti di Torino sarebbe riapparsa, in forme non più episodiche, nel maggio ‘ 69, quando un’improvvisa esplosione di conflittualità operaia alla Fiat sfuggì completamente di mano alla gestione dei sindacati e proseguì per due mesi, ignorando gli accordi firmati dalla confederazioni e facendo appunto dell’assemblea operai- studenti che si riuniva in un bar di fronte Mirafiori il solo vero coordinamento delle lotte. I sindacati colsero il segnale e reagirono con celerità. Al momento del rinnovo dei contratti, dopo l’estate, misero in campo un modello totalmente nuovo, quello dei ‘ consigli di fabbrica’, che assumeva molte delle rivendicazioni e delle istanze operaie di base. Il dicembre ‘ 68 anticipò la lunga fase successiva anche nella tragedia. Il 31 dicembre il gruppo pisano del Potere operaio, il cui leader più noto era Adriano Sofri, organizzò una contestazione chiaramente ispirata a quella della Scala alla Bussola, in Versilia. Gli studenti si erano riforniti di frutta e ortaggi ma stavolta, a differenza che a Milano, la reazione delle forze dell’ordine fu violentissima. I manifestanti alzarono barricate con i pattini presi dalla spiaggia. Partirono colpi di pistola e non è mai stato accertato se a sparare furono i carabinieri o uno degli ospiti della Bussola. Un ragazzo di 16 anni, Soriano Ceccanti, raggiunto da un proiettile rimase paralizzato. Diventerà poi, sulla sedia a rotelle, campione di scherma. Il ‘ 68 era stato anche una grande festa. Gli anni che si preparavano sarebbero stati sempre meno festosi e poco meno di un anno dopo la Bussola la bomba di piazza Fontana avrebbe cambiato tutto. La contestazione alla Scala, peraltro, si è poi ripetuta, e in forme meno delicate di quelle del ‘ 68. Nel 1976 i circoli del proletariato giovanile di Milano decisero di replicare la protesta di otto anni prima. La polizia schierò 5000 carabinieri. Gli scontri durarono ore, al posto delle uova volarono grappoli di bottiglie molotov. Si conclusero con 25 arresti. I tempi erano cambiati. Nel 1984, al tramonto della stagione delle grandi lotte operaie, furono gli ultimi gruppi della sinistra, in particolare Democrazia proletaria, a tornare di fronte alla Scala. Il presidente Pertini e il premier Craxi dovettero entrare alla chetichella, da una porta laterale. Ma erano gli ultimi fuochi e anche i contestatori, quella volta, in fondo lo sapevano.
Cariche, molotov e proiettili. La leggerezza del ’68 finì davanti al portone della Bussola, scrive Paolo Delgado il 30 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". La notte del 31 dicembre il movimento studentesco voleva fare la “festa ai padroni”. Tra i contestatori c’erano D’Alema e i futuri dirigenti di Potere Operaio. L’ immagine felice del ‘ 68, solo in parte abbellita e indorata dal mito e dalla nostalgia, degenerò in tragedia la notte dell’ultimo dell’anno. In quelle stesse ore convulse e tragiche, con le barricate erette sul lungomare esclusivo della Versilia e la polizia che sparava ad altezza d’umo, con i manifestanti che sfuggivano alle cariche sulla spiaggia, e con loro il futuro segretario dei Ds Massimo D’Alema, iniziò a nascere il principale gruppo della sinistra extraparlamentare, Lotta continua, anche se per la gestazione ci sarebbero voluti mesi e a fare da levatrice ci si sarebbe messa l’imprevista rivolta operaia autonoma alla Fiat, nella primavera successiva. Quella notte camminò anche per l’ultima volta Soriano Ceccanti, di appena 16 anni. Una pallottola lo raggiunse alla colonna vertebrale. La paralisi, nei decenni successivi, non gli ha impedito di diventare campione di fioretto e spada, oro mondiale in Olanda nel 1990, medagliere folto di argenti e bronzi in quattro tornate olimpiche. Senza mai dimenticare l’impegno: Ceccanti è stato consigliere comunale eletto con Rifondazione, attivo per decenni nella cooperazione in Africa. Con la ferocia tipica della burocrazia, nel 2013 l’Inps, nel quadro del rigorismo europeo, gli revocò la pensione d’invalidità. Un passo involontariamente ad alto tasso di significato simbolico. La protesta di fronte alla Bussola era stata forse ispirata da quella della Scala del 7 dicembre. L’aveva organizzata “Il Potere Operaio di Pisa”, un gruppetto attivo in Toscana già dal 1965, con un periodico omonimo che nel ‘ 68 aveva visto moltiplicarsi sia le vendita che le adesioni non solo fra gli studenti ma anche di alcuni giovani operai. Il manifesto che convocava la protesta era stato diffuso in tutta la Toscana, preparato da due futuri dirigenti del gruppo che dal “Potere Operaio” sarebbe nato, Lotta Continua. I due, Giorgio Pietrostefani e Paolo Brogi, avevano scelto uno stile truculento: “Il 31 dicembre faremo la festa ai padroni”. Al principale esponente del gruppo, Adriano Sofri, quella frase granguignolesca non era piaciuta affatto: «La trovava una caduta di stile», avrebbe raccontato molti decenni dopo Pietrostefani. Alla Bussola, locale di lusso della Versilia ma certo distante anni luce dall’esclusività della Scala, il veglione di fine anno prevedeva due star in concerto: Fred Bongusto e Shirley Bassey. Gli organizzatori sapevano che non sarebbe stata una protesta pacifica. Prevedevano gli scontri con la polizia, erano preparati e pronti, ma nessuno poteva immaginare una sparatoria ad altezza d’uomo. Anche se meno di un mese prima c’erano state due vittime ad Avola, in Sicilia, le uccisioni durante le manifestazioni sembravano solo un ricordo del passato, dei sanguinosi anni ‘50, e tanto più dato che a protestare erano soprattutto giovani e studenti. All’appello avevano risposto alcune migliaia di persone. Erano fornite di sacchi di vernice rossa e qualcuno anche di da buste piene di escrementi. La polizia intervenne. I ragazzi costruirono barricate. Ma di fronte alla Bussola, quella notte, c’era di tutto. Alcuni gruppetti di fascisti. Qualche cliente dal grilletto facile. Ma sugli spari dalle file della forze dell’ordine le testimonianze furono unanimi. Quando videro le esplosioni, i manifestanti pensarono addirittura che fossero colpi a salve, sparati solo per spaventare. Poi Ceccanti si accasciò sulla barricata. Seguirono le cariche, le fughe sulla spiaggia e a volte anche nelle ville vicine, saltando i muri, i fermi e, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, la latitanza dei leader del gruppo pisano, a partire da Sofri. Tra gli organizzatori della tragica protesta in Versilia figuravano molti dei futuri dirigenti di Lc. «Tutto cominciò lì», ricordava anni fa Pietrostefani e davvero, per alcuni versi, Lc nacque quella notte, di fronte alla Bussola. Sino alla fine dell’estate 1968, quando la protesta dilagò al festival di Venezia e Pasolini si trovò a manifestare con quello stesso movimento che aveva poeticamente disprezzato pochi mesi prima, dopo Valle Giulia, il Movimento studentesco era rimasto unitario, sia pur traversato dalle centomila sfumature ideologiche che da sempre lacerano e affliggono la sinistra, quella rivoluzionaria anche più di quella riformista. In autunno si cominciarono a formare le organizzazioni extraparlamentari, che nel loro lato peggiore sarebbero state spesso caricature di partitini ma in quello migliore andrebbero invece ricordate come “strutture di movimento” che gestirono la fase migliore del decennio, i primi anni ‘70. Il primo gruppo a presentarsi sulla piazza fu l’Unione dei comunisti italiani marxisti- leninisti. Filocinesi, dogmatici e integralisti, “debuttarono” nello sciopero generale del 5 dicembre a Roma, egemonizzando la manifestazione degli studenti con una coreografia ricavata da quella delle guardie rosse cinesi. Due giorni dopo, a Milano, la protesta alla Scala fu organizzata dal Movimento studentesco della Statale, di Mario Capanna: a onta del nome un gruppo a tutti gli effetti, sia pur concentrato a Milano dove però sarebbe rimasto a lungo egemone, anche in virtù dell’abitudine di sedare i dissensi a bastonate. In Toscana era attivo già da un paio d’anni il gruppo che stampava Il potere operaio, da non confondersi con la futura e più nota organizzazione nazionale dal nome quasi identico, quella di Negri, Piperno e Scalzone. L’anima del gruppo era un docente di 26 anni, Adriano Sofri, che nel 1964, aveva affrontato il segretario del Pci Palmiro Togliatti, evento ai tempi quasi inimmaginabile, alla Normale di Pisa, contraddicendolo in pubblico e accusandolo di aver abbandonato l’obiettivo rivoluzionario. Tra gli altri leader del “Potere operaio di Pisa” c’erano Luciano Della Mea, di vent’anni più anziano, fratello del cantautore Ivan e Gian Mario Cazzaniga, coetaneo di Sofri, con alle spalle l’esperienza fondamentale nella cultura della sinistra marxista italiana dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. “Il Potere Operaio” era attivo in moltissime fabbriche della Toscana già dal 1965 e il 15 marzo 1968 aveva partecipato all’occupazione della stazione di Pisa, conclusa con scontri molto violenti tra studenti e polizia. Proprio in seguito a quegli scontri Sofri e Della Mea erano stati per mesi latitanti. Nell’autunno ‘68 i leader del Potere Operaio si ponevano il problema di come dar vita a un’organizzazione capace di dare una prospettiva alle mobilitazioni dell’anno precedente ed emergevano contrasti profondi tra la visione più tradizionale di Cazzaniga e quella più “spontaneista” di Sofri. Era stato, come usava allora, un dibattito serrato e colto, che ruotava intorno all’attualità del leninismo e di quel modello di partito di militanti, al quale Sofri si opponeva. La tragedia della notte di San Silvestro spostò quella discussione dalle pagine delle riviste teoriche alla realtà cruda e sanguinosa. Cazzaniga accusò Sofri di “avventurismo”. Il grosso del gruppo difese la scelta della protesta finita in tragedia. Il Potere Operaio si divise: Della Mea costituì la Lega dei comunisti, Cazzaniga il Centro Karl Marx. Sofri si spostò a Torino, dove dall’esplosione di Mirafiori sarebbero nate sia Lotta Continua che Potere Operaio. I leader pisani furono indagati per il “tentato omicidio” di Soriano Ceccanti e il caso si chiuse solo molti anni più tardi: dopo lo scioglimento di quella Lc di cui Ceccanti era stato militante.
50 anni fa l'assassinio di Robert Kennedy, scrive Edoardo Frittoli il 5 giugno 2018 su "Panorama". Esattamente 50 anni fa veniva assassinato a Los Angeles Robert Kennedy. Ripercorriamo gli ultimi drammatici momenti della vita del Senatore democratico e i fatti che seguirono le indagini dopo la sua morte.
Hotel Ambassador, Los Angeles. Ore 00:10 del 5 giugno 1968. Il Senatore democratico Robert Francis Kennedy (1925-1968) aveva appena vinto le primarie in California, avvicinando decisivamente il fratello di JFK alla corsa alla Casa Bianca. Le ultime settimane erano state particolarmente stressanti dopo la sconfitta in Oregon a vantaggio del rivale Eugene McCarthy, ma i dati provenienti dai sondaggi che il candidato Kennedy aveva ricevuto assieme ai 2.000 presenti all'Ambassador Hotel di Los Angeles facevano sperare per il meglio. Ma il sogno di Bobby di diventare presidente come suo fratello John Fitzgerald si infranse poco dopo la mezzanotte negli angusti corridoi di servizio dell'Ambassador, dove il candidato di passaggio stava salutando il personale di servizio dopo il verdetto favorevole. Atteso in un'altra ala dell'hotel per annunciare alla stampa la vittoria, il Senatore ed ex Ministro della Giustizia percorse gli stretti corridoi adiacenti alle cucine protetto soltanto da due bodyguard privati e dall'agente dell'FBI William Barry. Durante il percorso Bobby Kennedy si fermò più volte a stringere la mano ai dipendenti dell'Ambassador. Poi, d'improvviso, la tragedia. Piombato in mezzo al corridoio da una pila di carrelli di servizio, il cittadino giordano di origini palestinesi Sirhan Sirhan faceva fuoco con la sua calibro 22 a poca distanza dal Senatore. Kennedy è colpito in tre punti: un proiettile attraversa la spalla, uno penetra nel collo e l'altro, che si rivelerà fatale, si conficcava a frammenti nel cervello dopo essere entrato poco sotto l'orecchio destro. Mentre l'attentatore veniva bloccato dalla sicurezza ad un soffio dal linciaggio, i colpi esplosi da Sirhan avevano ferito altre 5 persone che si trovavano a breve distanza dalla vittima. La moglie di Robert, Ethel, in attesa dell'undicesimo figlio, era presente mentre Bobby agonizzava ancora cosciente, sincerandosi delle condizioni degli altri feriti. Kennedy fu trasportato all'ospedale più vicino per essere stabilizzato dopo un massaggio cardiaco e quindi trasferito al Good Samaritan Hospital dove è sottoposto ad un delicato quanto inutile intervento chirurgico. Robert Kennedy non riprenderà mai conoscenza e morirà all'1:44 del 6 giugno 1968.
L'assassino. Sirhan Sirhan era nato nel 1944 nel Mandato Britannico di Palestina da una famiglia di religione cristiana. Emigrò a New York assieme alla sua famiglia nel 1956, per spostarsi in seguito in California, a Pasadena. Figlio di un padre severo e violento il giovane giordano aderì al movimento mistico dell'Ordine dei Rosacroce. Quando maturò l'idea dell'assassinio del Senatore Robert Kennedy il mondo era turbato dal conflitto arabo-israeliano della Guerra dei Sei Giorni dell'anno precedente e gli Stati Uniti dalla morte del reverendo Martin Luther King, con cui Kennedy aveva intrattenuto ottimi rapporti fino all'assassinio di Memphis. Nei mesi precedenti l'omicidio le principali città statunitensi erano state teatro di gravi scontri razziali. Da alcuni appunti dell'assassino ritrovati in seguito al delitto apparve l'ossessione nei confronti del Senatore democratico, accusato di essere un amico dei sionisti e fornitore di armi ad Israele durante la guerra del 1967.
L'autopsia e le ipotesi di un secondo attentatore. Il coroner Thomas Noguchi eseguì l'esame autoptico sul corpo di Robert Kennedy la mattina del 6 giugno 1968. Nel rapporto stilato anche alla presenza di medici legali dell'Esercito emerse che i proiettili sparati da Sirhan verso Kennedy erano stati 4 e non 3. L'ultimo aveva colpito di striscio l'abito del Senatore senza creare danno. Contando che la pistola che sparò aveva 8 colpi e che i feriti erano stati 5 oltre a Kennedy, emerse l'ipotesi che qualcun altro potesse aver sparato quella notte. La perizia balistica inoltre evidenziò come il colpo fatale fosse penetrato sotto l'orecchio destro dopo essere stato esploso da distanza molto ravvicinata (nell'ordine di centimetri) mentre Sirhan aveva evidentemente esploso i suoi colpi frontalmente e alla distanza di oltre 1 metro dalla vittima. Inoltre, alcuni mesi dopo i fatti, il giornale Free Press venne in possesso di alcune fotografie scattate dalla Scientifica che ritraevano altri buchi di proiettili sullo stipite di una porta che si scoprì essere stato rimosso il 28 giugno e in seguito distrutto. Le testimonianze che fecero seguito all'assassinio contribuiranno ad alimentare i sospetti di complotto, con l'apparizione di una misteriosa donna "con l'abito a pois" che sarebbe stata vista in compagnia di Sirhan prima dell'assassinio. Questa sarebbe anche stata vista dalla collaboratrice della campagna di Kennedy Sara Serrano e sentita pronunciare le parole "l'abbiamo ucciso…abbiamo ucciso Kennedy" mentre scendeva le scale verso la hall dell'Ambassador. Anche un agente della Polizia di Los Angeles, il sergente Paul Sharaga, dichiarò inizialmente di aver incrociato la "donna dall'abito a pois" appena fuori dall'Ambassador mentre la sua pattuglia si stava precipitando sul luogo dell'attentato. Tutte le testimonianze saranno con il tempo ritrattate e comunque non considerate come prova dagli inquirenti. Sirhan Sirhan sarà condannato inizialmente alla pena capitale, poi commutata nell'ergastolo che l'assassino di origini palestinesi sta ancora scontando nella prigione di Corcoran, in California.
Colombo: «I suoi 1000 giorni cambiarono l’America». Cento anni fa, il 29 maggio 1917, nasceva JFK, il più giovane e rivoluzionario presidente della storia degli Stati Uniti. Intervista di Giulia Merlo del 29 Maggio 2017 su "Il Dubbio". «Anche in famiglia lo chiamavano Mr President. Fu l’uomo della speranza per una nuova America». Furio Colombo, giornalista e scrittore e a lungo corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa e La Repubblica, ha conosciuto da vicino la famiglia Kennedy e a JFK ha dedicato un libro. Nel centenario della sua nascita, lo ricorda come il presidente che cambiò gli Stati Uniti proiettandoli nel futuro.
Cominciamo dagli ultimi istanti della vita di JFK. Lei ricorda dove si trovava quando seppe della sparatoria di Dallas?
«Tutti ricordano dov’erano il giorno dell’omicidio di Kennedy. Io ero in Park Avenue a New York, davanti all’edificio numero 1, fuori dal mio ufficio. Ricordo che avvenne come in una moviola: tutti si fermarono quasi istantaneamente, nello stesso momento. Allora non esistevano gli smartphone ma tutti avevano le radioline portatili a transistor, che ascoltavano mentre si spostavano da un lato all’altro della città. La notizia si sparse in un attimo, la folla rimase immobile, come in un esperimento cinematografico».
Che traccia ha lasciato il mistero ancora in parte irrisolto che è l’omicidio di Kennedy?
«Con il 22 novembre 1963, abbiamo cominciato a imparare che esistono domande alle quali non ci sono risposte. Di più, dopo Dallas abbiamo cominciato a convivere con l’esistenza politica e pubblica di fatti che non sono logici, non sono spiegabili nè spiegati e così sono destinati a rimanere».
A quale delle tante ricostruzioni dà più credito?
«Io non ho mai avuto fiducia nelle tante e successive inchieste, pubbliche e private. Ho sempre ritenuto più utile attenermi al rapporto Warren. È chiaro che non contenesse la verità, ma rivelava una verità possibile e soprattutto mostrava l’impossibilità non tanto di sapere ma di dire di più, da parte di coloro che in quel momento avevano un certo grado di potere».
Nel suo libro “L’America di Kennedy” lei parla del presidente come di un uomo della speranza.
«Bisogna riportarsi al tempo in cui eravamo, il 1960, e incorniciare l’immagine di Kennedy in un’America governata da Eisenhower e da Nixon. Eisenhower se non altro era il buon ricordo di una guerra vinta contro il fascismo, ma Nixon era l’uomo di una destra misera, persecutrice, incapace di guardare al mondo del dopoguerra e alle enormi possibilità che si aprivano per gli Stati Uniti».
E John Kennedy cosa ha rappresentato per questa America?
«Kennedy è la persona giovane, colta, piena di grazia e di stile che vede, sa, interpreta e soprattutto rappresenta un mondo che pone il futuro dove deve stare: davanti. Come tale, diventa istantaneamente l’immagine della speranza, in accordo con l’istinto umano di pensare che il domani sarà migliore dell’oggi».
Lei l’ha frequentata: che famiglia era quella dei Kennedy?
«Io sono stato molto molto amico, sin dal mio arrivo a New York, di Jean Kennedy Smith, una delle sorelle di John, Bob e Ted. Lei fu l’unica donna della famiglia a fare politica, oltre ad essere stata una protagonista della vita sociale e ambasciatrice a Parigi nominata da Clinton. Tra i fratelli ho avuto rapporto più affettuoso con Ted, insieme al quale ho fatto campagna elettorale quando venne eletto senatore per la prima volta in Massachusetts. Mi chiamò perché era indispensabile avere qualcuno che parlasse italiano, poichè in quello stato c’erano molti italiani e non parlavano volentieri inglese. Successe così che, da allora e ad ogni sua successiva elezione, lui mi chiamava e io mi organizzavo per fare almeno un giorno della sua campagna elettorale nei circoli degli italiani. Poi, nel 1968, feci lo stesso anche con Bob, ogni giorno da quando si candidò fino al giorno del suo omicidio».
I fratelli come parlavano di Jack?
«Ciò che ho notato è che sempre, anche mentre lui era in vita, i fratelli parlando di lui lo chiamavano Mr President. Solo Jackie, la moglie, lo chiamava Jack. L’idea della presidenza era molto forte, molto sentita e molto vissuta nella famiglia Kennedy».
Quei mille giorni di presidenza Kennedy hanno davvero cambiato gli Stati Uniti?
«Assolutamente, in modo profondo e irreversibile. Il suo impatto è rimasto forte persino quando gli Stati Uniti sono stati governati da Reagan, dai due Bush e ora da Donald Trump».
Quale è stato il suo lascito?
«Penso subito al fatto che ora si parla di “resistence” nei confronti di Trump. New York, tutta la costa est e la costa ovest discutono di resistenza e questo deriva dalla consapevolezza dell’importanza dei diritti civili che vengono prima dei diritti privati e della ricchezza. Ecco, proprio questo elemento è stato fondante della presidenza di Kennedy».
In molti hanno parlato di Obama come del suo ideale successore. Quello tra Obama e JKF è un paragone calzante?
«È assolutamente calzante. Obama non sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti se non ci fosse stato Martin Luther King, e Luther King è stato un personaggio di immenso rilievo della politica americana perchè dalla Casa Bianca aveva un interlocutore come Robert Kennedy e un punto di riferimento come John Kennedy. Pensi a Obama in questi giorni a Berlino: sembrava una straordinaria replica di Kennedy quando pronunciò il famoso discorso “Ich bin ein Berliner”».
L’immagine di Kennedy davanti alla porta di Brandeburgo è forse una delle più iconiche. Quanto ha contato la sua capacità di apparire nella sua consacrazione politica?
«Ha contato, ma senza esagerare. Il punto non era la telegenia ma ciò che diceva, che era estremamente nuovo, intelligente. John Fitzgerald Kennedy vedeva un’America del futuro, in cui la potenza non serviva per dominare ma per co-governare il mondo».
Chi ha raccolto questa eredità politica?
«Personaggi molto diversi tra loro. Io penso a Jimmy Carter, che è stato un presidente di pace e l’unico che ha restituito qualcosa di americano al mondo, cioè il Canale di Panama. Poi Clinton e infine naturalmente Obama, che considero il più grande dopo Roosevelt e Kennedy».
Con RFK scomparse anche il ’68. Ma Johnson non era poi così male…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2018 su "Il Dubbio". Il 1968 fu l’anno della rivolta generale. In Occidente e nel mondo comunista. Durò pochissimo questa rivolta, e terminò, nel corso dell’estate, con la caduta dei due personaggi dell’establishment che avevano tentato di raccoglierne la spinta e di trovare una mediazione tra vecchio potere e rivoluzione. All’est il personaggio che interpretò questo ruolo fu Alexander Dubcek. In Occidente fu Bob Kennedy. L’uccisione di Bob Kennedy segnò la fine del ‘ 68 nel mondo capitalistico. Anche se quella rivolta era stata così potente, e fino a tal punto aveva coinvolto la parte più lucida della generazione del baby boom, che le conseguenze durarono ancora anni e anni. In parte sono ancora vive. Una settantina di giorni più tardi, il 20 agosto, i carrarmati sovietici entrarono a Praga e schiacciarono al suolo la rivoluzione dolce di Dubcek, la splendida primavera di Praga. I vecchi poteri tornarono più saldi di prima. Di qua e di là dalla cortina di ferro. Fu ristabilita la pace, la pace come la intendeva Tacito…L’uccisione di Bob Kennedy avviene esattamente una settimana dopo la fine del ‘ 68 francese. Il 30 maggio Charles de Gaulle aveva parlato alla radio e aveva chiamato i suoi a scendere in piazza e a dimostrare che esisteva una Francia forte e silenziosa in grado di opporsi ai ragazzi del maggio di Daniel Cohn Bendit e dei sindacati. Si radunarono quasi un milione di persone ai Champs Elysee a sostenere i conservatori. E 20 giorno dopo, alle elezioni legislative anticipate, convocate con mossa azzardatissima ma vincente da De Gaulle, i gollisti e i conservatori trionfarono e le sinistre furono rase al suolo (ci misero 12 anni per riprendersi). Così il ‘ 68 – dopo che anche in Germania era stato fermato a revolverate, in aprile, con il ferimento del leader più importante, il giovane Rudy Dutschke – restava vivo solo negli Stati Uniti, sostenuto dalla ribellione dei neri, soprattutto dopo l’uccisione di Martin Luther King (anche quella in aprile) e dall’opposizione di tutti i giovani alla guerra del Vietnam. E Bob Kennedy, figlio del più elitario establishment democratico, aveva trovato un ruolo decisivo di cerniera, per se. Si era proposto come uomo della mediazione. E cioè come leader in grado di portare l’establishment al tavolo dei negoziati con la rivolta e di portare la rivolta dentro l’establishment. La sua era una ipotesi politica ambiziosissima, di rivoluzione vera e propria, non contro la borghesia ma dentro la borghesia. Bob, in marzo, dopo la rinuncia del presidente uscente Lyndon Johnson (un texano che Bob odiava) aveva deciso di correre alle primarie democratiche. E di provare a succedere al fratello. Quelle del 1968 furono le primarie più importanti della storia degli Stati Uniti. Nel campo repubblicano non ci fu grande battaglia. Fu una corsa a tre ma con un vincitore designato. Il vincitore designato era Richard Nixon, ex vicepresidente di Eisenhower, ex sfidante sconfitto – di John Kennedy nel 1960. Il suoi antagonisti erano il miliardario Nelson Rockefeller, un liberal contrario alla guerra del Vietnam, e il governatore della California Ronald Reagan, leader dell’ala più di destra del partito. Nel campo democratico fu una bolgia. All’inizio era scontato che la nomination sarebbe toccata a Johnson. Ma alle primarie del New Hampshire (cioè le prime, che si tenevano in febbraio) Johnson vinse ma non di molto. Aveva un solo avversario, ed era il senatore Eugene McCarthy, un democratico di sinistra quasi socialista. McCarthy raccolse la protesta dei giovani e ottenne moltissimi voti. Johnson capì che le cose si mettevano male e annunciò il suo ritiro. A questo punto la corsa alla nomination si accese. Scese in campo Hubert Humphrey, che era il vice presidente in carica, poi scese in campo un reazionario razzista del sud, George Wallace, e infine Bob Kennedy, che decise di contendere a Mc Carthy la guida della corrente di sinistra. La differenza tra Kennedy e McCarthy era semplice: McCarthy voleva solo dare voce alla protesta, fare da punto di riferimento per il movimento. Kennedy aveva un progetto molto più grande, politico. Voleva usare il sessantotto come leva per modificare il volto dell’America e per cambiarne la politica e il “sogno”. Finì tutto in quella notte del 6 giugno, quando Kennedy vinse in California e si avvicinò moltissimo alla nomination. E poi fu messo fuori gioco da otto colpi di rivoltella nella cucina di un hotel di Los Angeles. Dal giorno della sua morte, in America il clima cambiò radicalmente. Le primarie le vinse Humphrey, e si svolsero a Chicago in un clima infernale. Migliaia di giovani, guidati da Abbie Hoffman, il capo degli hippy, e da Bobby Seale, il capo dei neri, misero a ferro e fuoco la città. Scontri, feriti, arresti. I sette capi della rivolta, celebrati in molti film e pezzi musicali, furono arrestati, processati e condannati a molti anni di galera. E fui così che il placido e onesto Hubert Humphrey andò al macello nello scontro con Nixon, a novembre. Sconfitto nettamente. In realtà nel voto popolare fu quasi un pareggio (appena mezzo milione di voti a favore del repubblicano) ma il meccanismo dei grandi elettori stritolò Humphrey. C’è una cosa curiosa in tutta questa vicenda. Humphrey e Johnson passarono alla storia come dei boia reazionari. Non era così. Humphrey era un esponente della sinistra democratica. Johnson, no, ma la sua politica sociale fu avanzatissima. Si impegnò fino allo stremo delle sue forze per battere il razzismo, e ottenne molti buoni risultati. E fece compiere un salto al welfare. Pensate che poco prima che la guerra del Vietnam lo travolgesse, Johnson aveva preparato un piano per battere la povertà, che si fondava – proprio così – sul reddito di cittadinanza. Eravamo nel 1964. Grillo andava al ginnasio e Di Maio sarebbe nato circa 30 anni più tardi…
Chicago 1968, la rivolta degli hippies che aprì le porte a Nixon. Nella città si svolgeva la convention democratica, sbarcarono i movimenti e fu guerriglia, scrive Paolo Delgado il 5 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Cinquanta anni fa il Movimento di protesta negli Usa si preparava a quello che avrebbe dovuto essere il principale appuntamento dell’intero anno: le manifestazioni organizzate a Chicago contemporaneamente alla Convention democratica. L’idea era quella di una specie di festival con musica, cortei e assemblee pubbliche in tutta la città per tutta la durata della Convention. Finì in un’orgia di violenza poliziesca che turbò l’animo degli americani liberal ma spinse la maggioranza silenziosa verso Nixon. Negli States è ancora oggi un luogo comune diffuso quello secondo cui l’America scelse Nixon come presidente la notte del 28 agosto, la notte dei pestaggi indiscriminati, dei passanti bastonati di brutta a casaccio, delle strade e delle stesse sale dell’Hotel Hilton, dove si svolgeva la convention invase dai gas. A Chicago nel 1968 successe quello che si sarebbe ripetuto oltre trent’anni dopo in Italia, a Genova.
A lanciare l’appello per le giornate di Chicago erano stati gli hippies, definizione derivata dal nome del “partito” che avevano fondato, lo Youth Internationl Party, ma che in realtà rappresentava un gioco di parole: gli hippies erano e si presentavano come particolarmente politicizzati, militanti e rivoluzionari. I leader, Jerry Rubin e Abbie Hoffman, erano già famosi, star del movimento che era cresciuto soprattutto nel 1967, l’anno degli hippies e della Summer of Love. Aderì subito il Mobe, un cartello che riuniva circa cinquecento gruppi attivi contro la guerra in Vietnam. Si aggiunse l’SDS, Students for a Democratic Society, nei campus. Gli hippies iniziarono a preparare l’appuntamento mesi prima con due manifestazioni- happening alla Grand Central Station di New York e a Central Park e puntando soprattutto sul teatro di strada. Rubin e Hoffman decisero di amplificare l’evento minacciando sfracelli: dalla promessa di forzare i posti di blocco a quella di inondare di Lsd le condutture d’acqua. Più tradizionalista, il Mobe organizzò raduni e workshop in una decina di parchi concentrando le iniziative soprattutto intorno ai ghetti di Chicago, nei quali a rivolta dell’aprile 1968, dopo l’uccisione di Martin Luther King, era stata violentissima. Il sindaco democratico Richard J. Daley scelse la linea dura. Negò il permesso per raduni e manifestazioni, impose il coprifuoco intorno ai parchi dove erano accampati i dimostranti a partire dalle 11 della sera, prolungò i turni della polizia, schierò 23mila tra poliziotti per fronteggiare i circa 10mila manifestanti. L’affluenza fu in realtà inferiore alle attese. Sin dalla vigilia era evidente che sarebbe finita male. Tra le band che avrebbero dovuto suonare nel festival se ne presentò una sola, la più militante di tutta l’America, gli MC5 di Detroit. In realtà comincio malissimo: il 22 agosto all’alba un ragazzino di 17 anni, Dean Johnson, fu fermato con l’accusa di aver violato il coprifuoco. Tirò fuori una pistola, atndo alla versione della polizia, e finì ammazzato. Il giorno dopo gli hippies presentarono alla stampa il loro candidato alla presidenza, il maiale Pigasus. Rubin e il cantante folk Phil Ochs furono arrestati mentre illustravano le doti del grugnente candidato, che diventò di conseguenza subito famoso in tutta la nazione. Il 24 agosto i manifestanti forzarono per la prima volta il blocco intorno ai parchi, con un corteo guidato dal poeta Allen Ginsberg che uscì dal Lincoln park esattamente alle 23, l’ora in cui entrava in vigore il coprifuoco. Gli scontri però furono ancora contenuti. Andò peggio domenica 25, quando la polizia ammutolì gli altoparlanti durante il concerto degli MC5 al Lincoln. Tensione e scaramucce durarono tutto il pomeriggio, finché la polizia non decise di sgombrare il parco poco prima della mezzanotte. Gli scontri dilagarono così nelle strade e proseguirono tutta la notte e nei due giorni successivi. Gli episodi più gravi si verificarono mercoledì 28 agosto. Nel corso di una raduno a Grant Park un giovane ammainò la bandiera americana, provocando l’immediato e durissimo intervento della polizia. Il leader dell’SDS Tom Hayden guidò un corteo fuori dal parco, in modo che i gas si diffondessero ovunque. La manifestazione fu fermata di fronte all’Hilton, dove soggiornavano i candidati. La “battaglia di Michigan Avenue”, proseguita per ore, si svolse così in diretta tv. Con i gas che invadevano le sale dell’albergo, giornalisti famosissimi come Dan Rather maltrattati e o picchiati di fronte alle telecamere, medici fermati e bastonati, decine di feriti e di arresti. Quel giorno a Chicago la polizia perse completamente il controllo. Politici democratici e giornalisti denunciarono la violenza cieca, un delegato accusò di usare metodi da Gestapo il sindaco, che rispose a muso duro, inquadrato dalle telecamere: «Vaffanculo figlio di puttana ebreo». L’agosto di Chicago radicalizzò l’intera situazione, rese dilagante il movimento contro la guerra nel Vietnam, ma spinse anche a destra gli americani spaventati dal disordine.
Non finì lì. L’anno seguente sette degli organizzatori delle manifestazioni, tra cui Rubin Hoffman e Hayden, più il numero due del Black Panther Party Bobby Seale furono processati con le accuse di cospirazione e di aver traversato il confine dello Stato con l’intento di provocare disordini, crimine federale dal 1968. Seale di rinviare l’udienza per dare tempo al suo difensore di riprendersi dai postumi di un’operazione. Il giudice, che si chiamava anche lui Hoffman rifiutò. Specificò anche di non essere parente dell’imputato Abbie che reagì urlando «Daddy, dady, ma come non mi riconosci più?». Il siparietto comico durò poco. Seale chiese di potersi difendere da solo, rivendicando i propri diritti costituzionali. Il giudice rifiutò e dopo le rumorose proteste della Pantera ordinò che per giorni fosse portato in aula legato a una sedia, incatenato e imbavagliato. Quindi lo condannò a una pena esorbitante, quattro anni di carcere, per oltraggio alla corte. Ma tutte le accuse contro Seale caddero in seguito alle decisioni anticostituzionali del giudice. Il processo proseguì contro gli altri imputati, i “Chicago Seven”. Furono tutti assolti dall’accusa di cospirazione ma cinque di loro, tra cui i tre principali, furono condannati a cinque anni per l’accusa di essere entrati nello Stato per creare disordini. In appello, nel 1972, molte delle accuse caddero di nuovo in seguito al comportamento scorretto del giudice Hoffman ma anche per le accuse di cui gli imputati furono riconosciuti colpevoli il nuovo giudice decise di evitare il carcere. Una rockstar inglese trasferitasi negli states, Graham Nash, dedicò a quei fatti, gli scontri e il processo una canzone che fece epoca: Chicago. La memoria di quella settimana è sopravvissuta alla fine del Movimento negli Usa, alla morte della controcultura, alla scoperta delle meraviglie del reaganismo da parte dei leader hippies Rubin e Hoffman, e alla loro scomparsa in tempi più recenti. Due anni fa, il Washington Post ne parlava così: «La convenzione democratica del 1968 a Chicago fu un disastro ignobile, violento e senza precedenti». Proseguiva citando Haynes Johnson, uno dei grandi reporter americani che era a Chicago in quei giorni: «Per l’impatto psicologico e le conseguenze politiche di lunga durata eclissò ogni altra occasione simile nella storia americana, distruggendo la fiducia nei politici, nel sistema politico, nel Paese e nelle sue istituzioni. Nessuno di quelli che erano lì o che seguirono gli eventi in tv può dimenticare ciò che successe di fronte ai loro occhi».
Cronaca del 1968 mese dopo mese. Resoconto di Edoardo Frittoli su "Panorama".
Gennaio 1968
5-6 gennaio. Il 27 novembre 1967 Palazzo Campana, sede dell'Università degli Studi di Torino, era stato occupato da un gruppo di studenti in segno di "protesta contro l'autoritarismo accademico", come fu scritto nei comunicati del comitato di agitazione. Esattamente un mese dopo, il 27 dicembre, il Rettore Prof. Mario Allara fa sgomberare gli studenti ribelli per mano della Pubblica Sicurezza. Due giorni dopo un nucleo di studenti forza la porta di un ingresso secondario su Via Principe Amedeo e dichiara nuovamente lo stato di occupazione. Le denunce alla Procura sono 64 più 15 dirette a studenti del Politecnico venuti in aiuto ai compagni di Palazzo Campana. Nel comunicato diffuso all'inizio di gennaio del 1968 dagli studenti in lotta si denuncia l'autoritarismo dell'istituzione universitaria in quanto colpevole di "sfornare lavoratori succubi, impreparati e qualunquisti". L'ultima parte del testo preannuncia una lotta che durerà nel tempo, nonostante le denunce del Rettore: si annuncia il "rilancio dell'agitazione cercando collegamenti per estenderla a tutti gli studenti di Torino ed alle altre Università". Gli studenti definiscono lo strumento dell'occupazione "pieno diritto degli studenti ed individua nella disobbedienza civile, nel rifiuto di sottoporsi al controllo dell'autorità accademica, nell' approfondimento del dibattito gli strumenti ore consentire la formazione politica, il rafforzamento e la crescita del movimento studentesco". Tra i leader dell'occupazione dell'Università di Torino ci sono l'economista Guido Viale, Luigi Bobbio (figlio di Norberto) e Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto Revelli. Le cronache dei quotidiani sono occupate dall'omicidio del conte Cesare d'Acquarone (42enne proprietario della società di trasporti aerei "Aeralpi", dedicata ai voli su Cortina per il jet set). Il figlio dell'ex Ministro della Real Casa è stato ucciso dalla suocera Sofia Bassi Celorio nella loro lussuosa residenza di Acapulco con cinque colpi di pistola calibro 32. A Praga viene eletto Alexander Dubçek. Succede al leader stalinista Antonin Novotny. La sua visione riformista si traduce nei primi mesi di governo in una serie di provvedimenti di rottura con il regime allineato a Mosca: libertà di stampa, amnistia per i prigionieri politici. Era cominciata la "primavera di Praga", l'effimera stagione di libertà celebrata in tutto il paese sino alla repressione sovietica dell'agosto successivo.
9 gennaio. Non si placa la tensione nel conflitto arabo-israeliano a pochi mesi dalla guerra dei Sei Giorni. L'artiglieria giordana colpisce alcuni territori della valle di Beit'Shean occupate dai coloni israeliani. Tel Aviv risponde impegnando l'aviazione.
10 gennaio. Una forte perturbazione porta la neve in tutta la penisola. Nevica anche a Roma. Il mondo riceve un'anticipazione di quanto vivrà nell'estate dell'anno seguente. La sonda americana Surveyor 7 tocca la superficie della Luna ed inizia ad inviare, appena 42 minuti dopo aver toccato il suolo, le prime immagini della superficie pietrosa del satellite. La sonda ha impiegato 65 ore per coprire la distanza dalla Terra alla Luna. In Parlamento si discute di riforma dell'Università. La commissione composta dai partiti di maggioranza mette all'ordine del giorno l'incompatibilità tra insegnamento e cariche parlamentari di fronte al Ministro dell'Istruzione, il democristiano Luigi Gui.
12 gennaio. Palazzo Campana, Università di Torino. Il rettore Mario Allata reagisce categoricamente alla nuova occupazione iniziata tre giorni prima, dichiarando agli organi di informazione che "tutti i disordini verranno denunciati alla Magistratura". Il Rettore preannuncia anche una denuncia per "vilipendio alla Religione" poiché nei cassonetti dei rifiuti sono stati trovati alcuni crocifissi rimossi dalle pareti delle aule universitarie. Durante la conferenza scoppiano disordini tra i rappresentanti del movimento e la Polizia.
15 gennaio. Un terrificante sisma di magnitudo 6,4 colpisce nella notte la Sicilia occidentale. Molti comuni della zona del Belice subiscono danni gravissimi. Gli abitati di Gibellina, Poggioreale e Montevago sono completamente rasi al suolo. I soccorsi saranno lenti e difficoltosi, le vittime circa 400, 10.000 i feriti e 90.000 gli sfollati.
18 gennaio. La cronaca rosa riempie le pagine con la prima udienza per una separazione eccellente: quella tra il torero Luis Miguel Dominguìne l'attrice italiana Lucia Bosè.
23 gennaio. All'Università di Torino sede delle occupazioni iniziate nel novembre dell'anno precedente il Rettore Allara incontra una delegazione di studenti che minacciano una nuova occupazione. Il giorno stesso anche l'Università di Pisa entra in stato di agitazione. Il Senato Accademico di Torino respinge le richieste del movimento, pur annunciando la sospensione dei provvedimenti disciplinari per i fatti dei giorni precedenti. Alle 21 un gruppo di studenti occupa nuovamente Palazzo Campana, che sarà sgomberato alle 23,30 dall'irruzione della Questura di Torino. E' la quarta occupazione in due mesi.
24 gennaio. Il giovane drammaturgo cecoslovacco Vaclav Havel visita l'Italia appena dopo l'elezione di Dubcek. Presenta agli intellettuali italiani un "memorandum" satirico sugli anni dello stalinismo nel suo paese, diffondendo le idee della "primavera di Praga".
27 gennaio. Nel Belice una nuova violenta scossa di terremoto provoca nuovi crolli, che causano la morte di 4 soccorritori. Gibellina, Montevago e Salaparuta sono dichiarate "zone proibite". Saranno ricostruite in luoghi diversi dai siti originari. Viene scarcerato ad Atene l'intellettuale e musicista Mikis Teodorakis. Era stato arrestato nell'agosto del 1967, quattro mesi dopo il golpe dei Colonnelli. Diventerà uno dei leader dell'opposizione al regime militare greco. Nel cantone svizzero dei Grigioni le abbondantissime precipitazioni nevose dei giorni precedenti causano il distacco di enormi valanghe che causano oltre 10 vittime.
29-31 gennaio. Guerra del Vietnam. Inizia la grande offensiva dei Vietcong e dell'esercito di Hanoi contro la capitale del Sud, Saigon. Il 31 gennaio 70.000 soldati nordvietnamiti guidati dal generale Giap lanciano l'offensiva del Tet (dal nome vietnamita del nuovo anno lunare) che interessa oltre 100 città e paesi del Vietnam del Sud. Presi di sorpresa, gli Americani e l'esercito sudvietnamita riusciranno a respingere le forze comuniste del Nord che tennero le posizioni per due giorni solamente, ma l'opinione pubblica americana e mondiale si rese conto della difficilissima situazione della guerra. La richiesta di Westmoreland di ulteriori 200.000 uomini fece crollare la fiducia degli americani nella vittoria imminente e il consenso al presidente Johnson, che ordinerà nei giorni successivi la sospensione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord. Il 30 gennaio a Firenze 3.000 studenti sfilano in corteo contro la Polizia e i Carabinieri che erano intervenuti per lo sgombero dell'Ateneo nel quale si era svolta un'assemblea che avrebbe dovuto decidere l'occupazione. Alle 12,30 in piazza San Marco scoppiano tafferugli e il Reparto Celere interviene lanciando le camionette in caroselli. Uno studente viene investito e ferito in modo non grave, diversi agenti rimangono contusi.
Febbraio 1968
1 febbraio. È la serata inaugurale della 18ma edizione del Festival di Sanremo, che si svolge ancora al Casinò della cittadina del Ponente ligure. Gli ospiti stranieri più attesi sono gli americani Louis Armstrong ed Eartha Kitt. Tra gli esordienti italiani due futuri big: Albano Carrisi e Riccardo Fogli. Conduce il festival Pippo Baudo, anche lui sul palco per la prima volta affiancato da Luisa Rivelli, attrice e poi conduttrice e giornalista fino agli anni '90. Tre giorni dopo la vittoria andrà alla coppia Sergio Endrigo-Roberto Carlos con "Canzone per Te". E' passato un anno dalla tragica morte di Luigi Tenco. Anche per questo motivo la giuria, della quale fa parte anche Renzo Arbore, aveva scartato il brano del "big" Domenico Modugno per il tema del suicidio contenuto nei suoi versi. I cantautore parteciperà alla gara in coppia con Tony Renis con una canzone scritta da quest'ultimo. Il rettore dell'Università di Firenze, il glottologo Giacomo Devoto presenta le proprie dimissioni in quanto il Prefetto Manfredi de Bernart avrebbe rifiutato su sua proposta l'incontro con una rappresentanza degli studenti. La voce del Rettore sarà l'unica fuori dal coro, in quanto dichiarerà alla stampa che in occasione degli scontri di piazza dei giorni precedenti "La Polizia ha ecceduto in piazza Lamarmora. La repressione è stata ingiustificata, anche se le autorità possono invocare l'attenuante del blocco del traffico"(…) Le dimissioni verranno respinte nei giorni seguenti dal Ministro dell'Istruzione Luigi Gui.
7 febbraio. Iniziano le Olimpiadi invernali di Grenoble, inaugurati da Charles De Gaulle. Ricordate come i giochi di Jean Claude Killy, vedranno l'Italia protagonista nel bob con il "rosso volante" Eugenio Monti (due ori) e nel fondo con Franco Nones (oro nella 30 km).
In Spagna negli ambienti monarchici e conservatori si comincia a considerare concreta l'ipotesi di una restaurazione monarchica a favore di Juan Carlos, delfino di Francisco Franco.
13 febbraio. Il processo ai responsabili della strage di Baveno si trasferisce dalla Germania al Tribunale di Milano, riportando alla memoria degli italiani una delle più efferate stragi naziste. La strage fu compiuta all'indomani dell'8 settembre 1943 dalle SS della divisione "Adolf Hitler" ed ebbe come vittime 57 cittadini ebrei che si erano rifugiati sul Lago Maggiore in fuga da Milano a causa dei bombardamenti alleati. Le rogatorie di oltre 180 testimoni dell'eccidio porteranno a luglio alla condanna all'ergastolo di 5 ufficiali delle SS. Tuttavia la corte di Berlino, accolto il ricorso, dichiarerà la prescrizione nel 1970.
14 febbraio. A Roma vengono occupate ben 6 Facoltà: Lettere, Architettura, Fisica, Magistero, Statistica, Economia e Commercio. Il Rettore, il giurista Pietro Agostino D'Avack (1905-1982) minaccia l'intervento della forza pubblica. A Pisa le lezioni sono sospese per ordine del Preside dopo una colluttazione tra uno studente ed un docente durante le agitazioni dei giorni precedenti. Mentre gli studenti occupano i principali atenei d'Italia, la riforma universitaria si arena in Parlamento per il muro a muro tra la maggioranza del Governo di centro-sinistra guidata da Aldo Moro e l'opposizione di PCI e MSI agli estremi opposti. La mancata discussione della riforma è alla base dello sciopero di metà febbraio degli assistenti universitari. Gli effetti dell'offensiva nordvietnamita del Tet portano ad un'ulteriore "escalation" della presenza militare americana in Vietnam. Sono pronti a partire immediatamente altri 10.500 uomini. Ma Johnson dichiara davanti ad un gruppo di studenti di avere ferma intenzione di aprire negoziati ufficiali con Hanoi.
15 febbraio. Torino, Palazzo Campana. Durante la ripresa delle sessioni dopo il periodo di occupazione esplode una bomba carta in un'aula. Fortunatamente non vi sono vittime. All'Università La Sapienza di Roma, occupata dagli studenti dal 2 febbraio, il clima anticipa quello dei futuri scontri del marzo successivo: all'esterno degli edifici si sono radunati gruppi di studenti di destra armati di casse di mele marce, che vengono scagliate contro le finestre delle aule dove si tengono le assemblee. Il giornalista Alberto Ronchey è uno dei primi ad avere l'opportunità di incontrare gli occupanti, nonostante la diffidenza dei gruppi nei confronti della stampa e della televisione. Emerge un quadro sostanzialmente spontaneista, diviso in gruppi e gruppuscoli che tentano di darsi un'organizzazione più solida. I miti alle pareti sono Che Guevara, Ho Chi Minh, ma anche Don Lorenzo Milani. Sono esclusi i rimandi alla politica nazionale ed alle figure storiche del Partito Comunista Italiano, che proprio in quei giorni di agitazione è impegnato a formalizzare molte espulsioni dalle sezioni giovanili proprio per la tendenza indipendente e spontanea del nascente Movimento Studentesco. A Berlino Ovest viene fermato Peter Brandt, figlio del Cancelliere della Germania Federale Willi Brandt. Stava distribuendo volantini per l'adesione ad una manifestazione contro la guerra in Vietnam.
19 febbraio. A più di un mese dal sisma del Belice, tra le rovine di Gibellina vengono estratte altre 25 salme. Molti sono ancora i sinistrati che sono costretti a vivere in vagoni ferroviari. Anche in Grecia un violento terremoto si abbatte sulle isole dell'Egeo radendo al suolo l'intero abitato di Agiostrati.
22 febbraio. A La Sapienza di Roma gli studenti sfondano il portone servendosi di un tavolo come ariete. Vengono travolti i commessi e nove di loro rimangono contusi. Il Rettore D'Avack chiede l'intervento della Polizia che si presenta in forze (150 agenti) procedendo all'arresto di 79 occupanti. A Milano viene occupato l'Istituto di Anatomia della facoltà di Medicina, per protesta contro le eccessive bocciature agli ultimi appelli. Gli studenti milanesi accusavano la presunta illegalità degli esami svolti di fronte ad un solo docente, senza la necessaria presenza di un secondo testimone (docente o assistente). L'assemblea accusa i professori di voler sfoltire il sovraffollamento della Facoltà con bocciature indiscriminate. A Belluno dove sui svolge il processo per la catastrofe del Vajont vengono rinviati a giudizio per disastro colposo e omicidi colposi plurimi i due ingegneri della SADE Alberico Biadene e Dino Tonini, irreperibili il giorno della sentenza istruttoria. Fu proprio Biadene a richiedere il rialzo dell'invaso della diga. Nel 1971 la sentenza di Cassazione condannerà l'ingegnere ad una pena leggera: 5 anni di cui 3 condonati. Sarà rilasciato prima dei termini per buona condotta. Ospite della trasmissione televisiva "Su e Giù" condotta in prima serata da Corrado, Sandie Shaw (nota come la "cantante scalza") sfida la censura televisiva sfoggiando una minigonna cortissima durante la sua esibizione.
25 febbraio. La piemontese Sonia Maino sposa a New Delhi Rajiv Gandhi, figlio di Indira. Le nozze saranno celebrate con rito civile, data la differenza di culto tra gli sposi. 3000 invitati prendono parte al ricevimento presso il Ministero degli Esteri. In Parlamento emergono alcuni malumori tra i deputati più tradizionalisti. La protesta degli studenti universitari dilaga in tutti i principali atenei del Paese: A Roma vengono occupati gli istituti di Genetica e Matematica. Contemporaneamente gli studenti di estrema destra dell'organizzazione "La Caravella", l'organo del Fuan romano, organizzano per il giorno successivo una manifestazione contro gli occupanti. La tensione, alla vigilia dei fatti di Valle Giulia, cresce rapidamente. Anche la Facoltà di Lettere di Trieste è occupata da circa 200 studenti, mentre a Pisa la protesta si estende alla Facoltà di Lettere e Filosofia. A Torino nella notte esplode un'altra bomba carta nei pressi dell'abitazione del Rettore Allara.
28 febbraio. A Roma si dimette il Preside della Facoltà di Lettere Alberto Ghisalberti in polemica con il Rettore D'Avack per la chiusura totale di quest'ultimo nei confronti delle richieste degli studenti e delle possibili soluzioni proposte a livello di Facoltà. La manifestazione del Fuan non raggiungerà La Sapienza, ma si fermerà a Palazzo Chigi e sotto le finestre della casa del Rettore in Piazza di Spagna. Interviene la Polizia, 5 fermati.
29 febbraio. Il Ministro degli Esteri Amintore Fanfani in un discorso alla Camera insiste sull'urgenza di negoziati sulla risoluzione del conflitto in Vietnam. Lo stesso Ministro aveva incontrato i rappresentanti nordvietnamiti alla Farnesina nei giorni precedenti, indicando la propria soddisfazione per l'impegno italiano nella difficile mediazione. Il comunista Ingrao spinge sull'acceleratore, invitando Fanfani ad allinearsi ai Paesi scandinavi nella condanna incondizionata dell'azione di bombardamento americana sul Vietnam del Nord. Ancora scontri a Roma tra gli occupanti e gli studenti di estrema destra, che riescono ad entrare nelle aule occupate gettando dalla finestra i volantini e i materassi degli studenti barricati all'interno. Nascono tafferugli con feriti. Intervengono anche i docenti per cercare di calmare gli animi, ma la Facoltà di Giurisprudenza e quella di Scienze Politiche vengono rioccupate la sera stessa. All' Università Statale di Milano un'assemblea decide l'occupazione delle Facoltà di Lettere e Filosofia durante un'assemblea nell'Aula Magna concessa agli studenti dal rettore, il fisico Giovanni Polvani (ex Direttore del CNR classe 1892). Due giorni dopo il matrimonio, Sonia Gandhi tiene gli italiani con il fiato sospeso dopo il ricovero d'urgenza in ospedale. Si tratterà di un attacco di appendicite.
Marzo 1968
1 marzo. Roma: Battaglia di Valle Giulia. Una parte dei 3.000 studenti di un corteo proveniente da Piazza di Spagna si scontra con la Polizia a protezione della Facoltà di Architettura a Valle Giulia. Seguono due ore di battaglia, con bilancio finale di 197 feriti, di cui 150 membri delle Forze dell'Ordine. Accanto agli studenti di sinistra partecipano agli scontri i giovani di estrema destra di Avanguardia Nazionale e La Caravella.
2 marzo. Al Consolato degli Stati Uniti di Torino esplode un ordigno che fortunatamente non fa vittime. Torna uno stato di relativa calma negli atenei dopo gli scontri di Roma.
4 marzo. Al Madison Square Garden di New York il pugile italiano Nino Benvenuti batte alla terza sfida lo sfidante Emile Griffith, facendo suo il titolo mondiale dei pesi medi. A Milano viene nuovamente occupata l'Università Statale, questa volta senza incidenti.
6 marzo. Finisce ufficialmente la legislatura. Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inizia le consultazioni in vista dello scioglimento delle Camere. Rimangono da discutere due riforme-chiave: quella dell'Università e quella delle pensioni.
7 marzo. A Milano la protesta studentesca si estende alle scuole superiori. Sono occupati i licei classici Berchet e Parini. In quest'ultimo, dove due anni prima era stato fondato il periodico "La Zanzara" il preside Davide Mattalia solidarizza con gli studenti e viene sospeso dal Provveditore. Il consiglio dei docenti punta il dito contro la Professoressa di italiano Maria Teresa Torre Rossi, che a detta dei colleghi avrebbe "sobillato" gli studenti parlando della Cina di Mao durante le lezioni.
15 marzo. A Praga si suicida il generale Janko, che aveva cercato di rimettere alla guida del paese lo stalinista Novotny. In Russia iniziano i primi lavori che porteranno alla nascita dello stabilimento auto di Togliattigrad, dove la FIAT ha esportato oltrecortina il know-how e la tecnologia per produrre su licenza la "124" che diventerà una delle vetture più diffuse nell'Unione Sovietica. A Varsavia il regime stalinista di Gomulka si prepara a soffocare la protesta degli studenti universitari, diffusa dagli effetti della Cecoslovacchia di Dubcek.
16 marzo. Alla Facoltà di Legge dell'Università di Roma si verificano gravi scontri per intervento di squadre di militanti missini guidati da Giorgio Almirante, che tentano di sgomberare le aule occupate 4 giorni prima dal Movimento Studentesco. Lo scontro è durissimo. Rimane gravemente ferito Oreste Scalzone (frattura di una vertebra dorsale per il lancio di un armadio). Gli assalitori sono estranei al mondo universitario ed arrivano da tutta Italia armati di aste e bastoni. I missini, dopo una violentissima sassaiola si barricano all'interno della Facoltà. Lo stesso Almirante rimarrà contuso negli scontri. Alla fine interviene la Polizia che fa irruzione nelle aule. Viene denunciato il missino Giulio Caradonna. Molti i fermati.
17 marzo. Un articolo comparso sul quotidiano "La Stampa" indica che i consumi degli Italiani sono ancora abbondantemente sotto la media dei paesi industrializzati del mondo occidentale: l'apporto calorico pro capite è di sole 2.750 calorie al giorno, contro le 3.290 del Regno Unito, soprattutto per la povertà della dieta. Si mangiano appena 33 kg. di carne l'anno mentre negli Usa il consumo era di 85 Kg. Gli italiani bevono solo 63 litri di latte l'anno, gli Inglesi 148. Il pasto degli italiani è ancora dominato da farinacei e legumi.
18 marzo. Il Presidente del Consiglio Aldo Moro e il Segretario della Democrazia Cristiana Mariano Rumor parlano a Bologna di fronte ai giovani del partito. Il tema centrale è la protesta nelle Università. Nei confronti delle rivendicazioni dei giovani, Moro esprime apertura, ma solo nel rispetto delle Istituzioni. Rumor invita gli studenti a credere nelle intenzioni programmatiche del centro-sinistra riguardo il sostegno alla riforma universitaria.
19 marzo. Novità nella comunicazione elettorale dei partiti in vista delle politiche 1968. Per la prima volta la multimedialità a servizio della politica. I Repubblicani affidano al regista Ugo Gregoretti i loro spot elettorali, mentre i Socialisti riunificati realizzano un "video-cabaret" elettorale. La DC realizza tre distinti documentari programmatici. Uno di questi è dedicato alla protesta nelle Università italiane.
20 marzo. A Genova si leva la protesta per la candidatura nelle liste del PCI-PSIUP dell'ex partigiano Francesco Moranino "Gemisto", che era stato graziato nel 1965 per gli omicidi compiuti il 26 novembre 1944 a Portula (Biella). Il comandante partigiano aveva assassinato Emanuele Strasserra, genovese, giunto in missione per conto dei Servizi Segreti alleati ed eliminato assieme ad altri 4 compagni di missione.
21 marzo. Tragedia a Genova: sulle alture della città una gigantesca franainveste un palazzo di sei piani in Via Digione. Nonostante gli avvertimenti dei condomini sul pericolo di crolli, la tragedia annunciata avviene dopo 18 giorni di pioggia intensa. I morti saranno 19.
Dopo i fatti di Roma, a Milano riprende l'agitazione nelle Università. Si registrano scontri alla Cattolica, la prima Facoltà d'Italia ad essere occupata nel 1967, dove vengono alle mani i rappresentanti del Movimento Studentesco con gli studenti di "Alleanza Cattolica". Al liceo classico Berchet vengono rubati e bruciati i registri di classe.
22 marzo. Il Presidente Usa Lyndon Johnson annuncia una svolta nella strategia militare in Vietnam con la destituzione del Generale Westmoreland dopo l'offensiva del Tet e lo stallo delle operazioni americane.
26 marzo. Il bandito sardo Graziano Mesina viene arrestato ad un posto di blocco ad Orgosolo. Mesina era evaso nel 1966 dal carcere di Sassari e durante i due anni di latitanza fu autore di ben 7 sequestri di persona. Per un soffio era fuggito ad un'imboscata dove erano rimasti uccisi due agenti di Pubblica Sicurezza. Giuliano Mesina passerà 8 anni in carcere prima di fuggire nuovamente nel 1976.
28 marzo. Unione Sovietica: in un incidente aereo muore l'eroe nazionale Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio nel 1961.
All'Università di Madrid scoppiano violenti scontri tra le forze dell'ordine e gli studenti in lotta, mentre alla Cattolica di Milano gli studenti sperimentano il metodo di protesta non violento dello sciopero della fame. Dopo alcuni giorni di occupazione, la Facoltà di Lettere della Sorbona, a Parigi, viene chiusa per ordine del Rettore. Il Consiglio dei Ministri guidato da Aldo Moro rende noto che il Pil italiano è cresciuto del 5,9% nell'ultimo anno.
30 marzo. Ai cancelli della Fiat Mirafiori ed al Lingotto scoppiano duri scontri ai picchetti in occasione di uno sciopero indetto dai sindacati dei metalmeccanici. Ai cancelli ci sono questa volta anche gli studenti di Palazzo Campana, che al grido di "Viva Mao Tse-Tung" si scontrano violentemente con la Polizia ingaggiando una fitta sassaiola che proseguirà anche per i viali di Torino.
Aprile 1968.
1 aprile. Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson dichiara la fine dei bombardamenti americani sul Vietnam del Nord. In un bosco della Cecoslovacchia viene trovato impiccato Joseph Brestansky, giudice che stava indagando sui crimini dello stalinismo a Praga prima dell'avvento di Dubcek.
3 aprile. Da Cape Canaveral decolla il razzo vettore Saturno VI, parte preliminare del programma Apollo 11 che porterà l'uomo sulla Luna un anno più tardi.
4 aprile. A Memphis, Tennessee, viene assassinato in un motel il leader dei diritti civili degli afroamericani Martin Luther King. Scoppiano tumulti nelle principali città degli Usa. Johnson blinda Washington e lancia appelli alla calma.
7 aprile. L'ex campione del mondo di F1 Jim Clark perde la vita durante una gara di Formula 2 a Hockenheim. Era stato iridato nel 1963 e nel 1965. Papa Paolo VI dedica l'omelia in San Pietro alla memoria di Martin Luther King.
9 aprile. Le Università italiane chiudono per le vacanze di Pasqua. Dubçek annuncia a Praga la volontà di distacco dall'Urss e di avvicinamento diplomatico alla Repubblica Federale Tedesca. Bonn si dichiara favorevole e annuncia a Mosca la decadenza dei trattati di Monaco del 1938. Escono interessanti dati sul mercato dell'automobile in Italia. Rispetto al 1960 le vendite di auto di cilindrata medio-alta (dai 1.100 ai 2.000 cc) risulterebbero triplicate. Anche se le utilitarie rappresentano ancora la maggior parte dei veicoli immatricolati, si comincia a parlare della Fiat "500" come possibile seconda auto di famiglia. Un’altra ricerca è quella presentata dall'Istituto Centrale di Statistica, che rivela i dati sulla mortalità in Italia. Nel 1967 i decessi sono stati 508.354, la cui principale causa è rappresentata dalle malattie cardiovascolari. Preoccupa la crescita sensibile delle malattie polmonari (+10%) e dei tumori (+1,4%). Anche il consumo di bevande alcoliche è in netta crescita tra gli Italiani. Si passa dagli 84 litri di vino pro capite del 1951 ai 117 del 1968. La birra triplica le vendite. Dalle statistiche risulta che gli Italiani bevono il doppio degli Americani.
10 aprile. A Wellington (Nuova Zelanda) la nave passeggeri "The Wahine" naufraga a poche centinaia di metri dal pontile a causa dell'uragano Giselle. I morti sono 53, molti dei quali affogati per il ribaltamento delle scialuppe di salvataggio a causa della forza delle onde.
11 aprile. Il fatturato del Gruppo Olivetti è stato di 341 miliardi di lire nel 1967. In Vietnam gli Americani lanciano l'offensiva nota come "Complete Victory" al fine di rendere sicura la zona della capitale Saigon dopo le incursioni nemiche dell'offensiva del Tet. A Berlino Ovest il leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke è vittima di un grave attentato. E' colpito dal fuoco di Joseph Bachmann, uno squilibrato. Ma l'accusa di essere il mandante morale è rivolta al tycoon dell'editoria Axel Springer (ex SS durante la guerra) per la dura campagna mediatica promossa contro la contestazione capeggiata da Rudi "Il rosso". Dutschke sopravviverà a stento, ma nei giorni successivi numerosi e violenti saranno gli scontri tra gli studenti e la Polizia della Rft. Alla Fiat Mirafiori è indetto uno sciopero per il salario. La presenza massiccia delle Forze dell'Ordine genera la protesta dei Sindacati presso il Ministro degli Interni Taviani. Nel pomeriggio un gruppo di studenti si unisce agli operai e innesca scontri con la Polizia. Vengono arrestati il leader del movimento studentesco di Torino Guido Viale e il milanese Sergio Restelli, che sarà negli anni '80 stretto collaboratore di Claudio Martelli. In totale vengono denunciati 21 studenti. All'indomani degli scontri a Palazzo Campana, sede universitaria torinese, nasce un nuovo comitato studenti-operai, dove è usata per la prima volta la denominazione "Potere Operaio".
15 aprile. Il bilancio del controesodo di Pasqua è catastrofico: sulle strade italiane si contano 57 morti e 1382 feriti. A Monaco di Baviera negli scontri seguiti all'attentato al leader Rudi Dutschke muore un fotoreporter, molti sono i feriti. Papa Paolo VI fa appello ai giovani affinché proseguano sulla via del pacifismo intrapresa da Martin Luther King.
16 aprile. Dagli arresti domicilari l'ex premier greco Georgios Papandreou si appella al mondo democratico per un intervento contro il regime dei Colonnelli. Pietro Nenni tiene un comizio a Praga, ospitato da Dubçek. Tra i presenti alcune celebrità italiane: Sophia Loren con il marito Carlo Ponti e Vittorio de Sica.
18 aprile. Il Segretario della Democrazia Cristiana Mariano Rumor presenta il programma elettorale del partito in vista delle elezioni. Si conferma la volontà di proseguire la politica del centro-sinistra, con la rigida esclusione del Pci. Si ribadisce la contrarietà al divorzio, aprendo sulla riforma dell'Università. Sull'istituzione delle Regioni la Dc rimarca i propri dubbi. A Roma è nuovamente occupata la Facoltà di Lettere e Filosofia dopo il rigetto delle ultime richieste degli studenti. A Giurisprudenza il Consiglio di Facoltà approva in via sperimentale l'introduzione dei "gruppi di studio" come strumento alternativo per la valutazione degli studenti.
20 aprile. In Sudafrica precipita un Boeing 707 della South African Airways. Il volo partito da Johannesburg e diretto a Londra impatta poco dopo il decollo a causa di un errore di pilotaggio. Le vittime sono 123. A Bonn vengono scoperti alcuni piani sovversivi da parte dei seguaci di Rudi Dutschke, comprendenti i primi attentati del primo nucleo del futuro gruppo terrorista Rote Armèe Fraktion (Raf)
21 aprile. A Roma anche la Facoltà di Fisica viene rioccupata. Per la prima volta dall'inizio della contestazione il Rettore concede il diritto di discussione del voto. Anche a Bari la facoltà di Lingue viene occupata dagli studenti.
23 aprile. A Torino gli studenti di Palazzo Campana interrompono le lezioni per protestare contro l'arresto del loro leader Guido Viale. In Italia e in Europa si registrano temperature da record: a Milano si toccano i 26°C, a Roma 27°C. La città europea più calda è Berlino con una massima di 31°C.
24 aprile. Dopo le proteste, l'università di Torino è nuovamente occupata, così come molti altri atenei in Italia. A Valdagno (Vicenza) entrano in sciopero gli operai del gruppo Marzotto.
25 aprile. In Algeria il capo di Stato Houari Boumedienne (golpista nel 1965 dopo essere stato leader nella guerra contro i Francesi) è vittima di un attentato, che per un caso lo lascia quasi illeso. Alla base militare di San Giusto (Pisa) atterra un Dc-6 della Croce Rossa: a bordo ci sono alcuni mercenari italiani liberati dopo la cattura in Congo, in seguito al loro intervento atto a rovesciare il dittatore socialista Mobutu guidati dal mercenario belga Jean Schramme.
26 aprile. Al porto di Napoli rientrano le salme di 385 militari italiani caduti in Africa Orientale durante la guerra. Saranno tumulati nel sacrario dei "Caduti d'Oltremare" a Bari.
27 aprile. A Roma si sfiora una seconda Valle Giulia. Gli studenti si erano radunati di fronte al Palazzo di Giustizia per chiedere la scarcerazione di alcuni compagni arrestati con l'accusa di furto durante l'ultima occupazione. Il bilancio degli scontri è grave: 36 agenti rimangono feriti, con loro anche 14 civili. Gli arresti a fine giornata saranno ben 165.
28 aprile. Il Presidente del Consiglio Aldo Moro inaugura l'inizio dei lavori dello stabilimento "Alfasud" di Pomigliano d'Arco, in Campania. La nuova fabbrica nella zona Flegrea dovrebbe garantire circa 40.000 nuovi posti di lavoro. Si trattava di un impianto industriale all'avanguardia progettato dall'ingegnere austriaco Rudolph Hruska. La storia dello stabilimento sarà segnata da subito dai numerosi scioperi delle maestranze, che causarono ritardi, tanto che la prima attività produttiva comincerà esattamente 4 anni dopo la posa della prima pietra nell'aprile 1972.
29 aprile. Un disastroso terremoto in Persia (oggi Iran) si abbatte ai confini con l'Azerbaijan. I morti sono 39, migliaia i feriti e i senzatetto. E' presentato all'assemblea degli azionisti il bilancio della RAI. Le entrate del canone radio e tv ammontano ad 81 miliardi di lire. Gli introiti pubblicitari arrivano a 29,4 miliardi. L'anno termina in sostanziale pareggio in quanto per i 9,547 dipendenti l'azienda spende 49,5 miliardi di lire, per la realizzazione dei programmi 43,9. L'utile finale è di 634 milioni. Gli abbonati radio e tv sono stati nel 1967 11 milioni.
Maggio 1968.
1 maggio. Nelson Rockefeller annuncia la propria candidatura per la corsa alla Casa Bianca. Il magnate americano si confronterà con l'ex vicepresidente Richard Nixon alle primarie dei Repubblicani. Rockefeller era già stato sconfitto due volte, nel 1960 e nel 1964. Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche dell'Università di Torino, è stata chiusa per decisione del Senato accademico. Il Movimento Studentesco si trasferisce momentaneamente ad Architettura. Roma: alla manifestazione indetta per la festa dei lavoratori in Piazza san Giovanni, gli studenti si mescolano agli operai durante il comizio della CGIL e contestano duramente il segretario cittadino, il socialista Agostino Marianetti, brandendo cartelloni inneggianti a Stalin, Mao e Trotsky.
3 maggio. Aldo Moro durante la campagna elettorale a Milano ribadisce il suo appoggio incondizionato alla formula del centro-sinistra, affermando tra l'altro l'impossibilità di aprire ad ogni collaborazione con i comunisti. Il “compromesso storico” è ancora lontano. Vengono resi noti i prezzi medi degli ortaggi di primavera rispetto al tasso inflattivo. I più convenienti sono ancora i legumi (media di 100-150 lire al chilo). Gli asparagi a 300-500 lire. Ancora inaccessibili pomodori e fagiolini della Riviera ligure. Alla Fiat i sindacati discutono con l'azienda sulla possibile applicazione delle 45 ore settimanali e la regolamentazione dei cottimi.
4 maggio. Il Presidente degli Usa Lyndon Johnson accoglie la proposta di Hanoi sulle future trattative per la pace in Vietnam che si dovrebbero tenere a Parigi dalla metà di maggio. Una epidemia di tifo colpisce la cittadina di Battipaglia. I casi in quindici giorni sono ben 105, in prevalenza bambini. Parigi: gravissimi scontri alla Sorbona tra studenti e polizia. Oltre 250 arresti nella battaglia che si è estesa in tutto il Quartiere Latino. E' iniziato il "maggio francese".
5 maggio. I Vietcong attaccano nuovamente la capitale del Vietnam del Sud Saigon con colpi di mortaio. La direzione aziendale della Fiat accoglie la richiesta dei sindacati sull'orario di lavoro. Sono introdotti i sabati liberi per tutte le maestranze. Mosca è in allarme per una possibile alleanza tra i Paesi “ribelli” del Patto di Varsavia: Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia. Breznev chiama Tito per dissuaderlo da possibili iniziative di alleanza con Praga e Bucarest. Barricate a Parigi. Dopo gli incidenti alla Sorbona gli studenti ingaggiano una durissima battaglia con la polizia. Su Boulevard Saint-Germain gli studenti lanciano molotov e scagliano le automobili usate come sbarramento contro gli agenti. Ci sono molti feriti, alcuni gravi. Il Tribunale di Roma emette le sentenze per gli scontri a Palazzo di Giustizia. Le pene vanno dagli 8 ai 10 mesi, con il beneficio della condizionale.
7 maggio. A Parigi, dopo le violenze, scioperano congiuntamente studenti e professori. Charles De Gaulle condanna i disordini ma ammette la necessità di una riforma universitaria. Nella città in tensione, giungono i primi emissari vietnamiti per la fase preliminare dei trattati di pace.
8 maggio. A Milano riprendono gli scontri tra studenti e Polizia. Il Movimento Studentesco aveva indetto una manifestazione davanti al Palazzo di Giustizia in solidarietà ai compagni romani condannati. Il corteo si sposta poi in Piazza san Babila dove le Forze dell'Ordine caricano i manifestanti in seguito all'effrazione delle vetrine del concessionario Bepi Koelliker. 16 fermati e un a decina di feriti lievi. Si diffondono le prime voci di possibili movimenti delle truppe di Mosca verso il confine della Cecoslovacchia “ribelle” di Dubçek. Mentre si parla dei negoziati di Parigi, a Saigon infuria la battaglia. Gli Americani bombardano i quartieri occupati dai Vietcong, con molte vittime civili.
10 maggio. Per la prima volta i delegati americani e nordvietnamiti si stringono la mano a Parigi, mentre la Sorbona viene assediata nella notte da una impressionante folla di circa 30.000 studenti. In Germania gli universitari paralizzano Bonn con una marcia alla quale partecipano oltre 40.000 manifestanti da tutto il Paese.
13 maggio. Le truppe sovietiche sono ai confini con la Cecoslovacchia. La scusa per penetrare oltre i confini sarebbe la richiesta di svolgere le manovre militari del Patto di Varsavia in territorio cecoslovacco. Dubçek respinge la richiesta di Mosca. Gli studenti francesi bloccano il traffico sulla Croisette in occasione del Festival del Cinema di Cannes, che rinvia le proiezioni e annulla le premiazioni. Il Milan vince il campionato 1967/1968 con 9 punti di vantaggio sul Napoli. E' dei rossoneri anche la classifica dei cannonieri con i 13 gol di Pierino Prati.
15 maggio. Si chiude la campagna elettorale in vista del voto delle Politiche del 19 maggio. I tre protagonisti dei governi di centro-sinistra Dc, Psu e Pri si dicono favorevoli a continuare l'esperienza politica portata avanti dai governi di Fanfani e Moro. Alla Sapienza di Roma gli studenti obbligano il latinista filomissino Ettore Paratore ad abbandonare l'aula. Il professore aveva provocatoriamente proposto in una prova d'esame la traduzione dall'italiano al latino di un brano tratto dal libretto rosso di Mao.
16 maggio. A Parigi il "maggio francese" divampa. Gli studenti occupano anche le fabbriche e i teatri. All'Odèon vengono interrotte le rappresentazioni e gli studenti recitano sul palco testi d'avanguardia. Vengono occupati gli stabilimenti Renault e a Nantes la sede dell'industria aeronautica “Sud Aviation” (che produceva i Mirage e gli elicotteri Alouette) dove gli occupanti sequestrano il direttore dello stabilimento. A Firenze gli studenti universitari cercano di assalire la sede cittadina della Democrazia Cristiana. Hanno usato auto come barricate sull'esempio di Parigi.
17 maggio. Alle elezioni politiche italiane del 1968 voteranno 3,5 milioni di giovani in più in virtù dell'abbassamento della maggiore età a diciotto anni. Il ministro degli esteri sovietico Kossighin giunge all'improvviso a Praga dopo i timori di Mosca di una possibile alleanza tra la Cecoslovacchia e la Germania Ovest in seguito ai recenti dialoghi tra i due paesi divisi dalla Cortina di ferro.
19 maggio. L'Italia è alle urne: l'affluenza sarà da record, con oltre il 90% degli aventi diritto. Si voterà anche il giorno successivo. I risultati vedranno il fallimento della compagine del centro sinistra. Nonostante l'avanzamento della Dc al 39,1% i Socialisti riunificati (Psu) subiranno una pesante sconfitta. Sarà premiato il Pci, che arriverà al 29,1%. L'Italia usciva dalle urne un po' più a sinistra ed i risultati delle politiche dal 1968 in poi faranno maturare in Aldo Moro i primi tentativi di avvicinamento al Pci, noti anche come “strategia dell'attenzione”.
20 maggio. Parigi è paralizzata: ai disordini dei giorni precedenti si aggiungono gli effetti dello sciopero generale delle fabbriche e dei trasporti. Incrociano le braccia le grandi industrie automobilistiche Citroen, Peugeot, Renault. Lunghe file per gli approvvigionamenti e strade piene di parigini a piedi per lo sciopero dei mezzi pubblici. Si ipotizza una possibile reazione di De Gaulle che potrebbe assumere i pieni poteri. Il giorno successivo viene presentata alla stampa uno dei modelli memorabili della Citroen: la “Mehari”, con la carrozzeria in materiale plastico coloratissimo.
24 maggio. Charles de Gaulle lancia un appello alla televisione in cui dichiara che la Francia è “sull'orlo della paralisi” minacciata da una “guerra civile” mentre prosegue lo sciopero generale. Nella notte precedente si registrano nella capitale francese altri durissimi scontri tra studenti e Polizia con oltre 20.000 partecipanti ai tumulti. Il leader del movimento studentesco parigino Cohn-Bendit (di nazionalità tedesca e precedentemente espulso in quanto “persona non gradita”) è respinto alla frontiera alsaziana mentre cerca di rientrare in Francia. A Lione, durante gli scontri con gli studenti, muore un commissario di Polizia. Anche a Parigi ci sarà una vittima tra le file delle Forze dell'Ordine. Prosegue intanto ad oltranza lo sciopero generale dopo la bocciatura da parte dei lavoratori degli accordi tra aziende e sindacati. Il cibo a Parigi scarseggia. La benzina, quasi introvabile, è salita alle stelle.
27 maggio. All'Università Cattolica di Milano, dove si verificò la prima occupazione nel 1967, si registrano gravi scontri tra gli occupanti e un gruppo di studenti contrari alle agitazioni. Viene colpito il Professor Franceschini con un estintore. Le schermaglie proseguono fino a notte fonda quando un gruppo di dissidenti riesce momentaneamente ad entrare nell'Ateneo dove viene respinto con gli idranti e gli estintori. Il Rettore annuncia provvedimenti legali.
28 maggio. Mentre prosegue la crisi del gollismo nel pieno delle lotte studentesche e dello sciopero generale, il socialista François Mitterrand annuncia la sua prossima candidatura per la corsa all'Eliseo. Si apre in Germania il processo al Talidomide, il farmaco prodotto dalla tedesca Grunenthal che fu causa di migliaia di casi di focomelia, gravissima malformazione fetale che causava grave difetto o totale assenza degli arti superiori ed inferiori. A Praga si consuma l'ultimo scontro tra i riformisti di Dubçek e gli stalinisti di Novotny: la primavera di Praga si avvia verso il drammatico epilogo dell'occupazione sovietica dell'agosto 1968. Il sottomarino nucleare americano USS Scorpion (SSN-589) scompare durante una missione nel mare delle Azzorre. A bordo vi erano 99 membri dell'equipaggio. Le ricerche saranno condotte utilizzando il batiscafo di costruzione italiana “Trieste II”.
29 maggio. Mentre Charles de Gaulle lascia l'Eliseo all'improvviso (si incontrerà segretamente con Jacques Massu, il generale dei parà reduce di Algeria che nel 1968 era a capo delle forze francesi in Germania), fa ritorno alla Sorbona l'agitatore del maggio francese Cohn-Bendit. Il giorno successivo però, per i boulevards di Parigi sfilerà quasi un milione dei sostenitori del generale. Tornato nella capitale, De Gaulle scioglierà l'Assemblea nazionale chiamando i francesi alle urne nel giugno successivo, che si riveleranno vittoriose per il generale francese. Pietro Nenni dichiara pubblicamente l'impossibilità del Psu, visto l'insuccesso elettorale delle prime elezioni dopo la riunificazione socialista, di poter formare nuovamente un governo assieme alla Democrazia Cristiana. I principali oppositori dell'alleanza con la Dc sono Tanassi e De Martino. Inizia il declino dell'esperienza di centro-sinistra che aveva caratterizzato gli anni '60 italiani.
30 maggio. Al Palazzo dell'Arte di Milano tutto era pronto per l'inaugurazione della XIV edizione della Triennale, quando di fronte alle autorità e al sindaco Aldo Aniasi un nutrito gruppo di studenti dell'Accademia di Brera, del Politecnico e della Statale (con in testa artisti affermati come Giò e Arnaldo Pomodoro, Treccani e Dova) improvvisavano un sit-in di protesta. Poco dopo i manifestanti facevano irruzione nel palazzo del Parco Sempione portando a termine la prima occupazione di un edificio non scolastico. Gli studenti, dopo un breve scontro con la Polizia e grazie alla mediazione pacifica del direttore Dino Gentili, entrano alla Triennale dove passeranno in assemblea la prima sera. Rimarranno nell'edificio allestito per l'edizione 1968 fino al mese successivo, quando la mostra aprirà al pubblico dopo i lavori necessari a riparare i danni causati dagli studenti. L'esposizione con il tema portante "Il Grande Numero" conterrà un'aggiunta: una installazione dedicata alla protesta dei giovani.
31 maggio. Si riunisce il Comitato Centrale dei Socialisti, per decidere se aderire oppure no ad un nuovo esecutivo di centro sinistra. Mancini critica le posizioni intransigenti di Tanassi e De Martino. Giolitti e il repubblicano La Malfa propongono un esecutivo Dc-Psi-Pri di "scopo", con programma condiviso e durata limitata. Il governo Leone II che nascerà il 25 giugno successivo sarà tuttavia un monocolore Dc.
Giugno 2018
1 giugno. Dopo i risultati delle elezioni politiche i Socialisti penalizzati dalle urne si spaccano: Tanassi e De Martino non vorrebbero ripetere l'esperienza di governo nel centro-sinistra. Iniziano le prime proposte di una formula nuova, una "maggioranza a tre" che includa anche i Repubblicani accanto alla Dc e ai Socialisti. Ritorna la paura nel Belice, la regione della Sicilia devastata dal terremoto nel gennaio precedente. La scossa è del 6° grado della scala Mercalli. A Parigi 20.000 studenti sfilano con in testa il leader della rivolta Cohn-Bendit chiedendo le dimissioni di Charles de Gaulle che si era allontanato dall'Eliseo per incontrare in Germania il Generale Massu lasciando a Parigi Georges Pompidou. A Torino dopo gli accordi tra la Fiat e le rappresentanze sindacali sulla riduzione dell'orario di lavoro gli studenti di Potere Operaio scendono in piazza e danno vita a tafferugli in occasione del comizio di Luigi Longo del Pci. Molte le vetrine infrante, i feriti e i contusi sono decine. 10 giovani sono arrestati alla fine della giornata.
3 giugno. A Milano si apre il processo alla banda Cavallero. Davanti al giudice compaiono Piero Cavallero, Adriano Rovoletto, Sante Notarnicola e Donato Lopez. Sono accusati di 5 omicidi, 21 tentati omicidi, 17 rapine, 5 sequestri più un'altra serie di reati. A New York l'attrice Valerie Solanas, una giovane affetta da manie ossessive, attenta alla vita di Andy Warhol a del suo staff alla Factory dell'artista al Greenwich Village dopo mesi di stalking. Warhol sopravviverà dopo diverse rianimazioni cardiache, e porterà i segni dell'agguato per il resto della vita.
5 giugno. All'uscita dall'hotel Ambassador al termine di un meeting per le primarie dei Democratici, Robert Kennedy (fratello di JFK) viene colpito dai colpi di pistola esplosi dallo studente di origini giordano-palestinesi Sirhan Sirhan. Kennedy morirà dopo un giorno di agonia. Lascia la moglie Ethel e 11 figli, uno dei quali nascerà dopo la morte del padre. Sandro Pertini viene eletto Presidente della Camera dei Deputati. Amintore Fanfani viene eletto al Senato.
7 giugno. A Milano gli studenti in lotta assediano la sede del Corriere della Serain via Solferino. Vogliono impedire la diffusione del quotidiano diretto da Giovanni Spadolini. La notte di fuoco era cominciata dopo un assembramento in piazza Duomo dove gli studenti avevano contestato il Governo sulla riforma universitaria. Poco dopo il corteo si sposta verso il quartiere di Brera, dove le prime auto in sosta vengono rovesciate e utilizzate come barricate sull'esempio del maggio francese. La Polizia carica più volte ma di fronte alla sede del Corriere rimane bloccata tra le barricate mentre gli studenti bloccano i mezzi che avrebbero dovuto consegnare i giornali. Gli scontri proseguono per tutta la notte e al mattino dell'8 giugno il bilancio è di 12 arresti e 250 fermi. Molti i contusi. Si aprono le consultazioni per la formazione del nuovo Governo con il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il primo incaricato sarà il democristiano Mariano Rumor, che tuttavia dovrà rinunciare all'incarico per la ferma opposizione dei Socialisti, sopra tutti De Martino e Tanassi.
10 giugno. La Nazionale italiana di Calcio vince gli Europei 1968. Nella finale all'Olimpico batte la Jugoslavia per 2 a 0. Le reti sono di Riva e Anastasi. L'Italia del ct Ferruccio Valcareggi era scesa in campo con: Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. Alle semifinali gli Azzurri erano passati dopo il pareggio con la Russia con il sorteggio della monetina.
11 giugno. A Parigi si consuma una vera e propria battaglia tra la Polizia e i manifestanti dopo l'occupazione degli gli stabilimenti Peugeot e della Sorbona. Durante l'intervento delle forze dell'ordine alla Peugeot un manifestante rimane ucciso, mentre uno studente annega nella Senna in circostanze poco chiare. Il bilancio finale è di oltre 1.500 arresti.
14 giugno. Muore a Napoli Salvatore Quasimodo.
16 giugno. Termina l'occupazione della XIV Triennale di Milano. La Direzione della mostra decide di riaprire dopo qualche giorno per sistemare gli ingenti danni derivati da oltre due settimane di occupazione degli spazi.
18 giugno. A Venezia si apre la Biennale in un clima di tensione. Il precedente della Triennale di Milano aveva suggerito alle autorità la presenza massiccia della Polizia, che generò i primi malumori e la minaccia di ritiro di 4 nazioni partecipanti: tra queste Francia, Norvegia e Olanda. Si presentano i primi drappelli di dimostranti che in seguito presidieranno la sede della mostra. Al processo di Milano il bandito Pietro Cavallero sfida i giudici mentre gli inquirenti ricostruiscono i drammatici fatti del 25 settembre 1967, quando dopo una rapina a Milano i banditi fuggono sparando dalla 1100 Fiat. Rimangono uccisi tre passanti, di cui un ragazzo di 17 anni. Durante il processo il membro della banda Sante Notarnicola insulta il pubblico. Al festival della canzone di Saint Vincent Riccardo Del Turco vince con "Luglio". Il cantante è cognato di Sergio Endrigo, che aveva vinto il Festival di Sanremo nel febbraio precedente. Nonostante il brano sia diventato il tormentone di quell'estate di 50 anni fa, l'industria della canzonetta segna una flessione del 10%. Sta per iniziare la lunga stagione della canzone d'autore politicamente impegnata.
20 giugno. Dopo la difficile fase delle consultazioni, Giuseppe Saragat affida l'incarico a Giovanni Leone. Il socialista De Martino, contrario sin da subito al rinnovo dell'esperienza politica del centro-sinistra, paventa le proprie dimissioni dal partito.
23 giugno. Nella Buenos Aires della dittatura militare di Juan Carlos Onganìa il derby tra il River Plate e il Boca Juniors si trasforma in una delle più gravi tragedie sportive della storia. Dopo 90 minuti in cui le tifoserie si erano affrontate provocandosi, presso la Puerta 12 la folla viene schiacciata nell'imbuto dell'angusta uscita, forse per una carica di polizia. I morti sono 71, i feriti anche gravi centinaia. L'esito delle elezioni francesi segna una nettissima vittoria di Charles De Gaulle.
24 giugno. A Roma Giovanni Leone presenta la squadra di Governo, un "monocolore d'attesa" democristiano. Tra i ministri figurano Oscar Luigi Scalfaro, Giulio Andreotti, Guido Gonella, Emilio Colombo, Attilio Piccioni.
26 giugno. Guerra del Vietnam: i Marines lasciano la base di Khe Sanh al confine con il Laos. La roccaforte americana era stata messa sotto assedio dai Nordvietnamiti per 77 giorni.
27 giugno. Roma: viene ritrovato il cadavere dell'ex ufficiale del Sifar Renzo Rocca. Avrebbe dovuto deporre entro pochi giorni al processo sul "Piano Solo" del Generale De Lorenzo. Sono attualmente vive diverse congetture sulla sua morte, immediatamente riconosciuta dagli inquirenti come suicidio. Secondo diversi opinionisti, Renzo Rocca sarebbe stato uno dei principali architetti della futura "strategia della tensione". Nel 1968 fu allontanato dal Servizio Segreto e poco dopo consegnerà ai vertici del SID alcuni documenti molto compromettenti circa la sua attività durante la presidenza di Antonio Segni (traffico di armi, spionaggio, elaborazione di piani eversivi anticomunisti). Pochi giorni dopo, muore nel suo studio romano.
Luglio 1968
1 luglio. A Mosca si incontrano l'Ambasciatore Usa Thompson, il primo ministro sovietico Kossighin, il ministro sovietico della difesa Grechko, quello degli esteri Gromyiko e l'Ambasciatore britannico Harrison. Hanno appena firmato il "Trattato di Non Proliferazione" sugli armamenti nucleari. Tra le potenze atomiche firmatarie mancava la Cina, che aderirà soltanto nel 1992. Lyndon Johnson annuncia ai media del mondo il primissimo passo verso la distensione. All'Università di Berkeley, in California, gli studenti in corteo per solidarietà con i compagni di lotta francesi si scontrano duramente con la polizia, che necessita dell'intervento di ben 700 uomini per sedare la rivolta. Una ricerca condotta dal Touring Club Italiano rivela il boom del turismo dei giovanissimi (in età scolare). Nel 1967 gli oltre 5 milioni di visitatori hanno lasciato nelle casse del Paese oltre 170 miliardi di lire. Il turismo dei giovanissimi è una fetta consistente pari a circa il 20% del totale. 290 mila ragazzi sono iscritti al ramo giovanile del Touring, il Turismo Studentesco che si basa sull'opera volontaria di ben 3.800 insegnanti come braccio turistico del Ministero della Pubblica Istruzione. Il mercato sembra avere buone prospettive di espansione anche perché nel 1968 gli Italiani che possono permettersi vacanze sono soltanto il 21% della popolazione.
2 luglio. Sulla linea ferroviaria del Brennero all'altezza della stazione di Bronzolo/Branzoll viene rinvenuto un ordigno che fortunatamente non esplode evitando una sicura strage. Nel 1972 sarà condannato per l'attentato il terrorista altoatesino Georg Klotz, padre di Eva, ex deputata separatista al Consiglio Provinciale di Bolzano. John Lennon dichiara pubblicamente il proprio fidanzamento con l'artista giapponese Yoko-Ono ad una mostra a lei dedicata a Mayfair (Londra). All'indomani della firma del trattato di non-proliferazione nucleare la Francia annuncia l'imminenza di un test nucleare allargo di Mururoa (Polinesia).
3 luglio. Una notizia curiosa: la Polizia Stradale effettua controlli sull'efficienza dei fari delle auto in viaggio per le ferie. La maggior parte delle irregolarità è dovuta al sovraccarico delle tante utilitarie (Fiat 500 e 600) che provoca lo scorretto puntamento dei proiettori verso l'alto.
7 luglio. Il "Corriere della Sera" pubblica una mappa dei gruppi della contestazione giovanile, la cosiddetta "nuova sinistra". Caratterizzati dal denominatore comune dell'eversione del sistema e collocati al di fuori dei partiti dell'arco costituzionale, i gruppi vengono divisi a seconda delle quattro distinte tendenze: "filocinesi", raggruppati nel Partito Comunista d'Italia che avrebbe ricevuto secondo il quotidiano milanese consistenti aiuti dal Cina e dall'Albania. Quindi la ripresa degli anarchici, individuati in un movimento che negli anni a venire avrà un ruolo primario nella costellazione della sinistra extraparlamentare: Potere Operaio, attivo particolarmente a Padova e Pisa. Terzo nucleo della nuova sinistra è rappresentato dai trotzkisti, raggruppati soprattutto a Milano e i "castristi", caratterizzati dall'assoluto spontaneismo di gruppi di giovani intellettuali privi di ogni struttura burocratica. Presenti in gran parte degli atenei del Nord, comprendono anche i cosiddetti "cattolici del dissenso". Fortissimo è il carisma esercitato dalla figura eroica di Ernesto Guevara, che i dirigenti del PCI temono possa offuscare il mito dei padri del comunismo italiano e della Resistenza. Il riferimento dei "castristi" del movimento studentesco nel dialogo con la dirigenza comunista era Pietro Ingrao, in contrapposizione con la condotta giudicata "filoborghese" dei dirigenti Longo e Amendola. I gruppi extraparlamentari, assolutamente minoritari prima del 1968, hanno sfruttato l'onda lunga della protesta per erodere spazio alle organizzazioni giovanili tradizionali, burocratizzate e ingessate, ponendosi come un'alternativa a strutture che, pur essendo operaiste ed egualitarie, non erano mosse da una spinta spontaneista alla rivoluzione non solo politica ma anche (e soprattutto) dei costumi propugnata dai gruppi del 1968. Rivolta nel carcere di San Vittore a Milano. I detenuti non rientrano dall'ora d'aria dando il via alla protesta per la riforma carceraria, preparata da almeno un mese. Poco dopo le 20.30 irrompono le Forze dell'Ordine. Esplodono tafferugli lungo i corridoi del carcere, che risultano nel ferimento di diversi funzionari di P.S.
8 luglio. E' il giorno della sentenza per la banda Cavallero. La Corte infligge tre ergastoli a Cavallero, Notarnicola e Rovoletto. 12 anni al più giovane Lopez che è l'unico a dichiararsi pentito e piange in aula. Gli altri tre, alla lettura della sentenza, intonano l'inno partigiano "Avanti, avanti! Siamo Ribelli". Un caldo eccezionale soffoca l'Italia: nel Polesine si raggiungono i 40°C mentre in tutta la Sardegna scoppiano gravi incendi. Vietnam: i Vietcong attaccano le postazioni americane e sudvietnamite facendo uso di gas chimici a 80 chilometri a sud-ovest della capitale Saigon. Nelle ultime operazioni di sgombero della base di Khe Sanh perdono la vita 13 Marines e altri 80 rimangono feriti.
13 luglio. Il "Corriere della Sera" continua il suo viaggio tra i gruppi della sinistra extraparlamentare protagonisti del 1968. E' la volta di "Potere Operaio" nelle due roccaforti di Padova e Pisa. Fondato dai due ex insegnanti Luciano della Mea (che sarà negli anni '80 tra i fondatori di Jaca Book, editrice di riferimento di Comunione e Liberazione) e Francesco Tolin, il movimento è espressione della volontà di unione nella lotta studenti-operai. L'ispirazione del gruppo guarda anche alle lotte degli afroamericani in pieno svolgimento nel 1968. Da queste premesse la volontà di PotOp di infiltrazione nelle fabbriche e nelle manifestazioni operaie (in massima parte alla Fiat). Nel ramo toscano forti sono le influenze del radicato anarchismo di Pisa e Livorno. Il quotidiano critica la violenza teorizzata nelle pubblicazioni del movimento (istruzioni su come fabbricare bottiglie incendiarie) e quindi messa in pratica nelle piazze d'Italia durante i cortei dei lavoratori. Italo Calvino vince il Premio Viareggio ma decide di rifiutarlo in aperta contestazione contro le istituzioni "ormai svuotate di significato" secondo lo scrittore e intellettuale. L'opera premiata era il romanzo "Ti con Zero" pubblicato da Einaudi.
14 luglio. Precipita la crisi cecoslovacca. Mosca chiama a rapporto solo 4 stati satellite, escludendo i "ribelli" romeni e cecoslovacchi. Il governo riformista di Dubçek è circondato prima che dai carri armati, dalle pressioni del governo sovietico che guarda con aperta ostilità la primavera di Praga e i cordiali rapporti con la Germania Ovest. Giacomo Agostini su MV Agusta si aggiudica il titolo di campione del mondo della classe 500 vincendo 6 delle 10 gare previste nella categoria. E'il terzo traguardo consecutivo per il pilota bresciano.
20 luglio. In controtendenza con l'esclusione di alcuni giorni prima, il Cremlino invita i membri del governo di Dubçek a Mosca per intavolare trattative sulla questione cecoslovacca. La popolazione fa appello al leader affinché rifiuti l'invito per timore che questo possa essere di pretesto per l'arresto del governo della Primavera.
21 luglio. La rottura tra Mosca e Praga prende una piega drammatica, con le forze sovietiche nei pressi del confine cecoslovacco. Vengono respinte tutte le motivazioni alla base delle riforme di Dubçek e si accusa il governo riformista di aver deviato nettamente dalla "via del socialismo". La Cecoslovacchia è ormai circondata dai corazzati dell'Armata Rossa.
22 luglio. A causa di un infarto muore all'età di 60 anni lo scrittore Giovanni Guareschi, autore della fortunatissima saga di Don Camillo e Peppone apparsi a puntate sul settimanale di destra "Candido". La sua opera fu tradotta in 22 lingue. Si trovava in vacanza a Cervia dove stava curando i sintomi della depressione. A Montecitorio c'è attesa per il dibattito in occasione della presentazione del rapporto parlamentare sullo scandalo del Sifarriguardo al tentato golpe preparato dal "piano Solo" del Generale dei Carabinieri De Lorenzo. Il fascicolo, curato dal Generale Lombardi, riguardava il ruolo della divisione corazzata dei Carabinieri che avrebbe dovuto entrare in azione nel 1964 e soprattutto le liste dei cosiddetti "enucleandi", i 731 cittadini considerati dal Sifar pericolosi nemici delle istituzioni democratiche. Lombardi in occasione dell'interrogazione parlamentare che seguì la vicenda giudiziaria contro il settimanale "L'Espresso" che aveva svelato l'esistenza del piano, smentì categoricamente l'esistenza nelle liste di politici e parlamentari. Molti anni dopo emergeranno nomi di primissimo piano come Luigi Longo, Giancarlo Pajetta e Mauro Scoccimarro. Gran parte della lista sparirà nel 1974.
24 luglio. A Cleveland esplode la battaglia nel ghetto nero. Il bilancio delle violenze tra gli afroamericani e la polizia è drammatico: 10 morti e 20 feriti. Cinque manifestanti dopo aver ucciso in uno scontro a fuoco tre agenti ed un addetto alla rimozione di un'auto usata come barriera, si barricano in una abitazione e iniziano a sparare. Due di loro verranno in seguito uccisi dalla Polizia di Cleveland, che chiede ed ottiene il sostegno di centinaia di militari della National Guard.
26 luglio. Dopo un drammatico vertice tra il governo di Praga e quello di Mosca, Dubçek ribadisce la fedeltà alla strada delle riforme. Tutto il paese gli è solidale e 1782 scrittori ed intellettuali cecoslovacchi lanciano un appello al mondo perché segua da vicino la difficilissima via delle democratizzazione.
28 luglio. Papa Paolo VI (Giovanni Battista Montini) fissa in un enciclica dal titolo "Humanae Vitae" la sua ferma condanna all'uso della pillola anticoncezionale.
29 luglio. La rottura tra Breznev e Dubçek è ormai insanabile dopo l'ennesimo colloquio. Mancano ormai pochi giorni all'invasione sovietica, con le truppe in movimento anche dalla Germania Est verso il confine cecoslovacco.
Agosto 1968
1 agosto. Proseguono serrate ed in un clima di estrema tensione le trattative tra Breznev e Dubçek a Praga, mentre prosegue l'ingresso di truppe sovietiche oltre il confine ed i voli dei Mig russi nello spazio aereo cecoslovacco. Durante i lavori per la costruzione della Linea 2 della Metropolitana di Milano si sfiora la tragedia quando un mezzo d'opera squarcia in due una bomba inglese dal 4.000 libbre (cookie) sotto corso Como. Fortunatamente il tritolo fuoriuscito dall'ordigno non esplode e la bomba viene fatta brillare.
2 agosto. A Vergiate (Varese) si consuma una grave sciagura aerea. Durante un forte temporale un Dc-8 dell'Alitalia che avrebbe dovuto fare scalo a Malpensa durante la tratta Roma-Montreal, si schianta contro il fianco del monte San Giacomo. Il comandante era decollato lo stesso da Fiumicino nonostante l'allerta meteo. Ingannato dalla scarsa visibilità e dall'errata interpretazione degli strumenti di bordo scambiò la pista del piccolo aeroporto civile di Vergiate per quello di Malpensa. Accortosi dell'errore il pilota cercò di riprendere quota inutilmente, quindi l'impatto con il terreno boscoso. 12 le vittime sui 95 occupanti, equipaggio compreso. Dubçek respinge gli attacchi di Mosca nell'incontro di Bratislava con il ministro degli esteri sovietico Kossighin, che aveva spinto anche il primo ministro della Germania Est Ulbricht ad attaccare le riforme di Praga durante i colloqui. L'invasione è alle porte.
4 agosto. La star Brigitte Bardot annuncia la separazione dal terzo marito Gunther Sachs dopo avere iniziato una relazione con il playboy italiano Gigi Rizzi.
6 agosto. Richard Nixon viene nominato ufficialmente candidato dei Repubblicani alla Casa Bianca. Alle primarie presidenziali avevano corso anche Nelson Rockefeller e Ronald Reagan.
Il posto più trendy delle vacanze estive 1968 è Santa Margherita Ligure, regno delle serate vip. Ci sono Rex Harrison e la moglie, Brigitte Bardot con Gigi Rizzi. I locali sono il "Covo" e il "Barracuda" dove è attesa Dalida. Il cocktail dell'estate di Santa è il Tom and Jerry (Rhum, succo d'arancio e di pompelmo), servito direttamente sugli yacht ormeggiati. Tra i giovani rampolli impazzano le feste in costume da pirata, clochard, marinaio.
9 agosto. Entusiasmo dei cittadini di Praga per la visita ufficiale del maresciallo Tito, visto come un esempio di non allineamento al giogo sovietico. A pochi giorni dalla tragedia aerea di Vergiate, lungo l'autostrada Monaco-Norimberga un Vickers Viscount della britannica BEA precipita dopo una picchiata senza ritorno. Le cause sono state individuate in un improvviso guasto all'impianto elettrico. 44 le vittime.
10 agosto. Sulla situazione cecoslovacca il Pci esprime il proprio totale appoggio a Mosca, riportato nei commenti sulle pagine degli organi di partito "L'Unità" e "Rinascita".
Il presidente jugoslavo Tito, nella conferenza stampa finale in occasione della visita a Praga lascia i sostenitori di Dubçek senza speranze. Non condanna la posizione del governo cecoslovacco ma neppure accetta l'idea di un’alleanza Praga-Belgrado. Nel frattempo ai confini cecoslovacchi si registrano sempre maggiori movimenti di truppe, il "Piper 2000", succursale del locale-cult romano, è il locale del momento in Versilia. Era stato aperto nel sulle ceneri del vecchio night "Caprice" portando a Viareggio le notti di Patty Pravo. In Versilia c'è anche Van Wood, ex componente del trio di Carosone e che ha aperto il ristorante "Il Leone d'Olanda", sempre a Viareggio.
12 agosto. Sulle strade dell'esodo si consuma una strage da record: nel solo weekend i morti sono 30. Il Governo mobilita 11.000 agenti e 15 elicotteri, un dispiegamento senza precedenti nel controllo del traffico.
18 agosto. Continuano gli attacchi dei Vietcong attorno alla capitale Saigon. Centinaia i morti in pochi giorni.
L'ex presidente Usa Dwight Eisenhower viene ricoverato al Walter Reed Medical Center di Washington per una grave crisi cardiaca. Viene istallato un defibrillatore.
19 agosto. La ripresa della contestazione si manifesta alla vigilia della Mostra del Cinema di Venezia. Un ordigno esplode alle 5.30 del mattino davanti al cinema Rossini. Due giorni prima un altro ordigno rudimentale era deflagrato proprio davanti al Palazzo del Cinema al Lido.
20 agosto. I carri armati sovietici entrano a Praga dopo essere penetrati nel territorio nazionale da più direzioni. I patrioti cecoslovacchi tentano di resistere anche se Dubçek ha chiesto di non reagire. Già si contano alcuni morti e decine di feriti. Con l'Armata Rossa ci sono truppe della DDR, polacche e ungheresi. Il palazzo del Praesidium (sede del Governo), è circondato. Nei giorni successivi il mondo si interroga sulla sorte di Dubçek e dei suoi ministri.
22 agosto. Ferma condanna del Governo italiano e del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Si attende il dibattito parlamentare, mentre i Comunisti condannano l'intervento sovietico per voce di Luigi Longo (che è appena rientrato da Mosca). Per giustificare la posizione disallineata dall'Urss i dirigenti del Pci rispolverano il memoriale di Yalta di Palmiro Togliatti, anche perché la base del partito è in agitazione per le modalità brutali dell'invasione.
23 agosto. Mentre il presidente cecoslovacco Svoboda vola a Mosca per cercare un'ultima mediazione e richiedere il ritiro delle truppe sovietiche, si erano diffuse voci su una possibile esecuzione di Alexander Dubçek, captate dalle onde dei radioamatori. La tragica ipotesi sarà smentita da Mosca, che annuncia la liberazione del leader cecoslovacco dopo colloqui segreti al Cremlino. I due paesi non allineati che avevano inizialmente difeso la politica di Dubçek, Romania e Jugoslavia, intendono chiedere la protezione di Pechino per i timori di un futuro intervento sovietico.
26 agosto. Svoboda e Dubçek rientrano a Praga che nel frattempo è stata sgomberata dalle truppe sovietiche (non il territorio nazionale, dove l'occupazione permane). Dubçek annuncia la necessità dell'accettazione del diktat di Mosca. La lotta per la libertà nata dalla "Primavera di Praga è finita per sempre. Poco dopo i carri armati sovietici faranno rientro nella capitale cecoslovacca. Rabbia e delusione invadono il Paese.
29 agosto. A Chicago durissimi scontri fra i sostenitori del candidato democratico alla Casa Bianca Hubert Humphrey che erano scesi in piazza per sostenerlo e protestare contro la guerra in Vietnam. Il pugno di ferro del sindaco sceriffo Richard Daley si abbatte per mezzo di oltre 7,500 militari e 6,000 riservisti che si uniscono ai 12.000 poliziotti già mobilitati. Al termine della giornata lo stesso Humphrey rimane intossicato dai lacrimogeni.
Settembre 2018
1 settembre. A Praga, dopo l'intervento armato sovietico di fine agosto, il leader Dubçek è costretto a fare autocritica. Il giorno stesso. Il giorno stesso si suicidano il viceministro degli Esteri Jan Zaruba e un alto ufficiale dell'esercito di Praga. E' reintrodotta la censura sulla stampa. Il leader del maggio francese Daniel Cohn-Bendit è a Carrara dove si svolge il congresso degli Anarchici, di cui la cittadina toscana è da sempre roccaforte. Il leader studentesco parigino provoca la platea dichiarando che gli anarchici cubani in esilio sarebbero al soldo della CIA. Dura la reazione degli eredi delle lotte operaie del XIX e XX secolo contro il "borghese rivoluzionario" che a loro giudizio starebbe "giocando con le barricate". Il parmense Vittorio Adorni vince i Mondiali di ciclismo battendo Merkcx. Il trofeo, che fu di Binda, Guerra e Coppi, mancava in Italia da 10 anni dopo l'ultimo successo di Baldini del 1958. Catastrofico sisma in Iran tra il 31 agosto e il 1 settembre nelle regioni orientali del Paese. Le scosse, dell'intensità fino a 7,4 gradi Richter causano la morte di 15.000 persone. Centinaia di migliaia i senzatetto.
2 settembre. Riprende in Parlamento il dibattito sulla riforma universitaria. Durante le prime discussioni emerge il dato relativo ai danni materiali causati dalle agitazioni studentesche dall'inizio dell'anno, che ammonterebbe a 5 miliardi di lire. Gli atenei più colpiti sono Roma, Pisa, Milano e Trento. Si propone l'installazione di sbarre di ferro alle finestre e agli ingressi per evitare ulteriori occupazioni.
3 settembre. Ignazio Silone vince il Premio Campiello con "Avventura di un povero cristiano", romanzo storico sulla storia di Papa Celestino V. Daniel Cohn-Bendit continua la permanenza in Italia spostandosi dal congresso anarchico di Carrara alla borghesissima Sardegna in compagnia dell'amica Marie France Pisier, "attrice della contestazione" ma anche cugina di Brigitte Bardot.
4 settembre. Giunge a sentenza il processo contro i giornalisti del settimanale L'Espresso sullo scandalo Sifar del Generale dei Carabinieri De Lorenzo. Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, autori dell'inchiesta sul "Piano Solo", sono condannati a 15 e 14 mesi di reclusione. Il Pm Occorsio si era opposto alla condanna prima che fascicoli venissero coperti dal segreto di Stato. Scalfari e Jannuzzi riescono ad evitare il carcere poiché alle politiche del 1968 erano stati eletti nelle liste del Psi e quindi poterono beneficiare dell'immunità parlamentare.
6 settembre. A Varese muore l'artista Lucio Fontana. Aveva 69 anni.
11 settembre. Gravissimo incidente aereo a circa 45 km dall'aeroporto di Nizza-Cote d'Azur. Un Caravelle dell'Air France decollato da Ajaccio si inabissa in seguito alla comunicazione di un incendio a bordo. I morti sono 95. Le indagini ufficiali parlarono dell'imprudenza di un passeggero che avrebbe generato l'incendio gettando un mozzicone di sigaretta nel cestino della carta a bordo. I parenti delle vittime sostennero invece l'ipotesi di un missile come nel caso di Ustica. Nella zona si svolgevano in quei giorni esercitazioni di tiro da parte dell'Esercito francese, che coprirà la documentazione relativa con il segreto militare. Ancora oggi proseguono gli appelli per la verità presso il ministero della Difesa a Parigi.
12 settembre. Il Consiglio dei Ministri approva la cosiddetta "piccola riforma universitaria", da sottoporre al Parlamento. I punti principali riguardano l'introduzione della rappresentanza studentesca all'interno degli organi accademici, in particolare modo all'interno del Consiglio di Facoltà. Tra i punti anche la nuova calendarizzazione degli esami, con un maggior numero di sessioni per anno accademico, accanto alla possibilità di rifiutare il voto. Si elabora anche una proposta di incompatibilità tra insegnamento e cariche istituzionali a livello nazionale, regionale e negli enti e aziende di Stato. I Comunisti criticano violentemente la proposta del Governo Leone incitando apertamente gli studenti a riprendere le lotte "contro l'autoritarismo".
14 settembre. L'Anonima sarda riprende i sequestri dopo la pausa seguita all'arresto di Graziano Mesina. Viene rapito a Siniscola (Nuoro) Ferdinando Tondi, proprietario della Sardocalce. L'imprenditore modenese sarà rilasciato 13 giorni dopo il pagamento di 28 milioni di lire di riscatto. La contestazione riprende anche per i "Cattolici del dissenso". Una trentina di attivisti occupano con tanto di striscioni il Duomo di Parma. L'occasione era giunta dopo il trasferimento dalla città all'Appennino di un prete progressista, Don Pino Setti, che si era posto in aperta polemica con le posizioni conservatrici della Curia modenese. Prima di essere sgomberati attorno alle 19,30 il gruppo dei cattolici distribuiva volantini programmatici in un linguaggio molto simile a quello dei ciclostili del Movimento studentesco: uno dei volantini declamava la "volontà di creare una certa discriminante storica a favore di poveri contro il disordine costituito". Una indagine statistica del Comune di Milano indica che il flusso di immigrazione ha decisamente rallentato dalla recessione del 1964. I milanesi purosangue sono meno di 300.000 su un totale di circa 1,5 milioni di residenti.
23 Settembre. A San Giovanni Rotondo si spegne Padre Pio da Pietrelcina. Il Santo era malato da tempo ed aveva 81 anni. Cinquant'anni prima della morte, nel settembre 1918, la comparsa delle stigmate. Migliaia di fedeli si riuniscono in preghiera sul sagrato antistante il tempio della cittadina pugliese. Sarà canonizzato nel 2002 da Papa Giovanni Paolo II. In Messico, paese pronto ad ospitare le Olimpiadi dell'ottobre 1968, scoppiano gravissimi tumulti tra studenti e esercito del Presidente Gustavo Dìaz Ordaz. Numerosi i morti e i feriti che anticipano il massacro del mese successivo.
27 settembre. Un sondaggio dipinge la spesa degli italiani per i divertimenti: 10 lire ogni 100 sono destinate a ristoranti, cinema, teatri, concerti.
Ottobre 1968
2 ottobre. Strage a Città del Messico: nella battaglia tra studenti e polizia. I morti sono 20, centinaia i feriti. Tra questi la giornalista italiana Oriana Fallaci, inviata de "L'Europeo", raggiunta da tre colpi di arma da fuoco.
7 ottobre. I dipendenti statali nell'ottobre 1968 sono complessivamente 1 milione e 380 mila. Gli ultimi assunti (oltre 23 mila) sono insegnanti. Il centro-sinistra si spacca sulla concessione dell'amnistia agli studenti coinvolti in reati legati alla "contestazione". La Dc è contraria, mentre i Socialisti alleati con le altre forze di sinistra si pronunciano a favore.
8 ottobre. A Zurigo 10 morti nel rogo di un albergo. Il Metzger Brau è uno degli hotel storici della città svizzera. Ad appiccare il fuoco è un giovane dipendente in seguito ad una lite con un collega. Tra le vittime anche un italiano.
11 ottobre. Viene lanciato l'Apollo 7, con a bordo i tre astronauti americani Walter Schirra (di origini italiane) Donn Eisele e Walter Cunningham. La missione fu importante per testare il comportamento del modulo lunare e le manovre di rendez-vous con il vettore per la fase di rientro in vista dello sbarco sulla Luna del luglio del 1969.
13 ottobre. Il terrorista altoatesino Georg Klotz è condannato a Vienna. Dovrà scontare 15 mesi di carcere per "violazione della legge austriaca sugli esplosivi". Fu uno dei principali organizzatori della "notte dei fuochi" del 1961.
16 ottobre. Alle olimpiadi di Città del Messico l'atleta italiano Giuseppe Gentile stabilisce il nuovo record mondiale nel salto triplo, con 17,10 metri il giorno successivo, 17 ottobre, durante la premiazione dei 200 metri gli atleti afro-americani Tommie Smith e John Carlos alzano il pugno nel nome dei diritti dei neri d'America con il tipico gesto delle "Black Panthers". Il gesto fu condannato dal CIO e i due atleti furono espulsi dai giochi del 1968. Tornati in patria dovettero rinunciare alla carriera sportiva e subirono ritorsioni e minacce.
18 ottobre. John Lennon è arrestato a Londra per possesso di hashish.
20 ottobre. Jacqueline Kennedy sposa l'armatore greco Aristotele Onassis sull'isola ionica di Skorpios, di sua proprietà.
23 ottobre. Il prete del dissenso don Enzo Mazzi, parroco del quartiere Isolotto di Firenze si rifiuta di farsi giudicare dall'autorità ecclesiastica per le attività svolte a favore degli studenti in lotta e per la decisa polemica con la politica democristiana. A Roma si apre il 38° Congresso socialista. Sarà l'ultimo del PSU. Il Partito, tornato di nuovo PSI dopo l'uscita dei Socialdemocratici, rieleggerà Pietro Nenni alla guida del partito dopo un sofferto accordo con le correnti al tramonto dell'esperienza dei governi di centro-sinistra.
30 ottobre. Daniel Cohn-Bendit, il leader franco-tedesco del maggio francese è nuovamente arrestato a Francoforte. Questa volta l'accusa riguarda una serie di atti violenti contro un supermercato e durante la manifestazione di contestazione contro il presidente senegalese Senghor insignito in Germania del Premi per la Pace.
Novembre 1968.
1 novembre. Nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni americane, in Vietnam si intravede una tregua per effetto dei negoziati di Parigi in cui il Presidente Usa Johnson aveva annunciato la cessazione totale dei bombardamenti sul Nord Vietnam. Per la prima volta sono invitati al tavolo delle trattative anche i rappresentanti del governo di Saigon, che per il momento declinano. Grave nubifragio nel savonese: la zona più colpita tra Varazze ed Albisola, dove si registrano due morti. Sono due panettieri padre e figlio folgorati da un cavo elettrico al quale avevano tentato disperatamente di aggrapparsi per sfuggire alla furia delle acque. Sale la tensione all'Isolotto (Firenze), dove i cattolici del dissenso proteggono la linea di Don Enzo Mazzi richiamato più volte dall'Arcivescovo Florit per avere difeso l'occupazione del Duomo di Parma. I fedeli difendono l'opera sociale del parroco ribelle.
2 novembre. All'indomani delle dichiarazioni di apertura ai negoziati di Parigi, arriva la doccia fredda del presidente sudvietnamita Van Thieu, che dichiara di non volere trattare con i Vietcong. Poco dopo l'intervento, a Saigon esplode un ordigno in una chiesa cattolica. 19 morti. La pace sembra essere ancora lontana.
3 novembre. Disastroso alluvione nel Piemonte: il primo giorno si contano già 80 morti, concentrati soprattutto in Val Sessera nel biellese. A causa delle frane e degli straripamenti a Valle Mosso muoiono ben 20 persone. Il Lago Maggiore straripa in più punti. Gravissimi anche i danni nell'astigiano e nel cuneese. Diverse località isolate in provincia di Alessandria. Ingentissimi i danni sia al settore agricolo che a quello industriale. Particolarmente colpiti gli stabilimenti tessili. Distrutti gli storici lanifici Albino Botto e quello di Modesto Bertotto. Il lanificio Cerruti è completamente allagato. Danni anche alle industrie del lusso Zegna, Loro Piana, Barbero. Il giorno successivo, all'arrivo del Presidente del Consiglio Leone, i morti sono già saliti a circa 100. Gli effetti dell'alluvione raggiungono anche Milano, dove esondano Olona, Seveso e torrente Lura. Le fabbriche e i laboratori danneggiati dalla furia del fango e delle frane saranno quasi 400: la secolare storia industriale del biellese è pressoché cancellata. A Piedimulera, nell'Ossolano, viene trovata sepolta un'intera famiglia di 7 persone che risultava dispersa da giorni.
5 novembre. Il repubblicano Richard Nixon è il 37° Presidente degli Stati Uniti. Ha battuto il rivale democratico Hubert Humphrey, già vice-presidente di Johnson. E' una vittoria al photo-finish, con i voti determinanti dello stato dell'Illinois. L'ex vice di Eisenhower, anticomunista della prima ora, aveva già corso per la casa bianca nel 1960, perdendo contro John Fitzgerald Kennedy. Nel 1968 giocò a favore di Nixon l'assassinio del candidato democratico Robert Kennedy, sostituito dalla debole figura di Humphrey. La presidenza Nixon fu dominata per i primi anni dalla guerra in Vietnam e dagli sviluppi della Guerra Fredda. Fu la rottura tra la Cina e L'Urss del 1969 ad offrire l'opportunità al neo-presidente di spostare l'asse degli equilibri mondiali verso l'occidente attraverso l'avvicinamento diplomatico con Pechino, culminato con il viaggio di Nixon del 1972.
8 novembre. Gesto clamoroso di due giovani fiorentini sul volo Olympic New York-Parigi-Atene. Al decollo da Orly i due italiani impugnano le armi e costringono l'equipaggio a tornare allo scalo parigino: protestano contro la dittatura dei Colonnelli, ed il loro gesto è volto al boicottaggio del turismo ellenico. I due dirottatori, che si firmavano "Commando Internazionale per la Democrazia in Grecia", vengono arrestati dalla Polizia aeroportuale francese. I due commandos di Firenze erano Maurizio Panichi (24 anni, impiegato) e Umberto Giovine (27 anni, insegnante).
9 novembre. Agitazioni e scontri a Bologna, Alessandria, Venezia, Prato A protestare e a scendere in piazza sono questa volta gli studenti delle medie superiori. Richiedono il diritto di assemblea e la facoltà di assistere agli scrutini. A Roma fallisce l'assemblea degli studenti de "La Sapienza"indetta dal Movimento Studentesco. All'assemblea per protestare contro la riforma Lombardi dell'Università presenziano meno di 200 studenti. Il corteo che segue cerca di interrompere, senza riuscirvi, l'assemblea dei Presidi di Facoltà che stavano discutendo sui contenuti della riforma.
14 novembre. In Italia è sciopero generale. Si fermano industrie, banche e mondo dello spettacolo. Il motivo della protesta è la riforma delle pensioni. Sono escluse le zone alluvionate del Piemonte. Allo sciopero, a cui partecipano 13 milioni di lavoratori, si uniscono gli studenti che a Roma, Milano e Torino danno vita a tafferugli con le Forze dell'Ordine. Si apre la crisi dell'esecutivo di Giovanni Leone, pesantemente indebolito dagli sviluppi dello scandalo Sifar e dall'opposizione del Paese alla riforma delle pensioni. La fine dell'esecutivo è anche determinata dalle opposizioni interne alla Democrazia Cristiana e con il Psdi di Tanassi. A Firenze gli studenti universitari e medi reagiscono agli sgomberi degli istituti occupati nei giorni precedenti per opera della Magistratura. In corteo si recano presso le carceri delle Murate per chiedere la liberazione dello studente Attilio Faillace, arrestato nei giorni precedenti. Negli scontri seguiti e terminati nel centro cittadino si contano 9 feriti tra i Carabinieri, 4 tra la Polizia tra cui il Vice-questore. I fermati al termine della giornata sono 43. Cortei anche a Torino, Genova e Napoli. Nella città ligure si consumano scontri tra gli studenti del movimento e i missini del FUAN. La neve cade copiosa sul Nord Italia. Era dal 1920 che il fenomeno non accadeva così in anticipo. A Milano viene chiuso l'aeroporto di Linate.
17 novembre. Il tribunale speciale di Atene emette la sentenza di morte per Alexandros Panagulis per il fallito attentato del 13 agosto precedente contro il Primo Ministro della giunta militare, Georgios Papadopoulos. Per l'indignazione e le proteste dell'opinione pubblica mondiale la caldana sarà commutata in ergastolo. Sarà liberato nell'estate del 1973 dopo l'amnistia concessa dal regime morente. Perderà la vita in un controverso incidente stradale nel 1976.
18 novembre. Alle dimissioni di Leone la Democrazia Cristiana riunita decide per il proseguimento del centro-sinistra. Nascerà a breve il primo governo guidato da Mariano Rumor con il PSU (PSi e Psdi) e i Repubblicani.
20 novembre. Tragedia nella miniera di Farmington in West Virginia. Alle 5:30 del mattino una terribile esplosione sotterranea viene udita a oltre 20 km di distanza. Si sviluppò una fiammata che salì per 45 metri oltre la superficie. 78 minatori persero la vita nel rogo, e furono recuperati solamente un anno più tardi dopo essere stati sigillati da una colata di cemento per prevenire nuove esplosioni. La tragedia porterà a nuove leggi sulla sicurezza nel settore minerario votate nel 1969 dal Congresso. Di fronte al Congresso della Dc Aldo Moro esce a sorpresa dalla maggioranza dorotea. Inizia l'attività indipendente all'interno del partito, che lo porterà all'elaborazione dell'intesa con il Pci (il "compromesso storico") nel decennio successivo.
24 novembre. Viene sospesa l'esecuzione di Panagulis, che viene trasferito nel carcere di Boiati, dal quale cercherà di evadere senza successo nel giugno del 1969. Il Tribunale di Venezia ordina la distruzione della pellicola di "Teorema", il film di Pier Paolo Pasolini. Il Pubblico Ministero ha ritenuto inutili ai fini artistici le sequenze oscene ed ha condannato il regista alla pena di sei mesi di reclusione. Escalation dei dirottamenti aerei su Cuba: nella sola giornata del 24 novembre due jet di linea sono sequestrati e costretti ad atterrare sull'isola. Il primo è un Boeing 727 della Eastern Airlines con a bordo 80 passeggeri in volo da Chicago a Miami. Il secondo un Boeing 707 della Pan Am in volo da New York a Porto Rico dirottato con i 96 passeggeri. Dall'inizio dell'anno 1968 sono ben 15 gli aerei di linea americani costretti ad atterrare a l'Avana. Si apre a L'Aquila il processo per la strage del Vajont, in cui persero la vita 2.000 persone. Centinaia di superstiti si costituiscono parte civile. Gli imputati sono Pietro Frosini, Curzio Badini, Roberto Marin, Francesco Sensidoni, Augusto Ghetti, Dino Tonini, Alberico Viadene, Almo Violin. L'udienza si apre all'indomani del suicidio di uno degli imputati minori, l'ingegner Mario Pancini.
Dicembre 1968
1 dicembre. La Commissione Europea dei diritti dell'uomo mette sotto accusa il regime greco dei colonnelli. A Strasburgo viene accolta una delegazione di 49 dissidenti e 4 ex prigionieri politici controllati dal regime di Papadopoulos che avrebbero dovuto negare le torture in carcere, in contrasto con quanto dichiarato alla Commissione dagli esponenti del Movimento Panellenico di Liberazione (PAK) di Andrea Papandreou nei giorni precedenti. Due delegati riescono a eludere la sorveglianza della polizia greca fuggendo dall'albergo nel centro della città rifugiandosi in alberghi sorvegliati dalla polizia francese. Dalla relazione dei greci emerse la verità sulle torture (digiuno, percosse, applicazione di elettrodi). Un’altra importante testimonianza fu fornita dall'attrice greca Kitty Arseni, vicina a Papandreu. La donna raccontò di aver assistito alla finta fucilazione del fratello incarcerato. Nel Mato Grosso in Amazzonia, vengono trovati dai paracadutisti brasiliani i resti dei membri della spedizione di pace del prete italiano Don Giovanni Calleri. Sono stati massacrati dalla tribù indio dei Waimiri Atroari, sobillati dagli interessi dei costruttori bianchi impegnati nella realizzazione di una importante impresa stradale. I colpevoli della strage sono tuttora ignoti mentre l'ex presidente brasiliana Dilma Rousseff ha istituito nel 1988 una commissione per i delitti commessi sul territorio nazionale dal 1946 al 1988, in cui è incluso il massacro della spedizione Calleri.
2 dicembre. Scontri di Avola: nella cittadina del siracusano si era prolungato per giorni lo sciopero dei braccianti per un lieve aumento salariale e per l'equiparazione delle paghe nelle diverse aree agricole. Organizzato dalle tre sigle sindacali, lo sciopero coinvolge oltre 30 mila lavoratori. Il rifiuto dei proprietari terrieri ad ogni tipo di concessione e dialogo fa degenerare la situazione, con i partecipanti che bloccano le strade ed erigono barricate. Al km. 20 della statale 115 arrivano nove camionette della Polizia. Gli agenti armati ed in assetto antisommossa. Parte la prima sassaiola e gli agenti vengono investiti dal gas lacrimogeno da essi stessi lanciato. Nella confusione i poliziotti si sentono accerchiati e sparano. Restano sul terreno due braccianti. Moltissimi i feriti.
3 dicembre. Il neo eletto Presidente Nixon dichiara di voler rivitalizzare e implementare il rapporto con l'Europa per mezzo dello strumento della NATO, anche in chiave di dialogo con l'Urss. Henry Kissinger è nominato consigliere da Nixon ed è in prima linea durante la visita a Bonn nell'opera diplomatica di rafforzamento dell'Alleanza Atlantica.
7 dicembre. All'Isolotto, la "parrocchia ribelle" di Don Enzo Mazzi alle porte di Firenze, si riunisce l'assemblea dei parrocchiani che si ribellano alle minacce del Cardinale Florit, del quale chiedono le dimissioni. Altre parrocchie esprimono solidarietà alla "Chiesa dei poveri" di Don Mazzi. A Milano gli studenti contestano la prima della Scala. Alle 20,20 circa un corteo di 300 dimostranti si raduna tra la piazza del teatro e via Santa Margherita, presidiata dalle Forze dell'Ordine. Poco dopo parte il lancio di uova all'indirizzo dei partecipanti e delle signore in visone. Tra gli slogan "Ho-Chi Minh", "ricchi, godete: sarà l'ultima volta" e "falce e martello, borghesi al macello" parte anche qualche sasso che ferisce lievemente un agente. Mario Capanna imbraccia un megafono e si rivolge agli agenti chiedendogli di "ribellarsi ai superiori". Nell'attesa della fine del Don Carlo di Giuseppe Verdi diretto da Claudio Abbado, gli studenti si producono in azioni di vandalismo (rottura del grande salvadanaio per le offerte alla Croce Rossa). Dopo un sit-in improvvisato in Galleria Vittorio Emanuele, alcuni gruppuscoli sparsi seguono i loro bersagli che si dirigono verso i ristoranti con un lancio di monetine. Poi si disperdono.
8 dicembre. Proseguono serrate le trattative per la formazione del nuovo Governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor sia all'interno dei partiti tra le correnti che tra i due componenti principali del centro-sinistra, la Dc e il Psi. Houston ha un problema: durante la fase di sperimentazione del MLT (Moon Landing Trainer) destinato al futuro allunaggio si verifica un incidente. Il piccolo modulo esplode in volo. Fortunatamente il collaudatore della Nasa Joseph Algranti riuscirà a salvarsi con il paracadute. L'Apollo 8 sarà lanciato 15 giorni dopo senza l'MLT a bordo. Orbiterà attorno alla Luna per 20 ore.
9 dicembre. Grave conflitto a fuoco in Sardegna: durante la caccia al bandito Giuseppe Campana, su cui pende una taglia di 10 milioni, i Carabinieri intervengono in forze ad Orune (Nuoro) dove vengono attaccati da un complice di Campana, il pastore diciannovenne Sebastiano Pala. Armato di un vecchio fucile 91 a cui era stata mozzata la canna, nel tentativo di fuggire esplode 4 colpi in direzione dei militari che riescono a fermarlo poco dopo con l'intervento di un elicottero. Il Corriere della Sera pubblica un'analisi della lotta studentesca e del pensiero politico e sociale dei giovanissimi. Emerge l'orizzonte che preluderà all'inasprimento della lotta nel decennio successivo, con il progressivo allargamento della protesta dal mondo dell'istruzione a quello dei lavoratori. Un cambio di prospettiva dall'utopia della rivolta studentesca del 1968 alla conflittualità dei lavoratori che caratterizzerà lo scontro nelle piazze degli anni '70.
12 dicembre. Dopo giorni di aspre trattative tra i partiti nasce il Governo Rumor: lo compongono 17 democristiani, nove socialisti e un repubblicano. Nenni è Ministro degli Esteri, De Martino vicepresidente. Alla Pubblica Istruzione Sullo e per la prima volta è incluso il socialista Tanassi, neo ministro dell'Industria. Il Pci del dopo-Praga risulta diviso in due: da una parte la "destra" con una tensione ad una futura partecipazione al governo del Paese sempre più inconciliabile con il lealismo verso Mosca e una "sinistra" che contesta sia la via italiana che quella sovietica.
14 dicembre. Il pugile italiano Nino Benvenuti batte ai punti l'americano Don Fullmer, ex campione dei pesi medi tra il 1959 e il 1962. Il match è durissimo e Benvenuti va al tappeto alla settima ripresa per un destro micidiale dell'americano. Tuttavia il campione di origine istriana si riprende e tiene con il fiato sospeso il pubblico dell'Ariston di Sanremo, mantenendo alla fine dell'incontro il titolo di campione dei medi conquistato nel marzo del 1968 con la vittoria ai punti.
20 dicembre. A New York muore John Steinbeck, lo scrittore statunitense autore di capolavori come "Furore" e "La Valle dell'Eden". Premio Pulitzer nel 1940 e Nobel nel 1962, fu il padre letterario della "beat generation".
21 dicembre. Dalla base Nasa di Cape Kennedy viene lanciato il razzo Saturno V, al quale è agganciato il modulo Apollo 8. I tre astronauti americani Borman, Lovell e Anders orbiteranno per 20 ore attorno alla Luna, fotografando da vicino il futuro sito dell'allunaggio del 1969. Videro per primi il lato oscuro del satellite terrestre.
22 dicembre. A Milano gli studenti contestano il Natale del consumismo davanti alle vetrine de "La Rinascente" in Duomo. L'intervento dei neofascisti della "Giovine Italia" fa degenerare la protesta in tafferugli. Inseguiti fino alla sede di Corso Monforte i giovani missini vengono assediati dagli avversari filocinesi. Sfondato il portone, i contestatori di sinistra sono fatti bersaglio di lancio di oggetti. Parte una bottiglia molotov. Il bilancio finale è di diversi feriti e venti fermati.
23 dicembre. Il film più atteso di Natale in tutte le sale cinematografiche d'Italia è "2001 Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick. Il film era costato 6 miliardi delle lire dell'epoca e ben quattro anni di lavorazione. Nei cinema del paese si proietta anche "Dove osano le aquile" con Richard Burton e Clint Eastwood. Il cinema italiano è rappresentato da "Amanti" di Vittorio de Sica con Faye Dunaway e Marcello Mastroianni.
27 dicembre. La missione "Apollo 8" è perfettamente riuscita. Alle 16:51 ora italiana il modulo di comando rientra ammarando nel Pacifico. I tre astronauti sono in buone condizioni psicofisiche e portano con sé centinaia di preziosissime immagini della superficie lunare.
29 dicembre. Il 1968 si chiude con l'Italia nella morsa del gelo: nelle Dolomiti le volpi scendono a valle affamate, la neve cade copiosa a Sanremo. Una violenta mareggiata si abbatte sul messinese. Il Corriere della Sera pubblica la classifica degli sportivi più pagati al mondo, secondo le diverse specialità: i più pagati sono i piloti di Formula 1 tra i quali il più ricco è Graham Hill con 200 milioni di lire annui. Segue il pugilato, con i 135 milioni di Nino Benvenuti. Il ciclista Eddie Merckx ha guadagnato 100 milioni, mentre i calciatori si pongono soltanto all'ottavo posto con Omar Sivori in virtù dell'ingaggio con il Napoli da 60 milioni. Fa eccezione Pelè che ne guadagna circa 200. Chiude al 10° posto il campione delle due ruote Giacomo Agostini con 20 milioni l'anno.
16 giugno 1968. La poesia dell'autore da "Le ceneri di Gramsci.
Il Pci ai giovani. Di Pier Paolo Pasolini.
I versi sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti.
Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli;
la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati);
i bassi sulle cloache;
o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde vi leccano il culo.
Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi!
Se mai, si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese.
Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il movimento studentesco (?) non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, il teppismo conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere.
Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti! Reificatori!
Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai.
E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi un giovane operaio di occupare una fabbrica senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli, ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi a dei giovani operai perché possano occupare, insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti.
Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, a bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud): quindi, i Maestri - che sapranno sempre di essere Maestri - non saranno mai Maestri: né Gui né voi riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti) non vi dicono la banale verità: che siete una nuova specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, cari! Ecco, gli Americani, vostri odorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno: potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale, “più a sinistra”.
Strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante ereticale ma sulla base del più basso idioma referenziale dei sociologi senza ideologia.
Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme l’applicazione di nuovi metodi pedagogici e il rinnovamento di un organismo statale.
I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica borghese (con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito che fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci del Comitato Centrale: Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un Partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per la presenza di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri schifosi papà) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto, ciò che un borghese ha in sé, dubito molto, anche col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente...
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità...
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?
Paolo Pietrangeli ricorda la battaglia di 50 anni fa: «Valle Giulia, i sogni, le mattonate». Cantautore-regista, il 1° marzo del ‘68 era lì a fare a botte. I suoi ricordi, il suo bilancio amaro. Giuliano Ferrara era nel Pci e nel Movimento. Scalzone in Svezia per rimorchiare, scrive Fabrizio Paladini l'1 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".
«Il primo marzo/ sì me lo rammento/ saremo stati/ mille e cinquecento».
Chi se lo rammenta è Paolo Pietrangeli, 73 anni, storico regista televisivo del Maurizio Costanzo Show, di Amici, di C’è posta per te. Oggi è anche candidato alle elezioni con Potere al popolo. Suo papà Antonio fu acclamato sceneggiatore e regista di film come Lo scapolo, Io la conoscevo bene. Ma soprattutto Paolo Pietrangeli è conosciuto per le sue canzoni di lotta e di protesta. Contessa, Il vestito di Rossini, Valle Giulia sono pezzi che tra il 1968 e il 1977 hanno cantato tutti quelli che volevano cambiare il mondo. Valle Giulia prende spunto proprio dalla battaglia tra studenti e polizia che esattamente 50 anni fa si scatenò a Villa Borghese, sotto la facoltà di Architettura. «Noi studenti dei licei ci radunammo a piazza di Spagna. L’idea era quella di raggiungere gli universitari per poi occupare Architettura. Feci tutto quel pezzo del corteo con Luciana, che allora era la moglie di Bruno Trentin. Arrivati a Valle Giulia lei sentenziò: Ma cosa vuoi che succeda, sarà tutto tranquillo, ci sono i socialisti al governo. Appena pronunciata quella frase, iniziarono i disordini. C’erano poliziotti e carabinieri dappertutto. Ma all’inizio le cariche erano abbastanza blande».
E poi?
«È accaduto che per la prima volta gli studenti, i figli di papà, non hanno avuto paura e non sono fuggiti. Anzi, hanno reagito».
Eravate armati?
«Sassi presi nelle aiuole e rami spezzati per fare bastoni. Questa fu una cosa nuova che alla Polizia non piacque per nulla. Ci diedero insomma un sacco di botte e moltissimi dei fermati vennero portati nella caserma di via Guido Reni e in Questura dove arrivò la seconda razione».
Lei venne picchiato?
«Io no ma, adesso lo posso confessare tanto dopo 50 anni sarà prescritto: tirai un mattone dall’alto e colpii in testa un agente, uno dei pochi che non aveva l’elmetto. Si sparse la voce che alcuni poliziotti erano gravemente feriti e io mi sentivo un po’ in colpa, mi chiedevo: vuoi vedere che ho fatto male a qualcuno? Pensa un po’ che rivoluzionario irriducibile ero».
E dopo la mattonata che ha fatto?
«Ero lì con la mia fidanzata Grazia, che poi sarebbe diventata la mia prima moglie e madre di mio figlio, che si slogò la caviglia alla prima carica. Non poteva camminare e quindi la misi sulle spalle come un sacco di patate e giù a scappare verso Villa Borghese. Arrivai a casa mezzo morto. Aprii l’acqua bollente e mi feci un bagno caldo».
Al calduccio come i figli di papà che Pier Paolo Pasolini attaccò difendendo i poliziotti figli del popolo?
«Quella poesia mi fece incazzare. Conoscevo Pasolini perché veniva spesso a casa nostra, al quartiere Trieste, per parlare con mio padre di progetti comuni. Ma a differenza di tanti attori e registi che mi salutavano per educazione, affetto o convenienza, lui niente, non diceva nemmeno Ciao. Io aprivo la porta e lui: Dov’è tuo padre? Allora andai da mia madre e le dissi: Mamma, ma chi è quel frocio? Lei mi assestò un salutare sganassone e io imparai la lezione».
Lei già cantava?
«La prima chitarra me la regalò mio padre, alla fine degli anni Cinquanta. Fu Dario Fo che veniva sempre ospite da noi a dire a papà: Paolo ha una bella voce, compragli una chitarra. Iniziai con le filastrocche. In verità non ho mai scritto canzoni, ma solo raccontato fatti con un po’ di musica».
I leader del movimento studentesco li conosceva?
«Con Giuliano Ferrara stavamo tutti e due nel Pci e, un po’ di nascosto, nel Movimento che il partito non vedeva di buon occhio. Oreste Scalzone era da poco tornato dalla Svezia dove - secondo me - era andato per rimorchiare. Franco Piperno era più grande e faceva il capetto. Poi c’erano gli Uccelli e io li detestavo. Una volta andarono a casa dello sceneggiatore Franco Solinas e gli riempirono la casa di escrementi perché lui era ricco e comunista».
Fantasia al potere?
«Durante le occupazioni si organizzavano corsi alternativi. Io proponevo cose tipo Studiare meglio il latino o I nuovi percorsi di filologia romanza e non partecipava nessuno, mentre c’erano quelli sul sesso libero che erano sempre pieni. Del resto, questo è il mio destino: ogni volta che mi piace qualcosa state sicuri che sarà un clamoroso insuccesso».
Di questo ‘68 che è rimasto?
«Eravamo sicuri, che fosse l’alba, che poi sarebbe tutto cambiato. Invece non era l’alba ma il tramonto. Lo spiraglio che avevamo visto non si stava aprendo ma chiudendo. L’industria culturale, per prima, sigillò tutto. Il peso fu opprimente, poi arrivò la violenza degli anni 70».
Il sogno ha lasciato qualche segno?
«Qualche segno e molte sconfitte. Non si è realizzato nessun sogno né personalmente né collettivamente. Ma ha lasciato molte amicizie e un modo di sentire comune. Ma se ancora oggi, 50 anni dopo, stiamo a discutere di colore della pelle, mi viene da piangere».
1968, Valle Giulia non è che il debutto, scrive Paolo Delgado l'1 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968: “la battaglia di valle Giulia”. Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia, deve attrezzare il suo proprio calendario, celebrare ricorrenze, allestire liturgie. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni e passa mezzo secolo fa il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968, il battesimo del fuoco fu “la battaglia di valle Giulia”. La chiamarono così i giornali del Pci, L’Unità, uscito in edizione straordinaria quando per le strade di Roma ancora risuonavano le sirene della polizia e le celle di San Vitale erano ancora piene di studenti fermato negli scontro della mattinata, di fronte alla facoltà di Architettura, e Paese Sera, che usciva di norma tre volte al giorno e non ebbe quindi bisogno di forzare le rotative con un’edizione speciale. Anni dopo, ripercorrendo i fatti, Oreste Scalzone, all’epoca uno dei principali leader del movimento studentesco nella capitale, avrebbe adoperati toni dissacranti, segnalando che in fondo la battaglia era stata poca cosa, soprattutto se paragonata a quel che sarebbe poi esploso nelle strade di tutta Italia: «Un’ora scarsa di lanci di sassi e qualche carica contro la polizia. Cosa anche questa modesta ma che ebbe grande impatto». La narrazione epica in voga negli anni ‘ 70, costruita sulle note della celebre canzone dedicata alla “battaglia” da Paolo Pietrangeli era probabilmente esagerata. La minimizzazione di Scalzone lo è altrettanto. In quella assolata mattina di tardo inverno romano si produsse davvero una lacerazione, quegli scontri durati un paio d’ore nei prati intorno a Valle Giulia segnarono davvero uno scarto, un passaggio d fase, un salto di qualità. In un certo senso non è esagerato dire che il ‘ 68 cominciò quel giorno. Nell’università di Roma, la più grande d’Italia, la mobilitazione studentesca iniziata nel novembre 1967 a Torino, nella sede delle facoltà umanistiche di Palazzo Campana, e poi dilagata quasi ovunque era arrivata tardi. Mentre le cronache degli sgombri delle facoltà occupate da parte della polizia e delle nuove occupazioni diventavano quotidiane alla Sapienza e nelle facoltà aldi fuori della città universitaria, tra le quali Architettura, non si muoveva una foglia. L’onda d’urto arrivò solo il 2 febbraio ‘ 68, con l’occupazione di Lettere e poi, una via l’altra di tutte le altre facoltà. L’occupazione si prolungò per un mese esatto, poi il rettore D’Avack si decise a chiedere l’intervento della polizia, o meglio a consentirlo perché una circolare ministeriale diramata dopo le prime occupazioni aveva chiarito che a decidere sarebbe stata la forza pubblica salvo esplicito parere contrario dei rettori. Anno bisestile: l’università fu sgombrata il 29 febbraio. Una manifestazione di protesta organizzata dagli ormai ex occupanti fu caricata nel pomeriggio. Gli studenti si riunirono in serata nella sede della Federazione del Pci, in via dei Frentani, e convocarono una nuova manifestazione per la mattina seguente, con partenza da piazza di Spagna. Non era la prima volta che i manganelli della celere si abbattevano sulla testa degli studenti. Ai tempi erano corti e tozzi e gli agenti non disponevano dell’armamentario che gli sarebbe stato assegnato in dotazione l’anno seguente, insieme ai nuovi manganelli lunghi: gli scudi in plexiglas, le visiere, l’incentivo ad adoperare senza parsimonia i candelotti lacrimogeni. Pur peggio armati, si erano dati da fare più volte. A Palazzo Campana lo sgombro seguito da immediata rioccupazione e nuova irruzione degli agenti, in una catena infinita, era diventato quasi un rituale. La carica sui cortei di protesta degli sloggiati era altrettanto puntuale, prevedibile, prevista. A Valle Giulia successe però l’imprevedibile. Gli studenti reagirono, contrattaccarono, scoprirono che strade e parati erano pieni di “armi improprie” e le usarono. Aveva cominciato Massimiliano Fuksas, un passato da giovane neofascista spostatosi a sinistra alle spalle, un futuro da archistar di fronte, ancora avvolto nelle Nuvole. Ben piazzato, provò a forzare il blocco della polizia sulla porta della facoltà da solo poco prima che il corteo in arrivo da piazza di Spagna, qualche migliaio di studenti tra cui molti medi, raggiungesse la scalinata della facoltà. A riguardare oggi le istantanee di quella non oceanica manifestazione sembra di assistere a un inedito reality: il corteo dei famosi. Immortalato Giuliano Ferrara, che si prese la sua dose di botte, poi sparsi qua e là per il grande piazzale di Valle Giulia, Enrica Bonaccorti, Paolo Liguori, o come si chiamava ai tempi “Straccio”, con i capelli lunghissimi, un paolo Mieli appena meno compassato, Ernesto Galli della Loggia, sì sì proprio il futuro editorialista del Corrierone, un Antonello Venditti in anticipo sui primi accordi, Renato Nicolini, già leader di un’associazione goliardica vicina al Pci, Paolo Flores d’Arcais. Già innervositi gli agenti ordinarono la carica quasi subito, al primo lancio di sassi e uova. Per quanto negato in seguito per anni, a reggere il primo l’urto furono i fascisti. Caravella, l’associazione studentesca di estrema destra a stretta egemonia Avanguardia nazionale c’era tutta: Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Adriano Tilgher, Mario Merlino. Quanto a scontri frontali erano più addestrati dei rossi: tennero la linea. La loro presenza fu cancellata peggio che nelle fotografie sovietiche dei funerali di Lenin per decenni. Riconoscere che a valle Giulia i fascisti non solo c’erano, ma erano pure in prima fila nella battaglia sarebbe stato poco conciliabile con la liturgia del caso. Ma anche il Movimento, la sera prima, aveva deciso di non limitarsi alla fuga e alla resistenza passiva. Arretrati in un primo momento rispetto ai fascisti, si lanciarono poi in una carica contro i caricanti che lasciò davvero tutti sbigottiti. Quando mai si erano visti gli studenti, mica portuali come quelli del ‘ 60 a Genova, oppure operaiacci come quelli di piazza Statuto a Torino nel ‘ 62, caricare gli agenti, usare rami e bastoni contro i gipponi, tenere botta di fronte alle cariche? Ancora quella mattina gli striscioni del corteo in marcia verso valle Giulia esaltavano il “Potere studentesco”. Il Movimento bersagliava l’università, le baronie, l’autoritarismo accademico e poi, di conseguenza, la struttura complessiva del sistema. Da Valle Giulia in poi dall’altra parte della barricata ci fu direttamente lo Stato.
La battaglia di Valle Giulia 50 anni dopo, scrive Edoardo Frittoli il 28 febbraio 2018 su "Panorama". Tutto cominciò a causa dell'altissima tensione seguita allo sgombero della Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, a Valle Giulia. Il palazzo era rimasto occupato per quasi un mese dagli studenti in lotta e il 29 febbraio 1968 il Rettore Pietro Agostino D'Avack aveva deciso di richiedere l'intervento della forza pubblica per procedere allo sgombero. La decisione era giunta mentre le occupazioni degli Atenei italiani si erano moltiplicate, così come era cresciuta l'ostilità tra gli studenti in agitazione e quelli contrari all'occupazione. Durante quei giorni di massima tensione, il quadro della protesta universitaria aveva raggiunto l'apice di ben 25 Università occupate, da Trento a Palermo. Iniziamo dalle ore immediatamente precedenti la battaglia più famosa della storia della contestazione studentesca.
Università degli Studi di Milano, mattina del 29 febbraio 1968. Botte, sassi, vetri infranti, idranti antincendio in azione in Via Festa del Perdono di fronte ai portoni d'ingresso delle Facoltà di Lettere e Giurisprudenza. Niente polizia questa volta: lo scontro si consuma tra occupanti di Lettere e Filosofia e rappresentanti di destra giunti dalla Facoltà di Giurisprudenza contrari all'occupazione decisa il giorno prima nell'Aula Magna della Statale. Gli studenti di legge si presentano di fronte ai picchetti d'ingresso e comincia lo scontro fisico, dilagato anche nelle vie adiacenti l'Università tanto da indurre i negozianti ad abbassare le saracinesche. La guerriglia prosegue con gli occupanti che usano gli idranti antincendio per respingere i "fascisti", che inizialmente arretrano ma alla fine riescono a sfondare con blocchi di cemento un ingresso secondario. Si teme il peggio, ma in realtà il contatto non avviene e gli studenti di destra si rinchiudono in un'aula separati dai loro avversari.
Città Universitaria di Roma, 29 febbraio 1968. Molto diversa e sicuramente più drammatica la situazione a Roma: lo sgombero si era consumato come richiesto dal Rettore, ed aveva coinvolto un ingentissimo numero di agenti tra Polizia e Carabinieri in assetto da guerriglia. Guidati da ben 30 funzionari si presentarono 1.500 uomini alle porte delle Facoltà occupate, procedendo allo sgombero forzato delle Facoltà di Scienze Politiche, Lettere e Giurisprudenza, con il Vicequestore Prudenza che, a bordo di una camionetta, intimava con il megafono la resa agli occupanti. Assieme alle forze dell'ordine, quella mattina di 50 anni fa, erano presenti anche gli studenti di destra di "Primula Goliardica" e "La Caravella", armati di bastoni e catene. Verso la fine della giornata sono sgomberate anche le Facoltà di Lettere e Architettura, dove vengono posti in stato di fermo oltre 80 studenti. Con i portoni chiusi dai catenacci messi dalle forze dell'ordine, un corteo di studenti si dirige verso il centro della Capitale. Imboccata via Nazionale vengono a contatto con gli agenti che caricano e lanciano le jeep della Celere nei consueti caroselli. Uno studente rimane ferito dopo essere stato investito e alla fine della giornata si conteranno 10 persone in ospedale tra studenti, passanti e forze dell'ordine.
La battaglia di Valle Giulia: Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Roma: 1 marzo 1968. Il giorno dopo gli sgomberi voluti dal Rettore D'Avack, sulle scalinate di Architettura a Valle Giulia stazionano 150 agenti a protezione del portone d'ingresso. Come ricordato sopra, gli studenti (circa 3.000) arrivarono in corteo provenienti da Piazza di Spagna, dividendosi in due. Una parte dei manifestanti piegò verso la Città universitaria mentre il grosso del corteo si diresse dritto verso Architettura a Valle Giulia, la Facoltà più isolata. Con gli studenti di sinistra sfilarono quel giorno anche i rappresentanti dei movimenti di estrema destra Avanguardia Nazionale e La Caravella, in virtù di un accordo di non-provocazione tra le due fazioni studentesche. Tra i neofascisti decisi a combattere per cambiare l'Università "dei borghesi" nomi di primissimo piano della galassia nera come Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Mario Merlino, Giulio Caradonna. Tra i rappresentanti del movimento studentesco che diventeranno personaggi preminenti nella storia futura d'Italia Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Liguori, Aldo Brandirali, Oreste Scalzone. Davanti alle gradinate di Architettura la scintilla dello scontro alimentata dal lancio di uova, dagli slogan e dalle provocazione tra le due parti, scocca quasi subito. Partono le prime cariche della Polizia, ma gli studenti questa volta fanno sul serio. Inizia la fitta sassaiola sul piazzale antistante la Facoltà; due auto e un pullman della Celere vengono dati alle fiamme per impedire lo sfondamento da parte delle forze dell'ordine. Cadono i primi feriti e la superiorità numerica dagli studenti provoca l'arretramento dei cordoni di Polizia. Alcuni manifestanti riescono ad impadronirsi di 5 pistole sottratte ai funzionari, la situazione degenera. La Polizia carica anche con i cavalli cercando di rispondere alla forza degli studenti che dopo oltre 2 ore di violenti scontri riescono a penetrare all'interno di Architettura, proprio mentre arrivano i rinforzi di Polizia con gli idranti a schiuma e i lacrimogeni. Gli studenti di estrema destra riusciranno ad entrare nelle aule di Giurisprudenza. Sono rimasti sul campo 197 feriti, un bilancio da guerriglia urbana. Di questi ben 150 fanno parte delle forze dell'ordine, tra i quali figura anche il Vicequestore Provenza, colpito da una pietra scagliata dagli studenti.
Dalle fratture traumatiche alla frattura politica. Pasolini, Il PCI e il MSI dopo la battaglia. La Polizia riuscirà a riprendere il controllo della piazza solo con l'intervento degli idranti e con un fitto lancio di lacrimogeni, procedendo al fermo ed all'arresto dei manifestanti fino a tarda notte. La scarpata erbosa di fronte al palazzo rossiccio della Facoltà di Giurisprudenza mostrava i segni della lunga battaglia tra gli universitari e i poliziotti, che Pasolini difenderà all'indomani degli scontri identificando i figli di quei "contadini del mezzogiorno" come veri rappresentanti del proletariato, assaliti con violenza dai figli privilegiati dei borghesi. Valle Giulia rappresenterà una cesura definitiva tra gli studenti e i partiti politici di riferimento, sia a destra che a sinistra. Il Partito Comunista non intendeva assecondare lo spontaneismo e i miti stranieri (Mao e Che Guevara) fuori dai canoni interni e ai diktat della dirigenza, procedendo nei mesi seguenti a numerose espulsioni dalle proprie organizzazioni giovanili. Dall'altra parte la frattura è netta anche tra il Movimento Sociale Italiano e l'azione rivoluzionaria di giovani neofascisti dei primi movimenti extraparlamentari che caratterizzeranno il decennio successivo. Arturo Michelini, allora segretario missino, prese immediatamente le distanze di chi aveva combattuto a fianco dei "rossi", anche per il pericolo che queste azioni "di squadra" potessero influenzare negativamente il tentativo da parte della dirigenza del partito di rientrare gradualmente nell'arco costituzionale. Questa frattura sarà così profonda da spingere Michelini all'organizzazione di una "forza a difesa dell'ordine" che due settimane dopo gli scontri di Valle Giulia intervenne con la forza contro gli studenti che avevano di nuovo occupato, guidata da Giorgio Almirante.
L'impatto di Valle Giulia in Parlamento. Poco dopo la fine degli scontri parlò il Ministro dell'Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani. Rivolgendosi alla Camera dei Deputati il ministro difende a spada tratta l'operato della Polizia in difesa delle istituzioni dell'Italia democratica in senso ampio. Nel suo discorso rievoca la debolezza della forza pubblica ricordando la debolezza mostrata in occasione della Marcia su Roma e dall'opportunità lasciata al fascismo in quell'occasione. Fu interrotto dal deputato comunista Bronzuto, che apostrofò i membri del Governo come una "manica di fascisti" per la brutalità dell'intervento della forza pubblica. I missini si univano alle proteste in aula ed a riportare la calma toccherà ad uno dei protagonisti storici dell'antifascismo italiano, l'allora Vicepresidente della Camera Sandro Pertini. Chiamato in causa, il Ministro dell'Istruzione Luigi Gui metteva le mani avanti affermando che la riforma dell'Università (ancora da discutere e approvare) avrebbe certamente incluso una rappresentanza dei collettivi degli studenti. Mentre le urla e le accuse dei rappresentanti in Parlamento si spegnevano a fatica, i comitati studenteschi si davano appuntamento per una nuova manifestazione a Piazza del Popolo, che si svolgerà il giorno seguente gli scontri di Valle Giulia senza registrare particolari incidenti. Anche a Milano, al di là di qualche tafferuglio alla Statale tra studenti di destra e sinistra, sembrò tornare la calma alimentata dalla pausa del Carnevale ambrosiano. Tregua che naturalmente non durerà a lungo.
«Così noi Uccelli occupammo la cupola del Borromini e iniziò il sessantotto», scrive Simona Musco il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Paolo Ramundo era il leader degli “Uccelli”, che organizzarono il blitz a Sant’Ivo alla Sapienza. Diciannove febbraio 1968: tre studenti di architettura occupano il campanile di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma. Sono gli “Uccelli” Paolo Ramundo, Gianfranco Moltedo e Martino Branca, all’epoca 26enni, coloro che portano gli studenti fuori dalle aule, liberandoli dalle discussioni fini a se stesse e dando di fatto via al ‘ 68. «Volevamo prenderci i luoghi guardando al presente. La nostra fu una rivoluzione culturale», racconta al Dubbio Ramundo.
Come nascono gli “Uccelli”?
«C’eravamo incontrati a capodanno, a una festa sulla Flaminia. Abbiamo continuato a frequentarci, vedendoci spesso in facoltà. Allora c’erano già delle presenze assembleari e la cosa ci coinvolgeva, ma avevamo una notevole autonomia rispetto a come venivano presentati nelle assemblee il movimento e la lotta degli studenti. Sentivamo che era un tema importante, però non ci piaceva che gli studenti stessero lì seduti ad ascoltare sempre le stesse persone, che facevano le loro riflessioni e rimandavano alla prossima assemblea. Era una cosa legata a un futuro ideologico e lontano. A noi interessava che questa agitazione spingesse gli studenti a prendersi i luoghi che in quel momento avevano vissuto in modo convenzionale e a saperli usare. Per noi si doveva fare già subito. Così, quando si parlava troppo, noi protestavamo fischiando e salendo sugli alberi. Così ci hanno dato questo soprannome. Ci chiamavano hippie: avevamo i capelli lunghissimi, mentre gli altri erano tutti più convenzionali, legati al ceto medio-alto».
Come nasce l’occupazione del campanile?
«Avevo seguito molto Paolo Portoghesi, grande studioso del Barocco, di Borromini e dell’architettura innovativa del 600. Conoscevamo quindi bene Sant’Ivo, prima sede universitaria della città. Quando ci fu un dissenso con alcuni leader del movimento, che ci fecero cacciare dalla facoltà, pensammo: siamo cacciati fuori, facciamo uscire anche gli altri studenti. Così andammo da Portoghesi, che in quel periodo faceva dei sopralluoghi con gli studenti a Sant’Ivo e accettò di portarci a visitare il luogo».
Senza sapere quale fosse la vostra intenzione.
«Esatto. Volevamo essere rilevanti, non semplicemente vederlo. Volevamo suscitasse attenzione da parte degli studenti e dei cittadini. Portoghesi ci fece salire fino alla guglia: il posto era straordinario. Appena arrivati disse: “allora, scendiamo?”. Ma noi dicemmo no, vogliamo che questo luogo, che era stato archiviato, venga completamente valorizzato, conosciuto e vissuto. Lui rimase sbalordito».
Come passaste quella notte?
«Faceva freddissimo. Rimanemmo fino al pomeriggio del 20. Gli studenti di tutte le facoltà vennero lì, in piazza Sant’Eustachio e corso Rinascimento, e si misero a cantare e ballare con le fiaccole. Era un momento di grande soddisfazione: per la prima volta giovani studenti fecero un’iniziativa nella città».
Quindi si può dire che avete dato inizio al ‘ 68?
«Sì. Iniziò così, con questa tensione verso l’importanza di essere presenti all’interno della società e conoscere le nostre aspettative, le condizioni che criticavamo e volevamo cambiare. Che poi sono tutte cambiate, perché il ‘ 68 ha generato un grande movimento di cambiamento. Noi dicevamo: non dobbiamo parlare di un futuro lontano, dobbiamo parlare subito di tutte le situazioni di cui ci vogliamo occupare, per far sì che ci sia subito un processo di cambiamento democratico dal basso».
Quali erano le questioni che vi stavano più a cuore?
«I processi relativi all’urbanistica, l’architettura, l’arte: dovevano essere super partecipati e democraticamente collegati alla società in cui ci trovavamo. Bisogna- va smettere di pensare alla divisione del lavoro e alle tendenze autoritarie. Tutto doveva diventare fortemente democratico. C’erano tanti temi sulle procedure con cui fare delle scelte, l’importanza della relazione tra le persone. L’architetto, ad esempio, non poteva stare da solo in dipendenza di un costruttore, ma doveva essere prima di tutto in relazione con le finalità di quello che veniva programmato. Se si doveva fare una scuola si doveva coinvolgere direttamente i cittadini su come farla, dove collocarla. Prima tutto veniva imposto dall’alto, quindi i processi democratici erano assolutamente da sviluppare. Le donne, ad esempio, che in università avevano un ruolo subalterno ai maschi, dovevano rivendicare la loro autonomia, tant’è vero che da quelle tensioni nacque il movimento femminista per affrontare i diritti che erano scritti sulle nostre normative costituzionali, ma non erano messi in pratica».
Qualche giorno dopo ci fu Valle Giulia. Quale fu il vostro contributo?
«Sicuramente abbiamo generato quella iniziativa. Siccome la facoltà di architettura era stata chiusa dal governo autoritario accademico, con la polizia a controllare l’accesso, gli studenti ti avevano organizzato un corteo da piazza di Spagna fino a via Gramsci, dove c’era la sede della facoltà. Non avevano programmato di fare guerriglia, si erano semplicemente dati appuntamento per marciare e reclamarne l’apertura. Ma all’interno del movimento c’erano dei provocatori. Qualcuno andò a bruciare una macchina della polizia e si creò uno stato di tensione che portò a corse lungo le discese di villa Valle Giulia, inseguimenti, spinte, botte, calci. Ma fu una cosa generata dall’autoritarismo del rettore».
E gli “Uccelli” cosa fecero?
«Stavamo in facoltà, avevamo delle pecore con noi, comprate con il contributo di alcuni intellettuali con lo scopo di sottolineare l’importanza del verde, degli spazi non costruiti, la cosiddetta agropoli. Quando cominciarono queste corse ci allontanammo e i carabinieri ci fecero passare. Il giorno dopo sacrificammo una pecora sull’altare della pace, un gesto simbolico per purificare da quella violenza, che era nata dall’autoritarismo. La strada, però, non era quella della violenza, ma era legata alla partecipazione, al coinvolgimento, alla relazione con le forze politiche, per fare sì che ci fossero dei cambiamenti, non per limitarci a fare qualche scazzottata».
Cosa accadde dopo?
«Abbiamo continuato ad essere presenti: facemmo un disegno sulla facoltà con Guttuso perché volevamo appropriarci dei luoghi in cui studiavamo. Non potevamo essere marginali e passivi, dovevamo metterci in relazione col mondo culturale e interessarlo al movimento dei giovani. Era la prima volta che a fare qualcosa non erano le categorie sociali ma i giovani. E questa è stata la nostra grande conquista».
Mughini: «A Parigi nel ‘68 tiravo pavé sulla polizia, poi mi innamorai di Craxi». Il 76enne ex direttore di Lotta Continua, poi personaggio televisivo: «Gli intellettuali e la politica? Pagliacci, compreso Pasolini. Anch’io ho vissuto la depressione». Intervista di Aldo Cazzullo del 24 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".
Mughini, cosa ci faceva a Parigi nel Maggio ‘68?
«Avevo vinto una borsa di studio per specializzarmi in francese, lingua da me venerata. Facevo il lettore di italiano al liceo Hoche di Versailles: per me che venivo dalla provincia, era come passare dal Viterbo al Real Madrid».
Era nell’aria la grande rivolta?
«Non sarebbe venuto in mente a nessuno che stava per scatenarsi un tale pandemonio. “La Francia si annoia” titolò un giornale. Altrove il casino era già cominciato; anche se le cose italiane facevano ridere al confronto».
Perché?
«Ricordo una foto della mitica battaglia di Valle Giulia: un poliziotto panciuto non riusciva ad afferrare un giovane Giuliano Ferrara, che pesava già almeno 120 chili. Noi a Parigi avevamo di fronte i reduci della guerra d’Algeria».
Truppe addestrate alla guerra coloniale.
«Addestrate talmente bene che non hanno ammazzato nessuno».
Lei partecipò alla prima notte di battaglia.
«E ho tirato i pavé contro i poliziotti; ma non dall’alto delle case, come altri».
Nel libro «Era di maggio. Cronache di uno psicodramma» racconta di essersi nascosto al sesto piano, mentre dal quinto salivano i colpi dei flic e le urla degli studenti.
«I poliziotti avevano avuto 271 feriti gravi in una sola notte. Avevano visto i compagni con il cranio sfondato: cento di loro non tornarono mai in servizio, uno morì. È un miracolo che si siano limitati alle manganellate».
Fu una guerra?
«No; uno psicodramma. Fosse stata una vera guerra, loro avrebbero spazzato via tutte le barricate del Quartiere Latino in dieci minuti. Ma noi non eravamo insorti algerini; eravamo la più fortunata generazione del dopoguerra, quella che stava godendo della ripresa economica. Per una volta non eravamo al cinema o a teatro; il film, la rappresentazione teatrale eravamo noi. Uomini e donne pari erano».
Lei racconta la vera storia della Marianne fotografata con la bandiera nordvietnamita.
«Era una modella di famiglia aristocratica. Stanca di marciare, salì sulle spalle di un compagno. Quando vide un reporter, fece il suo mestiere: si mise in posa. Il nonno la riconobbe e la diseredò».
Anche sua nonna materna era un’aristocratica.
«Sì, ma decaduta. Conosco la situazione degli ultimi, perché da lì vengo. I miei genitori erano separati. L’unico lusso del nonno era un fiasco di vino la domenica. A casa non c’era nulla, né libri né quadri; avevamo una radio, si guastò, non avevamo i soldi per farla aggiustare. Andavo dagli amici a vedere in tv i Mondiali del 1958 e Mike Bongiorno. Non avevamo di che comprare un frigorifero, uno zio ci portava il ghiaccio. Avevo un unico paio di scarpe, per giocare a pallone e per passeggiare. Non sapevo cosa fossero le vacanze».
Quando comincia la politica?
«Ricordo il luglio 1960: uccisero un operaio edile vicino a casa, Salvatore Novembre. Tenni un comizio per il 25 aprile, in cui devo aver detto delle fesserie da vergognarmi. Ebbi un applauso come mai in vita mia».
Suo padre era fascista.
«Sì, a Catania era il numero 2 dopo il podestà. Ma non aveva nulla della retorica del regime, non diceva una parola più del necessario. Teneva una bellissima foto di Mussolini giovane dietro la scrivania. Combatté in Albania, poi raggiunse la famiglia a Firenze. Quando i partigiani entrarono in città si nascose. Tornammo a Catania, il viaggio in autobus durò un mese».
E la politica di oggi?
«Non mi appassiona».
I 5 Stelle?
«Li considero il nulla, sotto forma di declamazione populistica. In Sicilia il reddito di cittadinanza c’è già: i forestali, le pensioni di invalidità, l’Assemblea regionale…».
Lei è siciliano.
«Non mi sento siciliano; mi sento italiano. Lo accetto perché erano siciliani Verga, Pirandello, Sciascia. Inutile fingere che esista l’Italia unica del sogno risorgimentale. C’è l’Italia del talento, della creatività, dei conti a posto; e poi c’è il Comune di Roma».
Salvini?
«Non ci meritavamo un risultato elettorale che premiasse un personaggio di questa fatta. È triste stilisticamente e antropologicamente che sia lui a rappresentare la Lombardia, il cuore produttivo del Paese».
Berlusconi?
«Mi sta immensamente simpatico. È uno che ha creato un impero. Sono anni che lavoro a Mediaset e con la Rai non c’è confronto: vedi ragazzi assunti non dai partiti, ma perché hanno voglia di lavorare».
È andata così male il 4 marzo?
«Abbiamo vissuto due catastrofi nello stesso tempo: la sconfitta di Berlusconi e quella di Renzi. Io speravo al contrario che avrebbero governato insieme: centrosinistra, l’unica formula che in Italia abbia mai funzionato».
Renzi è finito?
«Niente affatto. La storia della politica è piena di resurrezioni: de Gaulle, Churchill, Fanfani…».
Sono accostamenti molto generosi.
«Perché, il Pd chi ha? Martina? Franceschini? Renzi non è finito, anche se è difficile immaginare una sequela di passi falsi come quella in cui è incappato».
Lei perché ha diretto il giornale di Lotta continua?
«Per un motivo liberale. Lo avevano fatto Pannella, Pasolini, Piergiorgio Bellocchio. Venne Sofri a casa mia, mi chiese di fare il direttore responsabile. Pensavo che quel giornale dovesse uscire. Di più, pensavo che quelli di Lotta continua fossero i migliori della nostra generazione. Mi sono costati 28 processi e tre condanne».
Lo pensa ancora?
«Sofri per caratura personale e intellettuale lo è senza alcun dubbio. Vuol mettere con quel che scrivono Gad Lerner o Mario Capanna?».
Sofri è condannato come mandante dell’omicidio Calabresi.
«Non ne sono convinto. La mia personale idea è che il delitto sia stato organizzato dai servizi d’ordine di Milano e Massa; Sofri allora stava a Napoli. Sapeva quel che stavano combinando, ma non credo sia il mandante. La prova non c’è. E comunque quando ha ricevuto l’ordine di carcerazione si è presentato la mattina presto e si è fatto sei anni. Non ha mai voluto dire che lo sparatore fosse Bompressi, anzi ha detto che quelli che uccisero Calabresi sono i migliori della nostra generazione».
Frase che lei non condivide, vero?
«Certo che no. È una frase però che lui ha pagato. Come non mi è piaciuto il libro patetico di Sofri su Pinelli: ci ha messo trent’anni a realizzare che Calabresi non era in stanza quando l’anarchico cadde».
Come sono andate le cose secondo lei?
«Come stabilì D’Ambrosio, che in quattro anni di indagini non trovò nulla contro Calabresi; a cui 800 intellettuali avevano dato del torturatore. Una vergogna nazionale».
Non stima gli intellettuali italiani?
«Quando parlano di politica sono dei pagliacci, tranne rarissimi casi; tra cui purtroppo non c’è Pasolini. “Io so tutti i nomi ma non ho le prove…”: sciocchezze micidiali. Ricordo un documentario in cui si confrontavano Guareschi e Pasolini: Guareschi lo dominava, se lo mangiava a colazione. Ucciso per il libro Petrolio? Pazzesco».
Com’è morto Pasolini, secondo lei?
«I ragazzi di vita che lui aveva celebrato gli tesero un agguato. In tre o quattro l’hanno ridotto in quel modo; e Pelosi non ha mai fatto i nomi».
Però lei stimava Craxi.
«Moltissimo. Nel 1974 lo invitai a presentare il mio primo libro con Cicchitto e due comunisti, Reichlin e Chiaromonte. Loro arrivarono in anticipo, con un pacco così di appunti. Craxi ci raggiunse con tre quarti d’ora di ritardo. Il libro non l’aveva neanche aperto. Disse solo: “Di cosa stiamo parlando, finché è in piedi il Muro di Berlino? Finché i comunisti opprimono mezza Europa?”. Me ne innamorai perdutamente».
Non è finito bene.
«Mani Pulite fu un regolamento di conti mafioso. Uccise il Psi, la Dc e gli altri partiti che avevano costruito la democrazia italiana; così vennero fuori l’Msi, la Lega e un partito costruito dagli impiegati di Publitalia. Il crollo culturale è evidente».
Lei fu anche tra i fondatori del Manifesto.
«Sì. Volevano uno diverso da loro, che non fosse un fuoriuscito dal Pci. Dopo tre mesi me ne andai».
Non li stimava?
«Tutt’altro. Erano un gruppo di fuoriclasse, Pintor su tutti; ma facevano un giornaletto a sinistra del Partito comunista. Non si poteva sentire Luciana Castellina dire stupidaggini tipo che la scelta di Ingrao di restare nel Pci era segno di decadimento morale. Raccolsi una serie di pareri critici sul Manifesto e li pubblicai. Lucio Magri mi disse che avevo sbagliato. Presi la mia borsa e uscii. Solo la sua morte ha cancellato la mia ira; adesso lo considero un fratello».
Perché?
«Perché anch’io l’anno scorso ho vissuto la depressione. Quattro mesi in cui la vita non mi parlava più. In cui non riuscivo a leggere un libro: come restare senz’aria. Lucio Magri è andato in Svizzera una prima volta, ed è tornato indietro. È andato una seconda volta, e di nuovo è ritornato. La terza volta è stata l’ultima».
Le manca non aver avuto figli?
«Non sarei stato all’altezza di fare il padre. E non ho mai pensato di sposarmi. La storia con Michela è una scelta che si rinnova ogni giorno. Sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore. Montanelli mi raccontò di aver vissuto sette depressioni. Momenti in cui il cielo gli appariva nero».
Come conobbe Montanelli?
«Gli scrissi una lettera aperta su Pagina, la rivista che facevo con Galli della Loggia, Mieli e Massimo Fini. Mi chiamò e mi propose una rubrica sul Giornale, L’Invitato. Offrì 250 mila lire. Risposi: meglio 300. Discutere sul prezzo è sempre stato un punto della mia religione laica».
Cosa c’è nell’aldilà?
«Nulla. Rispetto chi ci crede; ma la sopravvivenza dell’anima è una favoletta consolatoria. Com’è l’anima di Brigitte Bardot?».
Giampiero Mughini, il mio '68. "Diritti, sesso e libertà. Poi venne il terrore". Intervista al giornalista e intellettuale. Il Sessantotto cominciò all'inizio degli anni '60 con gli scioperi alla Fiat e finì con l'omicidio di Moro nel1978. Divenne una guerra civile tra giovani. Intervista di Davide Nitrosi del 21 gennaio 2018 su Quotidiano.net. Il maggio francese, Valle Giulia, Praga, Ian Palach. Lotta continua, Potop, il movimento. E le ragazze con le minigonne e il sesso libero, il corpo è mio. Poi vent’anni fra terrore rosso, antilopi e giaguari, la democrazia.
Il Sessantotto compie 50 anni. Giampiero Mughini, è giusto celebrarlo?
«Celebrare non è la parola pertinente. Diciamo comprenderlo».
Non l’abbiamo ancora compreso?
«Comprenderlo significa innanzitutto sapere che il Sessantotto è durato 20 anni. È cominciato all’alba degli anni Sessanta con gli scioperi furibondi alla Fiat di Torino, quando la Fiat dettava tempi e umori della sinistra, ed è morto con Aldo Moro, il 9 maggio 1978, quando il corpo di Moro assassinato a freddo fu ritrovato in un’auto lasciata dai terroristi, sedicenti rivoluzionari, a metà strada tra la sede del Pci e quella della Dc».
Genesi operaia, epilogo tragico?
«Inizia con gli scioperi, ma non è solo la fabbrica. È anche cambio culturale. Nel 1961 nasce la rivista madre del gauchismo, Quaderni Rossi, e dopo di lei tante altre riviste, come quella che creai io a Catania, Giovane critica. Si prepara il terreno, il linguaggio, la poetica del Sessantotto vero e proprio».
Al centro una generazione nata sulle macerie della guerra: è un caso?
«No, perché era tutto elettrizzante, perché c’era stato il boom demografico, ed eravamo tanti ad avere 20 anni negli anni Sessanta e a condividere la crescita esaltante dell’Italia. Venivamo dalla povertà, ma stavano vivendo un momento in cui il mondo mandava messaggi eccitanti. La nuova moda, la nuova musica, la nuova cultura».
Non era un fenomeno elitario?
«L’élite ha fatto scattare il Sessantotto, ma poi i cortei erano ampi e popolari. A dare il via furono gli universitari del 30 e lode, molto diversi dai grillini di oggi. Ma poi vennero subito le manifestazioni, fu un grande casino perché il cambiamento toccava la vita quotidiana, le relazioni. Per la prima volta ragazzi e ragazze condividevano esperienze assieme».
La vita privata diventò vita collettiva.
«E fu la grande novità. Non il socialismo realizzato sulla terra, non il comunismo: la grande novità fu la trasformazione molecolare della vita».
Caddero i tabù. Oggi certe libertà verrebbero scambiate per molestie?
«Oggi è cambiato tutto, non è paragonabile. La società italiana di quegli anni è lontana dall’oggi come gli etruschi».
Che cosa fu la rivoluzione sessuale per i giovani del tempo?
«Fu un percorso e una bellissima scoperta. Uno choc rispetto alla mia educazione. Io arrivavo da una scuola di preti dove unica cosa che insegnavano era la sessuofobia».
E voi ribaltaste tutto?
«Quell’Italia fu ribaltata dalla nostra esperienza concreta. Sperimentavamo che avere accanto le ragazze, soprattutto le ragazze in minigonna, era una gioia. Quando vidi per la prima volta il mio amore dei vent’anni in minigonna, beh, capii che dio esiste!»
In quelle assemblee e occupazioni in fondo comandavano gli uomini. Restava il maschilismo?
«Assolutamente no. Ricordo solo che c’erano alcune ragazze che nelle occupazioni stavano in cucina mentre noi sproloquiavamo. Ma non tutte. La polemica sul maschilismo è stata inventata a posteriori quando al congresso di scioglimento di Lotta Continua alcune compagne salirono sul palco a dire che i loro uomini erano dei cazzoni che non valevano niente a letto».
Ma dopo il ’68 vennero gli anni Settanta e la violenza.
«Gli anni della guerra civile fra giovani. A differenza della guerra civile combattuta fra il 1943 e 1945, quella degli anni Settanta fu una guerra psicotica, anche se con molti morti. Ciascuno dei due gruppi considerava la parte avversa come una parte da distruggere».
Gli anni di piombo nascono dal Sessantotto?
«Vi nascono filologicamente. Già nel ’70 c’erano Curcio e Franceschini, c’era il gruppo di Sociologia a Trento. È un ecosistema che nasce a partire dal 1969 e dura fino alla morte di Moro. Se le Br avessero liberato Moro e si fossero presentate alle elezioni avrebbero preso un milione e mezzo di voti, perché avevano un seguito».
Un ecosistema, appunto.
«Quando rapirono Moro, ero sull’autobus e il passeggero vicino a me commentò la notizia dicendo: se lo merita. I grillini non sono nati adesso, mi ricordano quelli che vedevano la Dc, il più grande partito democratico dell’Occidente, come un nemico a prescindere. Questo è stato il cotè tragico e fallimentare del Sessantotto».
Un fallimento quindi alla fine?
«Non tutto. Il non fallimento è stata la rivoluzione della vita quotidiana, che allora è cambiata per tutti noi e che è l’aspetto più importante della nostra dimensione. Il divorzio, i diritti...».
Giampiero Mughini: "All'islam servirebbe un 1968", Intervista di Gianluca Veneziani del 24 Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". Di quella stagione lui è stato figlio ma, in un certo senso, anche padre, visto che con la rivista Giovane critica - da lui fondata e diretta a Catania nel 1963 - anticipò lo spirito e i temi del Sessantotto. Ora che si approssima il 50mo anniversario di quell’anno cruciale nella storia del Novecento, Giampiero Mughini prova a tracciare un bilancio in chiaroscuro dell’eredità di quell’epoca, ma anche ad analizzare come sia cambiato rispetto a mezzo secolo fa il ruolo dell’intellettuale nell’influenzare le evoluzioni della politica e della società.
Mughini, il ’68 fu una rivoluzione di studenti e operai, ma anche di intellettuali. Si pensi, per esempio, al ruolo dei Marcuse e dei Sartre. Oggi un intellettuale potrebbe avere la stessa capacità di favorire un cambiamento così radicale?
«No, oggi gli intellettuali umanisti sono dei ruderi, parlano con gli amici e basta, i loro principali vettori di espressione, i giornali, hanno un’influenza minima, pesano sull’opinione pubblica al 5% o forse meno, laddove Instagram vale il 20% o forse più. La tecnologia ha squassato le precedenti gerarchie e forme di comunicazione: gli unici intellettuali che contano sono quelli che attrezzano robot e computer, che permettono il lancio in cielo di missili ultrapotenti, i medici che combattono malattie micidiali. Ma non me ne rammarico. L’intellettuale così come è stato concepito in passato non è un’icona indistruttibile, è una figura storica che ha avuto un grande peso tra Otto e Novecento, tra Émile Zola e Benedetto Croce. Oggi a noi non resta che fare bene il nostro mestiere».
E nei confronti della politica un intellettuale umanista cosa può fare? Coltivare ancora il mito di essere engagé o costringersi all’isolamento?
«Se vuoi essere libero, non puoi che essere inorganico. L’alternativa è restare isolati o essere asserviti a qualche famigliola politica. Ma in quest’ultimo caso devi lustrare le scarpe al potente di turno e spiegare quanto la tua famigliola o la tua gang abbia ragione. Allora io preferisco rimanere isolato, isolatissimo. Non ho più un giornale su cui scrivere, ma almeno quando mi guardo allo specchio non ho nulla di cui vergognarmi, come quelli adusati a fare l’elogio di Berlusconi, Renzi, Grillo o della Boldrini».
Vale lo stesso anche per chi prova a portare qualche idea in tv?
«Per andare in televisione a esprimere ciò che pensi devi essere gradito a chi la tv la possiede, a Cairo, alla sinistra vicina a Repubblica, alla maggioranza renziana. Quando mi invitano in tv, vado volentieri a fare due chiacchiere. Ma è un segno dei tempi che io debba parlare di calcio. Il calcio ha una platea immensa. Se io andassi a parlare di libri, la platea sarebbe miserrima. La tv, si sa, ha bisogno di grandi numeri. E l’unico modo per portare i libri in tv, come ha provato a fare Baricco, è far parte del giro…».
Quanto la stagione del berlusconismo ha inciso nel depotenziare il ruolo dell’intellettuale anche in televisione?
«A dispetto di quanto si pensi, Berlusconi non disprezzava e non disprezza gli intellettuali. Alla sua prima discesa in campo arruolò in squadra menti come Lucio Colletti, Saverio Vertone, Piero Melograni, figure provenienti dalla sinistra e da quella allontanatesi. Ma Berlusconi è stato anche molto generoso nei confronti degli intellettuali, ha pagato bene direttori di quotidiani e tv, giornalisti, opinionisti. Ricordo quanto fosse munifico quando lavoravo a Panorama… Da uomo intelligente qual è non può avercela con gli intellettuali. Certo, gratifica gli intellettuali che non ce l’hanno con lui».
Esattamente 30 anni fa tu pubblicavi il libro Compagni, addio, tuo atto definitivo di distacco dall’intellighenzia sinistrorsa. Oggi che effetto ti fa vedere una sinistra completamente depensante, asservita soltanto al vangelo del Politicamente Corretto?
«Il termine sinistra non vuol dire più nulla da tempo, si è ridotto a una parola passepartout che riguarda temi astratti come il bene pubblico, la lotta alle ineguaglianze ecc. Sinceramente, se oggi Togliatti assistesse allo spettacolo di questa sinistra, divisa in tante famigliole, e alle beghe tra Pisapia e D’Alema, scoppierebbe a piangere. Ma anche il Pd in realtà non esiste, è solo una somma di ambizioni e arroganze personali. La sua obbedienza al Politicamente Corretto sulla questione dei migranti, del femminismo militante è la ricerca di una risposta già pronta che tuttavia non risolve un bel niente».
A livello culturale, invece, la destra pare contorcersi nel dibattito tra sovranisti e indipendentisti. Tu da che parte stai?
«Quello che sta accadendo in Catalogna è una robaccia orripilante: esistono dei Paesi, delle nazioni con le loro diverse anime ed etnie, ma anche con una storia in comune. L’idea che la Catalogna diventi uno Stato è semplicemente ridicola, non credo che la stessa gente di Catalogna lo voglia. Allo stesso modo, il referendum per l’autonomia fiscale di Lombardia e Veneto non andava fatto, e i risultati possono appenderseli in bagno. È assurdo pensare che la più grande regione d’Italia voglia rendersi autonoma dall’Italia, sarebbe uno schiaffo ai Silvio Pellico, ai Carlo Cattaneo, a chi l’Italia l'ha costruita davvero».
A breve si voterà anche in Sicilia, isola dove tu sei nato e cresciuto e che più volte hai detto di “odiare”. Chiunque vinca le Regionali, pensi che l'isola resterebbe irriformabile?
«Tanto per cominciare, io concederei un’autonomia totale alla Sicilia solo per vedere l’effetto che fa. In 15 giorni l’isola andrebbe in fallimento perché non è in grado di autogestirsi: lì c’è un’evasione fiscale inverosimile e sprechi indecenti, a partire dalle commende che ricevono i deputati dell’assemblea regionale. In Sicilia hanno vinto un po' tutti nel tempo, Berlusconi, Leoluca Orlando e ora rischiano di vincere i grillini, ma la politica comunque non potrà mai farci nulla, perché i politici siciliani sono figli di quella cultura».
A proposito di grillini, un loro eventuale trionfo alle prossime Politiche come potrebbe essere riassunto in uno slogan para-sessantottino?
«Sarebbe la vittoria dei politici di professione che tuttavia non avevano una professione prima di entrare in politica. I grillini non avevano un lavoro, non avevano competenze, non avevano un curriculum e ciascuno di loro ha avuto qualche decina di preferenze. Di quanto siano sprovveduti, te ne accorgi da quello che dicono Di Battista e Di Maio: Napoleone che vince la battaglia di Auschwitz, Pinochet dittatore del Venezuela… Pensare che il più grande partito politico italiano oggi è segnato dal colossale confronto tra Fico e Di Maio mi fa semplicemente rabbrividire».
Tornando all’inizio. Il prossimo anno si celebrano i 50 anni dal '68. È tempo di dire addio anche a quella stagione o di conservarne qualche traccia positiva?
«Io sono cresciuto in quegli anni, i suoi marchi mi sono rimasti addosso, e ho passato il tempo a smacchiare buona parte di essi. Di quella stagione salvo tutta la parte di libertà, di creatività, di rottura degli schemi tradizionali e naturalmente condanno la seminagione della violenza e del fanatismo ideologico. Si tratta di un’analisi complessa da fare però, perché il Sessantotto in Italia non fu un anno ma un periodo cominciato ai primi degli anni ’60 e terminato col ritrovamento del cadavere di Moro. Indubbiamente le ricadute nel costume, nel modo di vivere, nella cultura, nei libri, nei film e nei valori di riferimento sono state enormi. Anche in politica il '68 ha inciso nel senso che molti dei politici che oggi siedono in Parlamento sono figli di quegli anni. Ma è stata la rivoluzione nella società quella decisiva. Pertanto auspico che ci sia un '68 anche nell’islam: una società più secolarizzata contribuirebbe a limitare i radicalismi e gli estremismi. Anche se, a essere onesto, non la vedo una prospettiva probabile».
1968: NASCONO GRILLISMI E POPULISMI.
La provocazione: il 1968 è stato l'anno in cui è nato il rancore. La contestazione chiedeva più politica. Invece ha prodotto la crisi, più egoismo, la rabbia di oggi. Uno storico apre il dibattito, scrive Giovanni Orsina il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto compie mezzo secolo in un periodo nel quale la politica è in grande difficoltà. I segnali sono numerosi, e si presentano in quasi tutte le democrazie avanzate: dalla presidenza Trump alla Brexit, dalla scarsa partecipazione alle elezioni francesi al successo elettorale di Alternative für Deutschland e allo stallo politico in Germania, per arrivare all’infelice condizione della vita pubblica nostrana. Questi sono – appunto – segnali: non cause, ma sintomi d’una crisi storica. Il cinquantenario del Sessantotto ci dà l’occasione per chiederci quale sia il rapporto fra gli eventi di mezzo secolo fa e il travaglio politico dei nostri tempi. La risposta è che un rapporto non soltanto c’è, ma è stretto: il Sessantotto è uno snodo cruciale d’una vicenda pluridecennale che pare esser arrivata oggi alla sua piena maturazione. Ma come - si obietterà -, un anno stracolmo di politica come il 1968 diviene parte d’una storia che si conclude, sia pure cinque decenni dopo, con una crisi della politica? In effetti, nelle democrazie occidentali la contestazione sessantottina nasce anche dal desiderio di ribellarsi contro i limiti ch’erano stati imposti alla politica dopo il 1945. Il desiderio di ribellarsi contro il principio secondo cui alcuni àmbiti - a partire dalla vita famigliare - dovevano esser tenuti il più possibile separati dai conflitti pubblici. Al contrario: «il privato è politico!». Il desiderio di ribellarsi contro i limiti che le tecnocrazie e l’“oggettività” scientifica imponevano al pieno dispiegarsi della volontà umana di cambiamento. Al contrario: «vogliamo tutto!»; «siate realisti, chiedete l’impossibile!». Il Sessantotto, insomma, vuole più politica: la produzione d’uno sforzo di trasformazione collettiva profondo, radicale, impaziente d’ogni limite in estensione o intensità. Questo desiderio di azione collettiva, tuttavia, monta in un momento nel quale le grandi ideologie che avrebbero potuto orientare quell’azione sono ormai o del tutto defunte, o in profonda crisi. A cominciare dalla più rilevante fra di esse. Il marxismo, in una forma o nell’altra, è l’ideologia portante della contestazione sessantottina. Ma in quegli anni è già irrimediabilmente colpito dalla degenerazione del socialismo reale, e forse ancor di più dal successo delle economie capitalistiche occidentali, che ne falsifica una delle profezie cruciali: la proletarizzazione universale. Alla crisi dei grandi progetti di emancipazione collettiva fa da controcanto l’affermazione crescente del desiderio di emancipazione individuale: se non possiamo essere liberi insieme, almeno che lo sia io! Non per caso, uno dei pensatori più influenti del Sessantotto è Herbert Marcuse, intento a superare lo stallo del marxismo immaginando che il desiderio individuale possa fungere da leva rivoluzionaria. Se non che, il desiderio di liberazione individuale è destinato a entrare in conflitto col desiderio di liberazione collettiva - ossia con la politica. L’azione collettiva richiede organizzazione e disciplina: subordinazione delle aspirazioni personali agli scopi comuni. E tanto più ne richiede, quanto più ambiziosi sono i suoi obiettivi. Lo mette in evidenza già all’epoca uno dei critici più acuti del Sessantotto, Augusto Del Noce, parlando proprio di Marcuse: «una rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno, per una ragione storica intrinseca … che il motivo puritano è essenziale a ogni posizione rivoluzionaria seria … Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della decomposizione della rivoluzione». Là dove per “puritanesimo” bisogna intendere appunto la negazione di se stessi, dei propri desideri individuali, in vista d’un obiettivo rivoluzionario da raggiungere tutti insieme. Questa contraddizione è una delle ragioni, e non la minore, per le quali la contestazione sessantottina non riesce a dar vita a un movimento politico ampio e robusto, ma si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale. La contraddizione del resto era ben presente già ai protagonisti dell’epoca – a Rudi Dutschke, ad esempio, a Daniel Cohn-Bendit. Una delle organizzazioni più importanti del Sessantotto tedesco, la Lega degli studenti socialisti, si scioglie nel 1970 perché «se la liberazione della società non è possibile qui e ora», la Lega «dovrebbe almeno garantire democrazia ed emancipazione nel proprio ambito». Deve insomma emanciparsi da se stessa. Fra le due anime del movimento studentesco, quella marcusiana e quella stalinista, nel breve giro di qualche anno finisce così per prevalere largamente la prima, notava nel 1980 Nello Ajello in un libro dal titolo assai indicativo: “Il trionfo del privato”. È un Marcuse depoliticizzato, però: non la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica - ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta. La vicenda di «Lotta Continua», che Ajello analizza nelle pagine citate, mostra bene questo passaggio: intorno alla metà degli anni Settanta il giornale diventa «l’organo più rappresentativo di una mentalità giovanile di sinistra nella quale il conflitto fra “privato” e “politico” si sta concludendo con una larga vittoria del primo». Così scrive in quegli anni un lettore al giornale: «Siate realisti, domandate l’impossibile, dicevano i compagni del maggio francese. Bene, noi vogliamo essere felici». Nello stesso torno di tempo, secondo la studiosa americana Kristin Ross, si modifica la memoria del Sessantotto francese: del suo contenuto politico si perde il ricordo, mentre le sue componenti esistenziali e culturali si dilatano fino a occupare tutta la scena. La politicità del Sessantotto si scioglie quindi nel giro di pochi anni nell’affermarsi dell’individualismo? Piano: magari fosse così semplice. La spinta alla liberazione personale che cresce a partire dai tardi anni Sessanta - in forma come s’è detto prima politica e poi impolitica - ha comunque degli effetti politici di rilievo. Vediamo quali.
La politica “ufficiale” affronta quella spinta con «moderazione ragionevole» (l’espressione è dello storico britannico Arthur Marwick): ossia, dove possibile, cede alla pressione. Sia sul piano retorico: il socialdemocratico Willy Brandt, Cancelliere tedesco dal 1969, promette un «nuovo inizio», e di «osare più democrazia»; il liberale Valéry Giscard d’Estaing, Presidente francese dal 1974, dichiara di volere una «democrazia liberale avanzata». Sia - e soprattutto - sul piano pratico: gli anni Settanta, com’è ben noto, sono caratterizzati da un processo imponente di ampliamento dei diritti individuali, sia civili sia sociali, in tutte le democrazie avanzate.
Il desiderio diffuso di liberazione individuale e la scelta della politica “ufficiale” di soddisfarlo generano però dei contraccolpi. Tanto più che i diritti sociali costano, e che negli anni Settanta giunge al termine la straordinaria crescita economica postbellica. Politologi come Michel Crozier, Daniel Bell, Samuel Huntington cominciano a chiedersi quanto a lungo possa sostenersi una democrazia se l’elettorato chiede troppo. Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali come Christopher Lasch, Richard Sennett, Gilles Lipovetsky denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice. Da grande scrittore e giornalista, nel 1976 Tom Wolfe fornisce un ritratto straordinario di questo narcisista in “The “Me” Decade”, Il decennio dell’Io. In Italia Augusto Del Noce, Nicola Matteucci, Gianni Baget Bozzo, fra gli altri, evidenziano i limiti e le contraddizioni della società «permissiva» o «radicale».
Di fronte al montare della “democrazia del narcisismo”, quella stessa politica “ufficiale” che ha ceduto alla pressione individualistica deve cominciare a tirare il freno. Non può però, o non vuole, affrontare direttamente gli elettori, prendendosi la responsabilità di dir loro con chiarezza che la festa è finita, e correndo magari il rischio di dover pagare il prezzo della propria sincerità. Fa allora in modo che i cittadini si trovino di fronte dei muri di altra natura, tecnica e non politica: le banche centrali, le autorità indipendenti, le istituzioni economiche internazionali, il sistema monetario europeo. E naturalmente - soprattutto a partire dal 1979-80, con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan - il mercato. Che è un Giano bifronte straordinario: da un lato, col moltiplicarsi dei consumi, soddisfa il narcisismo; dall’altro gli impone la dura disciplina della concorrenza. Reagan guarderà soprattutto alla faccia della gratificazione; Thatcher a quella del rigore: «l’economia è il metodo», dirà, «l’obiettivo è cambiare l’anima della nazione».
Sia quando cede alla richiesta di maggiore emancipazione individuale, sia quando demanda alle tecnocrazie o al mercato il compito di arginarla, tuttavia, la politica sega il ramo sul quale sta seduta. La politica infatti è azione collettiva: ma come potrà mai ricomporre la società individualistica che essa stessa contribuisce continuamente a frammentare? E la politica è esercizio del potere: ma quale potere potrà mai esercitare, se ha contribuito a trasferirne una buona parte a organismi non politici, nazionali e internazionali? A partire dai tardi anni Ottanta, poi, nelle democrazie avanzate la destra e la sinistra convergono in una sorta di “grande centro” ideologico fatto di diritti (il contributo della sinistra) e di mercato (il contributo della destra) - ma incardinato in tutti i casi sull’individuo. Anche il conflitto politico, così, deperisce. E gli elettori cominciano a chiedersi quali siano le loro reali possibilità di scelta.
Alcuni studiosi - Ronald Inglehart, Ulrich Beck, Anthony Giddens - già dalla metà degli anni Settanta hanno cominciato a immaginare la ricomposizione politica del caleidoscopio individualistico: individui “riflessivi”, ossia capaci di generare da se stessi la propria identità, avrebbero costruito liberamente e creativamente delle nuove aggregazioni collettive. Ora, è vero che da ultimo, nella nostra epoca, la politica si sta ricomponendo. Solo, lo sta facendo in una maniera ben diversa da come immaginavano quegli autori. Altro che individui riflessivi: cittadini convinti che la politica della liberazione individuale non li protegga più da un mondo sempre più complesso e incontrollabile si rifugiano nell’ultima ridotta identitaria possibile - l’identità del luogo di nascita -, aderendo a partiti sovranisti o localisti. Oppure costruiscono un’identità collettiva nuova, ma negativa, mescolando finalità e provenienze assai diverse in un calderone comune: il rancore contro quelli che a loro avviso dovrebbero proteggerli, e non lo fanno.
Il conflitto politico rinasce così fra Clinton - figlia del Sessantotto, per tanti versi - e Trump. Fra l’establishment politico che ha gradualmente preso forma negli ultimi cinquant’anni, il “grande centro” individualistico dei diritti e del mercato, e che non riesce a mantenere la promessa universale di emancipazione individuale dalla quale trae la propria legittimità. E quelli che, per ragioni economiche o culturali, denunciano il fallimento di quel grande centro e lo combattono.
Per parte loro, questi ultimi non sanno davvero quali alternative proporre - e quando ne propongono, sono o assai poco desiderabili o del tutto irrealistiche. Siamo sicuri però che questa mancanza di realismo sia un ostacolo sulla via del successo politico? Uno che delle contraddizioni della modernità qualcosa aveva pur capito, Fëdor Dostoevskij, già un secolo e mezzo fa scriveva: «“Abbiate pazienza, - vi grideranno, - rivoltarsi è impossibile; è come due per due fa quattro! La natura non vi consulta; non gliene importa nulla dei vostri desideri e se vi piacciano o non vi piacciano le sue leggi …”. Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi naturali e dell’aritmetica, quando per qualche ragione queste leggi e il due per due non mi piacciono? S’intende che questa muraglia non la sfonderò col capo, se davvero non avrò la forza di sfondarla, ma nemmeno l’accetterò, solamente perché ho una muraglia davanti e le forze non mi sono bastate». In fondo, è un altro modo per chiedere l’impossibile.
SESSANTOTTO: quando invece del populismo dilagò la rivolta, scrive Piero Sansonetti il 7 gennaio 2018 su "Il Dubbio". È l’anno cruciale del secondo 900. Una forma di populismo ma che niente ha a che vedere con quello di oggi. Il 1968 è stato l’anno di svolta nella storia del dopoguerra, in tutto l’Occidente, ma anche ad Est. In questi giorni sono usciti diversi articoli su vari giornali (soprattutto sui giornali di destra) nei quali si chiede di rinunciare alle commemorazioni. Benissimo, rinunciamo alle commemorazioni, ma non vedo proprio perché non dovremmo cogliere l’occasione del cinquantesimo anniversario per tornare a ragionare su quell’anno cruciale, che con la sua intensità sociale e politica ha modificato il percorso della storia. È un anno che non ha eguali nella seconda metà del novecento. Non ho mai capito perché, almeno da un po’ di tempo, l’idea di parlare di storia, e soprattutto del nostro recente passato, viene vista come una noiosa strampalatezza di un pugno di nostalgici. Penso che sia esattamente il contrario: la voglia di dimenticare i fatti che hanno influito sulle nostre vite – che hanno cambiato cultura, abitudini, modo di pensare e di agire – è un desiderio un po’ da cretini. Ed è forse una delle ragioni di un certo decadimento della nostra intellettualità, che chiunque avverte. Il 1968 è stato un anno specialissimo per tre ragioni.
La prima è l’ampiezza della rivolta che si è sviluppata in quell’anno contro le classi dirigenti e il sistema. Il ‘ 68 travolse gli Stati Uniti d’America, squassò l’Europa occidentale democratica, ma ebbe delle ripercussioni eccezionali anche nel mondo comunista e persino nei paesi autoritari di destra, come la Spagna, il Portogallo e alcuni paesi dell’America Latina.
La seconda ragione è il carattere generazionale della rivolta, che non solo non fu un limite ma, al contrario, moltiplicò la potenza del fenomeno, proiettandolo nel futuro.
La terza ragione è lo “spirito” originario del ’68, che poi negli anni seguenti si frantumò, in parte si ribaltò, comunque si spezzettò in mille rivoli, che portarono su sponde anche molto lontane. Lo “spirito” originario del ’68 è stato la contestazione delle gerarchie, e dunque del meccanismo essenziale che aveva governato il mondo fino a quel momento, e che regolava il potere, la distribuzione della ricchezza, i rapporti tra uomini e donne, la religione, la famiglia, la scuola, il sapere. La forza del ‘68 non risiedeva tanto nella improvvisa violenza della sua azione, e della sua contestazione, ma nella potenza rivoluzionaria di quel messaggio, che era qualcosa di molto più complesso delle vecchie rivendicazioni anarchiche. Ci sono migliaia di slogan del ’68. Molto diversi tra loro. Alcuni truculenti. (Ne ricordo uno che gridavamo spesso ai cortei: “È ora di giocare col sangue dei borghesi…”). Ma il vero slogan che riassume l’anima di quella rivolta è lo slogan più famoso del maggio francese: «E vietato vietare». Il ‘68 inizia come grandioso fenomeno libertario. Poi si piega su se stesso, si aggroviglia, e in moltissime sue espressioni ha un rinculo stalinista e autoritario. Se però immaginiamo il ‘68 solo come fenomeno di violenza politica e come anticamera della lotta armata, capiamo pochissimo di quello che è successo e di perché il ‘68 ha dilagato in territori molto lontani dal gruppetto di studenti e di intellettuali che lo innescò. Fino a coinvolgere, ad appassionare, e talvolta a travolgere pezzi molto vasti di classe operaia ma anche di borghesia moderata. Gli effetti più clamorosi del ’68 furono lo spostamento molto sensibile del senso comune conservatore, che ruppe gli argini, perse i punti di riferimento e le paure.
Fu un fenomeno populista? Certamente lo fu, ma quello sessantottino è un tipo di populismo di segno opposto a quello che conosciamo oggi. Oggi il populismo è una declinazione del qualunquismo, dell’antipolitica, della paura, anche dell’ignoranza. Non possiede nessuno spessore ideale, è chiuso in se stesso è rancoroso. Allora fu un fenomeno opposto: impegnato, molto politico, colto, con una componente fortissima – qui in Italia – di tipo cattolico, influenzata dalle grandi novità del Concilio. In comune con il populismo di oggi ha solo la domanda di rottura. Le risposte a questa domanda, però, sono opposte. Così come, in politica, sono opposte le spinte rivoluzionarie e quelle reazionarie. Il 1968 nasce sicuramente in America. Dove la rivolta dei neri e degli hippy era iniziata diversi anni prima. Aveva incendiato le città, i ghetti, i campus universi- tari. Aveva spinto possentemente a sinistra il kennedismo, che era nato come proposta di leggero e moderatissimo cambiamento e invece, con Bob Kennedy, aveva finito per avvicinarsi moltissimo al punto della rivolta. E però, curiosamente, se andiamo a controllare le cronologie, ci accorgiamo che il primo atto storico del sessantotto avviene all’Est. Precisamente il 5 gennaio (giusto ieri era il cinquantenario) con l’elezione di Alexander Dubcek alla segreteria del partito comunista cecoslovacco. Dubcek, 46 anni, intellettuale raffinato ma con un lungo passato di funzionario di partito, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali quarantenni ed era riuscito a scalzare dal potere il vecchio Antonio Novotny, uomo legatissimo a Mosca. Iniziò così, in pieno inverno, la Primavera di Praga, e cioè un periodo di riforme e di grande mobilitazione politica, con un vastissimo sostegno popolare, che fu il più robusto e organico tentativo di ristrutturazione del socialismo. Dubcek, spinto dal vento libertario del sessantotto, introdusse il concetto di libertà come valore fondante del progetto socialista. E questa non era una modifica, o un aggiustamento: era il ribaltamento del castello ideologico costruito da Lenin in poi. Dubcek si convinse che i valori di libertà ed eguaglianza non sono valori in competizione ma possono integrarsi perfettamente. E’ impossibile immaginare oggi cosa sarebbe successo se il tentativo di Dubcek non fosse stato represso in modo brutale, e in parte inaspettato, dalle forze armate sovietiche. Cosa avrebbe portato, all’umanità, una competizione equilibrata tra capitalismo rooseveltiano e socialismo democratico. Non lo sapremo mai.
Il tentativo durò meno di otto mesi. La notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe del patto di Varsavia entrarono a Praga. Dubcek, insieme a Ludvick Svoboda, che era il presidente della Repubblica, fu portato a Mosca per chiarimenti, e poi deposto. Lo mandarono a fare l’impiegato in un ufficio, e riemerse solo dopo la caduta del Muro di Berlino. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, nel 1990. Era in visita in Italia e volle venire a cena con noi giornalisti dell’Unità, che lo avevamo intervistato un paio d’anni prima, quando era ancora in semi- clandestinità. Serio, timido, ma anche molto spiritoso e persino autoironico. Mi ricordo che ci raccontò una barzelletta forse non spiritosissima in assoluto, ma devastante perché raccontata da lui. La sintetizzo molto, perché era lunghissima: C’è una coppia che dorme a Praga la notte del 20 agosto. A un certo punto lei si sveglia e chiama il marito. Gli dice: “Ehi, cos’è questo sferragliare di camionette qui sotto casa?”. “Niente”, risponde lui, “sarà il mercato, ora dormi!”. Dopo mezz’ora lei lo sveglia ancora: “Ehi, sento dei colpi di cannone…”. Lui di nuovo la tranquillizza: “Sono tuoni, amore, dormi…”. Alle quattro del mattino la signora si affaccia alla finestra e grida: “Ci sono i carrarmati qui sotto, ci hanno invaso! ”. Lui resta tranquillo: “non aver paura, poi verranno i sovietici e ci libererano…”. E già, l’invasione fu una sorpresa. Non solo Dubceck era convinto che nel nuovo clima del ’68 i sovietici non avrebbero osato. Anche perché, nonostante tutto, Dubceck considerava i sovietici degli amici. Invece l’invasione ci fu e gelò il mondo. E’ vero che il ’68 fu un fenomeno essenzialmente occidentale. Ma se dovessimo mettere due date al suo inizio e alla sua fine, e cioè alla parabola del sogno sessantottino, prima che il ’68 si trasformasse, si incattivisse e in parte degenerasse, le date sono quelle lì di Dubcek: 5 gennaio e 20 agosto. E’ lì, quella notte, che finisce il sogno. Non solo dei cecoslovacchi, ma di tutti. Cioè di tutti quelli – americani, russi, polacchi, europei…- che avevano sperato nella riformabilità del potere. L’impermeabilità del socialismo alle riforme era lì a dimostrare questo: il potere non accetta di essere messo in discussione, tantomeno di mettersi in discussione da solo.
In Italia il ’68 inizia invece con un fatto tragico e che non ha molto a vedere, almeno all’inizio, con la politica: il terremoto del Belice. Avvenne nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, provocò circa 300 morti e rase al suolo decine di paesi della provincia di Trapani e di Agrigento. Gibellina scomparve. Ma adesso procediamo con la cadenza della cronologia. In ordine sparso 31 gennaio. In Vietnam inizia l’offensiva del Tet. Il Tet è il capodanno vietnamita. I vietcong e l’esercito del Nord, guidato dal mitico generale Nguyen Giap (che 15 anni prima aveva sbaragliato i francesi a Dien Bien Phu) attaccano tutte le principali città del Sud Vietnam. Muovono 800 mila uomini armati. E’ un successo militare clamoroso. Americani e Sudvietnamiti, sgomenti, reagiscono con ferocia. Il primo marzo, a Saigon, un generale sudvietnamita giustizia per strada, davanti al fotografo, un guerrigliero vietcong. La foto diventa famosissima.
1 marzo. E’ la vera e propria data d’inizio del 68 italiano. La battaglia di valle Giulia. Gli studenti attaccano la polizia che presidia la facoltà di Architettura, a Roma. Inizia un pomeriggio di fuoco. La polizia non si aspetta l’iniziativa spregiudicata e per molte ore non riesce a contenere la furia degli studenti. Guidati da Oreste Scalzone, da Sergio Petruccioli, da Massimiliano Fuksas, da Franco Russo. E con tanti ragazzini che non hanno nemmeno 18 anni, tra i quali i fotografi immortalano Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio, direttore dell’Unità.
16 marzo. Una pattuglia di militanti del Msi, guidati da Giorgio Almirante, tentano di attaccare la facoltà di lettere, occupata dai “rossi”. Vengono messi in fuga, si rifugiano a Giurisprudenza, si barricano e tirano dal quarto piano un banco sui ragazzi che assediano la facoltà. Il banco prende in pieno il leader degli studenti, Oreste Scalzone, che è ridotto in fin di vita (si salverà ma porterà i postumi della botta per tutta la vita). Lo stesso giorno gli americani compiono in Vietnam l’azione più orrenda di tutta la guerra. Un gruppetto di marines, guidati da un certo tenente Calley, rade al suolo un piccolo paese (My Lai) e inizia a torturare e ad uccidere, uno ad uno, tutti gli abitanti. Ne manda al creatore 450, poi, all’improvviso, irrompe sulla scena un elicottero guidato da un giovane sottufficiale americano molto coraggioso. Si chiama Hugh Thompson. Atterra, imbraccia un bazooka e si frappone tra i marines e i vietnamiti. Punta il tenente Calley e gli dice: o vi ritirate o ti ammazzo. La spunta. Salva un centinaio di superstiti. La strage però viene nascosta per due anni, poi la scopre un giornalista dell’Associated Press. C’è un processo. Calley si prende l’ergastolo ma Nixon lo grazia.
4 aprile. A Memphis, in Tennessee, dove era andato per tenere un comizio, viene abbattuto con una fucilata Martin Luther King, il capo della rivolta pacifica nera. Tre anni prima era stato ucciso, a New York, Malcolm X, il capo della rivolta nera violenta. La morte di King scatena un’ondata di violenza nei ghetti. Molte decine di morti.
11 aprile. Dopo King è un altro leader del ‘ 68 a prendersi una revolverata: Rudy Ducke. E’ il capo degli studenti tedeschi. E’ un agitatore, un combattente, ma anche un intellettuale molto sofisticato. Gli sparano alla testa. Si salva, ma resta molte settimane tra la vita e la morte. Non si riprenderà mai del tutto, e morirà dopo dieci anni, per i postumi delle ferite.
Il 10 maggio parte la Francia. E il sessantotto raggiunge l’apice. Occupata la Sorbona. Scontri fino a notte nel quartiere latino.
13 maggio: un corteo immenso di studenti invade Parigi. Ci sono pure gli operai. Il movimento è guidato da un ragazzetto franco- tedesco, di appena 20 anni, che si chiama Daniel Cohn Bendit. Il ragazzo, Dany il rosso, fa tremare De Gaulle, il gigantesco De Gaulle, e fa temere che la rivoluzione sia davvero alle porte.
Il 5 giugno a Los Angeles viene ucciso Bob Kennedy. Stava per festeggiare il successo alle primarie della California. Era difficile che ottenesse la nomination, perché era partito troppo tardi, ma qualche speranza c’era. Kennedy ormai era diventato uno dei leader mondiali del 68, se avesse vinto, e avesse poi battuto Nixon, chissà come sarebbe andata la storia del mondo. Invece fu ucciso da un ragazzetto arabo di 24 anni. Che sta ancora in galera. Si chiama Shiran Shiran.
Del 20 agosto abbiamo già parlato, con la mazzata di Breznev e la fine della primavera di Praga.
Il 2 ottobre a città del Messico ancora gli studenti in piazza. La polizia spara in piazza delle Tre Culture, ne uccide cento. Un massacro che scuote il mondo, che ha gli occhi puntati sul Messico perché lì stanno per iniziare le Olimpiadi. Negli scontri resta ferita gravemente la giornalista italiana Oriana Fallaci.
13 ottobre. A Città del Messico iniziano le Olimpiadi. In un clima cupo e di conflitto.
17 ottobre. Tommie Smith, atleta nero americano, vince la medaglia d’oro sui 200 metri piani. Terzo arriva John Carlos, anche lui afroamericano. I due salgono sul podio della premiazione e alzano al cielo il pugno con un guanto nero. E’ il saluto dei Black Panther. Tutte le televisioni del mondo trasmettono questa scena. Nei quartieri neri americani è il delirio di entusiasmo.
Il 5 Novembre Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti. Ha sconfitto Hubert Humphrey, vicepresidente uscente e rappresentate molto moderato del partito democratico. La Casa Bianca, dopo 8 anni, torna ai repubblicani. Simbolicamente è una vittoria della restaurazione. In realtà negli Usa non cambia molto. Nixon è un falco in politica estera e una colomba in politica interna. Come Lyndon Johnson, il suo predecessore che ha lasciato le penne in Vietnam. La vera svolta conservatrice, in America, avverrà solo 12 anni dopo, con Ronald Reagan.
2 dicembre. Ancora sangue in Italia, Stavolta ad Avola, Sicilia. La polizia spara sui contadini che occupano le campagne. Due morti, molti feriti, molta rabbia, molti arresti. Manifestazioni di protesta in tutt’Italia.
31 dicembre. Il ‘68 se ne va con un’altra sparatoria. Alla Bussola, night club di Viareggio, gli studenti attaccano lanciando uova e pomodori sulle pellicce di quelli che festeggiano (come era successo tre settimane prima alla Scala di Milano). La polizia interviene. Si scatena la guerriglia. Tra gli studenti c’è il leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, e c’è anche uno studentello diciottenne della Normale di Pisa, che si chiama Massimo D’Alema. La polizia spara di nuovo. Un ragazzo di 17 anni, Soriano Ceccanti, è colpito alla schiena. Ancora oggi, Soriano sta in carrozzella, è rimasto paralizzato.
1968, nascono grillismi e populismi. Meritocrazia? No, grazie, scrive Beniamino Piccone il 28 Dicembre 2018 su Il Sole 24ore. A 50 anni dal 1968 non si contano i volumi celebrativi su quell’anno, per molti memorabile – vedi il volume del leader studentesco Mario Capanna “Formidabili quegli anni” -, per altri controverso. Sono portato a pensare che il 1968 sia celebrato in modo eccessivo, quando è stato prodromico al blocco dell’ascensore sociale e della meritocrazia. Il critico e romanziere Roberto Cotroneo scrisse nel febbraio 2017 su “Sette” un articolo memorabile in cui mise in discussione il “dogma” del 1968: “L’anno più citato del nostro dopoguerra non ha cambiato il paese e le nostre coscienze. La fantasia non è arrivata al potere, ma il potere, in modo davvero fantasioso, si è inventato un nuovo modo per resistere e non lasciare spazio al nuovo. La fantasia fu un alibi. Un alibi per impedire l’ascesa e il consolidamento di una nuova classe dirigente, figlia dei nuovi tempi”. Sono in molti a ricordare come Pier Paolo Pasolini si schierò con la polizia a Valle Giulia (1° marzo 1968, 100 feriti), quando chi contestava erano i figli della borghesia e chi prendeva legnate erano i poveri figli degli operai meridionali arruolatisi nelle forze dell’ordine. Così PPP: “Io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli dei poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano… A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici, eravate i ricchi, mentre i poliziotti erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. L’attuale capo della ricerca storica della Banca d’Italia Alfredo Gigliobianco nella sua tesi di laurea con Michele Salvati si domandò come mai l’autunno caldo italiano durò anni mentre il maggio francese durò giusto un mese (vedasi “Il maggio francese e l’autunno caldo italiano: la risposta di due borghesie”, Il Mulino, Bologna 1980, volume per aficionados). È celebre la battuta di Eugène Ionesco, che predisse guardando sfilare gli studenti parigini del Maggio ’68: «Tra vent’anni sarete tutti notai». Non aveva tutti i torti. I sessantottini sono usciti a sinistra e sono rientrati a destra. Sempre Cotroneo scrive: “Il ’68 italiano non fu affatto un movimento progressista, un movimento liberatorio, un movimento di modernizzazione del paese, ma fu l’opposto. Fu fenomeno reazionario, che bloccò in Italia, una volta per tutte, una modernizzazione culturale e tecnologica che era già in atto nel decennio precedente, tra il 1958 e il 1968”. Siete in metrò, state correndo con lo smartphone in mano? Sedetevi, prendete fiato. Respirate profondamente perché Cotroneo bastona una generazione: “Il ’68 fu un’autentica catastrofe culturale per il nostro paese, da cui ci stiamo cercando di risollevare ancora oggi, con grande fatica, mezzo secolo dopo… Quegli anni hanno cambiato il paese in peggio”. Le conseguenze arrivano fino ad oggi, nel dilagare del populismo ideologico, giacobino, nella radicalizzazione di un clima di contrapposizione che continua a generare danni”. Che cos’è il grillismo se non la continuazione del ’68 con altri mezzi? Da dove viene fuori il motto “uno vale uno”? Non è che la rievocazione del 18 politico, del voto uguale per tutti: uno studia e gli altri prendono lo stesso voto. Il pauperismo e il populismo vengono da lì. A 50 anni dal ’68 viviamo tempi in cui domina l’incompetenza crassa. Nel dopoguerra chi non sapeva stava zitto ad ascoltare. Oggi meno sa, più pontifica e insulta. Tom Nichols, professore alla Harvard Extension School, nel mirabile “La conoscenza e i suoi nemici. L’età dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” (Luiss, 2017) scrive: “A tutti piace pensare di essere in grado di prendere qualsiasi decisione e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che sbagliamo o ci spiega argomenti che non riusciamo a capire. Questa reazione umana è perfettamente comprensibile in ogni individuo. Ma che succede quando un’intera società ragiona così?”. Da dove viene altrimenti la diffidenza verso l’impresa e la cultura del fare tipica dell’imprenditore? Quando l’industriale viene considerato “prenditore” non si deve che tornare al 1968 e alle manifestazioni in cui si urlava “Pirelli e Agnelli, ladri gemelli”. Ancora Cotroneo, che chiude così la sua analisi: “Il ’68 fu il modo di conservare il potere culturale e politico dei figli della borghesia e delle élite italiane, pressate da nuovi ceti sociali più umili ma potenzialmente più preparati e motivati. Il nozionismo, il 18 politico, la destrutturazione del sapere, hanno abolito ogni forma di meritocrazia proprio perché si potesse evitare che i meriti vincessero contro le rendite di posizione”. Chi non ce la fa, gli esclusi, i perdenti della globalizzazione sono la base sociale, la constituency del Movimento 5 Stelle. Mentre negli anni successivi al ’68 furono escluse le classi intellettuali emergenti, figlie del boom industriale, oggi chi pretende e ottiene inspiegabilmente ruoli importanti di governo è colui che a scuola era all’ultimo banco a far casino e non toccava libro neanche a pagarlo. C’è una parte del Paese che non riconosce i meriti dei più bravi, di coloro che hanno studiato e ne sanno più di noi. Il Censis anni fa parlava di “rancore e nostalgia”, pochi giorni fa ha evocato la “cattiveria”. Speriamo di non vedere nei prossimi anni il terrorismo, sviluppatosi negli anni post ’68. Vale la pena ricordare che dal 1968 al 1980 per causa di terrorismo e scontri di piazza in Italia sono morte 454 persone, 171 sono stati i feriti, 4774 gli attentati e 1876 gli atti di violenza. Una spirale che non ha avuto eguali in Europa.
Nelle discussioni, anche accese, calmiamo gli animi e torniamo a ragionare. Sulla rete e sui social c’è una rabbia, una cattiveria senza fine. La mitezza e la calma sono valori universali. Usiamoli.
Un Belpaese dal liberismo impossibile, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Nel Novecento - sulla tracce dei tre totalitarismi che avevano dominato il secolo - era stata la politica a dettare principi e procedure all'opinione pubblica che ad essi doveva adeguare il proprio consenso. Nel secondo millennio, con l'allargarsi della base democratica prodotta dal '68, è il populismo, diffuso soprattutto nelle sfere più basse e meno attrezzate culturalmente, più sensibili alla demagogia della popolazione, a dettare alla politica, che vi si adegua, le condizioni del proprio consenso. È la conseguenza dell'abbandono dello studio della storia - che era stata la base sulla quale si era sviluppata la filosofia politica moderna - che ha fatto perdere di vista i fatti, la realtà effettuale che, da Aristotele a Machiavelli, aveva empiricamente condizionato la diffusione della filosofia politica moderna. Ora, sono posti sotto accusa liberalismo e capitalismo - che pur sono stati fondamento delle libertà e del benessere dei quali ha goduto l'umanità dalla fine del Settecento - in nome di una regressione, se non alla contrapposizione ideologica ottocentesca fra liberalismo e comunismo, quanto meno a quella fra liberalismo e comunitarismo, che è la versione attenuata del collettivismo, condannato e sconfitto dalle «dure repliche della storia». È singolare che istanze collettive, di matrice marxiana, smentite e condannate dalla storia, pretendano di avere il sopravvento sull'individualismo liberale, negandone attualità e validità, per ripristinare contrapposizioni ottocentesche, se non fra liberalismo e comunismo, quanto meno fra liberalismo e comunitarismo. Il fenomeno è soprattutto acuto da noi, in Italia, non a caso il Paese che ha generato, e coltivato, il più forte comunismo occidentale fino alla sua dissoluzione e anche il Paese più in ritardo rispetto ad un approccio empirico di matrice anglosassone. L'Italia paga il prezzo di non aver sviluppato una cultura liberale, quando ce n'erano le condizioni storiche, ai tempi della Riforma protestante, e di essere stata influenzata da una controcultura cattolica, che aveva trascurato il contributo individuale del protestantesimo alla formazione di una mentalità politica liberale diffidente di ogni autorità costituita, compresa quella della Chiesa, oltre a quella dello Stato. Il liberalismo - che con Cavour e i Savoia ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dell'unità nazionale - non è contrario allo Stato, come una vulgata popolare tende a far credere in funzione del dominio di una sinistra demagogica, bensì è a favore di uno Stato centrale sufficientemente forte da fissare le regole del gioco alle quali l'opinione pubblica deve poi attenersi. L'esperienza dei Paesi anglosassoni insegna. Il nodo della questione sta tutto nella differenza fra un approccio alla realtà di tipo empirico e uno di tipo ideologico, là dove il primo si fonda sulla realtà storica, sulla realtà effettuale, e genera autonomia e libertà, mentre il secondo su un'idea della realtà come dovrebbe essere, che genera sudditanza.
La libertà non accetta consigli. Nel suo “Saggio sulla libertà”, John Stuart Mill, scrive Mariagrazia Gazzato su “L’Espresso”: " …l’argomento più forte contro l’interferenza del pubblico nella condotta puramente individuale è che, quando si verifica, si verifica con ogni probabilità, sia nei modi sbagliati che nel posto sbagliato. Nella questione di moralità sociale, di doveri nei confronti degli altri, l’opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza, è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l’opinione di una simile maggioranza, imposta come legge ad una minoranza, in questioni di condotta strettamente individuale, ha uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, poiché nel migliore di questi casi, opinione pubblica significa l’opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri e molto spesso non significa neanche questo, il pubblico con la più perfetta indifferenza, ignora i sentimenti e le esigenze di coloro di cui biasima la condotta e pensa solo alla propria preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti, simili a quel bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto e credo.” E qui seguono vari esempi, ma mi sembra sufficiente per esprimere la mia opinione sul tema della libertà individuale in rapporto ai doveri che ciascuno ha verso la società. E’ fuor di dubbio che qualsiasi azione individuale che non comporti alcun danno a terzi, non possa e non debba essere in alcun modo sanzionata o semplicemente frenata senza incorrere nella limitazione della libertà personale che attiene al singolo giudizio dell’individuo. Non occorre portare esempi, l’attuale società costringe il legislatore ad imporre leggi che limitino azioni che ledono la libertà altrui di godere appieno della propria individualità in base ai gusti, alle preferenze e alla condotta di vita che ciascuno ritiene più idonea per sé. Un caso molto evidente è il reato di stalking come quello di mobbing che, il legislatore, usando due parole mutuate dalla lingua inglese, ha recentemente introdotto nella nostra giurisprudenza. Sono due reati gravissimi perché limitano in maniera ossessiva e sistematica l’altrui libertà di azione. Ma ci sono esempi continui di limitazione della libertà personale anche in casi considerati di scarsa importanza, che non necessitano di una legge per essere regolamentati ma che attengono al generale “buon senso comune” e ad un etica comportamentale della quale alcuni sono completamente digiuni. Alcuni si arrogano (del tutto arbitrariamente) il diritto di giudicare, di consigliare, addirittura in alcuni casi di imporre, comportamenti da questi giudicati più giusti o più consoni per il mantenimento di una dignità nell’ambito societario, più confacente ai propri schemi mentali. Ma imporre i propri schemi mentali mediante suggerimenti o consigli non richiesti, soprattutto quando questo avviene additando palesemente o nascostamente, sconfinando nel pettegolezzo, colui il quale in base al proprio giudizio, si comporta in maniera riprovevole arrivando persino all’estrema ratio (irrazionale) di gridare allo scandalo è, a mio avviso e a giudicare da quanto espresso in uno dei saggi più popolari sul tema della libertà, davvero riprovevole. La cosiddetta dittatura della maggioranza che impone le proprie regole, a volte assurde, a chi non le condivide è una delle storture più evidenti e deformanti della democrazia. Ed è deteriore al punto di frenare le potenzialità individuali che altrimenti si svilupperebbero più armoniosamente e renderebbero un maggior beneficio alla società che dalle differenze, dalle molteplicità di stimoli, dalle diverse opinioni non può che trarre indubbio vantaggio.
IL '68 VISTO COME UNA RIVOLUZIONE E/O COME UN SUCCESSO.
Sorpresa: il ’68 è stato liberale. Al di là degli slogan marxisti, le proteste giovanili hanno cambiato la società soprattutto nella cultura e nei costumi, scrive il 19 novembre 2017 Bernardo Valli su "L'Espresso”. Il 1968 è stato ricco di avvenimenti e nel 2018, ormai alle porte, le rievocazioni per il cinquantenario non mancheranno. Comincio in anticipo. L’occasione mi è offerta dalla discussione aperta a Parigi sull’opportunità di celebrare, come movimento liberale (non libertario) l’esecrato o mitico Maggio ’68 e dal trovarmi in questi giorni a Praga, dove mezzo secolo fa fui testimone dell’effimera “Primavera”. L’anno debuttò con la grande speranza emersa sulle rive della Moldava. Era il 5 gennaio, giorno della nomina a segretario del partito di Alexander Dubcek. In agosto arrivarono i carri armati sovietici. Il tentativo di introdurre la democrazia nel comunismo reale fallì, finì in tragedia, ma annunciò il funerale del repressore - vincitore del momento. Il funerale ufficiale avvenne soltanto una ventina d’anni dopo, con l’implosione dell’Urss, ma l’agonia senza ritorno iniziò nella meravigliosa cornice di questa città che riscopro invasa dai turisti e dalle pizzerie. Come nel ’38 la Cecoslovacchia era stata lasciata ai tedeschi di Hitler, trent’anni dopo fu lasciata ai sovietici. Un piccolo prezioso paese è una facile preda. L’America era impegnata altrove, in Estremo Oriente, dove subiva l’offensiva del Têt. I suoi soldati, mezzo milione di uomini del più potente esercito della Storia, scoprirono di avere i viet cong sotto il letto. Fu la sorpresa di fine gennaio ’68, in occasione del capodanno vietnamita. Gli americani riuscirono a neutralizzare l’attacco dei guerriglieri infiltratisi negli alti comandi e nelle caserme, ma capirono che dovevano andarsene. È quello che fecero quattro anni dopo. Il tempo per fare i bagagli. La grande armata, vittoriosa nella Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata sconfitta militarmente, ma avrebbe dovuto presidiare per un tempo indeterminato il Sud Viet Nam con cinquecentomila uomini. Oltre ai guerriglieri sotto il letto a Saigon e a Hué, c’erano migliaia di manifestanti contro la guerra ogni giorno a Washington e a New York. Tutto questo equivaleva a una sconfitta. Nel marzo dello stesso anno, all’altra estremità del pianeta, nella Cuba di Fidel Castro, veniva promossa un’“offensiva rivoluzionaria”, vale a dire una più ampia collettivizzazione, tesa a colpire le attività della piccola borghesia urbana. Il comunismo caraibico accentuava l’impronta sovietica. Sempre nel ’68 erano ancora in piena attività le “guardie rosse” di Mao. La rivoluzione culturale, cominciata due anni prima, fu una lotta interna per il potere, ma allora appariva a molti giovani europei un fermento sociale che avrebbe condotto alla nascita di un “uomo nuovo”. Tutti questi avvenimenti suscitavano entusiasmi, illusioni, distorte visioni della realtà, e comunque alimentavano gli slogan scanditi sui boulevard parigini. Le sponde della Senna erano il teatro di una rivolta giovanile, poi seguita da scioperi operai, contro il potere, e in favore di tutti i movimenti, dai maoisti ai viet cong, ai cubani, visti come esempi di contropotere. Erano immagini lontane, quindi potevano essere idealizzate, in contraddizione con il carattere libertario del maggio ’68. Libertario e al tempo stesso liberale. Facevo allora la spola tra il Ponte Carlo sulla Moldava e il Quartiere Latino in riva alla Senna. Erano le due facce dell’Europa. I giovani cecoslovacchi non capivano l’opposizione a un regime democratico che era il loro obiettivo; i giovani francesi non capivano l’opposizione a un regime che si era liberato del capitalismo. Eppure gli uni e gli altri avevano in sostanza obiettivi liberali. Ed è proprio questo aspetto che potrebbe essere ricordato cinquant’ anni dopo. Lo slogan dominante sui boulevard era “proibito proibire”. Lo stesso poteva essere scandito sulla piazza Venceslav. Ma là arrivarono i carri armati. In vista del cinquantenario, a Parigi si discute appunto sull’opportunità di celebrare il Maggio ’68, visto, al di là della rivolta con tinte marxiste, come un movimento che ha favorito una nuova società più liberale, una trasformazione culturale e politica. Insomma allora il vecchio mondo fu ripulito da molte tradizioni e restrizioni. Rinnovò i costumi. Il carattere libertario è svanito mentre quello liberale, nel senso autentico della parola, ha lasciato le sue tracce.
La contestazione? Quella vera fu anticomunista e dimenticata. Il cuore della rivolta contro il potere e l'oppressione fu nei Paesi dell'Est Ma sin da subito le sinistre d'Occidente fecero finta di niente, scrive Matteo Sacchi, Martedì 12/06/2018, su "Il Giornale". La contestazione libertaria degli anni '60 è stata solo una posa? Si può ridurre tutto a una grande, inutile gazzarra? No c'è stata davvero una rivolta che aveva alle spalle un grande sogno. Un sacco di giovani e di intellettuali hanno rischiato grosso, e pagato in prima persona, per provare a porre fine all'autoritarismo di Stato e affrancarsi da un potere imperialista e spietato. Un potere che voleva asservire tutto all'economia oligarchica di un solo Paese. Peccato che questi studenti e intellettuali non fossero a Parigi, Londra, Washington o Roma. Peccato che nelle immancabili celebrazioni per il Sessantotto questi martiri - veri - rischino come al solito di finire nel dimenticatoio, almeno qui da noi in Occidente. Del resto già proprio durante il '68 e gli anni a seguire chi contestava, con più agio, da questo lato della Cortina di ferro, nella maggior parte dei casi si guardò bene dal solidarizzare troppo apertamente con la rivolta, molto più motivata, che divampava, in contemporanea, nei Paesi dell'Est. Era più facile far finta di niente, oppure derubricare le proteste a tentativo di «restaurazione reazionaria». Del resto erano scomode: rischiavano di mettere in crisi quei miti a cui le sinistre contestatrici volevano aggrapparsi. Volete un esempio? Il guru della contestazione europea alla guerra del Vietnam, il drammaturgo tedesco Peter Weiss, svilì così il grido di dolore che, già nel 1967, arrivava da Praga: «Gli intellettuali cecoslovacchi sono caduti vittime di fatali fraintendimenti e di una sopravvalutazione della libertà in Occidente». Loro forse fraintendevano ma lui si dimostrò completamente miope di fronte all'orrore di un incipiente (agosto 1968) occupazione russa. Ma Weiss non fu un caso isolato. E dire che ignorare quanto stava accadendo in Cecoslovacchia era davvero difficile. La protesta studentesca era già iniziata nel 1964. Gli studenti ormai mal digerivano il fatto che molti dei colpevoli dei crimini dell'epoca staliniana fossero ancora al loro posto. Avevano creduto che la denuncia dei crimini del Piccolo padre da parte di Nikita Krusciov fosse l'inizio di qualcosa di diverso anche nei rapporti tra Mosca e gli Stati satellite. Insomma avevano creduto alla destalinizzazione ma non vedevano cambiare nulla, né all'esterno né all'interno del partito comunista nazionale. Risposero con l'unica arma possibile: ironia. Nel maggio 1966 approfittarono delle sfilate dei carri allegorici che si tenevano a maggio negli atenei per colpire il regime e la sua retorica. Ecco alcuni degli slogan: «Beati i poveri di spirito. Il loro regno è la Cecoslovacchia»; «Viva l'Urss, ma che si mantenga da sola!»; «Basta con la letteratura rosa, Il Rudé Právo la sostituisce benissimo». A quel punto ci pensò la polizia, ma intanto anche molti intellettuali stavano prendendo posizione contro il regime. Apparve del tutto evidente durante il congresso degli scrittori (giugno 1967). Milan Kundera (nel tondo) disse chiaramente che tra nazismo e stalinismo il passo era breve. Ma non era forse quella la sua affermazione più sgradita al partito. Suonava più pericoloso sostenere che la cultura ceca doveva «rientrare nel contesto europeo». Vaclav Havel, Milos Forman e Jiri Menzel denunciarono, invece, lo «spirito da pogrom nei confronti dell'opera creativa degli intellettuali». Di solidarietà in Occidente ne raccolsero? Poca, con l'eccezione di Günter Grass. Un esempio clamoroso? Il reportage da Praga scritto da Umberto Eco per l'Espresso fu un capolavoro di disinformazione. Non si può non citare almeno qualche passaggio di quella che dovrebbe essere la descrizione di una violenta invasione: «Ai negozi di alimentari grandi code... La gente parla in russo coi soldati, gli chiede perché sono lì. I soldati rispondono che a Praga c'è il colpo di stato fascista, la gente ride... La tensione è spasmodica ma la città brulica di folla come a una festa patronale, e ogni carro armato è un comizio... E così succede qui coi russi, sono degli amici, dal governo antipatico, ma buoni se presi uno a uno... Sono le due e mangiamo al ristorante dell'Hotel Paris, tutto una fioritura di liberty dal di fuori... La polemica non è con il comunismo è con l'alleato troppo forte che li sta colonizzando». Della Polonia si parla addirittura meno che della Cecoslovacchia, oggi come allora. Il '68 polacco iniziò quando venne vietato il dramma teatrale Gli avi di Adam Mickiewicz. Il testo, ottocentesco, era blandamente anti-russo e la gente a teatro applaudiva troppo, un po' come gli italiani applaudivano Verdi. Il divieto fece scoppiare le proteste degli studenti. Di nuovo i giornali italiani e europei, in generale, ignorarono quei fermenti persino mentre venivano allontanati dall'insegnamento Zygmunt Bauman e Stefan Morawski. Non bastarono a cambiare le cose nemmeno gesti clamorosi. In Polonia l'8 settembre si tennero le celebrazioni di regime della festa nazionale. Davanti al pubblico (compresi giornalisti e diplomatici stranieri), Ryszard Siwiec, un dissidente, si diede fuoco in segno di protesta per l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia avvenuta venti giorni prima. Qui in occidente quasi non se ne parlò. In un assordante silenzio, la Polonia cadde sotto una cappa che sarà sollevata solo negli anni '90. Persino i fermenti della (per noi molto più vicina) Jugoslavia vennero completamente ignorati. O fraintesi. Poco peso fu dato a Kongres, l'opera teatrale di Primoz Kozak che denunciava come l'università in Jugoslavia fosse solo appannaggio dei figli dei funzionari di partito. Praticamente nessuno fece caso che «sotto» si stava sviluppando anche un Sessantotto delle nazioni, a partire dal Kosovo. Anche qui vincerà la repressione (con poche ridicole concessioni). Ma dallo scontento alla nascita di un nazionalismo violento il passo non è stato poi così lungo.
E a Praga si preferisce dimenticare l'orrore dell'occupazione che ricordare i martiri. Ripensare i tempi del regime per molti è troppo doloroso. Resta solo molta rabbia verso i russi, scrive Paolo Bracalini, Martedì 12/06/2018, su "Il Giornale". Nel cimitero di Olany, poco fuori dalla città vecchia, la lapide commemorativa dei soldati sovietici impegnati nell'invasione («l'aiuto dei fratelli russi» secondo la propaganda cecoslovacca) dell'agosto 68, è ricoperta da uno spesso strato di plastica protettiva. È lì per evitare che qualcuno la imbratti, come è già successo. L'ultima volta un attivista anticomunista ha scritto con lo spray fosforescente «Jan Palach», il nome del più famoso ma non l'unico martire del regime comunista cecoslovacco. I pochi cimeli rimasti a Praga della fratellanza con l'Urss vivono lo stesso destino. La statua del maresciallo Ivan Konev, il liberatore del 9 maggio '45 (in realtà il Paese era stato liberato un giorno prima dagli americani, entrati a Pilsen, ma per decenni si è fatto finta di niente e nelle scuole era vietato anche solo ricordarlo), sotto il cui monumento i praghesi una volta depositavano i fiori, è oggetto di atti di vandalismo. L'8 maggio scorso, anniversario della rimossa liberazione americana, la statua è stata verniciata di rosa, in segno di sberleffo. Un colore non casuale, visto che fu proprio quella la tonalità scelta dall'artista David Cerný per verniciare e irridere nel 1991 il carro armato sovietico numero 23 (il primo a entrare a Praga) esposto nel quartiere Smíchov, poi rimosso. Rimuovere, più che ricordare, è in effetti l'impulso che domina i cechi rispetto al loro passato da satelliti di Mosca. Anche il museo del comunismo (creato non a caso da un americano, Glenn Spicker, trasferitosi a Praga dopo l'89), conta visitatori quasi tutti stranieri, perché i cechi non hanno voglia di rivivere il passato («non mi serve andarci, ci sono cresciuto dentro!», è la risposta che davano a Spicker quando esponeva il suo progetto). Per i cinquant'anni dalla Primavera di Praga, che cadono il 20-21 agosto, non c'è in programma nessuna celebrazione particolare. Anche la mostra fotografica da poco aperta sui cento anni della repubblica, nei giardini dello splendido Palazzo Wallenstein sede del Senato, contempla alcuni pannelli sul '68, ma senza alcuna speciale enfasi nonostante la ricorrenza. Si vedono i carri armati tra le fiamme e le bandiere cecoslovacche davanti alla sede della radio di Stato. Poi le vittorie sportive della Cecoslovacchia, contro la Russia, come quella di Miloslava Rezková nel salto in alto alle Olimpiadi in Messico nell'ottobre 68, battendo due atlete russe. O la finale storica ad hockey nel 1969 sentita come una rivincita contro gli invasori sovietici, al punto che quel giorno la gente scese nelle strade e la polizia fu costretta a sedare chi aveva colpito le vetrine della Aeroflot, la compagnia area russa. Una resistenza passiva che caratterizzerà tutto il ventennio dopo il '68, fino alla Rivoluzione di velluto dopo la caduta del comunismo, nel 1989. E contrastata con ogni mezzo dal KS, il partito comunista al potere. Una delle domande per ottenere un posto di lavoro fu da lì in avanti: «È d'accordo con la politica del partito sull'aiuto dei Paesi del patto di Varsavia nel '68, cioè con l'invasione sovietica?». Rispondendo «no» era impossibile trovare un lavoro dignitoso. Tante le storie custodite dalle strade di Praga. La statua di Lenin che i praghesi irridevano, attaccando alla mano un cestino da funghi o infilandogli una sigaretta in bocca. Quella enorme, 30 metri di granito, la più grande tra i Paesi del patto di Varsavia, di Stalin (ora al suo posto c'è un grande metronomo), che costò l'infamia popolare al suo autore, lo scultore Otakar Svec morto suicida il giorno prima dell'inaugurazione della statua. Persino l'uomo che posò per lo scultore - un elettricista degli studi cinematografici di Barrandov - non riuscendo a scrollarsi di dosso il soprannome di «Stalin», morì alcolizzato tre anni dopo. La Primavera di Praga non mutò il regime, ma la rivolta proseguì silenziosamente, nelle coscienze, in piccoli gesti di ribellione. Si strappava la venticinquesima pagina del passaporto, perché il 25 era il giorno del congresso del partito comunista. Gli studenti, costretti a sorbirsi le celebrazioni di partito, appena potevano si dileguavano. Le guide turistiche offrono vari tour tematici di Praga - la Praga magica, la Praga ebraica, la Praga barocca, la Praga di Kafka, persino quella atroce della città sotto il nazista Reinhard Heydrich (il «macellaio») - ma non sulla Praga comunista, che pure è durata quasi cinquant'anni. Gli strumenti della polizia segreta usati per spiare le ambasciate straniere, dal campanile, non ci sono più. Sulla sede della Radio dove nel '68 arrivarono i carri dell'Armata rossa, c'è una targa che ricorda l'evento, ma chi non conosce la lingua ceca farà fatica a capirlo. Succede anche che sul memoriale alle vittime del Comunismo, opera di Olbram Zoubek, una scalinata dove le persone vengono via via annullate, i turisti si facciano i selfie non capendone il significato. Anche il monumento a Jan Palach, lo studente che si diede fuoco, è difficile da vedere se non ci si inciampa dentro. Una croce a terra, davanti al Museo Nazionale in piazza San Venceslao, ondeggiante su due dossi, perché i martiri di Praga furono due (e altri in altre città): Palach e Jan Zajíc, un altro ragazzo suicida per la libertà (si dà fuoco nel febbraio '69, a 19 anni). L'odio strisciante per i russi, che oggi si ripresentano come ricchi investitori, acquirenti di case di lusso e studenti facoltosi, è un sentimento ancora presente soprattutto nelle generazioni più anziane, a cui il suono della lingua captato sui mezzi pubblici rievoca tempi cupi. Spiega lo scrittore ceco (naturalizzato francese) Milan Kundera, che dopo l'appoggio alla Primavera di Praga si autoesiliò a Parigi: «I cechi erano da sempre russofili. Quando nel 1945 i russi hanno liberato la Cecoslovacchia, sono stati accolti con amore. È stato soltanto dopo l'invasione del '68 che i cechi, come gli altri popoli dell'Europa centrale, hanno cominciato a odiare i russi». Ma tutto, l'antico risentimento anticomunista come il ricordo dei martiri della libertà, resta in uno spazio più discreto dell'anima nazionale, sotto il mantello luccicante della nuova Praga meta del turismo di massa.
Il Sessantotto non è ancora finito. È stato un processo, non una serie circoscritta di eventi. Solo con la riflessione storica si esce dalla morsa tra nostalgia e rimozione, scrive Umberto Gentiloni il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto tra i tanti anniversari a cifra tonda del 2018 sembra mantenere il suo carattere divisivo a partire dalle declinazioni semantiche che lo qualificano: fedeltà o rimozione, modernità o conservazione, soggettività o distanza. Difficile uscire da una morsa che ha accompagnato il corso del mezzo secolo che abbiamo alle spalle, riconducibile al paradigma opprimente del «passato che non passa» ripresentandosi sotto mentite spoglie di memorie contrapposte o in forme apertamente conflittuali. Da un lato la nostalgia del come eravamo, la cifra di una generazione che segnata dagli appuntamenti con la storia in un anno così ricco di novità cerca di mantenere saldi legami con un tempo che le appartiene. Un’ancora di certezze e rimpianti che mostra lo straordinario fascino di poter riavvolgere il nastro di un itinerario fatto di storie, biografie, luoghi e situazioni. Dall’altro la critica che punta a ridimensionare, rimuovere, demolire un patrimonio di memorie e riferimenti comuni che ha attraversato un tratto di storia dell’Occidente. In mezzo lo spazio stretto e difficile della storicizzazione: giudizi, interpretazioni, confronti a partire dalla complessità di un passaggio del dopoguerra che più che un evento isolabile o circoscrivibile prende le sembianze di un processo dal passo lungo che si manifesta con modalità e tempi diversi in tanti angoli del pianeta. Uno spazio di analisi e riflessioni ricco di fonti plurali qualificato da interrogativi che vanno ben al di là del perimetro degli eventi del 1968. Decisivo non smarrire i punti di partenza nella società di allora. Ne ha scritto Guido Crainz nell’ultima puntata di questo confronto a più voci: cosa erano la scuola e l’università italiana? Da dove prende corpo l’anno delle rivolte? Quali contraddizioni si scaricano sul sistema formativo incapace di reggere l’urto della scolarizzazione di massa? Il ’68 degli studenti si lega all’autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di una conflittualità operaia che ha un’identità politica (salari e contratti) e generazionale (una nuova classe operaia entrata in fabbrica). Una specificità italiana il nesso e l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969.
La discontinuità più incisiva e duratura chiama in causa l’aspetto qualitativo dell’innovazione: consumi diffusi, benessere individuale, ricerca di nuove aperture verso mondi emergenti, scoperta di un tempo libero dal lavoro, cura di sé e del proprio corpo. Il conflitto da latente diventa manifesto, esplicito. Un crinale tra due mondi, al tramonto del vecchio non corrisponde una coerente e sinergica opera di rinnovamento. Molto rimane in vita, resiste e si conserva, altro muta parzialmente per poi trovare nuovi spazi, altro ancora viene travolto dal protagonismo di soggettività inedite. La frattura è trasversale, tra opportunità e chiusure, tra generazioni diverse, tra chi riesce a beneficiare delle trasformazioni e chi invece rimane emarginato, escluso e mortificato. Speranze e illusioni muovono uomini e donne verso la ricerca di nuove possibilità in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratificazione sociale di partenza. La disperata ricerca di una mobilità possibile. Una tensione costante che non si riassorbe trovando con il tempo nuovi interpreti non riconducibili alla indiscussa (fino ad allora) centralità del binomio amico - nemico imposta dal riflesso condizionato dell’ordine della guerra fredda. Il rapporto tra individuo e collettività entra in fibrillazione, le strutture tradizionali non soddisfano le aspirazioni di tanti: ha inizio una parabola discendente per partiti, organizzazioni collettive, sindacati o associazioni. Difficile trovare un punto di equilibrio tra la sfera della soggettività individuale che chiede sempre di più e meglio e le forme di espressione e organizzazione della collettività. Più si afferma la prima e più sembra irragionevole e irrealistico proporre l’articolazione di una società per gruppi o identità omogenee, figlie di un tempo che volge alla conclusione.
Per almeno due decenni sono mancate ricostruzioni storiche basate su documentazione non episodica o limitata. Uno studioso attento come Peppino Ortoleva si domandava - nel 1988 in occasione del ventennale - quali fossero i motivi dell’assenza di un quadro di riferimento in grado di rompere la morsa tra condanna senza appelli e revival nostalgici di chi voleva tornare alla meglio gioventù di allora (“I movimenti del ’68 in Europa e in America”, Editori Riuniti). Il Sessantotto nella sua lunga durata non può che coinvolgere direttamente una riflessione più generale sul dopoguerra italiano, sul ruolo dei movimenti, sul peso di una stagione segnata dal protagonismo di soggettività e culture inedite. Una riflessione pienamente inserita nelle dinamiche del sistema internazionale. Se sfumano i ricordi, se si affievolisce il rimpianto per un tempo lontano allora prendono corpo gli interrogativi e le ipotesi interpretative sulle grandi questioni che il Sessantotto solleva e proietta sull’Italia e, in un’ottica più ampia, sulle trasformazioni di un mondo inquieto. Il terremoto nel mondo comunista, la repressione violenta del riformismo cecoslovacco segna la fine di Mosca come guida indiscussa del movimento comunista internazionale. E sull’altro versante la sporca guerra in Vietnam indebolisce i presupposti del mito americano rendendolo vulnerabile e incerto. I modelli di riferimento perdono terreno, mostrano il volto contraddittorio del confronto bipolare. L’inizio della fine dei partiti si sovrappone e si accompagna ai primi i sintomi diffusi sulla inadeguatezza del confronto Est-Ovest.
La controversa questione dei lasciti di una stagione non è riconducibile alle dinamiche di un singolo contesto nazionale. Prevalgono i caratteri distintivi di un fenomeno globale quali «l’ampiezza geografica e la simultaneità temporale» (Marcello Flores, Alberto De Bernardi, “Il Sessantotto”, Mulino 1998.) In Italia il Sessantotto si lega a una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. La fine della centralità di formazioni politiche che avevano percorso i decenni del dopoguerra con la consapevolezza di essere i soggetti principali di una dialettica capace di includere e coinvolgere settori diversi della società italiana. Gli stessi partiti di massa non sono in grado di comprendere la portata del fenomeno: alcuni ne raccoglieranno l’eredità altri, soprattutto nella sinistra storica, avranno i benefici dell’ingresso di nuovi quadri dirigenti, ma il movimento rimane ostile alla cultura e all’organizzazione dei partiti.
Aldo Moro aveva colto il segno di un tempo nuovo, scrive del Sessantotto più volte fino ai suoi ultimi giorni. Verso la fine dell’anno in un Consiglio nazionale della Dc (21 Novembre 1968) aveva pronunciato parole impegnative e per molti versi inascoltate: «Siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse».
Non date la colpa al ’68. Nella contestazione si confusero differenti umori e pulsioni. Ma non c’è alcun rapporto con gli anni Ottanta e con i disastri dell’oggi, scrive Guido Crainz l'1 febbraio 2018 su "L'Espresso". Dimensione nazionale e internazionale si intrecciano ma forse è bene prendere avvio da realtà concrete, evitando il rischio (sessantottino?) dell’ideologia. E per discutere realmente del nostro ’68, per comprenderne coralità e impatto, non dovremmo dimenticare mai come era la scuola italiana alla sua vigilia, nel vivo di una scolarizzazione di massa tumultuosa: gli studenti delle superiori erano il 10 per cento di quella fascia di età nel 1951, quasi il 40 per cento nel 1967; gli universitari erano 230 mila nel 1958, 550 mila dieci anni dopo. Una scolarizzazione di massa che avveniva in una fase di intensa circolazione internazionale di idee e suggestioni, in contrasto stridente con una arretrata “cultura docente” molto diffusa: si vedano le testimonianze di insegnanti raccolte allora da Marzio Barbagli e Marcello Dei (“Le vestali della classe media”, da leggere assieme alla “Lettera” di don Milani). «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall’alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: lo scriveva nel 1966 il giornale dei giovani di Azione cattolica, mentre provocava bufere e processi il giornalino del liceo Parini di Milano per un’inchiesta su «quel che pensano le ragazze d’oggi». E il giudice inquirente chiedeva di sottoporre i suoi autori a una umiliante visita medica in base ad una disposizione fascista sui reati dei minori. In quello stesso periodo iniziavano ad estendersi le occupazioni delle Facoltà, a partire da Architettura, e Camilla Cederna ne dava conto proprio su “L’Espresso”. «Sono stanchi di copiare il Partenone», titolava nel febbraio del 1965, e non era solo una coloritura giornalistica: gli studenti chiedevano l’introduzione di materie ancora ignorate dai piani di studio come Storia dell’architettura moderna e Urbanistica (in un’Italia ormai invasa dalla speculazione edilizia). In un manifesto-simbolo del ’68, quello degli studenti torinesi, vi è l’elenco dei “controcorsi” avviati nell’Università occupata, dedicati a temi ancora esclusi dall’insegnamento: Filosofia delle scienze, Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e repressione sociale, Imperialismo e sviluppo sociale in America latina...La critica del ’68 all’Università fu certo impietosa ma non era molto diversa l’analisi di un commentatore come Alberto Ronchey, che pur chiedeva di «Offrire un’alternativa agli errori degli studenti». Ed enumerava le ragioni di una crisi partendo da Roma: «60.000 studenti, 300 professori» (si riferisce ai professori ordinari, detentori esclusivi di ogni potere: non era improprio definirli “baroni”). E poi: «La seconda crisi riguarda gli uomini. Prima il professore era il re, adesso il re è nudo. La terza crisi discende dall’insegnamento dispotico, elusivo o muto sui temi che interessano gli studenti»; e poi ancora «le comunicazioni di massa, che rendono vicino ogni evento del mondo», «la rottura di linguaggio tra le generazioni», la crisi dei «partiti, i rapporti fra Stato e società e civile (...). L’ultima generazione non vede un disegno del tipo di società verso cui vogliamo andare» (“La Stampa”, 18 febbraio 1968). Poco dopo Giorgio Bocca annotava: in pochi mesi «si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata», e che dall’Università «escono dei giovani incapaci di esercitare una professione». Nel rapido dilagare del movimento studentesco differenti umori e pulsioni convissero e parvero quasi fondersi (ha ragione Roberto Esposito): anticonformismo e impegno politico, laicizzazione e solidarismo sociale, insofferenza per arretratezze anacronistiche e aspirazioni a profondi rivolgimenti, mentre la realtà del Paese dava molti argomenti a chi vedeva in ogni ingiustizia una “ingiustizia di classe”. E bisognerebbe ricordare la realtà delle fabbriche di allora, nell’intrecciarsi di forme di sfruttamento talora brutali, discriminazioni inique, illibertà (solo nel 1970 lo Statuto dei lavoratori vi introdurrà la Costituzione, come si disse): vedere “imborghesimento” in quegli operai è una licenza filosofica che non condivido. Certo, la coralità dei primi mesi iniziò progressivamente ad incrinarsi e la radicalizzazione ideologica rapidamente prevalse. Ad essa contribuirono anche la balbettante ottusità del potere accademico, il succedersi di interventi repressivi sproporzionati e l’assenza di un’azione riformatrice (fu la politica a mancare in Italia, non il ’68 a distruggerla: in Francia fu varata in pochi mesi la riforma Faure, che avviò la modernizzazione degli atenei e pose rapidamente fine alle proteste studentesche). E vi contribuì poi una radicalizzazione più generale: il 1969 sarà segnato dall’ “autunno caldo” sindacale e dalla strage di Piazza Fontana, con l’avvio di una drammatica “strategia della tensione”. In quel clima declinò - colpevolmente - l’impegno del movimento a rinnovare l’Università, considerata sempre più area di reclutamento per i gruppi extraparlamentari in formazione. Con l’infittirsi degli interventi in fabbriche e quartieri, e con il dilagare di una vecchissima (e disastrosa) ideologia: abbandonata la fase innovativa degli inizi, ha scritto Vittorio Foa, «straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero». Fu lasciata così cadere la suggestiva idea, pur avanzata, di dar corpo a una “Università critica”: base d’avvio di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» volta a innovare saperi e professioni; e a «ridefinire la politica», per usare l’espressione di Carlo Donolo. Non mancarono neppure disincanti e ripiegamenti ma non è riducibile a questi estremi la spallata data allora ad un’Italia arcaica: da quei fermenti venne un più generale impulso alla modernizzazione civile, ad una più ampia concezione dei diritti, ad una maggiore sensibilità sociale. Si incrinò anche così il tradizionale profilo del ceto medio italiano, profondamente segnato sin lì da apatie e conservatorismi. Naturalmente il passaggio dalla prima fase a quella successiva non può essere rimosso (e costringe a interrogare criticamente anche i mesi “aurorali”) ma non mi sembra fondato schiacciare gli anni Sessanta sugli anni Ottanta, e neppure sugli anni Settanta (la contrapposizione del “movimento del ’77” agli operai, sprezzati come “garantiti”, è l’esatto opposto del sessantottesco “operai e studenti uniti nella lotta”). Né mi sembra fondato il «rapporto stretto» che Orsina intravede fra il ’68 e tutti i disastri dell’oggi, in uno scenario nazionale e internazionale squassato da allora in ogni sua parte. E nella nostra lettura complessiva è possibile continuare a ignorare gli studenti della Cecoslovacchia e della Polonia (o della Jugoslavia, con le divaricanti tensioni che vi comparvero), giustamente ed efficacemente evocati su queste pagine da Wlodek Goldkorn e da Gigi Riva? Nel ’68 di Praga e di Varsavia si ebbe la conferma definitiva che il “socialismo realizzato” non era riformabile e presero avvio anche da lì alcuni degli esili ma straordinari fili che porteranno all’89. Continueremo a considerarla “un’altra storia”?
1968: tragica illusione o vera rivoluzione? E' stato l'anno della catastrofe o quello che ha fatto saltare per sempre tutti gli equilibri? Mezzo secolo dopo, le posizioni restano inconciliabili. Da Hoellebeq al Papa, tra critica e nostalgia, scrive Federico Marconi il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Che cos’è stato il Sessantotto? Mezzo secolo dopo non si contano i giudizi su uno degli anni che più hanno influito sulla nostra storia. Libertà e creatività, immaginazione e fantasia, contestazione e ribellione sono gli elementi di una “rivoluzione” che ha trasformato la politica, la società e il costume. Ma quali risultati hanno raggiunto quei ragazzi coi capelli lunghi che occupavano le università e volevano farla finita con l’autorità, i valori tradizionali, il sapere borghese?
In molti si sono chiesti se il ’68 abbia avuto successo. E c’è chi è convinto di sì. Mario Perniola, il filosofo appena scomparso, ha visto gli ideali del ’68 realizzati da uno che sessantottino non è mai stato: Silvio Berlusconi. L’idea l’ha espressa nel 2011 in un pamphlet paradossale e provocatorio: “Berlusconi o il ’68 realizzato”: il berlusconismo avrebbe fatto propri gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, e il suo sfacciato neoliberismo non sarebbe altro che l’esito della rottura rappresentata da quell’anno. Una realizzazione del ’68 postuma che dà tutto il potere non all’immaginazione, ma all’intrattenimento. Rivincita di quell’allegria e di quella spinta creativa che, per Edmondo Berselli in “Adulti con riserva”, sono state sacrificate sull’altare della seriosità sessantottina. Ma c’è anche chi considera la contestazione studentesca non una svolta progressista ma reazionaria, con la riproposizione di modelli autoritari.
Lo storico tedesco Götz Aly in “Unser Kampf” ha scritto che la generazione del ’68 condivide moltissimi elementi con quella che nel 1933 ha portò al potere Hitler. La contestazione di fine anni ’60, secondo Aly, è stata solo un epifenomeno del totalitarismo, che non avrebbe nemmeno portato alla tanto decantata liberazione della morale e dei costumi, visto che quel processo era già cominciato negli anni ’50.
Sulla stessa linea Alessandro Bertante, che in “Contro il ’68” definisce quella ribellione come «una clamorosa e tragica illusione», spezzata dalla repressione poliziesca e dalle bombe fasciste. Alcuni ragazzi hanno preso poi la strada dell’eversione armata. Altri sono tornati nell’ambito sociale di provenienza, la tanto odiata borghesia, dando ragione a Eugène Ionesco, che gridava agli studenti del maggio francese: «Tornate a casa! Tanto diventerete tutti notai!».
“Notai” ignoranti, secondo Indro Montanelli: «Vidi nascere dal Sessantotto una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita italiana portando ovunque i segni della propria ignoranza». Ma, come tutti i “notai”, ricchi: i sessantottini hanno un reddito più alto delle altre generazioni, confermano gli studi della Banca d’Italia sul bilancio delle famiglie. L’economista Riccardo Puglisi lo ha evidenziato in un articolo nel 2013, che si chiudeva con la proposta di «rottamarli tutti». E tra coloro che gli hanno dato ragione c’è stato anche uno che nel 1968 era un maoista che finanziava il movimento smerciando libri rubati, e che oggi invece è conosciuto come il sondaggista di Porta a Porta. «Sì, rottamateci tutti» ha risposto Renato Mannheimer, pur difendendo le «innovazioni che il Sessantotto ha portato in Italia».
Uno che si sente ancora un sessantottino è Toni Negri, intellettuale, militante e ideologo della sinistra extra-parlamentare tra gli anni ’60 e ’80. In una recente intervista ha detto che «il Sessantotto ha fatto saltare tutti gli equilibri», e per questo gli si è risposto con una cultura reazionaria che ancora oggi lo odia e rifiuta. Ma non ci sono solo i nostalgici.
Critici e detrattori si rincorrono non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Michel Houellebecq che, nel romanzo “Le particelle elementari”, descrive il ’68 come l’anno della catastrofe, che ha lasciato solo miseria, individualismo e violenza: un’uscita che non gli è ancora stata perdonata. E assai critica è stata anche la recente rilettura dell’anno da parte di Papa Francesco: parlando agli ambasciatori i cui Paesi hanno rappresentanza presso la Santa Sede, il pontefice ha detto che «in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in contrapposizione tra loro». Col rischio di una «colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli».
IL '68 VISTO COME UNA FREGATURA E/O COME UN FALLIMENTO.
La truffa del Sessantotto che fece abboccare tutti. Iniziò a Torino con l'occupazione degli atenei, scrive Giampaolo Pansa, Sabato 30/04/2016, su "Il Giornale". È da oggi in edicola con «il Giornale» il terzo volume della collana «Controstoria d'Italia». In tutto sei libri firmati da Giampaolo Pansa, ciascuno dei quali in vendita a 8,50 euro più il prezzo del nostro quotidiano. Un modo per rileggere e riscoprire la storia del nostro Paese nell'ultimo secolo, dall'avvento del Fascismo sino al giorno d'oggi, passando per la Resistenza, la fine della monarchia, De Gasperi, il Sessantotto Andreotti e la Democrazia cristiana. Dopo i primi 2 libri «Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo» e «Bella ciao. Controstoria della Resistenza» arriva in edicola «Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi». Seguiranno: «La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini» (dal 7 maggio): «Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa» (dal 14 maggio); «Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri» (dal 21 maggio). Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un'ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo. A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l'economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l'educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L'unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse. Nel 1968 andavo per i 33 anni. Lavoravo al Giorno di Italo Pietra come caposervizio delle pagine lombarde. All'inizio del 1969 ritornai alla Stampa di Ronchey che mi chiese di fare l'inviato speciale. Ma al Giorno dovevo occuparmi delle cronache lombarde. Dunque non mi proposero di scrivere neppure una riga sul terremoto che stava iniziando. Questo limite non mi impedì di capire subito quel che sarebbe successo. Ad aiutarmi fu un dettaglio non da poco che mi riportava ai miei anni da studente universitario. E a un luogo per me indimenticabile, dove avevo incontrato i miei maestri e gettato le basi del mio avvenire: Palazzo Campana. Fu lì che cominciò tutto, se escludiamo le prime vampate di rabbia all'Istituto di scienze sociali a Trento e alla Cattolica di Milano. Il 27 novembre 1967 il Movimento studentesco torinese occupò Palazzo Campana. La spallata, che a molti sembrava soltanto un eccesso di folclore, durò un mese. Poi, fra il Natale e il Capodanno 1968, la polizia obbligò gli occupanti a sloggiare. Quando appresi dello sgombero, mi dissi che la questura di Torino avrebbe dovuto provvedere subito, sin dal primo giorno. Ci saremmo risparmiati un mese di abusi, di vandalismi, di violenze verbali. E un bordello esaltato da una rabbia fanatica, senza motivo. Leggevo sbalordito le cronache dell'occupazione e dei cortei che partivano da via Carlo Alberto. E mi domandavo di quale città e di quale ateneo parlassero. Doveva trattarsi di un mondo alieno, Marte o Saturno, non dell'Italia e di Torino. L'università che i capi del Movimento descrivevano con irrisione era l'opposto di quella che avevo frequentato appena dieci anni prima. Anche i docenti erano gli stessi che si erano presi cura di me e della mia istruzione, ma venivano dipinti con falsificazioni grottesche. Luigi Firpo, Norberto Bobbio, Alessandro Passerin d'Entrèves, Guido Quazza, Alessandro Galante Garrone, sino al rettore Mario Allara, erano accusati di essere dei kapò nazisti. E tutto si fondava su una convinzione grottesca: a Palazzo Campana esisteva un lager per torturare i rampolli della borghesia torinese di sinistra che avevano deciso di fare la rivoluzione. A Torino i capetti del Sessantotto sfoderarono per primi un'arma che sarebbe diventata di uso comune negli atenei d'Italia: la deformazione sistematica della verità a danno degli avversari. Pochi si opposero a questo metodo di lotta abituale in tutti i regimi autoritari. Il paradosso è che a rifiutarla erano le destre, compresa quella neofascista. Mentre ad accettarla erano le sinistre, di certo non tutte, ma a cominciare dalla più forte e organizzata: il Pci. Nelle Botteghe oscure, allora governate da Luigi Longo, il successore di Togliatti scomparso nel 1964, emersero due anime. Una era rappresentata da un leader come Giorgio Amendola, un politico abituato a parlare con schiettezza sorprendente. Nel giugno 1968 scrisse su Rinascita, il settimanale ideologico del partito, che il Movimento studentesco era soltanto «un rigurgito di infantilismo». L'altra anima era quella che chiamai dei pifferai di una rivoluzione inesistente. Nell'autunno del 1968 un giovane pifferaio dal luminoso avvenire, Achille Occhetto, sempre su Rinascita capovolse il giudizio di Amendola. Il futuro Baffo di ferro sentenziò che il Movimento «era parte integrante del più grande processo rivoluzionario». Poi spiegò agli increduli: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo». Quando lessi il proclama occhettiano mi misi a ridere. E senza rendermene conto azzardai una previsione che poi si rivelò esatta: «Se questo Occhetto diventerà il leader del Pci, porterà al disastro il suo partito». Ma nel circo dei media c'erano molti giornalisti che non la pensavano come me. Vedevo firme grandi e piccole sposare con entusiasmo la casta nata dal Sessantotto. Si concedevano senza pudore a una rivolta giovanile che eccitava i loro articoli. E gli favoriva l'ingresso in un territorio di nuovi lettori da lisciare per il verso giusto, da curare con l'elogio continuo.
La fantasia andò al potere e successe un Sessantotto. Il Movimento parlava male perché pensava male: dietro slogan (pubblicitari) e divertenti nonsense c'erano solo ideologia e confusione, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 26/06/2018, su "Il Giornale". Nato e vissuto per essere una rivoluzione culturale et politica che doveva creare una società più libera e tollerante, il Sessantotto - con un tortuoso percorso a tripla «S» - esplose poi nel caos e nella lotta armata. Dall'irrisione al terrorismo, il passo è greve. Contestarono così tanto e così ad alzo zero, che non rimase più niente. L'anti-potere eretto a sistema, e viceversa. Curioso: chi voleva rovesciare il tavolo, oggi se l'è apparecchiato tutto per lui. Chi lottò per mettere a soqquadro le stanze dei bottoni, ci è entrato e non le ha più lasciate: comandando nelle università, in Parlamento, nei giornali, nelle tv. E chi odiò con maggior forza l'autorità, se ne è ammantato più di tutti. «Grande è il disordine sotto il cielo/ La situazione quindi è eccellente». Disordinato, ribelle, insolente, antiaccademico, sgrammaticato, situazionista, creativo e confuso, il Sessantotto parlò così tanto, dicendo tanto poco, e urlò così forte, quasi da non farsi sentire, che finì per dire tutto e il suo contrario. Ecco, a proposito di rivoluzioni. Se il '77 fu azione (spesso violenta), il '68 fu parola (quasi sempre ideologica). E se l'essenza di un movimento è prima di tutto il suo linguaggio - perché l'uomo è ciò che dice - allora la Contestazione fu incomprensibile. Ad ascoltare le idee («Tutto e subito»), gli slogan rivoluzionari («Siate realisti/ esigete l'impossibile), i proclami dei capi del Movimento («Boia d'un mondo leader»), i ritornelli cantati nelle piazze («Lotta di classe/ Potere alle masse», scandito dai contestatori al concorso di Miss Italia, estate '71), le scritte dipinte sui muri («Contro il capitale/ lotta criminale», università La Sapienza di Roma), gli inni e le invettive («Ricchi godete/ Sarà l'ultima volta», cartello inalberato a Milano, il 7 dicembre 1968, per la «prima» della Scala), i discorsi e i dibbbbattiti («Tra noi e loro non c'è niente da dire, niente da parlare, se non una guerra continua, intensa, dura», da uno scritto di Oreste Scalzone su Quindici, marzo-aprile 1968), gli opuscoli e i volantini («Fumate di più, studiate di meno»), qualche profezia al contrario («Disoccupati si nasce, precari si diventa»), e tanto più le boutade di lotta e di anti-potere («Contro la depressione fate la rivoluzione» oppure, a piacere, «No alle droghe elettrike, la televisione fa male»), si ha l'impressione che fra presunzione e ingenuità, oscenità e bestemmie, oggettivamente come si diceva allora, il Movimento disse tanto, ma soprattutto si contradisse. Pro e contro la violenza («No agli specialisti della rivolta/ sì ai rivoltosi della specie»), pro e contro la droga («Falce e spinello/ cambiano il cervello»), tutti a sinistra ma contro il Partito («Il Piccì/ ma che cazzo sta a dì?»), contro la politica usando il gergo dei politici («Sì alle emozioni/ no alle mozioni»), equivoco rispetto alla destra («Il prodotto più osceno del fascismo è l'antifascismo»), sessualmente ambiguo («Contro il governo del capitale/ la rivoluzione transessuale»), creativo ma ignorante («No alla mentalità libresca»), contro la razionalità politica ma a favore del nonsense («Godere operaio»), dialettico ma non troppo («Ci siamo rotti il cazzo di Hegel»), ecologico ma solo fino a un certo punto («Ogni muro sarà sporcato»), femminista con riserva («Il ca**o è mio e me lo gestisco io»), pacifista a singhiozzi («Urge sangue fascista»), democratico con dubbi («Oggi decidiamo noi/ domani pure»), vegetariano a fatica («Se la carne aumenta/ mangiate Agnelli», con la A, maiuscola...), al di là della destra e della sinistra («In culo a tutte le ideologie»), religiosamente di parte («W Allah che quando morimo ce fa scopà»), contro il consumismo sfruttando gli slogan della pubblicità («Quanto son contento e bello/ rollamose un altro spinello»)...Ribellione giovanile, rivendicazioni operai, istanze sindacali, proclami politici e lezioni intellettuali... L'ideario - creativo e folle, osceno e fantasioso - è irresistibile. Racconta (più di tanti saggi, cronologie, j'accuse, ricordi, come-eravamo, «io c'ero!», santificazioni di certo giornalismo radical-gramsciano e difese d'ufficio fuori tempo massimo) cosa fu davvero quella stagione, quella (anti)politica, quel costume. Di ieri eppure così uguale all'oggi (e temiamo anche a domani). In fondo, restando nel campo squisitamente culturale, tanti mali dell'intellettuale di sinistra 3.0 - l'appellite, l'impegno pro domo propria, una spiccata predisposizione gramsciana alla lobby, l'ordinato disporsi supinamente sull'asse Feltrinelli-Repubblica-Raitre-La7, la tendenza a parlare sempre di tutto, per slogan, soprattutto delle cose che non si conoscono, il riflesso pavloviano di attribuire all'avversario l'intenzione peggiore («Fascista! Fascista! Fascista!»), la ricerca spasmodica di spazi premiaroli, televisivi, festivalieri e saloneschi... - germogliano lì, in quegli anni non così formidabili, tra un dolcevita e la redazione di una rivista radical. Com'erano e come sono chic. «Sono così contento/ che quasi svengo». La memoria è corta, la bibliografia è lunga. Fra tanti titoli-antologia, magnifici stupidari dell'epoca, farciti di slogan e citazioni, citiamo - a caso - il vecchio e pur freschissimo L'ABZ della contestazione di Claudio Quarantotto (Edizioni del Borghese, 1971), il nuovo mini-florilegio delle scritte apparse nel '68 sui muri della Sapienza raccolte da Antonio Castronuovo, Falce e spinello cambiano il cervello (Strade Bianche di Stampa Alternativa) e il dossier di «Studi cattolici» Dov'è finito il '68? (Ares, 1978). Ridendo e sfottendo, a volte scivolando più verso battute in stile Graucho che innalzandosi ai principì della scuola di Karl, il Sessantotto ne ebbe per tutti. Infilzò l'altruismo («W IO!»), distrusse l'urbanistica («La città è una macchina/ lo speculatore la usa/ l'architetto la disegna/ e l'operaio la costruisce/ per essere schiacciato»), disdegnò la gastronomia («Non vogliamo un posto a tavola/ vogliamo rovesciarla»), riscrisse le regole della matematica (Polizia + Magistratura + Galera = Stato borghese»), negò la pietas («Se vedi un poliziotto ferito/ finiscilo!») ma fu lucidissimo in politica estera («Nixon boia»)...Proclami, striscioni, grida di guerra. Il Sessantotto ebbe idee a volte scombinate. Ma riuscì a esprimerle sempre con sintesi invidiabile. Del resto, come riassunse mirabilmente quello studente su un muro della Sapienza, «Scrivere cazzate non è reato». Crederci, come dimostra la Storia, un po' sì.
1968, la rivoluzione è un cold case, dai “famosi” di Valle Giulia all’eskimo di Guccini. Su Fq MillenniuM in edicola. Ferrara, Liguori, Galli della Loggia, Mieli, Fuksas... E Michele Placido con il casco da celerino. Cinquant'anni dopo l'inizio della rivolta, il mensile del Fatto fa raccontare i celebri scontri "cantati" da Pasolini a quelli che c'erano, e poi hanno fatto carriera. E il grande cantautore racconta quegli in un testo inedito, partendo da una delle sue canzoni più famose. Lo storico Giovanni De Luna torna a palazzo Campana a Torino, dove tutto ebbe inizio (nel novembre del '67), scrive Mario Portanova il 6 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Immaginate una giornata di scontri di piazza durissimi: botte, sassi, molotov, almeno 400 feriti. Al posto dei black bloc, però, ci sono Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Flores d’Arcais, Claudio Petruccioli, Bernardo Bertolucci, Massimiliano Fuksas… E sul fronte opposto, sotto il casco da “celerino”, Michele Placido. Sono solo alcuni dei futuri famosi che il primo marzo 1968 presero parte alla battaglia di Valle Giulia, quella che poi Pasolini eternò nei versi sui poliziotti figli del popolo, schierandosi contro gli studenti “borghesi”. Versi periodicamente riesumati, da destra e non solo, quando volano manganellate. Alcuni di quei famosi ricostruiscono, mezzo secolo dopo, quella giornata storica in un’inchiesta di Fq MillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, da sabato 7 ottobre in edicola con un numero largamente dedicato al ’68. “Mi ricordo un dibattito piuttosto divertente sulle azioni da compiere: qualcuno propose di cominciare a lanciare i sassi, ma poi si disse che i sassi ce li avrebbero rilanciati. Allora si decise per le uova, perché una volta lanciate non potevano tornare indietro”, svela per esempio l’odierna archistar Fuksas. Fq MillenniuM approfondisce un aspetto dimenticato: la presenza a Valle Giulia di gruppi di fascisti (capitanati da un altro famoso, il leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie) che si diedero parecchio da fare nelle azioni più violente (sulle prove tecniche di strategia della tensione dei “neri”, Fq MillenniuM pubblica un’inchiesta di Gianni Barbacetto). E Pasolini? A parte che nessuno ricorda il brano di quella stessa poesia in cui l’intellettuale chiarisce “siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”, la sua presa di posizione divide ancora oggi. “Inopportuna”, secondo Lanfranco Pace, oggi giornalista, allora in piazza a Roma e poi fra i leader di Potere operaio. “La distanza tra molti degli studenti e quei poliziotti era palese”, afferma invece Galli della Loggia, oggi commentatore del Corriere della Sera. “I volti degli uomini in divisa erano davvero volti di contadini”. Per Liguori, che poi andò in Lotta Continua e oggi dirige Tgcom24, fu invece “una risposta viscerale di un intellettuale che ci voleva bene”. “E quanto son cambiato allora”, canta Francesco Guccini in Eskimo. Il grande cantautore scrive per Fq MillenniuM un testo che dal suo ’68 arriva ai giorni nostri: “Non feci mai parte di nessun gruppetto o movimento”, rievoca. “Ho un ricordo lontano di un sentimento di sospetto verso il Partito comunista. Del resto nutrivo una certa simpatia, anche se un po’ superficiale, per alcune frange anarchiche”. Il ’68 italiano esplode in realtà il 27 novembre 1967, con l’occupazione di palazzo Campana a Torino. Il mensile torna sul luogo del “delitto” con lo storico Giovanni De Luna, a riscoprire vecchie scritte preservate dalle ristrutturazioni (“Il potere politico sta nelle canne dei fucili”, Mao Tse-tung) e a rivivere il clima di quegli anni. A partire dal baronaggio spietato (oggi tutt’altro che scomparso, dicono le cronache), come quello di un grande italianista che agli esami faceva indossare le pattine per non rovinare il parquet e ti bocciava se incespicavi. Ha senso rivangare il ’68, oggi, quando i suoi protagonisti sono per lo più incanutiti, imborghesiti, accomodati? Fq MillenniuM cerca di raccontare, come si fa con un cold case, un momento storico che ha scosso il mondo. E di sgomberare il campo dalle opposte retoriche che, come spesso succede, annebbiano i fatti.
Il Sessantotto è morto, viva il Sessantotto, scrive Aldo Ricci il 13 e 16 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il ’68 lo feci, o meglio ci passai a/traverso, presso l’ancor Libera Università di Trento. Su quell’esperienza e sulle sue conseguenze ho scritto tre saggi, diversi articoli nonché un romanzo-saggio introvabile perché ritirato, si fa per dire, dal mercato. Secondo Mauro Rostagno, nel movimento anti/autoritario trentino ero: “L’opposizione costituzionale interna”. Vale a dire che pur facendo parte del movimento, lo contestavo dall’interno, dato che, non essendo né marxista, né operaista, né tantomeno rivoluzionario, ritenevo che la nostra fosse più una rivolta generazionale, piuttosto che una vera e propria rivoluzione sessuale & culturale già avvenuta nei paesi più avanzati. Ciò premesso, posso affermare con orgoglio che, grazie al mio contro/corso “Psicoanalisi e Società repressiva”, quella di Trento fu la prima università italiana dove la psicoanalisi, dopo decenni di ostracismo fascio-catto-comunista, venne ufficialmente ammessa negli atenei italiani. Per non dire poi degli incontri-confronti con Franco Basaglia, e della ricerca nelle carceri italiane poi best seller Einaudi, nonché libro di testo in diverse università italiane. Su FQ Millennium, il magazine del Fatto che Peter Gomez ha dedicato al cinquantenario del ’68, quest’ultimo, che in quella di Trento e in altre università italiane iniziò nel ’67, era già esploso a Berkeley nel ’64, come dire che le radici del movimento nostrano, venne influenzato dalla contestazione studentesca, nonché dalla saggistica e dalla letteratura americane. Tornando alla non facile sintesi di Millennium, il suo direttore, non potendo ovviamente dare la parola a tutti i protagonisti, ha finito per darla a “quelli che ce l’hanno fatta” – piuttosto che a quelli che non ce l’hanno voluta fare – i quali si sono affermati nei media, nella politica e nelle professioni così/dette liberali, e/o perché rimasti all’interno degli schieramenti formalmente de sinistra, come Capanna, D’Alema, Mieli, Moretti, Strada, etc. A quest’ultimi vanno aggiunti coloro che, come Capuozzo, Cicchitto, Ferrara, Mughini, Pecorella, etc., si son ritrovati a destra. A questi vanno aggiunti i trasversali, a partire da quel Sofri Adriano che “finita la baldoria anche se condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio Calabresi – dettaglia Massimo Fini – divenne editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più venduto quotidiano di destra, Panorama, Leonardo Marino rimase a vendere le frittelle a Bocca di Magra”. Ma comunque sia o sia stato, cosa rimane oggi di quell’anno famigerato? “L’orgoglio d’aver anticipato la modernità – risponde lo storico Giovanni De Luna – non c’è nessuno di noi che sia diventato un maestro, non abbiamo lasciato discepoli. Eravamo estranei al potere e volevamo mettere la maggior distanza possibile dai poteri: così alcuni di noi, dopo, sono finiti ad adorare compiaciuti il potere, mentre altri hanno mantenuto una estraneità assoluta al Potere”. Come per esempio Oreste Scalzone di Potere Operaio o Vincenzo Sparagna fondatore di Frigidaire, nonché tutti coloro che presero le distanze da quelli che il successo lo ottennero facendo li froci cor culo dell’artri, c’est a dire alla faccia di quelli che, a torto o a ragione, tentarono a proprio rischio e pericolo di ribaltare il sistema e non di miglioralo, né tantomeno di co-gestirlo, pagando con anni di galera, come nel caso di Curcio and CO; oppure saldando il conto in termini di auto-emarginazione, droga, suicidio & via discorrendo. Keith Richards, ma sì proprio il chitarrista dei Rolling Stones, nel suo poderoso Life steso con James Fox – una lettura da raccomandare a tutti i pallosissimi estensori di gran parte dei documenti politici e dell’indigesta saggistica sessantottarda – a proposito dell’occupazione della Sapienza nel ’67, dettaglia: “Si respirava anche un’aria di rivoluzione, molte sfumature politiche, tutte bazzecole tranne le Brigate Rosse che arriveranno più tardi. Prima delle rivolte di Parigi dell’anno seguente, gli studenti avevano dato vita a una contestazione all’Università di Roma, dove andai anch’io. Si erano barricati, ma qualcuno mi fece entrare di straforo. Erano un fuoco di paglia, come rivoluzionari”. Punto di vista che combacia con quello di Massimo Fini: “I sessantottini come rivoluzionari erano farlocchi, ma tutt’altro che innocenti”.
Ai sessantottini furbi, quelli che per esempio imposero il 30 politico, che poi finì per devastare la credibilità dell’università italiana, vanno aggiunte frotte di emuli tornacontisti: artisti, intellettuali, imprenditori & via discorrendo. Come, per esempio, quel quotatissimo artista già patron di una nota casa farmaceutica, che soleva girare con il distintivo di Mao Tse Tung in punta di berretto made in China. O quel compagno tridentino che più di sinistra di così, mentre oggi docente universitario nella stessa università, si pasce della sua scintillante Jaguar. O quell’ex contestatore doc che, sempre a Trento, organizzò una colletta, a cui gli artisti dell’arte povera così/detta parteciparono donando opere poi vendute all’asta, per acquistare una partita di armi… anche se c’è chi ancor oggi sostiene che ciò sarebbe frutto di fantasia, visto & considerato che, sempre secondo costoro, le Br non presero le mosse all’università tridentina, come taluni futuri membri di Lotta Indefessa ancora sostengono, al contrario di Mauro Rostagno che, dopo esserne uscito, produsse il manifesto Dopo Marx, aprile dichiarando: “Io, marxista d’avanguardia, una cagata senza precedenti” – la ragione principale della sua rimozione da parte dei suoi ex amici, fatto salvo Curcio che alla domanda di chi avesse ammazzato Rostagno, tra l’altro rispose: “Lo hanno ucciso perché ha detto, non dicendole in fondo, delle verità che sconquassano gli assetti del potere politico, perché ha tradito la solidarietà di chi infine si è legato a gruppi di potere che lui non amava, che lui non poteva accettare e ai quali non ha mai appartenuto. Per questo l’hanno ucciso!”. Che dire infine di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore di sinistra per antonomasia, nonché “rivoluzionario dilettante di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in casa editrice” – precisa Massimo Fini citando la seconda moglie del fu editore, vale a dire Sibilla Melega la quale, nella sua residenza nei pressi di Villach, quasi mi ammazzò dalle risate a forza di aneddoti sui vari tipi di travestimento, a cui il grande editore ricorreva per passare inosservato su un’ammaccata Volkswagen, tutte le volte che varcava la frontiera austriaca, per recarsi indisturbato nella sua immensa proprietà terriera in Carinzia. Cosa lascia in eredità il ’68? Lo svecchiamento e la conseguente modernizzazione di questo ex bel paesino, bigotto, retrogrado e conservatore, aprendo a diritti civili già acquisti in altri paesi e società. Una liberazione sessuale sotto forma di ideale collettivo anche se, secondo Jean Baudrillard, si trattò di un’ulteriore ascesa dell’individualismo, il che è tutt’altro che negativo in un paese tradizionalmente pecorone e conformista. Infine, e soprattutto, il radicalismo chic e il politically correct che a quanto pare stanno favorendo le destre europee. Cosa poi ne sia stato dei suoi protagonisti, partecipanti e comparse, dipese dal fatto che essi fossero o meno chierici rossi di una supposta rivoluzione proletaria indotta dai figli della borghesia, oppure ribelli tout court come nel caso del sottoscritto. Dove la differenza tra i primi e i secondi sta nel fatto che mentre i primi, presto o tardi si accontentano persino di farsi ridurre a nani & lacché, i ribelli continueranno a resistere fino alla fine dei loro giorni.
“A cinquant’anni di distanza dal ’68 e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati, dei sessantottini no” – conclude Massimo Fini su Fq Millennium – Sia pure invecchiati formano una potente frammassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Manconi, Sofri, Lernersono i primi nomi che mi vengono in mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o manager, in età, trovi che molti hanno un passato extraparlamentare. Poi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne sbarazzeremo mai”. Il sottoscritto invece, pur in sintonia con Fini che però non distingue tra i post sessantottini integrati e quelli che no, ricorda il ’68 trentino come il periodo più intenso, emozionante e divertente della sua vita – mood & climax nell’università di Trento erano assai diversi da quelli della Statale di Milano con i suoi katanga – nonostante il devastante primato della politica che oggi, come lucida/mente Emanuele Severino, ha imboccato la via del tramonto. Processo indubbiamente positivo. Tanto è vero che Rostagno, l’indiscusso carismatico leader del ’68 tridentino, durante l’assemblea del ventennale – A Trento vent’anni prima 1968/1988 – così concluse il suo ultimo, magistrale intervento: “… e meno male che non abbiamo vinto!”. Un dettaglio, quest’ultimo, assai più importante di tutto l’insieme, che però da solo non basta a obnubilare la profonda delusione seguita all’abbandono dell’Università Critica che, geniale creatura sperimentale tutta interna al movimento della sociologica facoltà di Trento – a differenza dell’Università Negativa di Renato Curcio, sorta di premessa alle future Brigate Rosse – avrebbe potuto fungere da volano innovatore di tutta l’università italiana nel suo complesso. Ma purtroppo così non è stato. Forse perché, parafrasando Guy Debord: “Nel ’68 invece della contestazione dello Spettacolo, ci fu lo spettacolo della contestazione”. L’equivoco, letale, ha annientato la mia generazione e quelle susseguenti.
1968, il fallimento degli adulti che i giovani hanno pagato. Un’istanza di maggiore autenticità – percepita come tradita nella generazione adulta – è stata la base del movimento. Il ‘68 creò nei giovani l’illusione di poter soddisfare l’urgenza di autenticità ripartendo unicamente da se stessi: questo l’errore mortale, scrive il 3 aprile 2008 Pier Alberto Albertazzi su "Il Sussidiario". Facendo un rapido calcolo, chi parla oggi del 1968 sta mediamente per raggiungere - o ha da poco superato - i 60 anni e parla quindi della propria giovinezza. Non può quindi stupire che gran parte di costoro trovi quegli anni entusiasmanti e ne abbia nostalgia; né che qualcuno - allora protagonista delle prime pagine dei giornali e a capo di folle che ora evidentemente gli mancano molto, per come ne è in cerca – li trovi addirittura formidabili. Ma ci sono anche tanti cui la giovinezza in quegli anni fu sottratta, proprio dal “68”. Il primo dato da considerare è che il fenomeno di cui si parla, originariamente - cioè negli anni 1967-68 - riguardò quasi senza eccezioni un’intera generazione in Europa, nelle Americhe ed anche oltre. Si trattò di un fenomeno insorto in tanti paesi per lo scontro tra la prima generazione entrata in università senza aver dovuto fare i conti col dolore della guerra né con l’entusiasmo e la gratitudine della ricostruzione, e la generazione che si trovava allora al potere. Un testimone appassionato di quegli eventi definiva questa fase nascente del ‘68 come caratterizzata da una «istanza di maggiore autenticità di vita, della vita pubblica», una «urgenza di autenticità nel vivere sociale dettata da una irrequietezza che implicava la ricerca di un’autenticità anche per la persona», un «impegno a una trasformazione globale della società…… per affermare l’autenticità al posto dell’equivoco, della menzogna, della maschera di cui si viveva». Quella urgenza veniva percepita come assente, di più, tradita nella generazione adulta la quale aveva appena cominciato a tirare il fiato e a godersi il livello di benessere raggiunto al termine della ricostruzione post-bellica. La percezione di questo tradimento ebbe due versioni principali. I comunisti avevano tradito perché avevano impedito che la resistenza sfociasse in una vera rivoluzione. I nemici di classe erano ancora tutti lì, al potere. Bisognava tornare alla resistenza per abbattere quei nemici, itinerario che alcuni percorsero tanto coerentemente da giungere a riorganizzare la lotta armata. I cattolici vedevano i loro padri al potere in uno stato dove le disuguaglianze erano ancora immense e non sembrava che se ne facessero carico come necessario. Bisognava perciò “tornare” ad un cristianesimo capace di battersi contro le ingiustizie e di abbracciare sul piano sociale le lotte dei poveri e degli sfruttati. In realtà, quello che veniva rifiutato non era solo una tradizione ritenuta inadeguata ma la sua necessità stessa. Ripartiamo da noi! Un’illusione che li avrebbe resi schiavi (spesso inavvertiti) di alcune delle peggiori tradizioni e li avrebbe portati a riconoscere come propri maestri pensatori e leader politici che avevano ispirato e costruito alcune delle società più oppressive e inautentiche della storia. Com’era da aspettarsi, i due principali filoni (comunista e cattolico) finirono per confluire e dalle file cattoliche vennero, in effetti, molti che abbracciarono non solo la contestazione, ma poi anche le forme di politica più violenta fino all’uso delle armi: ma per la “Giustizia”, questo e altro! All’inizio, tuttavia, il ‘68 fu veramente un fenomeno partecipativo e aperto. Nelle prime assemblee del 1967 nella facoltà di Medicina a Milano, ad esempio, anche gli studenti del Fuan ( il movimento giovanile dell’allora Msi) intervenivano contribuendo ai progetti di una “università diversa” per i quali si utilizzavano i testi di don Milani, il cui discorso su autorità e obbedienza non era come talora viene dipinto (d’altra parte in pochi posti si ubbidiva così ferreamente come nella sua scuola) ma intendeva sottolineare l’indispensabilità di una educazione non autoritaria e capace di sviluppare la libertà e la responsabilità di ciascun giovane: per questo erano necessarie figure “autorevoli” (lui per i suoi ragazzi lo era), proprio quelle che la giovane generazione di quegli anni (1968 e seguenti) non riconobbe o perché non c’erano, o perché non li seppe riconoscere, o perché sbagliò a trovarli, illudendosi. Gli sviluppi successivi a questo inizio ricco di istanze e urgenze condivisibili e condivise furono, come si sa, molto diversi sia a causa dell’errore mortale in esso insito (per costruire il nuovo dobbiamo partire solo da noi) sia per una serie di nuovi fenomeni quali l’ingresso in massa di attivisti rivoluzionari professionisti nelle schiere studentesche in rivolta; il gioco dei partiti a cavalcare tale rivolta (e a scavalcarsi in questo); l’intrusione possibile, in moti così profondi e diffusi, anche di altre organizzazioni, le più varie, in modi comprensibilmente mai del tutto chiariti. Ma chi ha pagato, alla fine, sono stati soprattutto gli studenti. Molti, è vero, hanno fatto carriera, forse proprio grazie ai “meriti” di quel tempo. Molti però hanno avuto la vita rovinata o tolta. Vorrei limitarmi ad un esempio e ad un ricordo, anche come riconoscimento pubblico (pur in questo minuto angolo) della figura di Carlo Saronio, ragazzo di ricca famiglia di una bontà, purità e nobiltà d’animo rara il quale, penso per la propria generosità, seguendo amici che amici non erano, finì poco più che ventenne sotto pochi palmi di terra, oscuramente. Una delle vicende più atroci, ma simbolica di centinaia di altre vite finite in rovina seguendo una falsa, e non più sopportabile ad un certo punto, illusione. Dov’ero io in quegli anni? Ero con non pochi amici nelle aule e nei cortili di Città Studi e della Statale di Milano, anche se non avevamo l’”agibilità politica”. Avevamo però qualcosa da vivere che né i servizi d’ordine istruiti ed equipaggiati militarmente né la riedizione dell’opera omnia di Stalin potevano impedire o tacitare. Anzi, ci eravamo persino messi a scrivere un bollettino che avevamo chiamato un po’ pomposamente “Comunione e Liberazione”: come titolo non piaceva a nessuno, ma indicava in modo esplicito qualcosa che noi avevamo incontrato, che c’entrava con l’ansia di quegli anni e di cui volevamo poter parlare anche agli altri nostri compagni. Riuscivamo anche a diffonderlo (pur con una certa circospezione), tanto che cominciammo a essere identificati come quelli che facevano circolare il bollettino “Comunione e Liberazione”, quelli di CL cioè, da scovare ed espellere dall’università. Perché correre tanti rischi? Semplice. Gli amici che se ne stavano andando nelle file del “movimento studentesco”, e che io stavo perdendo, erano stati per me tramite di un incontro con un Maestro che non mi stava deludendo di fronte a questa istanza di autenticità umana. Anzi. Né mi avrebbe deluso mai in seguito. L. Giussani. La lunga marcia dell’educazione. Intervento del 1971. In “Tracce”, marzo 2008, Milano
1968, quando la laurea era un tesoro e gli emigranti spedivano in patria 5 miliardi. Solo un quarto delle famiglie possedeva sia la tv sia la lavatrice sia l'auto: il 23% non aveva nessuna delle tre. La lavastoviglie, poi, era un'aspirazione alla portata di meno del 3% della popolazione. In compenso per comprarsi una 500 nuova bastavano cinque stipendi. E chi aveva proseguito gli studi dopo le superiori guadagnava più del doppio della media, scrive Chiara Brusini il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gli italiani erano 53 milioni e sognavano la Nuova 500 e la tv Urania con il tubo catodico, ovviamente in bianco e nero. I nostri emigranti spedivano ogni anno in patria l’equivalente di 5,6 miliardi di euro, più o meno pari alle rimesse che oggi gli immigrati in Italia inviano nei Paesi di provenienza. I laureati guadagnavano più del doppio della media. E solo un quarto delle famiglie possedeva sia la tv sia la lavatrice sia l’auto: il 23% non aveva nessuna delle tre. La lavastoviglie, poi, era un’aspirazione alla portata di meno del 3% della popolazione. Correva l’anno 1968, quello a cui è dedicato il numero di FqMillenniuM in edicola da sabato 7 ottobre. Per capire come stavano gli italiani torna utile una delle prime indagini su risparmio e struttura della ricchezza dei residenti, pubblicata l’anno dopo dalla Banca d’Italia guidata allora da Guido Carli. Il reddito medio di un nucleo familiare, rilevavano gli analisti di via Nazionale, era di 1,6 milioni di lire all’anno. Ma i pochi che avevano proseguito gli studi dopo le superiori arrivavano a prendere in media 2,5 milioni (contro le 600mila lire degli analfabeti). E’ l’equivalente di 35mila euro attuali. Ai laureati di oggi va molto peggio: il reddito medio è di 17.500 euro annui. Nonostante le differenze legate al titolo di studio, l’Italia del ’68 era ancora un Paese con un tasso di disuguaglianza molto basso. Le famiglie che ricadevano nei primi tre decili – in soldoni le più povere – percepivano il 35% del reddito totale. Nel 2014, per fare un confronto, quella quota è scesa all’11,7%. Il 37,4% delle uscite mensili del resto era destinato all’acquisto di alimentari: oggi la percentuale si ferma al 17,7%. In compenso gli elettrodomestici erano un lusso: solo un quarto della popolazione aveva l’aspirapolvere e meno del 40% possedeva la lavatrice. Le percentuali salivano rispettivamente al 68 e all’85% tra chi aveva redditi oltre i 3,5 milioni di lire. Ma anche nelle case di questi Paperoni la lavastoviglie era una comodità poco diffusa: ce l’avevano solo 3 su 10. L’auto, in compenso, stava diventando un bene di massa. Nella Penisola ne circolavano solo 9,2 milioni, contro i 38 milioni di oggi, e i listini di casa Fiat consentivano a quasi tutti i lavoratori di metterne una in garage. A un under 30 bastavano cinque stipendi per comprarsi una 500 nuova. Se era laureato, quattro erano più che sufficienti. Oggi, stando ai dati Istat, la famiglia di un 35enne deve metterne da parte quasi sette per portare a casa una Nuova Fiat 500 a benzina, modello base. La passione degli italiani per il mattone, poi, era già scoppiata ma stava iniziando solo da pochi anni a mostrare i propri effetti: le famiglie con casa di proprietà erano il 49% del totale contro il 41,7% del 1961. Oggi la quota è del 78%. Tuttavia, ricordava Bankitalia, “i movimenti interni di popolazione, sia in senso verticale (Sud-Nord) che orizzontale (campagna-città), interessando in prevalenza gruppi di famiglie a basso reddito, si accompagnano nei primi anni dell’insediamento a un’elevata diffusione della locazione”. L’affitto era comunque ben più abbordabile di oggi: in media la pigione ammontava al 14% del reddito. Oggi, sempre secondo via Nazionale, l’incidenza è del 23%. Che cosa succedeva nei tanti appartamenti di studenti trasformati in “comuni” è un’altra storia.
I dieci danni che ci lasciò il '68. Mezzo secolo fa l'arroganza del (presunto) contropotere generò la dittatura chiamata "politicamente corretto", scrive Marcello Veneziani, Domenica 25/02/2018, su "Il Giornale". Sono passati cinquant'anni dal '68 ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.
SFASCISTA. Per cominciare, il '68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l'ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto. Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell'epoca. Il potere destituente. Non a caso si chiamò Contestazione globale perché fu la globalizzazione destruens, l'affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell'arte e della storia. Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.
PARRICIDA. La rivolta del '68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come Padrone, come docente, come autorità. Il '68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l'uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci. Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l'educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi. Il giovanilismo di allora era comprensibile, il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.
INFANTILE. Di contro, il '68 scatenò la sindrome del Bambino Perenne, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato. La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del '68 diventò soggettivismo puerile, emozionale con relativo culto dell'Io. La denatalità, l'aborto e l'oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.
ARROGANTE. Che fa rima con ignorante. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di Contestatore si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un'ignoranza costituente, rivoluzionaria. Il '68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l'ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.
ESTREMISTA. Dopo il '68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del '68 ma uno dei suoi esiti più significativi. L'arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale. Dal '68 derivò l'onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l'Africa e il Black power. Il '68 fu la scuola dell'obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo. Il '68 non lasciò eventi memorabili ma avvelenò il clima, non produsse rivoluzioni politiche o economiche ma mutazioni di costume e di mentalità.
TOSSICO. Un altro versante del '68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al '68, si incontrarono con l'onda permissiva e trasgressiva del Movimento e prese fuoco con l'hashish, l'lsd e altri allucinogeni. Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L'ideologia notturna del '68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l'esito principale del '68 ma una diramazione minore o uscita laterale.
CONFORMISTA. L'esito principale del '68, la sua eredità maggiore, fu l'affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il '68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l'ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il '68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.
RIDUTTIVO. Il '68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all'attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato. Era l'unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all'attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell'odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.
NEOBIGOTTO. Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il '68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il '68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il p.c. è il rococò del '68.
SMISURATO. Cosa lascia infine il '68? L'apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua. Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l'illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall'utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni... Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del '68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l'effervescenza del clima e altro... Ma i pregi ve li diranno in tanti. Io vi ho raccontato l'altra faccia in ombra del '68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.
Marcello Veneziani Editorialista del Tempo, sul '68 ha scritto Rovesciare il '68 (Mondadori, anche in Oscar, 2008)
Le troppe ambiguità di quel lungo anno di finta rivoluzione. Nel libro di Marcello Veneziani i cortocircuiti culturali che da allora ci perseguitano: eccone un estratto, scrive Marcello Veneziani, Martedì 05/06/2018, su "Il Giornale".
NON-EVENTO. Nel 68 cambiò tutto ma non successe nulla. Non c'è un evento cruciale, storico, simbolico che abbia caratterizzato il 1968. Nessuna presa della Bastiglia, nessun assalto al Palazzo d'Inverno, nessuna decapitazione di sovrani e nessun avvento al potere. Non accadde nessuna rivoluzione e nemmeno un'insurrezione con vincitori e vinti, vittime e prigionieri. Non ci fu una guerra e nemmeno vere battaglie. Un anno povero di grandi eventi legati alla Contestazione ma pieno di parole, traboccante di slogan, di gesti simbolici, di sfilate, di proteste, di scontri, ma senza bilanci storici. Verboso, parolaio; interminabili e scontrose assemblee. Pochi fatti, tanta Chiacchiera. Il 68 non è un avvenimento storico ma un clima, un humus, forse un virus, una nube tossica o un gas esilarante, insomma un'ineffabile atmosfera che permeò un'epoca tutt'ora vigente e ne dettò le tendenze. Fuochi fatui per un incendio virtuale ma globale.
GLOBALE. Comincia col 68 il nostro infinito presente globale. Il passato si volatilizza, la storia si dimentica, il futuro si dilegua e diventa solo un interminabile presente. Tutto sembra aver inizio ora, e tutto deve arrivare subito, con impazienza e insofferenza. Si volatilizzano pure i confini, si perde il senso del limite e delle storie locali e nazionali, tutto diventa globale. Fu chiamata infatti contestazione globale, ma in principio globale stava per totale, oggi sta per sconfinato. Mondiale. L'unica linea di frontiera è disegnata dalla tv, tra le zone in luce e quelle in ombra nel pianeta. Il presente rompe i suoi argini, cancella il passato e fagocita l'avvenire, la trascendenza viene riportata al presente, il futuro viene convocato nell'imminente, la passione per l'illimitato esplode e si libera di ogni confine. Totale, infinito, globale. Col 68 l'infinito prende il posto dell'eterno, l'illimitato sostituisce l'immortale.
IMMEDIATO. Il sessantotto segna l'avvento dell'Immediato in tutta la sua ambiguità: immediato come privo di deleghe e mediazioni, ma anche immediato come istantaneo, da ottenere subito, senza attese e sacrifici. L'immediatezza come improvvisazione, riduzione del desiderio alla sua realizzazione, futuro che si contrae, confluisce nel presente. Il tempo del 68 come l'Ulisse di Joyce si svolge tutto in un giorno solo, una lunga, interminabile giornata che si protrae nella notte. Sorse allora, con grida libertarie, la dittatura del presente. Eliot prefigura la condizione sessantottina: «... cercando di disfare, brogliare, districare e rattoppare insieme il passato e il futuro, tra mezzanotte e l'alba, quando il passato è tutto inganno, il futuro assenza di futuro». Col tempo, la rivoluzione di piazza si ricacciò nella sfera intima e personale; l'orologio della piazza fu sostituito dall'orologio da polso. Il tempo assoluto dal 68 in poi è tempo soggettivo, prima a misura di collettivo, poi di singolo. La generazione del 68 fu la prima a crescere avendo in casa frigorifero e termosifone, tv e telefono e l'auto in famiglia. I sessantottini furono i primi a vedere l'uomo nello spazio, il villaggio globale, la messa non più in latino. I primi a vedere le guerre e le rivoluzioni direttamente in casa, tramite la tv. Fu la prima generazione a sentirsi figlia di un tempo prima che di un luogo, di un'epoca prima che dei propri genitori.
POSTVERITÀ. Nel 68 si persero i confini tra il vero e il falso, tra il fatto e la diceria, tra il ragionamento e l'emozione, tra i diritti e i desideri. Il 68 scoprì che dietro ogni verità, dietro ogni fatto, dietro ogni ordine, ogni storia e ogni legge, anche di natura, c'è un abuso di potere, un sopruso e un falso ideologico. Il regno delle fake news sorge lì o quantomeno trova la sua giustificazione ideologica più potente. Niente è come appare, tutto è come mi sembra. Non c'è la realtà vera, e non c'è fedeltà, autorità, natura, merito; ma tutto è soggettivo e soggetto ai modi di vedere, di pensare, di sentire. Tutto è figlio del clima sociale, è frutto d'interpretazione e stato d'animo. Nel 68 si persero i confini tra lecito e illecito, tra naturale e volontario, tra realtà e sogno, tra alto e basso, tra virtuale e fattuale. E tra sessi, tra Stati, tra popoli. Saltano gli argini, tutto è spettacolo. Nasce la post-verità, cioè la verità a modo mio o la verità secondo il potere dominante. Le fake news di oggi maturano in quel clima di allora.
NEOBIGOTTO. Conseguenza diretta del conformismo sessantottino fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista che nasce per tutelare le minoranze ritenute svantaggiate e le categorie ritenute deboli e oppresse, ma finisce col diventare un nuovo catechismo al servizio dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il 68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il 68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto altre lenti. Il codice della falsità si applicò alla sfera sessuale e lavorativa, alle malattie e agli handicap, alle diversità, stravolgendo parole, ruoli, mansioni, definizioni, significati. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il politically correct è il rococò del 68, ancora in uso, imposto dalle classi dominanti. Con tutto lo sciame di eufemismi e falsità pur di nascondere la realtà sotto il tappeto del nuovo bigottismo. Una rivoluzione contro l'ipocrisia borghese che impone una nuova, stucchevole ipocrisia radical sotto il chador del nuovo pudore umanitario, buonista.
Il 1968: la rivoluzione e gli errori della politica. Dalla battaglia di Valle Giulia alle Brigate Rosse e di Autonomia operaia. Fuoco e furia ma anche riforme e cambiamenti per un modello oggi in piena crisi, scrive Stefano Cingolani il 28 febbraio 2018 su "Panorama". Il primo marzo di cinquant’anni fa, la battaglia di valle Giulia, tra villa Borghese e la collina dove sorge ancor oggi la facoltà di Architettura, segnò il vero inizio del Sessantotto romano. E io non c’ero. Così, non ho potuto vedere Giuliano Ferrara precipitarsi lungo il clivo per sfuggire alle cariche di polizia (rimase anche ferito) né Ernesto Galli della Loggia, Paolo Liguori, Oreste Scalzone, Massimiliano Fuksas che venne anche arrestato. È lunghissimo l’elenco di tutti quelli che erano là e nel corso del tempo hanno imboccato i sentieri più diversi, professori, parlamentari, archistar, terroristi o eterni agitatori come Piero Bernocchi il quale, a mezzo secolo di distanza, organizza ancora antagonisti e comitati di base. Non ho visto nemmeno Michele Placido che allora faceva il celerino e picchiava gli studenti, quelli di sinistra e quelli di estrema destra in lotta contro i rossi, ma anche contro i poliziotti. E anche qui non mancano i nomi che hanno segnato gli anni di piombo, Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Adriano Tilgher. Non erano figli di papà (non tutti) che si battevano contro poliziotti-proletari, non era la borghesia che si ribellava a se stessa, come scrisse Pier Paolo Pasolini nella poesia rimasta famosa con la quale si schierava dalla parte della celere. Perché non si trattò di una rivolta di classe nonostante venisse rappresentata così dalle frange più ideologiche, fu piuttosto una rivolta generazionale, in Italia come negli altri paesi occidentali, e senza dubbio è stata la più grande scossa violenta imposta da una generazione nel secolo scorso. In piazza nel 1968 c’erano i baby boomers, quelli nati dopo la seconda guerra mondiale, erano di sinistra e di destra e volevano scuotere il vecchio ordine. Lo hanno fatto, sono anche andati al potere, hanno diretto giornali, girato film, formato governi, sono persino entrati nei templi del capitale, banche e grandi industrie, si sono arricchiti, ma non hanno costruito nessun nuovo ordine. Dovrei dire, in realtà, "non abbiamo" perché il giorno dopo c’ero anch’io a piazza del Popolo alla manifestazione di reduci di sinistra, incerottati ma non domi, anzi. Da allora tutto precipitò per almeno un decennio lungo un piano inclinato che finì in parte nelle Brigate Rosse in parte in Autonomia operaia nel 1977, finché non arrivò il grande riflusso che a partire dagli anni Ottanta spense gli ultimi fuochi, non senza drammatici e luttuosi colpi di coda. I baby boomers avevano mostrato dove portava la loro volontà di potenza, e l’era dell’Acquario si trasformava nella società narcisistica che avrebbe dominato per il resto del secolo, lasciando molte macerie e ancor più delusioni.
Non solo fuoco e furia. Rivalutare il 68 è impossibile per la unicità del fenomeno, ma è difficile anche valutarlo. Non fu tutto fuoco e furia; in Italia, come in Francia o in Germania, arrivarono riforme e cambiamenti: le pensioni, la sanità pubblica, lo statuto dei lavoratori, salari e stipendi allineati a quelli dei paesi più ricchi. L’intero welfare state che abbiamo conosciuto, è frutto di quegli anni, del combinarsi di rivolte giovanili e lotte operaie. Oggi che quel modello è profondamente in crisi val la pena esaminarne a fondo pregi e virtù.
Un bilancio. La variante italiana dentro un movimento di così vasta portata, è caratterizzata da quella che l’economista Michele Salvati ha chiamato la monetizzazione delle riforme. In altri termini, le classi dirigenti, politiche ed economiche, hanno realizzato vasti cambiamenti con l’illusione di non farli pagare a nessuno. L’ampia franchigia/evasione fiscale a favore dei ceti medio-alti e dei lavoratori autonomi (agricoltori, commercianti, professionisti) s’è accompagnata ad un aumento secco della spesa pubblica, così che nel corso di un decennio o poco più il debito dello stato è raddoppiato rispetto al prodotto lordo, passando dal 60 al 120 per cento. Dunque, potremmo dire che il debito pubblico è colpa del Sessantotto? In realtà, è colpa di come il sistema economico e politico ha reagito alla spinta che veniva dal basso, senza tener conto delle compatibilità interne e internazionali e comprando con il debito il consenso elettorale. Sarebbe ora che gli ex sessantottini, soprattutto quelli che, giunti ormai alla pensione, hanno penetrato il sistema che volevano abbattere, facessero una seria autocritica, una riflessione di fondo, e non un omaggio retorico al tempo passato. Il dibattito sul debito pubblico, tanto per fare un esempio concreto, non ne tiene conto. Men che meno il dibattito politico. In questa campagna elettorale tutti hanno promesso miracolistiche riduzioni del fardello che schiaccia il paese, gettando sempre la colpa sugli altri; mai nessuno che dica l’amara verità: non ci sono pasti gratis, ogni cambiamento comporta un pagamento, se vogliamo le pensioni più vaste d’Europa o la sanità per tutti, bisogna produrre abbastanza ricchezza da destinare a questo scopo. In fondo è buon senso, non teoria economica. Già, ma al Sessantotto il buon senso faceva ribrezzo.
Il 1968: perché è un anno da dimenticare. Ha rappresentato il crollo del principio di autorità, lo sfilacciamento della responsabilità, la cancellazione del merito, scrive Marco Ventura l'1 marzo 2018 su "Panorama". Il ’68? Un anno da dimenticare. Ha introdotto in Italia l’irresponsabilità, la creatività individualista fine a se stessa ma unita al collettivismo, il ripudio del merito, lo strapotere delle ideologie. Si parla poco del ’68, eppure il 1° marzo ricorre l’inizio canonico delle celebrazioni del cinquantenario con il ricordo della “battaglia di Valle Giulia”, quando gli studenti attaccarono la polizia per il controllo della Facoltà di Architettura a Roma. Fu un pomeriggio rovente, che si concluse con centinaia di feriti (146 tra le forze dell’ordine, 478 fra gli universitari “rossi” e “neri”) più 10 arresti e 228 fermi. Due mesi dopo partì il maggio francese con la fusione della protesta di universitari e operai, mentre negli Stati Uniti la rivolta nelle Università assunse caratteri da Nuovo Mondo: pacifismo contro la guerra in Vietnam, e rivendicazioni razziali. Anche nell’Est Europa arrivò l’onda lunga della rivoluzione che coincise con gli otto mesi di esperimento riformatore di Dubcek, soffocato dai carri armati sovietici. La primavera di Praga significò però ben altro che il nostro ’68, che nelle sue componenti “rosse” era comunista (a dispetto dei distinguo interessati e, diciamo così, postumi). Ho un piccolo ricordo personale. Avevo 7 anni, nel ’68, ma qualche anno dopo mio padre si ritrovò nella Commissione per gli esami di abilitazione alla professione di architetto. Il ’68 aveva portato fra l’altro due novità: la contestazione del principio di autorità e l’esaltazione della creatività contro regole e rigidità del sistema…Poi un’aspirazione militante al livellamento, sotto forma di lotta contro i “privilegi di classe” per cui il buon andamento a scuola era considerato un ingiusto vantaggio dei figli della borghesia che avevano la possibilità di studiare nelle ricche biblioteche di famiglia. Poco importa che i sessantottini fossero figli loro stessi di quella borghesia, non di rado medio-alta. Ricordo che mio padre decise con gli altri componenti della Commissione (dopo anni in cui si dava il 18 politico, si promuoveva e abilitava chiunque e si ammettevano alla fine degli studi progetti di città sottomarine di vetro o palazzine simili a sculture invece che case abitabili) di porre domande semplici che nessun professore poneva più, per non apparire reazionario: che cos’è un sifone, di cosa è composto il cemento, come si progetta un bagno perché la porta non sbatta contro il water. In quella sessione, fu bocciata la maggioranza degli aspiranti architetti, che a quelle domande basiche non seppero rispondere. Ricordo le telefonate di minaccia che ci arrivarono a casa per quella piccola controrivoluzione. Per me il ’68 significa quello: il crollo del principio di autorità col pretesto di abbattere l’autoritarismo (che è cosa diversa), lo sfilacciamento della responsabilità per cui vale più un’idea fantasiosa ma sconclusionata, che non la serietà di un progetto capace di far nascere un palazzo, un ospedale, una sala concerti, utile per chi ci vive. Per me, il ’68 significa quel movimento che in nome dell’eguaglianza e della lotta alla borghesia e ai suoi privilegi, ha cancellato il merito e le pari opportunità. Per la prima volta, forse, è invalso il principio per cui uno è uguale a uno. È rimasto, della celebre provocazione di voler portare la fantasia al potere, l’amore del potere. Come dimostra la capacità politica degli ex capipopolo sessantottini di riciclarsi nella società in posizioni di potere, per esempio nel mondo finanziario e nei media, che all’epoca erano i principali bersagli dei loro slogan demolitori. Il ’68 significa anche la vittoria di una classe di intellettuali che per tanti, troppi anni, ha monopolizzato l’editoria, la magistratura, l’accademia, e ha introdotto nella cultura un elemento, quello del discrimine ideologico, che ha escluso fior di scrittori, artisti, accademici. C’è stato un eroismo del ’68 che non è quello dei sessantottini, ma di quanti dai sessantottini furono ostracizzati. Dopo il ’68, in Italia ha agito una dittatura culturale per la quale chiunque non aderisse a quelle matrici ideologiche (il cattolicesimo “socialista”, il pacifismo anti-imperialista che di fatto faceva il gioco del blocco sovietico e delle dittature comuniste, la critica del capitalismo che per successive metamorfosi avrebbe prodotto i progetti terroristici degli anni ’70) era inevitabilmente tacciato di fascismo o, peggio, di cultura “borghese”. C’è chi sostiene che anche il valore della famiglia si è svalutato con il ’68. Non è escluso. Certo, sessantottina era l’idea che i figli della classe operaia non potessero emanciparsi e, quindi, si dovesse immaginare per loro una grammatica che accettasse la perdita dei congiuntivi. Certo, sessantottina era l’idea del 18 politico. Con la conseguenza di avere ancora architetti incapaci di progettare un bagno, ingegneri che non saprebbero calcolare un’autostrada, magistrati che forse intendono il loro incarico come una missione politica, non come l’esercizio di una funzione di garanzia super partes. C’è anche stata molta violenza, nel ’68. E i sessantottini che non si sono riciclati conquistando il potere, si sono persi nella violenza politica degli anni ’70. Ma intanto sono riusciti a introdurre nella società un sistema di contro-valori che abolisce il merito, rinnega la tradizione, denigra la competenza. Il ’68? un anno da dimenticare.
Perché il ’68 è stato sconfitto, scrive Eros Barone il 19 December 2018 su Sinistra in rete. La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile. Antonio Gramsci
Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove. Franco Fortini.
Un quesito che spesso mi viene posto dai giovani che conosco è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.
In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla "via pacifica al socialismo", elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc. Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato borghese e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio. La progressiva trasformazione del Pci in senso revisionista e socialdemocratico (sfociata, da ultimo, nella liquidazione, ad opera di Occhetto e di Napolitano, di quello che era “il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico”) è stata, quindi, un importante fattore soggettivo della involuzione e della sconfitta della “generazione del ’68”, che in tal modo restò priva di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso democratico e socialista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne del movimento di massa.
In secondo luogo, non bisogna dimenticare le conquiste che furono ottenute dai movimenti di lotta del ’68 e del ’69. Alcune di tali conquiste sono tuttora presenti nella costituzione formale e materiale del nostro paese: si pensi allo Statuto dei lavoratori (maggio 1970), una legge dello Stato che, per quanto gravemente intaccata dall’abolizione dell’articolo 18, garantisce alcuni fondamentali diritti sindacali e politici, tra i quali spiccano le 150 ore per il diritto allo studio dei lavoratori; al divorzio (dicembre 1970); alla cosiddetta legge Basaglia (legge 180 del maggio 1978), che ha abolito i manicomi (ancora oggi l’Italia è l’unico paese del mondo in cui non esistono formalmente istituzioni di questo tipo) e promosso l’integrazione dei malati mentali nella società, liberando, oltre ai ‘matti’, anche i mancini, gli adolescenti ai quali la scuola imponeva la regola della scrittura con la mano destra; alla legge 194 (anch’essa del maggio 1978), che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all'aborto. A partire dal 1973, con un’economia mondiale in piena recessione, ebbe inizio una fase di profonda ristrutturazione: nella grande industria furono automatizzati i processi produttivi e fu avviato il superamento dei modelli rigidi di organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista; migliaia di lavoratori furono licenziati; fu esteso il decentramento della produzione, si ebbe una crescita della piccola e media impresa e si ampliò l’area del lavoro precario, sommerso, nero e a domicilio. Questo mutamento della base produttiva, congiunto all’espansione del settore terziario, genera il contesto economico e sociale in cui si afferma l’‘autonomia del politico’ (intesa come gestione, anche in forma consociativa, del potere politico-istituzionale), che troverà la sua espressione più caratteristica nella linea del ‘compromesso storico’, nel venir meno di un’opposizione di sinistra e nella progressiva riduzione della ‘rappresentanza’ a ‘governabilità’. È l’onda lunga della ristrutturazione, della ‘rivoluzione passiva’ e della svolta in senso neoliberista che, con Reagan e con la Thatcher, sfocerà nel 1980: l’anno della sconfitta storica del movimento sindacale alla Fiat, l’anno della ‘resistibile ascesa’ di Craxi, l’anno del ‘mistero’ di Ustica e della strage alla stazione di Bologna, che segna il culmine (e la vittoria) della ‘strategia della tensione e del terrore’ scatenata nel 1969. I rapporti di forza si sono radicalmente modificati a favore delle classi dominanti; la ‘grande paura’ del ’68 è finita; ha inizio il cosiddetto ‘riflusso’, cioè il passaggio da un’egemonia della sinistra ad un’egemonia della destra, che comincia ad affermarsi allora e, rafforzandosi sempre di più attraverso gli eventi e i processi epocali degli anni ’80 e ’90, giunge sino ai nostri giorni.
Dal punto di vista storico, in base al metodo comparatistico ci si può chiedere se esista un’analogia fra due ‘anni mirabiles’ della storia contemporanea: il 1968 e il 1848? Io ritengo di sì, confortato in questa convinzione da un classico della storiografia sul Quarantotto europeo, il bel libro dello studioso inglese Lewis B. Namier su La rivoluzione degli intellettuali (1957). Naturalmente, è scontato che vi siano molte differenze; è, tuttavia, vero che vi sono alcune analogie: innanzitutto, la presenza, sia nei moti quarantotteschi che in quelli sessantotteschi, degli studenti, anche fuoricorso, oltre che di un buon numero di intellettuali che, essendo ‘rivoluzionari per sé’ ma non ‘rivoluzionari in sé’ (per dirla con un linguaggio hegeliano), ben presto cercarono di porsi in rapporto con coloro che sono ‘rivoluzionari in sé’ ma non sempre ‘rivoluzionari per sé’: gli operai. L’autonomia del soggetto sociale è stata un tratto distintivo del ’68. Il che significò, anticipando la pratica di liberazione delle femministe, che verrà dopo, esattamente questo: “i problemi ce li risolviamo da soli, con la nostra elaborazione collettiva e con la nostra azione collettiva”. Non vi è dubbio che un simile approccio ai problemi del movimento degli studenti (e, più tardi, degli operai) mettesse in difficoltà i partiti, e segnatamente il Pci, che erano i professionisti della mediazione politica. Ciò è vero sia per l’Italia che per la Germania, la quale espresse il movimento più simile a quello italiano, con una dinamica della soggettività che funzionò nella stessa maniera: autonomia del movimento e uso della democrazia diretta anche nella forma del delegato revocabile, basata, quindi, su un mandato imperativo. Tutto ciò si ritrova in qualsiasi movimento sociale di carattere antagonistico: non è una novità; appena c’è un movimento sociale, là c’è l’assemblea; appena c’è un movimento sociale, là ci sono i delegati e, ovviamente, l’insistenza sulla propria autonomia. Sennonché la forza del ’68 non è stata nel chiedere, è stata nel fare, e in questo fare una generazione è cresciuta e ha modificato la vita civile e morale del paese. Non ha però modificato i partiti; anzi, i partiti sono nettamente peggiorati come conseguenza del ’68. Ecco un’altra analogia con il ’48. Basti pensare alla ‘seconda Restaurazione’ che seguì il ’48 in Europa, alla chiusura, in forme cinesi, delle istituzioni. Da questo punto di vista, occorre dire che sia François Mitterrand in Francia sia Bettino Craxi in Italia sono stati, con il loro verticismo oligarchico, espressioni di una reazione antisessantottesca. Nonostante i molteplici ostacoli frapposti dalle forze della conservazione e della reazione (presenti anche a sinistra), lo sbocco del ’68 è stato un profondo mutamento nelle relazioni civili e nelle relazioni sociali, una crescita culturale che, se raffrontata alla regressione attuale, sembra appartenere ad un’altra epoca.
L’episodio di Valle Giulia (primo marzo1968), in cui la polizia bastonò e cacciò gli studenti che occupavano la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma per protestare contro una legge di riforma che (esattamente come accade oggi) introduceva sbarramenti negli accessi ai diversi livelli di laurea, fu l’innesco del ’68, ma ebbe un valore simbolico straordinario, perché gli studenti risposero con una difesa attiva alle cariche della polizia. In altri termini, gli studenti, che venivano pestati, dissero una cosa molto semplice: “Basta! non ci faremo pestare più!”. Questo è il ’68. Lo stesso marxismo mutilato e fossilizzato della sinistra storica (Pci e Psi, molto meno il Psiup) sarà oggetto, nel ’68, di una rivisitazione filologica e di un restauro critico, che spazieranno dagli scritti del Marx maturo, come la Critica al programma di Gotha, agli scritti del Marx giovane, e avranno come identico bersaglio l’ideologia economicista e riformista del movimento operaio. Un restauro e una rivisitazione che furono resi possibili anche da esperienze precedenti (come, ad esempio, quella dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panieri) che avevano aperto la strada in questa direzione nuova. Vale, infine, la pena di osservare che il ’68 è avvenuto in una società, dove i giornali teorizzavano che i giovani erano interessati soltanto al denaro e all’automobile fuoriserie, che sia gli studenti sia gli operai erano ‘integrati’ (nella società esistente). Qualche mese dopo è scoppiato, invece, un movimento gigantesco che si è andato sempre più estendendo come un’epidemia, per contagio, benché fosse partito da una minoranza. Anche oggi non è vero che i giovani siano geneticamente mutati. Non è così: sotto la cenere di un’apparente indifferenza cova il fuoco di un grande entusiasmo, che attende la causa giusta per divampare. I problemi sono fondamentalmente gli stessi, la fatica della rivolta è rimasta la stessa; sono soltanto cambiati i modi e le forme della comunicazione. La grande verità è sempre la stessa: per ribellarsi bisogna anche studiare, per ribellarsi bisogna compiere uno sforzo di argomentazione (la hegeliana ‘fatica del concetto’). I sessantottini sono cresciuti interrompendo le lezioni dei professori, impedendo che questi facessero lezione in una sola direzione, mettendo in difficoltà gli stessi professori con interventi critici argomentati, che finivano con il coinvolgere la massa, inizialmente ostile, degli altri studenti. I giovani militanti non devono, dunque, scoraggiarsi per il fatto di essere piccole minoranze che agiscono: il mondo è sempre andato avanti così. La cosa importante è cominciare ad agire, perché questa è la vera differenza: un’azione continua, organizzata, connessa ad una prospettiva strategica, che non si limita al fuoco di paglia della protesta di un giorno o alla ‘kermesse’ di una manifestazione variopinta che scorre per le vie della città come l’acqua sul marmo. La riflessione sulle ragioni della sconfitta del ’68 ha anche un carattere autobiografico: chi scrive appartiene, infatti, alla “generazione del ’68”, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tantomeno contrapporre a quella odierna, anche perché ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Chi scrive desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del ’68 conserva una consapevolezza talmente fondamentale per chiunque abbia a cuore la propria (e l’altrui) libertà, che ritengo doveroso evocarla attraverso uno slogan di rara potenza di quell’‘annus mirabilis’: “chi non fa politica la subisce”, indicandone anche l’autore, che è don Lorenzo Milani (giova qui ricordare che uno dei filoni ideali del ’68 è stato quello che faceva capo al ‘dissenso cattolico’ e alle ‘comunità di base’). Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata pagando, se occorre, anche un duro prezzo.
Purtroppo, la “generazione del ’68”, ossia degli attuali ultrasessantenni, non è stata in grado, se non in misura assai modesta, di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli ‘anni formidabili’ ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono, e a volte esprimono in modo palese, il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del ’68 li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru o ai demagoghi, ma ai maestri autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo. Sarebbe, poi, interessante fare una ricerca su dove siano finiti i sessantottini e vedere quanti dei protagonisti di quel moto hanno svolto un ruolo di crescita civile nelle scuole, anche di grado molto basso, nelle fabbriche, negli uffici, e quanti si sono invece inseriti in segmenti di classe dominante. Proprio Guido Viale, in un bel libro intitolato Il Sessantotto, uscito quarant’anni fa e recentemente ripubblicato, aveva posto (interrogandosi implicitamente anche sulla propria parabola politico-ideologica) il problema degli ex contestatori, in realtà modernizzatori, che in qualche misura sono stati premiati dal sistema. La storia dell’Italia repubblicana dimostra, peraltro, che tutte le svolte del cinquantennio sono state segnate da un marcato protagonismo giovanile: così fu per la “generazione delle magliette a strisce” che, quando nel giugno del 1960 i nostalgici di un passato vergognoso rialzarono la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una Nuova Resistenza e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana a Firenze in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì questa città, simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (ed è impressionante, ma fortemente rivelatore dei moduli politico-ideologici della ‘rivoluzione passiva’, che la proposta di ripetere quel gesto di solidarietà per aiutare a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti a Napoli fosse stata avanzata nel 2011, con enfasi demagogica, dallo stesso Berlusconi, contestualmente con la decisione di inviare migliaia di soldati in quel territorio); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-1969 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo e di futilità televisiva. Ma questa è ormai la cronaca degli ultimi decenni, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi nella problematica del disagio, della devianza e dell’emarginazione. E siccome non credo, rileggendo queste note, di aver dato, di là da qualche spunto, una risposta precisa ed esauriente al quesito che mi è stato posto (c’è ancora molto da scavare, molto su cui riflettere, molto da chiarire), concludo questa specie di ‘apologia critica’ del ’68, trascrivendo come ‘explicit’ i versi stupendi (e stupendi perché giusti) di un poeta, di un saggista e di un intellettuale che è stato un interlocutore appassionato e partecipe delle vicende politiche, culturali e ideologiche della “generazione del ’68”: Franco Fortini.
La storia è andata così, la vita anche. Mutare il ribrezzo in lucidità, la speranza in certezza. E in impazienza.
Quando il Sessantotto finì nelle ideologie, risponde Aldo Cazzullo il 7 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Caro Aldo, già cominciano le rievocazioni. Ma ha ancora senso processare il ‘68? Filiberto Piccini, Pisa.
Caro Filiberto, La discussione sul ‘68 l’hanno sempre fatta i sessantottini: spesso celebrandosi, talora abiurando. Avrebbero diritto di parola anche le generazioni precedenti e successive. In Italia com’è noto il ‘68 è durato dieci anni, sino al caso Moro. I miei ricordi di bambino sono scanditi dagli scontri di piazza e dagli omicidi di terroristi rossi e neri. Certo la rivolta non è stata solo questo; ma negare che ci sia un nesso tra il ‘68 e gli anni di piombo mi pare arduo. Più tardi ho cercato, intervistando centinaia di protagonisti, in fabbrica e in questura, ai vertici Fininvest e in galera, di trovare un senso a quel che era accaduto. Mi sono fatto questa idea. A un’esplosione libertaria, che ha portato a un sano cambiamento dei costumi, dei rapporti tra le persone, del ruolo della donna, è seguito un irrigidimento dogmatico in una parte non trascurabile del movimento. Lo slancio dei giovani finì ingabbiato nelle due ideologie del Novecento, il comunismo e il fascismo, destinate a estinguersi da lì a pochi anni. I giovani di sinistra consideravano il Pci compromesso con la democrazia borghese, e si proponevano di proseguire il compito cui Togliatti e Berlinguer avevano rinunciato: la rivoluzione, come in Cina più che come in Russia. Qualche ex di Lotta continua ha il vezzo di dire di non essere mai stato comunista. Farebbe meglio a dire di essere sempre stato contro il Pci; ma i militanti di Lotta continua erano convinti di essere loro i veri comunisti. Qualcosa del genere, su scala più ridotta, accadde a destra nei confronti del Msi di Almirante, considerato filoatlantico, filoisraeliano, mercatista. Il risultato fu una mimesi della guerra civile, che lasciò sul terreno troppo odio e troppi morti. Di quella generazione salvo una cosa: l’idea, coltivata da molti, che si potesse essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La sconfitta è stata dura: qualcuno è finito nel terrorismo, qualcuno nella droga, qualcuno è rimasto in fabbrica negli anni della restaurazione. La generazione successiva, quella del riflusso (che è poi la mia), ha creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto; e anche noi siamo andati incontro alla disillusione, con questo senso di solitudine esistenziale che ci portiamo dentro.
Il 1968 visto da chi non è di sinistra. Fu comunque un'iniezione di freschezza in un corpo economico e politico vecchio, scrive Stenio Solinas il 19 aprile 2018 su "Panorama". Si può parlare bene del '68 senza essere e/o essere stato di sinistra? E se ne può parlare bene senza nascondersi dietro l'alibi di un ipotetico quanto tradito "Sessantotto di destra"?
Il 1968 come cortocircuito generazionale. Facciamo un passo indietro. Nel primo decennale della Contestazione stavo lavorando al pamphlet Macondo e P38 che uscì di lì a poco. Di quel libretto, queste righe mi sembrano ancora significative: "Pure qualche cosa significò, molte speranze sollevò, alcuni processi distruttivi innescò. Fra tanti cascami letterari e no, fra tanti moduli scontati e déjà-vu, prospettò realtà nuove, a livello di rapporti umani, e politici, e sociali. Non fu una rivoluzione; così come non fu un fuoco di paglia. Fu una via di mezzo, tipicamente italiana, e come tale destinata a non pagare chi seriamente la percorse, ma sempre pronta a essere presentata, dagli alti, come una specie di cambiale allo sconto". Proviamo a riassumere: il '68 è il primo cortocircuito di una modernizzazione fine a sé stessa, priva cioè di quei correttivi che dovrebbero regolarla: istituzioni, corpi intermedi, senso dello Stato, programmazione, selezione della classe dirigente. È un cortocircuito generazionale, di figli contro padri, la sua forza, ma anche la sua debolezza. Il secondo cortocircuito sarà la lunga stagione del terrorismo. Il terzo, l'implosione del sistema dei partiti e la successiva incapacità di riformarlo ovvero rifondarlo. Quel cortocircuito era nella logica delle cose, ma anche necessario quanto salutare. C'era un Paese ormai industriale con pratiche ancora rurali, ridottesi a pure forme senza contenuto.
L'Italia nel solco francese. Il '68 insomma svelò che il re era nudo. Nel campo sessuale e nel rapporto uomo-donna, dove aleggiava ancora il cattivo odore del "delitto d'onore"; in quello familiare, dove la famiglia numerosa e monoreddito non riusciva più a stare al passo con il tempo e con il consumo legato al tempo stesso; nell'istruzione, un Paese alfabetizzato e però con scuole ancora elitarie, e nelle professioni, mondo asfittico e uso a una gerarchia di pura e semplice anzianità, non più in grado di regolare l'accesso al mondo del lavoro. Se si guarda alla genesi dell'Italia come nazione, si vedrà che essa nasce nel solco della Rivoluzione francese: di sinistra, non di destra, progressista, non conservatrice. Schematizzando, per fare l'Italia era stato necessario fare tabula rasa di ciò che c'era prima. La nuova dicotomia, a unità raggiunta, non fu tra conservatori e rivoluzionari, ma nella divisione propria al secondo campo tra riformisti e progressisti. Il "conservatorismo impossibile" nasce dal non capire che da noi i moderati non si identificano con i conservatori, ma fanno anch'essi parte del mito della modernizzazione del Paese. In questa ottica, il '68 fu un'iniezione di freschezza in un corpo sociale, politico, economico vecchio e ipocrita, una salutare spallata generazionale, se si vuole, che merita l'onore delle armi. (Articolo pubblicato sul n° 17 di Panorama in edicola dal 12 aprile 2018 con il titolo "1968 come lo giudica chi non è di sinistra")
1968, come lo giudica chi non è di sinistra. Voleva essere una rivoluzione, invece fu un fallimento. Da lì nacquero le fake news, scrive Marcello Veneziani il 18 aprile 2018 su "Panorama". Nel diluvio di celebrazioni che si sono aperte sul '68 in occasione del cinquantenario, è possibile una lettura irriverente?
Il '68 regno del fake. Viviamo tra le rovine del '68. Tante e confuse furono le sue eredità, pesanti quanto ineffabili, ma tra tutte prevale una: si persero i confini tra il vero e il falso, tra il fatto e la diceria, tra il ragionamento e l'emozione, tra i diritti e i desideri. Il '68 scoprì che dietro ogni verità, dietro ogni fatto, dietro ogni ordine, ogni storia e ogni legge, anche di natura, c'è un abuso di potere, un sopruso e un falso ideologico. Il regno del fake. Niente è come appare, tutto è come mi sembra. Non c'è la Realtà vera, e non c'è fedeltà, autorità, natura, merito; ma tutto è soggettivo e soggetto ai modi di vedere, di pensare, di sentire. Tutto è figlio del clima sociale, è frutto d'interpretazione e stato d'animo.
In cosa fallì e in cosa trionfò il '68. Nel '68 si persero i confini anche tra lecito e illecito, tra naturale e volontario, tra realtà e sogno, tra alto e basso. E tra sessi, tra stati, tra popoli. Nacque il nostro mondo sconfinato, in tutti i sensi. E nacque la post-verità, cioè la verità a modo mio. Il '68 fallì come rivoluzione politica ed economica, gli assetti di potere restarono invariati e il capitalismo, anziché crollare, si fece globale. Ma trionfò come rivoluzione di costume, come mutazione culturale, intaccò i linguaggi, il sesso, il privato e attaccò la scuola e l'università, la famiglia e il rapporto tra le generazioni. In quei campi lasciò soprattutto macerie. Il '68 nacque collettivista e si fece single, individualista, egocentrico e narcisista. Nacque giovanilista e restò puerile. Avversò la tolleranza repressiva e produsse l'intolleranza permissiva, tutto è permesso, guai a chi dissente.
Una rivoluzione contro la tradizione. Il '68 non lasciò capolavori, eroi, eventi, imprese. Certo, fu una scossa, svecchiò, produsse pure qualche salutare cambiamento, si pensi alle donne. Sfociò in rivoli contrastanti, che finirono nell'estremismo politico o nel radicalismo civile, nell'ecopacifismo o nella violenza degli anni 70 e nella droga. Negli anni 80, sulle orme del '68 sorsero i filoni libertari, libertini e liberisti che spinsero verso la modernizzazione. Non a caso qualcuno ritiene persino il berlusconismo un frutto del '68. Ma l'orma prevalente che lasciò fu la rottura: il '68 ruppe il legame necessario tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra meriti e risultati, tra giovani e anziani. E alla fine quella rivoluzione contro il potere diventò una rivoluzione contro la tradizione, al servizio di un potere più cinico e globale, che si voleva liberare dei confini religiosi, nazionali e famigliari per crescere più sfrenato e mutare i credenti in consumatori. E trovò nel '68 i suoi gendarmi, poi i suoi agenti, infine i suoi creativi. La trasgressione si fece canone, il parricidio diventò conformismo e political correctness. In Rovesciare il '68 (il saggio che Marcello Veneziani scrisse per Mondadori dieci anni fa, ndr) sostenni che oggi la vera trasgressione è la tradizione. Urge una ribellione omeopatica al dominio del '68 parruccone.
Il 68 ci ha rubato il futuro, scrive il 27 febbraio 2018 Francesco Giubilei su "Il Giornale". Il 1 marzo ricorrono i cinquant’anni dagli scontri di Valle Giulia a Roma, un evento che ha segnato simbolicamente l’avvento del Sessantotto nel nostro paese. Le proteste sessantottine demoliscono i valori su cui si è fondata l’Italia fino a quel momento compiendo un attacco ai due elementi cardine della società: la famiglia e la scuola. Come scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale” di domenica: “la rivolta del ’68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre […] ogni autorità perse autorevolezza e credibilità”. La delegittimazione del ruolo del padre si accompagna a un attacco tout court alla famiglia attraverso temi considerati un tabù (l’aborto, il divorzio, la liberazione sessuale). Le conseguenze più funeste del Sessantotto avvengono nel mondo della scuola e dell’università dove il concetto del sei politico diventa una prassi che si è tramandata fino ai nostri giorni con l’abbassamento complessivo sia della preparazione del corpo docenti che degli studenti. Il Sessantotto si fonda infatti sul grande equivoco dell’egualitarismo: tutti dobbiamo avere le stesse opportunità di partenza ma se una persona è più meritevole di un’altra va premiata. Più in generale è stata tutta la società ad essere sovvertita: il Sessantotto ci ha fatto scoprire i diritti ma dimenticare i doveri. Le regole vengono concepite come un qualcosa di cui si può fare a meno, una mentalità sintetizzata dallo slogan “vietato vietare”. Anche sul piano culturale le conseguenze del Sessantotto sono nefaste perché si crea un clima di conformismo dilagante: chi non la pensa come la maggioranza e non si omologa al pensiero dominante viene emarginato, escluso e ghettizzato suscitando un odio che sfocerà nei terribili anni di piombo. Un pensiero caratterizzato dal predominio del politicamente corretto di cui, non a caso, la nostra società è figlia ed è proprio negli anni successivi al Sessantotto che il concetto gramsciano di egemonia culturale si realizza a pieno titolo nel mondo della scuola, dell’università e della cultura portando l’ideologia nei libri di testo e orientando i programmi scolastici in senso progressista, in particolare nella filosofia, nella storia e letteratura. Ma soprattutto, e mi rivolgo in particolare ai miei coetanei, ai giovani nati e cresciuti nell’Italia postsessantottina, il Sessantotto ci ha rubato il futuro. La società in cui viviamo è figlia delle proteste studentesche, la classe dirigente che ci ha governato negli ultimi anni con risultati fallimentari si è formata nella scuola sessantottina. Nell’illusione di volere sempre più diritti ci siamo ritrovati a non averne più. Così, nell’Italia del 2018, il vero rivoluzionario è chi si oppone ai principi sessantottini e lotta per una società fondata sul merito, il rispetto delle regole e dell’autorità.
Petruccioli: “Così mezzo secolo fa, a Praga fu sepolto il sogno del ‘68”. L’allora leader della Fgci racconta quella notte tra il 20 e il 21 agosto di cinquant’anni fa, scrive Carlo Fusi il 20 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Quella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, quando i carri armati russi entrarono a Praga e in generazioni di uomini e ragazzi di sinistra, uccisero per sempre la speranza che il comunismo sovietico potesse diventare “dal volto umano”, Claudio Petruccioli se la ricorda molto bene. All’epoca era segretario della FGCI, la federazione giovanile comunista, che subito contestò in modo netto il gesto del Cremlino. Riandare con i ricordi a quel momento non può essere un’operazione solo rievocativa. Per avere senso, comporta invece due cose: collocare l’invasione russa nel contesto del generale sommovimento che percorreva tutto l’Occidente e cercare di trarre un qualche insegnamento per l’oggi, apparentemente così diverso eppure, per fili sotterranei, ancora legato a quelle vicende. Spiega Petruccioli: “Ci sono due livelli di analisi. Cominciamo dal piano storico complessivo. Il ‘68 certo fu l’invasione della Cecoslovacchia fatta dai sovietici con la copertura di alcuni – non tutti – i Paesi del Patto di Varsavia. Ma fu anche un evento a ben vedere in contrasto col ‘68; come lo furono l’uccisione di Martin Luther King o quella di Bob Kennedy o la strage di ragazzi nella Piazza delle tre culture a Città del Messico, in occasione delle Olimpiadi: una reazione alla spinta che agitava tutto il mondo. A noi giovani comunisti la vicenda cecoslovacca appassionava perché vi leggevamo il tentativo di riformare il socialismo restando dentro al socialismo. Una cosa che rispondeva ad un desiderio profondo, che però era anche un’illusione. La Primavera di Praga fa parte a pieno titolo del passaggio storico che fu il ‘68: un moto senza confini, che riguardava Paesi e Stati diversissimi tra loro e che tuttavia andava nel senso della crescita della libertà per tutti, con quel tanto di utopia che dà spessore alle battaglie ideali. In Italia ci furono le occupazioni studentesche e Valle Giulia ma anche le lotte operaie che avevano contenuti nuovi. Il ‘68 si era aperto con l’offensiva del Têt in Vietnam, ossia squadernando la possibilità che i vietnamiti potessero vincere: un fatto straordinario. In Francia il maggio e in Germania Rudi Dutschke, Rudi il Rosso e la Freie Universität: anche lì un grande moto che faceva proprie pulsioni e spinte presenti già da qualche anno negli Usa. Fermenti che peraltro non si fermarono neppure ai confini dell’Est. Anche i Paesi comunisti, infatti, ne furono coinvolti: ricordo Belgrado, Varsavia e così via. Utopie insieme a follie ideologiche, visto che in quel respiro mondiale veniva inserita anche la Rivoluzione Culturale cinese, che invece aveva tutt’altro indirizzo. Ciò nonostante, tutto veniva vissuto alla stessa maniera. C’era insomma una dimensione planetaria del ‘68 che molte rievocazioni hanno trascurato e che invece ne costituiva il tratto caratteristico, che lo ha reso un discrimine del secolo scorso. Per tutti, non solo per la sinistra”. Un momento per prender fiato. Ma anche per la stoccata importante. “Quello che voglio dire è che i fatti che avvenivano nel mondo, per noi, per i giovani comunisti e di sinistra ma non solo – penso ai sussulti del mondo cattolico, per esempio – erano dalla nostra parte, ci davano ragione. Io come tanti coetanei vivevamo la conferma di una cosa che appariva fuori discussione: gli aneliti di libertà e di avanzamento, la politica che cambiava ma anche il costume, la minigonna e i Beatles, ci confermavano che il mondo, tutto, stava dalla parte nostra. Che dovevano solo allungare la mano per prenderlo. Che gli accadimenti che si snodavano sotto i nostri occhi altro non fossero che tessere di uno stesso mosaico. Che il disegno finale fosse il medesimo sotto tutte le latitudini, che avesse lo stesso senso e significato. Il ‘68 rappresenta il culmine di questa sensazione di padronanza del futuro, di sintonia tra l’andamento della storia con la S maiuscola e la nostra singola vita. La convinzione a pelle era che ciò che nella nostra testa desideravamo si sarebbe realizzato, sarebbe inevitabilmente successo. Senza un tale afflato complessivo, senza la consapevolezza della dimensione così totalizzante che vivevano milioni di persone non si capisce cosa poteva significare la Primavera di Praga e come si inseriva nelle nostre menti e nelle nostre coscienze: e non parlo solo di quelle dei giovani comunisti. Il ‘68 si concluse con due fatti che spiegano bene come non si trattasse solo di generica protesta generazionale bensì di una lotta durissima. Uno fu l’uccisione di due braccianti ad Avola da parte della polizia: Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona; poi il 31 dicembre ci fu il ferimento alla Bussola di Soriano Ceccanti: aveva 16 anni, restò paralizzato ma ciò non gli impedì di diventare campione di scherma. Ecco, il piano storico e contestuale del ‘68 lo chiudo qui. Con il vento del cambiamento che aleggiava intorno a noi e noi che lo interpretavamo sentendoci parte di un processo che era il nostro processo. Che insomma avevamo ragione, e stavamo dalla parte giusta”. Adesso arriva la politica. E la parte diventa quella sbagliata: il comunismo che mostra il suo volto più feroce, repressivo, irriformabile appunto".
Chissà come deve essere sentirsi dalla parte del torto dopo aver gustato il dolce e inebriante sapore di stare da quella della ragione…
“Ci arriviamo, anche se le cose non sono così semplici. Ero in vacanza con la mia compagna di allora, c’eravamo sistemati a Leuca. All’epoca era un posto quasi caraibico: non c’era nulla tranne il mare. E l’amore. Alcuni amici ci dissero di raggiungerli nel Conero e così facemmo. Quando arrivò la notizia dell’invasione, partii subito per Roma. Lo stesso aveva fatto Occhetto. Ci demmo appuntamento a piazza Farnese e quasi non ci riconoscemmo; io mi ero fatto crescere la barba, lui i baffi: anche questo era un segno dell’epoca… Discutemmo sul comunicato diramato dalla Direzione del Pci che parlava di “grave dissenso”. Si trattava di una presa di posizione quasi ovvia: a maggio c’erano state le elezioni politiche che avevano determinato la sconfitta dell’odiata “bicicletta”, cioè la lista con i due simboli di Psdi e Psi appena unificati. I socialisti uniti potevano diventare a sinistra un competitor per il Pci: ma gli elettori avevano bocciato quella prospettiva. Anche per rispondere agli attacchi, insidiosi, che dominavano la campagna elettorale, il Pci assunse una posizione di forte sostegno a Dubcek con un neanche troppo sottinteso avviso ai sovietici: state attenti a non ripetere l’Ungheria. È in questa fase che emerge la figura dell’allora segretario, Luigi Longo. Fu molto coraggioso. Durante la campagna elettorale andò a Praga per incontrarsi con Dubcek; stilarono un documento congiunto che esaltava l’esperienza praghese non solo per i destini della Cecoslovacchia ma come orientamento più generale per superare i limiti del comunismo in favore della democrazia. Longo nel comunicato della Direzione oltre al netto dissenso fece inserire anche la riprovazione: lo fece, per intenderci, mentre era in vacanza in URSS…Il segretario si rendeva conto dell’importanza e delicatezza della vicenda. I miei ricordi e – quel che più conta – i verbali della Direzione raccontano che tornando dall’incontro con Dubcek espresse molte preoccupazioni sulla capacità dei cechi di restare dentro i limiti dettati dai sovietici. Era una posizione saggia ma che scontava il rischio di sfociare nella “sovranità limitata”. Tutto il gruppo dirigente di Botteghe Oscure era dello stesso avviso e la speranza comune era che il Patto di Varsavia alla fine non intervenisse. Insomma – ecco il punto politico più importante – esisteva una generale consapevolezza che l’intervento dei carri armati avrebbe distrutto non solo il sogno cecoslovacco ma anche quello di vedere attuato il socialismo dal volto umano, la riforma del comunismo restando dentro al comunismo. Longo si espresse in maniera sintetica ma chiarissima, quando dalla tribuna del Comitato Centrale – fu il suo ultimo intervento prima dell’ictus – disse che i confini del socialismo non coincidevano con quelli dei Paesi dove i comunisti erano al potere. Di questa questione, ossia del complessivo significato negativo dell’intervento sovietico, che atteneva alla concezione stessa del socialismo, noi della Federazione giovanile facemmo una bandiera: pubblicammo “14 punti sulla Cecoslovacchia” dove, frammista ad approcci ideologici che oggi suonano perfino ridicoli, questo giudizio politico (e storico) è molto netto”.
Dunque nessuna ipocrisia: il sogno veniva schiacciato dai cingolati dell’Armata rossa. E con esso naufragavano anche decenni di impostazioni politiche e ideologiche…
“Adesso è obbligatorio dire così. Ma allora la nostra presunzione di giovani che erano sicuri che il mondo andasse nella direzione che loro volevano, ci faceva pensare che i sovietici, con l’invasione, non facevano altro che darsi la zappa sui piedi”.
Gli eventi successivi hanno lo hanno confermato.
“Infatti. A cinquant’anni di distanza possiamo fare il confronto sui due fronti caldi dell’epoca: il Vietnam per gli americani e la Cecoslovacchia per l’Urss. Due sfide diverse ma che mettevano entrambe alla prova il ruolo, la visione del mondo, le prospettive future delle due superpotenze. Ebbene è proprio il ‘68 a fare da spartiacque. L’anno che sembrava segnare il punto di massima crisi degli Usa, diventa il momento in cui gli Stati Uniti dimostrano la superiorità di un sistema democratico. A Washington si rendono conto che non possono andare avanti in quel modo e dopo l’offensiva del Têt il presidente Lyndon Johnson – che, ricordiamo, fece cose importanti sulla questione razziale e con le riforme sociali della Great Society – annuncia che non si ricandida. E a novembre, per pochissimi voti su Humprhey, vince Nixon il quale con Henry Kissinger cambia, non solo sul piano militare, l’intera strategia americana stabilendo lo sganciamento dal Vietnam, avviando l’avvicinamento alla Cina, decretando la fine della convertibilità oro-dollaro e l’addio a Bretton Woods. Insomma l’America capisce che i parametri fissati vent’anni prima alla fine della guerra dovevano essere quanto meno riveduti. I sovietici, con l’invasione di Praga, dimostrano esattamente il contrario: pensano di poter continuare con lo stesso modello di potenza e di espansione. Incapacità di cambiamento che poi alla fine ne ha decretato l’affondamento. Ebbene in quel ‘68 noi inseguivamo il sogno di una evoluzione culturale, vorrei dire razionale, del modello sovietico e confidavamo che Mosca potesse considerare l’esperimento praghese una chance, un atout per fare un passo avanti. La delusione fu enorme, soprattutto per noi della FGCI. A quel tempo la Federazione contava circa 120 mila iscritti: dieci anni prima erano mezzo milione. Il dramma ungherese aveva mietuto vittime. Quelli come me che furono reclutati dopo, lo furono sulla base di un misto di fiducia e di ipocrisia. La fiducia era che il rinnovamento del 1956 (la via democratica e nazionale al socialismo, il policentrismo, cioè il rifiuto del monolitismo sovietico e simili) non poteva essere revocato o contraddetto, la ipocrisia era nel credere che tutto questo potesse conciliarsi con un rapporto di ferro con l’URSS o – peggio – nel raccontarsi che il problema era ormai, di fatto, risolto”.
Bene. Il tempo dei ricordi, delle rievocazioni, delle esperienze ora deve cedere il passo alle riflessioni che possono incidere sulle vicende successive della sinistra, e non solo, con onde lunghe che arrivano fino ad oggi. Petruccioli ne ha una, in particolare.
“Longo si era spinto fino all’estremo della differenziazione con Mosca, ma senza mai mettere in discussione i rapporti tra Pci e Pcus. Il suo punto fermo era: se ci chiedono da che parte siamo, rispondiamo che siamo dalla parte del socialismo. Ma proprio perché siamo da questa parte abbiamo il dovere di esprimere le nostre posizioni e le critiche. Tuttavia il limite invalicabile della non messa in discussione dei legami con l’Urss, rimase. E qui arriva il tema sul quale vorrei concentrare la riflessione. Enrico Berlinguer prende in mano il Pci ritrovandosi davanti il dossier delicatissimo di come gestire il dopo invasione. Una vicenda internazionale che ha avuto evidenti riflessi sulle scelte dei comunisti. Nelle mie riflessioni da “archivista” alle quali mi dedico da qualche anno, mi sono concentrato su questo passaggio: durante la segreteria Longo, due erano i temi esaminati con più frequenza in Direzione, due per così dire le priorità. La prima, se partecipare o no alla conferenza internazionale dei partiti comunisti: Amendola voleva che la nostra ritrosia venisse accantonata; Ingrao e Berlinguer no, volevano tenere ferma la posizione critica. Io (si parva licet) idem. Ovviamente il punto erano i rapporti con l’Urss. L’altra, il dialogo con il Psi, che stava al governo. In particolare questa seconda acquisiva sempre più centralità. Con Berlinguer l’impostazione cambia radicalmente: dei rapporti con il Psi quasi non si parla più, come se fosse diventata una cosa secondaria. E questo nonostante i socialisti, dopo il fallimento dell’unificazione e l’esaurimento della prospettiva di centrosinistra, si trovassero privi di linea politica. Niente da fare: al centro dell’attenzione di Berlinguer non c’è il Psi bensì la Democrazia Cristiana. Una posizione sempre più rigida che, per intenderci, portò alla rottura con i laici e La Malfa e spianò la strada del Quirinale a Leone invece che a Moro che era il candidato di Berlinguer. Dunque una sconfitta. Riflettendo sulla vicenda cecoslovacca mi viene in mente una spiegazione di quello che altrimenti politicamente è – per me – un mistero. Può essere che Berlinguer, sulla base della aspra esperienza fatta da Longo, si sia detto: se le cose stanno così, l’autonomia del Pci, tanto ricercata ma così difficile da ottenere, può essere meglio sostenuta sulla scorta di un rapporto politico, di governo, con la Dc. Che cioè quel suo “mi sento più sicuro di qua con la NATO che di là con il Patto di Varsavia” sia frutto della convinzione che la migliore garanzia stesse nello stringere i rapporti, anche di governo, con la Dc. E’ solo una intuizione da verificare; fosse così l’ombra di quel 21 agosto di cinquant’anni fa si allungherebbe su tutta la storia politica nazionale, non solo sui rapporti fra comunisti italiani e comunisti sovietici”.
"Il '68 fu soltanto una finzione da bambini viziati, altro che rivolta". L'ideatore del Fronte Nazionale racconta gli anni della contestazione visti da destra, scrive Antonio Lodetti, Martedì 10/07/2018, su "Il Giornale". Per alcuni è un terrorista, per altri un filosofo e per altri ancora un impenitente rivoluzionario. Per tutti è «L'editore», dato che nel 1963 ha fondato le edizioni Ar che continuano ancora oggi le pubblicazioni. Franco (o Giorgio, com'è il suo primo nome) è uno dei personaggi più controversi e significativi nella storia italiana del terrorismo anni Settanta. Ideologo del cosiddetto «nazi-maoismo», è stato accusato della strage di Piazza Fontana a Milano essendo poi assolto per mancanza di prove. A suo carico alcuni attentati esplosivi sui treni nell'estate del 1969. Freda, duro e puro, nel 1990 ha fondato il Fronte Nazionale, sciolto dal Consiglio dei Ministri nel 2000, di cui era «reggente» e per il quale ha subito sei anni di carcere per istigazione all'odio razziale. Tra le sue ultime pubblicazioni Da inviato di guerra. Lo squadrismo rumeno, ovvero i reportage di Indro Montanelli inviato in Romania, e l'ultimo romanzo di Anna K Valerio.
Freda, cos'è stato il '68?
«Una finta di ragazzi-bambini viziati».
E il '68 di Freda? Quali le sue idee e la sua estetica?
«Io non ho mai finto. Se avessi finto, probabilmente sarei riuscito perfino a fare la rivoluzione... Una brutta cosa che ho imparato dalle mie esperienze più o meno underground è che la gente dei tempi stanchi - e questo nostro dopoguerra è stanchissimo! - la compri o la lusinghi, non la persuadi né la infiammi. Le mie idee del '68 erano da ragazzotto ingenuo; non tenevano conto di questa regola. Erano idee estatiche, fuori dal tempo. L'idea-volontà essenziale era una; creare le condizioni politiche perché l'uomo ritrovasse la grande passione del bello, del buono, del giusto. Ero disposto a rischiare la vita - e l'ho rischiata - per questo. Un cretino, come quel Laurana di Sciascia».
Chi è un rivoluzionario e cos'è la rivoluzione?
«Un rivoluzionario è una persona più energica delle altre, che ha la forza di volare tirandosi per i capelli verso l'alto. Rivoluzione... Beh... È il sesso che non sappiamo più fare, è invenzione, fantasia, libertà, giustizia, ossigeno, calore, vita. Amore. Onore».
C'è mai stato qualcuno del dopoguerra in grado di poterla fare?
«Sì, qualcuno anche c'era. Ma occorre forse cercare tra quelli di cui i giornali non hanno parlato o hanno parlato poco e male».
Quali sono oggi le linee guida del suo pensiero?
«Le stesse di ieri. Per me la vita non ha senso se non si libra in volo verso l'ideale. Il bello, il buono, il giusto: che in ogni epoca si declinano in modo diverso».
Cos'è il fascismo e cosa vuol dire essere di destra?
«Il fascismo ha espresso una volontà energica in grado di piegare il tempo e plasmare la storia. In questo è stato un miracolo. Immense pietre squadrate nelle più varie città d'Italia stanno ancora a ricordarcelo. Essere di destra, oggi, significa pensare che la storia dell'uomo non vada scolpita nella gelatina. E, dato che siamo in tema, che l'Uomo con la u maiuscola non sia lo chef di turno».
C'è stato il rischio di dittatura comunista in Italia?
«Nooo. Dittatura quelli??? Provate a leggere le Lettere a nessuno di Antonio Moresco e ditemi un po' se il comunismo in Italia è stato una cosa seria».
Quali sono i pensatori che l'hanno più influenzata?
«I primi: Platone e Nietzsche. Un cortocircuito quindi?...».
Secondo lei è chiusa o si chiuderà mai la vicenda di piazza Fontana? C'è qualcuno che sa qualcosa di non ancora noto?
«Ho l'impressione che dureranno ancora le mistificazioni e le strumentalizzazioni e che chi non sa continui a voler dire la sua».
Come svolge la sua attività di editore. Cos'è per lei questo lavoro?
«Visto che questo per me non è un lavoro ma una, potrei dire, passione impersonale, cerco di non cedere alle lusinghe della stampa - e dei pensieri - made in China. O made in Usa».
Cosa pensa dello ius soli e dell'immigrazione. Lei pose il problema ai tempi del Fronte nazionale.
«Il problema lo posi nel 1990, quando fondai il Fronte Nazionale ed era di facile soluzione. Oggi il problema è diventato incubo. È solo un altro sogno che può risolverlo e allora conviene continuare ad addestrarsi a sognare. Se ieri, nel '68, il cretino ero io ingenuo idealista, adesso finisce che i cretini sono gli altri, i mondani».
Ecco che fine hanno fatto tutti i leader di quella stagione. Da Mario Capanna a Lanfranco Pace passando per Cacciari. Breve elenco dei leader degli anni Sessanta e Settanta che ancora oggi contano, scrive Massimo M. Veronese, Martedì 10/07/2018, su "Il Giornale". I protagonisti del Sessantotto? Ecco che fine anno fatto alcuni dei nomi più ragguardevoli dei movimenti studenteschi, e non, di quegli anni.
Franco Berardi. 69 anni, detto «Bifo». Ex Potere Operaio, ex Lotta continua, caposcuola degli Indiani Metropolitani, si è candidato alle ultime elezioni con Potere al popolo. Lo slogan: «Mi presento, sono un imbecille che cinque anni fa ha votato Cinquestelle». Trombato.
Marco Boato. 74 anni, cattolico del dissenso, dirigente del Movimento Studentesco a Trento, poi fondatore di Lotta Continua. È stato radicale e parlamentare dell'Ulivo: è rimasto Verde. Ha appena scritto un libro Il lungo 68.
Luigi Bobbio. Figlio di Norberto, ex Lotta Continua, protagonista dell'occupazione di Palazzo Campania a Torino, una delle scintille che accesero il '68: è scomparso l'anno scorso a 73 anni. Era professore ordinario di Scienze politiche all'università di Torino.
Massimo Cacciari. 74 anni, guida i volantinaggi davanti alle fabbriche di Porto Marghera, poi entra nel Pci. È professore di Estetica presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Lo si vede spesso in tv.
Mario Capanna. 73 anni, leader del Movimento Studentesco, guida l'occupazione dell'Università Cattolica e i primi scontri con la Polizia. Si è ritirato nella sua città d'origine, Città di Castello, a fare contadino sui colli umbri, si dedica alle colture e all'apicoltura.
Michelangelo Caponnetto. Leader del Movimento studentesco fiorentino, poi passa a Potere Operaio. Insegnava Sociologia alla facoltà di Architettura di Firenze. È morto nel 2008.
Renato Curcio. 76 anni, fondatore e capo storico delle Brigate Rosse. Condannato a 28 anni è tornato libero nel 1990. Sposato in seconde nozze con Maria Rita Prette, detta Marita, un'ex terrorista di venti anni più giovane, dalla quale ha avuto una figlia. Dirige la cooperativa editoriale Sensibili alle foglie.
Paolo Flores D'Arcais. 74 anni, guida la marcia dei giovani trotzkisti su Valle Giulia, fonda nel '68 un gruppuscolo libertario intorno alla rivista Soviet. Oggi dirige la rivista Micromega.
Guelfo Guelfi. 73 anni, leader studentesco pisano è uno dei primi arrestati del Movimento, poi passa a Lotta Continua. Ha sempre lavorato nella pubblicità e nel marketing. Dal 4 agosto 2015 è nel Cda della Rai.
Paolo Liguori. 69 anni, Forma il gruppo degli Uccelli, antesignano degli Indiani metropolitani, poi si avvicina a Lotta continua. Oggi è direttore di Tgcom 24.
Franco Piperno. 75 anni, leader del Movimento romano, poi dirigente di Potere Operaio, rifugiato in Francia e poi estradato, condannato per associazione sovversiva, una volta libero è diventato professore di fisica della materia all'Università della Calabria.
Franco Piro. Grande trascinatore di folle nonostante una poliomielite lo costringesse alle stampelle, ha fatto parte di Potere operaio prima di diventare parlamentare socialista. Professore di Economia a Scienze politiche a Bologna, è morto l'anno scorso a 68 anni.
Oreste Scalzone. 71 anni, oratore torrenziale, fondatore di Potere operaio, poi nell'area dell'Autonomia. Arrestato per associazione sovversiva e scarcerato per malattia si rifugia a Parigi dove resta fino al 2007. Tornato in Italia, oggi è vicino alle lotte No Tav.
Adriano Sofri. 76 anni, leader di grande carisma, sostiene la necessità di allargare le lotte studentesche alle fabbriche. Comincia da Potere Operaio poi fonda Lotta continua. Condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Oggi, libero, è giornalista e saggista.
Vincenzo Sparagna. 72 anni, uno dei rari leader studenteschi del Sud, ha guidato le occupazioni dell'università di Napoli. Fonda Avanguardia operaia e il giornale Il Male. Oggi dirige Frigidaire.
Emilio Vesce. È capo delle occupazioni universitarie e delle mobilitazioni operaie a Padova. Entra in Potere operaio e dirige Radio Sherwood. Deputato radicale. Muore per infarto nel 2001 a 62 anni.
Guido Viale. 74 anni, leader del Sessantotto torinese, guida volantinaggi e manifestazioni davanti a cancelli della Fiat. È uno dei fondatori di Lotta continua. Si occupa di ricerche economiche, e politiche del lavoro in campo ambientale. Nel 2014 promuove alle elezioni europee, L'Altra Europa con Tsipras.
Mario Savio. Ha 22 anni, figlio di siciliani emigrati nel Queens, dove il padre lavora in fonderia. È lui, nel 1964 a Berkley a far partire la Contestazione che dilaga in tutto il mondo. Diventa preside alla Sonoma State University. Muore per infarto nel 1996 a 54 anni.
Alexander Langer. Smilzo, occhi azzurri, parla cinque lingue e non si ferma mai. Direttore di Lotta continua diventa europarlamentare con i Verdi. Si uccide a Firenze nel 1995, a 49 anni.
Luigi Manconi. 70 anni, leader del Movimento alla Statale di Milano, poi dirigente di Lotta continua, sociologo, deputato e portavoce dei Verdi, infine senatore del Pd. È sposato con Bianca Berlinguer. Da anni convive con un grave handicap alla vista.
Lanfranco Pace. 71 anni, milita in Potere operaio, si batte per la militarizzazione del Movimento, finisce in carcere per il caso Moro, va a vivere da latitante a Parigi. Oggi scrive per Il Foglio.
Sandro Sarti. Figlio di un pastore valdese è una delle anime del Movimento anche se è più vicino ai 40 anni che ai 30. Diventa tramite con i movimenti americani. Muore a metà degli anni Novanta.
Salvatore Toscano. Leader del Movimento insieme a Mario Capanna, fonda il Movimento Lavoratori per il Socialismo. Non ha un carattere facile ma è molto amato dai compagni. Muore in un incidente stradale nel 1976 a 38 anni.
CHI HA FATTO CARRIERA PER IL ’68.
Tra loden e eskimo, Gentiloni e gli altri sui banchi del liceo Tasso: "Così quei figli del '68 hanno fatto carriera". Dal neo premier, che fu uno dei leader del Movimento studentesco, a Maurizio Gasparri, da Marco Muller a Nanni Moretti a Lucio Caracciolo. Tutti negli anni '70 nello storico istituto romano. Michele Baldi, consigliere regionale del Lazio: “In quel liceo presi tante botte: se ho portato a casa la pelle, forse è perché ero vicino di banco di Paolo”, scrive Mauro Favale il 15 dicembre 2016 su "La Repubblica". Cos’hanno in comune un ex ministro berlusconiano, un consigliere regionale transitato dal centrodestra al centrosinistra, un giornalista esperto di geopolitica, il vicepresidente del parlamento europeo, un ex direttore della mostra del cinema di Venezia, un regista Palma d’oro a Cannes, due sindaci della capitale dalle alterne fortune, un ex vicepremier centrista e un premier, Paolo Gentiloni, che ieri ha incassato la fiducia al Senato? Sono tutti romani, tutti nati tra il 1953 e il 1956 e tutti, all’alba degli anni ’70, hanno frequentato il Liceo Tasso. Non sono certo gli unici studenti illustri della scuola di via Sicilia 168, rione Ludovisi, a due passi da piazza Fiume, che nei suoi oltre 100 anni di vita ha visto sedere tra i suoi banchi dai figli di Benito Mussolini a Giulio Andreotti, da Alberto Moravia a Vittorio Gassman, da Luciana Castellina a Ugo La Malfa. Loro sì, in periodi diversi. Per gli altri, invece, per quegli ex alunni tutti “figli del ’68” c’è una coincidenza temporale ad accomunarli. E un dato di cronaca: uno di loro, lunedì 12 dicembre ha giurato nelle mani del capo dello Stato Sergio Mattarella ed è diventato il 64esimo presidente del Consiglio. E così, le vicende del Tasso, “scuola sforna-vip”, (com’è stato spesso definito) ma soprattutto liceo della buona borghesia romana, sono tornate d’attualità. Per ricordare di quando Paolo Gentiloni, uno dei leader del Movimento studentesco (“Ala creativa”, sottolinea Marco Müller, per 7 anni direttore artistico della mostra di Venezia), vestiva in eskimo (o in loden, a seconda della memoria di chi racconta) e convocava manifestazioni. O di quando, esattamente 46 anni prima di insediarsi a palazzo Chigi, nel primo anniversario di piazza Fontana, saltava su un treno diretto a Milano senza avvertire i genitori per partecipare alla manifestazione di commemorazione della strage. “Una fuga controllata”, raccontò lui stesso anni dopo. “Avevo rivelato al prete gesuita del Tasso, Tommaso Ambrosetti, dov’ero diretto, in modo che lui lo potesse comunicare ai miei”. Un ricordo che torna utile per inquadrare i modi accorti e “felpati” del nuovo premier che in quegli anni guidava le occupazioni di una delle scuole più di sinistra della capitale, dove esisteva rappresentanza di quasi tutte le sigle della galassia dell’estrema sinistra: “L’ombrello - rievoca Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes - era il Movimento Studentesco di Mario Capanna. Ma non mancavano Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia operaia, vari gruppetti trozkisti e qualche socialista, una sorta di specie protetta. Io ero nella Fgci: praticamente la destra”, ironizza Caracciolo. Eppure la destra, quella vera, al Tasso non mancava. Maurizio Gasparri, già ministro delle comunicazioni (proprio come Gentiloni), militava nel Fronte della Gioventù. Lui quegli anni li ricorda così: “Noi di destra eravamo perseguitati e Gentiloni, che per sua fortuna non si distingueva per atteggiamenti minacciosi, faceva parte della sinistra estrema, dei persecutori”. Per Gasparri, quella era la scuola della borghesia romana "che strizzava l’occhio a sinistra: erano i figli dei giornalisti, salivano sull’autobus ai Parioli usciti dalle loro case parioline col maggiordomo e a scuola gridavano slogan comunisti". Michele Baldi, oggi consigliere alla Regione Lazio con Nicola Zingaretti, era compagno di classe di Gentiloni, sezione D: “Anche io presi tante botte e se ho portato a casa la pelle, probabilmente, è stato proprio perché ero vicino di banco di Paolo”. A quel tempo, al Tasso, c’erano perfino i monarchici: Antonio Tajani, già commissario europeo, oggi vicepresidente a Strasburgo, era uno degli esponenti di punta. E i giovani della Dc, come Marco Follini, ex segretario Udc e vicepremier con Silvio Berlusconi. Anche lui era al Tasso negli anni di Gentiloni. Come Walter Veltroni (che cambia dopo il quarto ginnasio) e Ignazio Marino gli ultimi due sindaci di centrosinistra di Roma. E Nanni Moretti, di cui le cronache ricordano l’indolenza: “Nanni ma cosa fai, entra in classe”, gli dice un professore vedendolo ciondolare per i corridoi. “Professore, nun me va”, risponde lui. "Eravamo quelli del ’68 - prova a sintetizzare Caracciolo, cercando di trovare un filo che spieghi la coincidenza temporale - stavamo in un movimento europeo, mondiale. Respiravamo l’aria di quel tempo. Il nostro primo anno al Tasso le ragazze vestivano ancora in grembiule nero. Noi abbiamo dato una mano alla distruzione di una serie di modelli. E, forse, anche alla distruzione della scuola tout court".
È arrivato il momento di rottamare i sessantottini. Dalle Okkupazioni ai posti di potere, scrive il 19 agosto 2013 L’Inkiesta. Ad interrogarli per bene, i grafici dicono molte cose interessanti: ad esempio la figura qui sotto, tratta dall’indagine di Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane nel 2010, mostra come il reddito medio di coloro che hanno tra i 55 e i 64 anni è cresciuto sensibilmente di più rispetto a quello delle altre generazioni, e in particolare delle generazioni più giovani. Un po’ di matematica spicciola ci dice che nel 2010 gli appartenenti a questa generazione fortunata sono gli italiani nati tra il 1946 e il 1955. Adesso vi mischio la statistica con la storia: chi è nato tra il 1946 e il 1955 nel fatidico 1968 delle contestazioni studentesche aveva tra i 13 e i 22 anni. Peccato che i dati storici messi insieme da Bankitalia non mostrino direttamente la porzione del PIL detenuto da questa generazione, che rappresenta all’incirca il 12% della popolazione italiana. Le generalizzazioni sono tipicamente imprecise ma talora aiutano a individuare tendenze importanti: la generazione che occupava le università (e le scuole) per ottenere il “18 politico” (e il “6 politico”) sembra cavarsela piuttosto bene ai giorni nostri dal punto di vista del reddito, anzi sempre meglio. Per chi non lo sapesse, nel 1968 gli studenti e attivisti politici che protestavano contro l’autoritarismo e il classismo dell’università italiana per qualche mese ottennero in alcune facoltà gli esami collettivi (uno studente rispondeva alle domande del professore ottenendo un voto valido per tutto il gruppo) e il 18 politico, cioè la garanzia di un voto sufficiente per motivi politici. Non esattamente il massimo della meritocrazia, diciamocelo (detto con la voce di un noto leader del PD). Non sono l’unico a ritenere molto dannose queste idee di egualitarismo dei punti di arrivo, in quanto uccidono sul nascere ogni spinta allo sforzo e al miglioramento individuale. Dalla lotta a fenomeni di classismo e autoritarismo all’interno della scuola e dell’università alla de-responsabilizzazione completa di chi le dovrebbe frequentare con il fine di apprendere il confine si è ahinoi dimostrato labilissimo. Datemi pure del cinico, ma credo che livelli di reddito elevato – perlomeno in società caratterizzate da un livello basso di concorrenza, cioè da alte barriere all’entrata in molti settori – sono “comprati” dal fatto di detenere posizioni di potere all’interno di questi settori. Sono partito dai dati sul reddito, ma voglio per l’appunto andare a monte della questione, cioè soffermarmi sulla straordinaria capacità delle élite del movimento sessantottino di raggiungere velocemente posizioni di potere in ambienti che spaziano da quello accademico a quello giornalistico e quello politico. Chiaramente questa scalata delle gerarchie è avvenuta con metodi sostanzialmente diversi dalla cooptazione e/o dalla selezione intelligente: l’idea era esattamente quella di prendersi il potere per creare un “mondo migliore”. E non credo di essere molto lontano dal vero nell’affermare che il meccanismo di selezione di questa nuova élite era dato dal fatto stesso di trovarsi all’avanguardia di movimenti extraparlamentari nati a ridosso del 1968 (e fioriti negli anni ’70) come i marxisti-leninisti di Servire il Popolo, Lotta Continua e Potere Operaio. E chi militava o guidava questi movimenti che non disprezzavano l’idea di una rivoluzione comunista in Italia? Nomi non ignoti. Tra i marxisti-leninisti militavano Aldo Brandirali, Renato Mannheimer, Antonio Pennacchi, Antonio Polito, Barbara Pollastrini, Linda Lanzillotta e Michele Santoro. Dentro Lotta Continua potevi trovare Adriano Sofri, Marco Boato, Enrico Deaglio, Paolo Liguori, Luigi Manconi, Gad Lerner, Toni Capuozzo e Giampiero Mughini. Infine, Potere Operaio annoverava tra le sue file Toni Negri, Massimo Cacciari, Francesco “Pancho” Pardi, Gaetano Pecorella, Paolo Mieli e Ritanna Armeni. Nel novero dei militanti le fonti più facilmente accessibili naturalmente riportano i nomi di personaggi noti (chiaro esempio di selezione sistematica), ma il messaggio che si desume da queste tre liste non esaustive è che molti di questi militanti (che hanno partecipato alle proteste del ’68 e/o a quelle successive negli anni ’70) detengono a tutt’oggi importanti spicchi del potere in Italia. E non si schiodano! Una domanda sorge spontanea, e spero che sia lo stesso per chi appartiene alle generazioni successive, cioè è nato/a negli anni ’60, ’70, ’80 e ’90: come si può chiedere di implementare la meritocrazia a chi era più o meno a favore degli esami collettivi e dell’uguaglianza a favore dell’uguaglianza dei punti di arrivo? Esiste un metodo intelligente per rimpiazzare – qualcuno direbbe: per rottamare – questa generazione? Il punto nevralgico è che le generazioni successive, spesso caratterizzate da idee più meritocratiche, si sentono a disagio rispetto a metodi “decisi” per ottenere il potere come quelli implementati nel ’68 e nel decennio successivo. Quello che mi lascia l’amaro in bocca è la sostanziale ipocrisia della generazione precedente, nata negli anni ’40 e ’50: alla maniera del Principe di Salina, si potrebbe dire che questo stratagemma di usare belle idee rivoluzionarie per prendere il potere -e una quota sostanziosa del reddito nazionale- ha tolto alle generazioni successive il fascino della politica come strumento per realizzare cose buone e concrete. Cara generazione dei padri e delle madri, è ora di fare un po’ di conti con noi: non è solo questione di spesa pubblica generosa, che ha contribuito a renderti ricca negli anni delle vacche grasse, e ad accumulare debito pubblico. Anche l’entusiasmo per la politica l’avete comprato facendo debiti. Che dobbiamo pagare noi.
IL SESSANTOTTO ED I SERVIZI D’ORDINE.
“ORDINE COMPAGNI!”: IL GIORNALISTA E SCRITTORE LUCA POLLINI RICOSTRUISCE STORIE, CRONACHE E LEGGENDE DEI SERVIZI D’ORDINE DEL ‘68, scrive il 26 Marzo 2018 turismoitalianews. Certosino com’è, Luca Pollini non poteva che ricostruire e riproporre in maniera puntuale e contemporanea uno spaccato di vita italiana complicata e soprattutto drammatica. A cinquanta anni precisi dal quel 1968, anno in cui scatta la scintilla della rivoluzione socio-culturale che investì l'Europa e l'America e che in Italia si trascinò fino agli anni Ottanta del secolo scorso, il giornalista e scrittore milanese manda in campo “Ordine Compagni! Storie, cronache e leggende dei Servizi d’ordine”. Chi lo conosce, ma forse ancor più chi lo segue attraverso i suoi libri, sa bene che Luca Pollini è un puntuale cronista dei mutamenti sociali, dell’evoluzione dei gusti e dei fenomeni di grande impatto che scuotono il mondo. Con questo suo lavoro, approdato in libreria, torna ad occuparsi di “affari interni” dopo l’ottimo successo internazionale riscosso da “Restare in Vietnam”, seguendo in ogni caso una sorta di filo logico temporale. E infatti con la prefazione di Franco Berardi (Bifo), nel nuovo libro “Ordine compagni! Storie, cronache e leggende dei Servizi d’ordine”, Luca Pollini racconta una particolare realtà di quegli anni. Con il Sessantotto si apre il periodo delle rivolte e delle stragi; quello passati alla storia come "anni di piombo", solcato dalla paura e dalla voglia di cambiare il mondo, dal desiderio di riscatto e dalla lotta politica. «Ordine compagni!» è la frase che risuona tra i cordoni di manifestanti incaricati di salvaguardare la compattezza e la sicurezza del corteo. Il Servizio d'ordine si identifica quindi come il braccio armato che coordina e protegge studenti e operai scesi in piazza, i rivoluzionari, i ribelli, i sognatori. Milita in prima fila, diffonde e produce controinformazione, all'occorrenza si scontra con fascisti e polizia nel nome della giustizia e del progresso. Da Trieste a Milano, passando per Bologna e Roma, Luca Pollini ha voluto ricostruire il panorama culturale e politico di quegli anni intervistando e raccogliendo testimonianze (rimaste rigorosamente anonime) di chi quel periodo lo ha vissuto davvero, in entrambe le barricate. Un ex-cursus storico - dal 1968 al 1977 - dove risuonano i nomi di Mario Capanna e i fratelli Bellini a Milano, i movimenti della sinistra extraparlamentare e unione tra operai e studenti, le tragiche vicende degli omicidi di Francesco Lo Russo a Bologna, Giorgiana Masi a Roma, passando dall’assalto al Teatro alla Scala alla strage di piazza Fontana, da Radio Alice alla battaglia di Valle Giulia, oltre alle occupazioni delle università italiane, i veri simboli da cui partì la rivolta. Accanto all’inquadramento storico, l’autore analizza la “mutazione” subita dai giovani - siano questi appartenenti all’ala di sinistra o di destra - durante il decennio, non solo ideologica ma anche sociale: abbigliamento, musica, luoghi di incontro e molto altro. Completano il testo la play-list dei cantautori che hanno raccontato quest’epoca attraverso la musica - Area, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Claudio Lolli, Francesco De Gregori, Stormy Six, Franco Battiato, Eugenio Finardi ed Edoardo Bennato, solo per citarne alcuni - e le fotografie anche provenienti dalla Commissione Fotografica dell’Archivio del Movimento studentesco.
L’autore. Cresciuto nella Milano degli anni Settanta, Luca Pollini unisce all’attività di giornalista quella di saggista e autore. Ha pubblicato, tra gli altri, I Settanta, gli anni che cambiarono l’Italia; Gli Ottanta, l’Italia tra evasione e illusione; Hippie, la rivoluzione mancata; Musica leggera. Anni di piombo; Amore e rivolta a tempo di rock; Ribelli in discoteca; Immortali: storia e gloria di oggetti leggendari; Restare in Vietnam: dalla parte del nemico. Per il teatro ha scritto lo spettacolo Ci hanno rubato la parola amore e interpretato il reading Hippie, a volte ritornano. Collabora con mensili e quotidiani, si occupa di storia contemporanea, cura un sito (retrovisore.net) dedicato alla storia del costume italiano. È tra i fondatori di mollybrown.it, blog italiano di cultura pop. Musicalmente onnivoro, crede nel rock e rimpiange il Parco Lambro (inteso come Festival).
IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.
“Caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia - come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo
Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."
La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).
Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.
La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.
La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.
Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?
Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.
Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.
Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.
Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968).
L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.
Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.
Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).
Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.
Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».
Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.
Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.
Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»
Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.
Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.
Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.
7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).
I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.
L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.
Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.
La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.
Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".
A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.
Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.
D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".
Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.
Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.
Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.
Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:
- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;
- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.
Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.
Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.
La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.
I FIGLI DEGENERATI DEL '68: IL TERRORISMO.
Perché in Italia il '68 ha prodotto il terrorismo e il disfacimento di un sistema di valori, lettere al direttore de Il Gazzettino di Sabato 14 Aprile 2018.
Gentile Direttore, non vedo cosa ci sia da festeggiare a 50 anni dalle violente contestazioni sfociate nel 1968, se non, il de profundis di una società di merito, che premiava fin dalle elementari il sapere acquisito con volontà e sacrificio, grazie alla capacità di ottimi insegnanti. I risultati di quelle rivolte sono stati orripilanti per chi aveva desiderio di istruirsi. Il glorioso 68 ha gratificato solo i sessantottini. Giancarlo Parissenti, Mestre.
Caro lettore, non credo ci sia nulla da festeggiare, ma può essere un'utile occasione per riflettere. Il 68 è stato una dirompente scossa alle fondamenta di società che avevano superato lo choc del dopoguerra e stavano vivendo il primo boom economico e demografico, ma avevano mantenuto le abitudini, i costumi e le gerarchie sociali dei decenni precedenti. In un suo bel libro, Giampiero Mughini ricorda che l'alba del maggio francese fu la protesta degli studenti dell'università di Nanterre dove «i maschi erano costretti a starsene in residenze distinte e separate da quelle delle ragazze e ne erano scontentissimi». L'ubriacatura ideologica, l'irruzione sulla scena dei movimenti marxisti ed estremisti fu successiva. Occorre però chiedersi perchè in Italia il 68 durò così a lungo, degenerando da un lato nel terrorismo e dall'altro nel disfacimento - e non nel rinnovamento - di un sistema di valori. Le risposte possono essere molte. Ma è un fatto che in altri Paesi, come la Francia, le classi dirigenti reagirono e la società cercò di dare risposte alla domanda di cambiamento. In Italia questo non accadde. La Dc fu culturalmente incapace di dare uno sbocco ai fermenti che avevano scosso la società: semplicemente li subì. Una larga parte della sinistra italiana fu invece vittima di un clamoroso abbaglio storico-politico: cullò la convinzione che si fosse alla vigilia di una possibile svolta rivoluzionaria e non si oppose con energia e tempestività alle derive post-68. Il risultato è ciò che la storia ci ha consegnato.
LA CITAZIONE del 25 febbraio 2011 riportata da Lucidamente. Il Sessantotto canta, il terrorismo spara. Nella pubblicazione “Il ’68 quarant’anni” dopo (Edup) Franco Ferrarotti analizza quel movimento. La protesta accompagna l’indignazione, quindi si apre un serrato scontro ideologico. Le contestazioni avvenute nel 1968 e negli anni seguenti delineavano una sofferenza sociale, che sfociarono in una radicale rivolta di piazza. Nel libro Il ’68 quarant’anni dopo (edizioni Edup, pp. 144, euro 12,00) il celebre sociologo Franco Ferrarotti – all’epoca “barone” universitario che appoggiò, ma anche criticò molti atteggiamenti dei “sessantottini” – esamina i diversi aspetti di un evento “di lunga durata”. Citiamo alcuni passi del saggio, come se fossero le risposte alle domande di un’immaginaria intervista.
Si pensa al Sessantotto… e si opera un collegamento con il terrorismo rosso…
«Il ’68 come il ’48, come il 1989. Ci sono date che non sfuggono a un destino ambivalente. Restano come spartiacque, segni di contraddizione: vilipesi o esaltati. Forse è vero che una rivoluzione è la sola emozione che un popolo può dare a se stesso. Difficile offrirne – afferma Franco Ferrarotti nel volume – una testimonianza affidabile, una valutazione equilibrata. Si dimentica troppo spesso che i vizi sono solo virtù impazzite e che, d’altro canto, la virtù non ha il monopolio della verità. L’opinione comune getta sul ’68 accuse pesanti. Vi scorge le radici della violenza armata. Lega in una responsabilità comune ’68 e terrorismo. Ma i due fenomeni, come genesi, scopi, movenze e stile comportamentale, mi sembrano radicalmente differenti. L’imputazione causale degli storici sarebbe difficile da provare. Una contiguità non può essere la base per una dichiarazione di correità. Il ’68 canta. Il terrorismo spara. Il nesso causale che molti scorgono fra ’68 e terrorismo è frutto di pigrizia mentale quando non derivi da pregiudizi».
Periodo storico sicuramente propositivo per l’Italia, il Sessantotto ha contribuito a migliorare la società italiana, senza tralasciare le debolezze e le criticità del movimento culturale…
«Le debolezze, d’altro canto, del ’68 sono evidenti e ormai sotto gli occhi di tutti. Alla sua generosità – continua Ferrarotti – non ha fatto da supporto una analisi delle forze in gioco adeguata. Ancora una volta, specialmente in Italia, le esigenze etiche si sono tradotte e ridotte ad atteggiamenti estetici. Il ’68 non ha avuto i suoi philosophes. Ha dovuto contentarsi di letterati a corto di argomenti, innamorati dei loro gorgheggi, pronti a scambiare trovate stilistiche e le soluzioni verbali per innovazioni rivoluzionarie. Saint-Just ha ceduto il passo a Celentano. Come spesso è accaduto, ancora una volta hanno vinto i giocolieri della parola e delle idee. La cultura del ’68 si richiama e si esaurisce nelle “riviste” essenzialmente letterarie, prive di analisi strutturali delle contraddizioni economiche e sociali, a sicura distanza dalle ricerche sul campo, da cui, come si sa, i letterati anche “rivoluzionari” ma con la puzza sotto al naso stanno alla larga, ossessionati dal terrore della contaminazione da contatto. Possono salire sulle barricate, pretendendo “tutto e subito” oppure ritirarsi nella loro “stanza separata”. In ogni caso mostrano il più sovrano, aristocratico distacco dai problemi quotidiani delle masse di cui si dicono al servizio».
Con un’analisi più attenta potremmo individuare qualche fatto saliente che contribuì a rinnovare l’Italia. Fu necessario togliere vecchi pregiudizi, antichi dogmi. Ma, proprio in quest’ottica, cosa rappresentò il Sessantotto?
«Ogni fenomeno è una realtà che nasce, cresce, si sviluppa. Il ’68 è ciò che è stato. Io c’ero. Ne posso parlare perché l’ho vissuto. A New York, Trento, San Francisco, Roma, Parigi, Berlino. E’ stata una bella fortuna. Ma, prima ancora, nel ’64 – continua Ferrarotti – a Los Angeles, ne ho intravisto i primi passi, si potrebbe dire le prime prove d’orchestra, nel sobborgo-ghetto di Watts, con gli scontri, gli incendi e le devastazioni, e a Berkeley, nelle assemblee studentesche quando Mario Di Savio fingeva al microfono una lieve balbuzie per dare al discorso l’apparenza di una totale autenticità. Cominciava il free speech movement. Si lottava contro la guerra nel Vietnam e per l’emancipazione dei neri e delle donne. E’ stato bello: confuso, vociante, liberatorio, affaticante, rumoroso, tumultuante. A Roma, nell’università non ancora chiamata “La Sapienza”, sono stato forse l’unico professore ordinario, cattedratico, “barone”, a schierarmi a favore degli scopi innovativi del movimento, ma nello stesso tempo a dichiararmi decisamente contrario ai suoi metodi di attuazione».
E’ bene sottolineare che il Sessantotto coinvolse diverse piazze straniere al di fuori dell’Italia, non certamente la totalità del globo. Seppe unire il dissenso di altre persone abbattendo le frontiere culturali del sapere.
«Il ’68 non è stato un movimento mondiale. Ha coinvolto poco più di un quinto dell’umanità, quello opulento, in grado di fare il bagno o la doccia tutte le mattine con acqua calda. Mi ripeto. Posso parlare del ’68 perché l’ho vissuto. Io c’ero. L’ho vissuto a Roma e a Trento, ma anche – spiega Ferrarotti – nella Columbia di New York e a Berkeley, a nord di San Francisco. Ero già un professore ordinario, cattedratico, un giovane “barone” anomalo. Capivo e condividevo gli scopi finali del movimento. Ne criticavo, ne denunciavo duramente i mezzi e le tecniche, le iniziative pratiche e organizzative. In essenza, il ’68 è stato una protesta che non è riuscita a farsi progetto, cioè programma con le sue evoluzioni, con le sue scadenze nel tempo. Il ’68 è stato una sollevazione emotiva che non ha saputo tradursi in un piano nazionale di trasformazione sociale. Invece di produrre un mondo nuovo ha semplicemente confermato quello esistente, peggiorato. Ma l’esigenza, fortemente sentita, di un mondo nuovo è rimasta».
Certe manifestazioni riescono a raggiungere alti livelli di accettazione popolare, si assiste a veri e propri cambiamenti, nella sostanza, però, non c’è una rivoluzione in piena regola, bensì solo alcuni piccoli aggiustamenti. Quali furono le conseguenze del Sessantotto?
«Graffiti a parte, il ’68 ha dichiarato e incoraggiato inoltre, se non in teoria nella pratica quotidiana, l’obsolescenza delle “buone maniere”. Ha reso un poco ridicola – conclude Ferrarotti nel suo volume – la buona educazione, ma a torto. Andrea Caffi, un “socialista irregolare”, come fu a suo tempo definito in un libro che andrebbe ricordato (Critica della violenza, Milano, Bompiani, 1966, riedito da E/O), spende argomenti raffinati e logicamente cogenti per dimostrare che dalle “buone maniere”, in apparenza irrilevanti, dipende in realtà la tenuta, per così dire, di una società, il suo costume civile, quell’etica media di attenzione e di rispetto che già Leopardi, nel famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, scorgeva piuttosto carente nella Penisola, come ancora recentemente ho potuto notare (in Vita e morte di una classe dirigente, Roma, Edup, 2006). Mi pare degna di considerazione l’ipotesi che la lotta del ’69 contro il potere e l’autorità autoritaria dei padri abbia trovato poi, nel 1978, il proprio involontario e imprevedibile compimento nel sequestro di Aldo Moro, autentico parricidio destinato a svegliare la coscienza degli italiani e a far loro comprendere i limiti della loro democrazia incompiuta. Il ’68 conteneva ed era portatore di novità positive, segnalava l’esigenza di una socializzazione del potere al di là della democrazia aritmetica o di pura procedura, invocava, anche inconsapevolmente, un nuovo concetto di cittadinanza, inclusivo e non esclusivo. Tutto ciò è stato eliminato e sepolto dalla violenza armata del terrorismo. In questo senso, il terrorismo è stato la tomba del ’68. Alcuni meriti del ’68 sono riconosciuti: una più articolata coscienza di classe; la maggiore attenzione ai diritti individuali; il riconoscimento del ruolo e dell’apporto delle donne; la difesa dell’equilibrio eco sistemico; la rivendicazione della più ampia libertà di parola e di presenza, anche per gli emarginati e gli esclusi, per i “dannati della terra”; la necessità di far prevalere l’essere sull’avere, di non trasformare i valori strumentali in valori finali, di preferire il dubbio critico al dogma pietrificato. Ma generalmente si esita ancora ad accettare un contributo fondamentale del ’68, vale a dire l’aver fatto comprendere che c’è più politica fuori dalla politica, nei problemi apparentemente minuti della vita quotidiana, che non dentro i sontuosi palazzi della politica ufficiale».
Francesco Fravolini (LucidaMente, anno VI, n. 63, marzo 2011)
Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le propietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.
(Lotta al) Terrorismo: l’esperienza italiana, scrive Tullio Del Sette il 17 Dicembre 2018 su Leurispes. L’attentato dell’11 dicembre a Strasburgo ha fatto di nuovo salire il termometro dell’allarme terrorismo, un allarme che l’assenza di gravi attentati jihadisti in Europa negli ultimi mesi aveva fatto scendere sui mezzi di informazione, nei discorsi dei politici e nella vita della gente, in qualche modo rassicurati anche dalle notizie delle sconfitte subite sul campo dai radicali islamisti in Siria e in Iraq, oltreché in Libia. Calo dell’allarme e calo d’attenzione, che forse ha riguardato anche i responsabili della sicurezza pubblica a Strasburgo, data l’apparente carenza di servizi preventivi e di capacità di intervento immediato per la cattura dell’autore della strage, in una città che è sede del Parlamento europeo e non è nuova a fatti di terrorismo, in uno dei giorni in cui, in centro e a pochi passi dalla sede parlamentare, si tenevano i tradizionali mercatini di Natale, noto polo d’attrazione per tanta gente e, quindi, obiettivo privilegiato di attacco per folli assassini interessati a conseguire il massimo effetto mediatico. Un vantaggio al terrorismo che gli addetti ai lavori italiani sanno bene che non può essere concesso: nessun calo di tensione, nessuna distrazione sono consentiti, perché l’insidia rimane e permarrà fino a quando non sarà stato completamente eliminato il pericolo di nuovi attentati. Finché, quindi, non saranno state definitivamente sconfitte le formazioni jihadiste, comunque denominate, che ancora si annidano in Medio Oriente, in Africa e in Asia. Finché non saranno stati individuati e perseguiti, resi inoffensivi, lì e in ogni Paese in cui possano andare o ritornare, i disperati superstiti o altrove “dormienti” e, soprattutto, i loro maestri, funesti “predicatori di morte” che, nei luoghi di culto, nelle carceri, nelle periferie del mondo e in quelle incontrollate delle città – attraverso il web – continuano a lavorare per la radicalizzazione e l’avvio alla jihad di giovani alla ricerca di una identità e di una ragione di vita. Finché le politiche e le misure per l’integrazione e lo sviluppo economico e sociale, le ragioni del rispetto dei diritti umani, non prevarranno su quelle isolazioniste, divisive, dello sfruttamento, della violenza, delle paure, dei rancori e dell’ignoranza settaria. Perciò, in una situazione che rimane potenzialmente pericolosa, in evoluzione e dipendente soprattutto da variabili esterne, occorre che le Forze di sicurezza tengano alta la guardia e lavorino ogni giorno, come sanno fare, per continuare a preservare l’Italia da attentati jihadisti sul proprio territorio. Un territorio, il nostro, preservato benché ospiti anch’esso tanti stranieri di fede islamica tra i quali più d’uno propenso al terrorismo, benché l’Italia abbia, seppur meno numerosi di altri Paesi, i suoi foreign fighters, benché Roma e la S. Sede siano state indicate dalle organizzazioni jihadiste, il Daesh in particolare, come obiettivi primari, benché come e più di altre Nazioni partecipi alle missioni internazionali. Un territorio, quello italiano, preservato non per un qualche “Lodo” o patto segreto, come fu per gli attentati palestinesi tra la metà degli anni Settanta e Ottanta, non solo perché mancante di residenti musulmani di seconda o terza generazione non sufficientemente integrati, ma anzitutto per l’efficacia e l’efficienza di un sistema di contrasto – informativo, preventivo, d’intervento e investigativo – attivo da tempo e tuttora pienamente funzionante. Un sistema – esemplare per gli altri Paesi – che si avvale di strutture specializzate e territoriali di primo ordine, di mezzi e procedure d’avanguardia, di un pieno e proficuo coordinamento tra le Forze di Polizia, di una consolidata sinergia operativa tra esse (la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e le Direzioni Distrettuali), di una cooperazione ininterrotta con i Servizi di Informazione, di una ricercata collaborazione internazionale a livello informativo e operativo. Un sistema messo a punto con le esperienze maturate nel vittorioso contrasto dell’attacco portato allo Stato dal terrorismo politico di destra e di sinistra e dallo stragismo mafioso, dopo quello irredentista sudtirolese, nell’ultimo quarantennio del secolo scorso. Un’esperienza che non tutti – salvo i tanti parenti delle vittime e i protagonisti, da una parte e dall’altra – oggi ricordano o conoscono, costata centinaia di morti e migliaia di feriti; una realtà e una storia da non dimenticare. I 360 attentati, le 21 vittime (di cui 15 delle Forze dell’ordine), i 57 feriti, i 157 terroristi e complici condannati, dei quali 103 italiani e il resto austriaci e tedeschi, sono il lascito di sofferenze del terrorismo altoatesino, di poco anticipatore e coevo di quello politico. Al terrorismo nero, in segnalati rapporti con frange deviate dei servizi segreti di allora, vanno ascritte soprattutto stragi per attentati dinamitardi: quella del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano – considerata all’origine della “Strategia della tensione”, degli “Anni di piombo”, della “Notte della Repubblica”, come vennero chiamati gli anni successivi – e quelle: del 22 luglio 1970 a Gioia Tauro, sulla linea ferroviaria per Reggio Calabria durante la rivolta seguita allo spostamento del capoluogo regionale a Catanzaro; del 31 maggio 1972 contro i Carabinieri a Peteano (UD); del 17 maggio 1973 avanti alla Questura di Milano durante la cerimonia per il primo anniversario dell’uccisione del Commissario Luigi Calabresi; del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia, a Brescia durante una manifestazione sindacale; del 4 agosto 1974 al treno Italicus; del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna, la più terribile e funesta con gli 85 morti e i 200 feriti provocati dall’esplosione di una valigia nella sala di attesa di seconda classe. Stragi che punteggiarono una miriade di attentati minori o falliti, di scontri e uccisioni tra opposti militanti, di assassinii di appartenenti alle Istituzioni dello Stato e alla società civile. Stragi non rivendicate e uccisioni, altri attentati, quasi sempre rivendicati, invece, con tante sigle, identificative di formazioni eversive di estrema destra: Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero, Movimento d’Azione Rivoluzionaria, Fronte Nazionale Rivoluzionario, Squadre d’Azione Mussolini, La Fenice, Terza Posizione, e, infine, la Falange Armata che nei primi anni Novanta rivendicò anche una serie di omicidi commessi dalla Banda della Uno Bianca. Il gruppo più tristemente noto fu quello dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), che, tra il 1977 e il 1981 si rese responsabile di attentati a organi di informazione, furti e rapine di armi militari e civili, rapine di autofinanziamento e 33 omicidi. Tre di loro sono stati condannati all’ergastolo per la strage della stazione di Bologna, sulla quale sono ancora in corso un processo su un quarto presunto autore, anch’esso appartenuto ai NAR, e un altro per individuare i mandanti. E non fu certo meno impegnativo il contrasto del terrorismo brigatista e delle altre sigle della sinistra extraparlamentare, sviluppatosi a partire dai primi anni Settanta, dopo un triennio difficile e confuso. Il 1967, l’anno dell’occupazione della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento e delle prime violente contestazioni di piazza con il primo morto, dello scandalo SIFAR (denominazione di allora del servizio segreto), della nascita di Potere Operaio, delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, del colpo di stato dei Colonnelli in Grecia, delle rivelazioni del settimanale L’Espresso sul c.d. Piano Solo. E poi il 1968, l’anno dell’ondata delle occupazioni e degli sgomberi delle Università, dei violentissimi scontri di piazza tra manifestanti e polizia, degli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy negli Stati Uniti, dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche. Infine il 1969, l’anno dei primi attentati di matrice neofascista sui treni, dell’ “autunno caldo” degli scioperi e delle manifestazioni che unirono operai e studenti, della costituzione a Genova del Gruppo XXII Ottobre, il primo a praticare la lotta armata a sinistra; un anno che si chiuse con il terribile attentato di Piazza Fontana, la precipitazione dell’anarchico Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura di Milano mentre veniva interrogato in merito a quell’attentato e dell’arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, poi prosciolto, per quella stessa strage. È nel 1970 che nascono i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), fondati a Milano dall’editore Giangiacomo Feltrinelli e attivi fino al 1972, l’anno in cui, il 14 marzo, l’editore morì dilaniato da un ordigno su un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Ed è nello stesso anno che, a Pecorile di Reggio Emilia, alcune decine di giovani già aderenti al Collettivo Politico Metropolitano di Milano e poi a Sinistra Proletaria fondano le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica più strutturata, numerosa, longeva, pericolosa e nota degli Anni di piombo. I risultati ottenuti nella fase iniziale della propaganda armata, li convinsero a passare dal 1974 a quella dell’attacco al cuore dello Stato, che si proponevano di disarticolare mediante un crescendo di attacchi alle Istituzioni, ai partiti politici, al mondo accademico e a quello produttivo, cercando di coinvolgere nella lotta un numero sempre crescente di combattenti per passare alla guerra civile e, alla fine, instaurare una dittatura marxista- leninista. Propositi funesti e illusori, impediti dall’efficacia dalla risposta delle forze di difesa dello Stato, dalla capacità di resistenza delle forze politiche e sociali, dal coinvolgimento e dal coraggio della società civile, che li rifiutò decisamente, salvo le esitazioni di qualche intellettuale inizialmente attratto dallo slogan “Né con lo Stato né con le BR” diffuso da Lotta continua e Potere operaio. Il punto più alto dell’attacco allo Stato arrivò il 16 marzo 1978 con l’agguato di Via Fani, a Roma, in cui furono uccisi i cinque uomini di scorta e fu rapito Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, il politico più influente, fine tessitore della politica nazionale e di nuovi equilibri democratici, sequestrato per quasi due mesi durante i quali, sottoposto al giudizio di un fantomatico “Tribunale del popolo”, scrisse ben 97 lettere al suo e ad altri partiti, alla famiglia, a governanti, personalità politiche e amici tese a sollecitare l’avvio di una trattativa – che non ci fu – per il suo rilascio anche attraverso rivelazioni di fatti e circostanze non note della politica, e un Memoriale, rinvenuto incompleto a Milano, in Via Monte Nevoso, in due soluzioni, nel 1978 e nel 1990. Cinquantacinque giorni durissimi per lo Stato e le Istituzioni – quelli tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio di un’autovettura parcheggiata a pochi metri dalle sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, i due partiti maggioritari e contrapposti che stavano orientandosi alla “solidarietà nazionale” e al “compromesso storico”. Cinquantacinque giorni iniziati e conclusi tragicamente, cadenzati anche da una “Risoluzione strategica” e comunicati delle BR, che, per converso, avviarono una più decisa reazione di contrasto e rifiuto, una nuova fase di arresti e importanti pentimenti – di cui fu ancora protagonista il generale Dalla Chiesa – che portarono allo smantellamento delle “vecchie” BR negli anni Ottanta. Ma prima ci furono altri omicidi, compreso quello di un sindacalista di sinistra, sequestri, tra i quali quello di un Generale statunitense (un suo collega era stato già ucciso), gambizzazioni, attentati, scontri a fuoco e rivolte carcerarie; un successo strategico delle Forze dell’ordine e della Magistratura che si ripeté con la disarticolazione delle “nuove” BR nel 2002, dopo ulteriori omicidi. Nel frattempo si erano consumati le storie e i delitti di altre 23 organizzazioni armate di sinistra: dai Nuclei Armati Proletari alle Formazioni Comuniste Combattenti, ai Comitati Comunisti Rivoluzionari, alle Unità Comuniste Combattenti, e a tante altre sigle, fino a Barbagia Rossa e ai Proletari Armati per il Comunismo, cui apparteneva il latitante Cesare Battisti, evaso dal carcere nel 1981 e condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi (due agenti, un gioielliere e un macellaio), fino alla più importante, seconda solo alle BR, Prima Linea, nata alla fine del ’76 senza il dogmatismo ideologico e la rigida organizzazione delle BR ma ad essa affine per scopo, obiettivi ed efferatezza criminale, dissolta nei primi anni ’80 dopo una serie di arresti, pentimenti e dissociazioni, dopo centinaia di attentati e decine di omicidi. Quando le velleità eversive di destra e di sinistra vennero definitivamente sconfitte, sul terreno erano rimasti centinaia di morti e oltre mille feriti: sono stati contati 370 uccisi tra il 1969 e il 1988, tra i quali settanta appartenenti alle Forze di polizia e otto alla Magistratura. Poco meno di 1.500 gli attentati, dei quali 500 nel biennio ’77-’78. Seimila gli inquisiti, dei quali i due terzi delle formazioni terroristiche di sinistra (1.337 delle BR e 923 di Prima Linea). Un progetto, quello dell’attacco allo Stato, per altre ragioni accarezzato anche dalla mafia corleonese, resasi dapprima responsabile della strage del treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 – attuata con la complicità di elementi della destra eversiva e lo scopo, non certo conseguito, di distogliere l’attenzione di Magistratura e Forze di polizia dalla decisiva offensiva avviata a Palermo dopo la costituzione del “Pool antimafia”, con Falcone e Borsellino, che consentì il “maxiprocesso” celebrato tra il 1986 e il 1992 con 475 imputati – e, poi, delle stragi del 1992, in cui i due giudici furono uccisi con i loro accompagnatori, e degli attentati stragisti, sempre dinamitardi, a luoghi e città d’arte dell’anno seguente. Tutto questo mentre altri attentati venivano commessi da terroristi appartenenti a gruppi irredentisti e nazionalisti stranieri: palestinesi, armeni e libici. Basti citare le stragi di Fiumicino del 1973 e del 1985, l’assalto alla Sinagoga ebraica di Roma dell’82, il sequestro della nave da crociera “Achille Lauro” di tre anni dopo, i due missili libici caduti in prossimità delle coste di Lampedusa nell’86, la strage del circolo militare statunitense di Napoli di due anni dopo, le numerose uccisioni di personalità, diplomatici e dissidenti di quei Paesi, senza dimenticare la terribile strage provocata dalla precipitazione dell’aereo di linea della società ITAVIA nel mare di Ustica il 27 giugno 1980. Il terrorismo di tutti quegli anni ha comportato tanti lutti, letture e dibattiti infiniti, ma anche importanti novità nella legislazione e nell’organizzazione statale, quali le leggi c.d. “Reale” del 1975 e “Cossiga” del 1978, quelle sul pentitismo, sulla riforma dei Servizi segreti del 1977 e del 2007, sul nuovo ordinamento della pubblica sicurezza che, nel 1981, ha ridefinito gli assetti del Ministero dell’Interno e delle Forze di polizia, smilitarizzando nella Polizia di Stato il Corpo di Pubblica Sicurezza dettando cogenti forme e regole di coordinamento tra le Forze di polizia e di collaborazione tra l’Autorità di PS, le altre articolazioni statali sul territorio e le Autorità locali. Risale al 1978 la costituzione delle Forze speciali dei Carabinieri (GIS) e della Polizia di Stato (NOCS) e agli anni compresi tra il 1989 e il 1993 quella dei servizi investigativi centrali delle Forze di polizia (ROS dei Carabinieri, SCO della Polizia di Stato e SCICO della Guardia di Finanza) e della DIA interforze. E’ in quegli anni che iniziano le scorte blindate ai vertici istituzionali e ai magistrati e si diffondono le misure statiche e dinamiche di protezione di siti e obiettivi sensibili, vengono introdotte nuove dotazioni scientifiche, di mezzi ed equipaggiamenti per le Forze di polizia. E’, soprattutto, in quegli anni che si forma quel prestigioso patrimonio, unico e vincente, di esperienza, fatta di conoscenze, di nuovi organismi, di moderne procedure operative e scientifiche, di informazioni condivise, di rapporti interistituzionali, di flessibilità e prontezza, di motivazione e di valori.
Il Generale Tullio Del Sette è il Presidente dell’Osservatorio permanente sulla Sicurezza dell’Eurispes.
EX TERRORISTI: DOVE SONO E COSA FANNO.
Battisti & C., dove sono e cosa fanno gli ex terroristi? Mentre Cesare Battisti è in fuga, ecco la nuova vita di Renato Curcio, Barbara Balzerani, Mario Moretti e altri ex terroristi, tra libri e conferenze, scrive Eleonora Lorusso il 3 gennaio 2019 su Panorama. Di Cesare Battisti in Brasile si sono perse le tracce non appena è circolata la notizia del mandato di arresto nei suoi confronti e della possibile estradizione in Italia. L’ex terrorista è ufficialmente “latitante” e la polizia federale ha diffuso una sua foto segnaletica accompagnata da 20 rielaborazioni di come potrebbe essere ora (con barba o capelli bianchi, barba o cappello). Ma che fine hanno fanno altri ex esponenti delle Brigate Rosse e terroristi? Di alcuni non si hanno più notizie, mentre altri non mancano di alimentare ciclicamente polemiche, come Barbara Balzerani che la scorsa primavera, in occasione dei 40 anni dal sequestro di Aldo Moro ha presentato un nuovo libro accusando le vittime del terrorismo di approfittare della loro condizione. O come Renato Curcio, tra i fondatori delle BR, arrestato, evaso, condannato, uscito di prigione e al centro di una recente bufera per essere stato scelto come destinatario di un premio dell’ANPI (riconoscimento poi cancellato). Cosa fanno e dove vivono oggi gli ex “leader” degli anni di piombo?
Cesare Battisti. “Se mi arrivasse un invito ad andare e prendere un aereo per riportare in Italia un terrorista e un delinquente, che ha morti e morti sulla coscienza e che non dove starsene in spiaggia in Brasile ma in galera in Italia, io lo prendo al volo”. Così il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il 16 dicembre a poche ore dalla notizia della scomparsa di Cesare Battisti in Brasile. Gli abitanti di Cananeia, dove risiedeva abitualmente da tempo, non lo vedono dal 28 ottobre, giorno della vittoria di Bolsonaro alle elezioni. Il nuovo presidente brasiliano in campagna elettorale aveva promesso di concedere l’estradizione dell’ex brigatista all’Italia. Il 14 dicembre un giudice federale ne ha ordinato l’arresto per “evitare il pericolo di fuga in vista di un’eventuale estradizione”. Ma il 63enne ex leader dei Proletari armati per il comunismo, condannato in Italia per 4 omicidi, si è dato alla fuga prima di essere catturato, forse diretto in Bolivia. Si trovava in Brasile dal 2010, quando aveva ottenuto la residenza permanente dall’ex presidente Lula Da Silva nell’ultimo giorno del suo mandato.
Renato Curcio. E’ stato tra i fondatori delle Brigate Rosse, condannato a 28 anni come mandante dell’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola (marzo 1974), due militanti del Movimento Sociale Italiano uccisi nella sede del partito in via Zabarella a Padova. Curcio scrisse il volantino di rivendicazione insieme agli altri dirigenti delle BR. Arrestato, evaso e tornato in cella più volte, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro definì l’omicidio “il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari, in questa società divisa in classi”. Oggi, a 77 anni, Curcio è tornato a dedicarsi alla sociologia, studiata da universitario a Trento. Dopo aver fondato una cooperativa che si occupa di immigrati, disabili e detenuti, stava per ricevere un premio dall’ANPI, a Orsara di Puglia, paese d’origine della madre. Sarebbe salito in cattedra e tenere un seminario sull’Analisi sociale sulle condizioni di vita in alcune istituzioni italiane, con particolare attenzione a carceri, orfanotrofi e case di cura per anziani. Ma la lezione e la successiva cerimonia (con consegna da parte del Sindaco di una pergamena dell’ANPI alla memoria di Antonio Curcio, zio di Renato e giovane partigiano morto in guerra) sono saltate all’ultimo momento, dopo le polemiche scatenate dalla notizia. L’associazione dei partigiani ha fatto marcia indietro, prendendo le distanze dall’iniziativa, nel frattempo annullata dal primo cittadino del comune del foggiano. Curcio non ha commentato.
Barbara Balzerani. “Fare la vittima è ormai un mestiere”. Così Barbara Balzerani, in occasione della presentazione di un suo libro, lo scorso marzo a Firenze, criticando “questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te” aggiunse, suscitando reazioni di condanna. Queste parole sono state pronunciate, infatti, in occasione dei 40 anni dell’anniversario della strage di via Fani in cui venne ucciso Aldo Moro. Un omicidio che vide coinvolta in prima persona la ex terrorista, membro delle Brigate Rosse dal 1975, arrestata a giugno dell’85, condannata a sei ergastoli e poi tornata in libertà nel 2011 dopo 21 anni di carcere. A gennaio del 2018 aveva già fatto discutere con un post su Facebook, in cui aveva scritto: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40nnale?”. Oggi la Balzerani, quasi 70enne, è una scrittrice prolifica con all’attivo libri come Compagna luna e Perché io, perché non tu, o Cronaca di un’attesa, o ancora Lascia che il mare entri.
Francesca Mambro. Anche la ex terrorista “nera” Francesca Mambro è stata al centro di polemiche. Dopo sei condanne all'ergastolo per vicende legate al terrorismo di destra, è intervenuta alla festa di Comunione e Liberazione del 2004 insieme a Nadia Mantovani, ex componente della direzione strategica delle Brigate Rosse ed ex compagna di Curcio. Entrambe sorridenti, hanno raccontato della propria vita e delle proprie esperienze da un palco del consueto meeting di Rimini. Nonostante le parole di pentimento (“Abbiamo scelto una strada senza uscita” ha detto Mambro, ex leader dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari) e “misericordia”, non sono mancate le critiche. Le stesse rivolte alla ex brigatista rossa Mantovani. Oggi Mambro è ancora imputata nel processo bis sulla strage di Bologna, insieme al marito Giusva Fioravanti, anche se ha sempre negato ogni responsabilità in quell’episodio, rivendicando invece decine di altre azioni dei NAR. E’ stata condannata complessivamente a 9 ergastoli, per un totale di 84 anni e 8 mesi di reclusione. Nel 1998 è stata ammessa al regime di semilibertà, trasformato nel 2002 in detenzione domiciliare speciale. Dal 2013 la pena è definitivamente estinta.
Nadia Mantovani. Quanto alla Mantovani, ex militante di Autonomia Operaia, entro poi nelle BR e fu compagna di Curcio, dopo la morte della moglie di quest’ultimo Margherita Cagol. Nota col nome di battaglia di Giulia, partecipò all’assalto alla sede della Dc di Mestre. In seguito venne arrestata, condannata ai domiciliari dai quali fuggì, e ricatturata nel covo brigatista di via Montenevoso a Milano, per poi essere condannata a 20 e 2 mesi per terrorismo, banda armata, sequestro di persona (per il coinvolgimento del rapimento Moro), rapina e associazione sovversiva. Si è dissociata dalla BR nel 1985 ed è diventata amica della Mambro dopo aver diviso con lei la cella per tre anni. Ha terminato di scontare la sua pena nel 1996 e ha fondato l’associazione Verso casa, che si occupa di reinserimento di detenuti nella società.
Alberto Franceschini. Ex terrorista ed ex fondatore delle BR insieme a Curcio e Cagol, anche Franceschini è diventato scrittore. Nel 1974 organizzò e partecipò al sequestro del giudice Mario Soss a Genova, liberato un anno dopo; arrestato, rivendicò dal carcere anche il delitto Moro, salvo poi prendere le distanze dalla violenza delle Br. Ottenuti i domiciliari alla fine degli anni ’80, dal 1992 la pena è stata ritenuta definitivamente stinta. Franceschini ha iniziato a lavorare presso l’Arci a Roma, come dirigente di una cooperativa che si occupa di immigrati, minori a rischio, tossicodipendenti e detenuti. Nel 2007 suscita polemiche (e l’intervento dell’ex Capo dello Stato, Napolitano) un suo intervento in tv da via Fani, nel quale racconta del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e della scorta. Nel corso degli anni ha rilasciato numerose interviste sulla sua storia da ex brigatista e sullo stesso tema ha scritto diversi libri a partire dal 1988, tra i quali Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente.
Mario Moretti. Anima delle Brigate Rosse, principale ideatore e organizzatore del sequestro Moro, fu lui a interrogare l’esponente politico durante i 55 giorni di prigionia e si ritiene sia stato l’esecutore materiale del suo omicidio. Dopo 9 anni di clandestinità, viene arrestato nel 1981 a Milano e condannato complessivamente a 6 ergastoli. Pur ammettendo il fallimento del progetto di lotta armata, non si è mai dissociato dalle BR e non ha mai voluto collaborare con gli inquirenti. Dal 1997 ha ottenuto il regime di semilibertà e presta servizio per il centro di recupero di ex detenuti Giorno dopo, facendo ritorno in cella alla sera nel carcere milanese di Opera. Sono una quindicina i libri dei quali è protagonista l’ex leader brigatista: tra questi anche Brigate Rosse. Una storia italiana, scritto insieme alle giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda, entrate per sei giorni nell’istituto di pena per intervistarlo.
Giorgio Panizzari. Componente dei NAP, i Nuclei Armati Proletari, Panizzari venne arrestato nel 1970 insieme ad altri esponenti della formazione di estrema sinistra e condannato nel ’72 per l’omicidio di un orefice nel corso di una rapina. Dal carcere ha rivendicato il rapimento del giudice Giuseppe Di Gennaro, e ha sostenuto e partecipato a diverse rivolte di detenuti: al manicomio giudiziario di Aversa, dove nel ’74 sequestrò due guardie e ne ferì una, a Viterbo, dove ferì altre due guardie, infine all’Asinara, insieme ai brigatisti Curcio e Franceschini nel ‘79. Le BR ne avevano chiesto la liberazione in cambio di quella di Aldo Moro. Nell’84 fece scalpore la sua protesta contro la condizione in cella, perché arrivò a cucirsi i genitali e la bocca. Nel 1993 ha ottenuto la semilibertà, lavorando in una cooperativa informatica. Nuovamente arrestato per una serie di rapine in banca compiute con tre terroristi dei Nar anche loro in semilibertà, è stato assolto in appello, ma senza poter tornare in semilibertà. Per questo inizia uno sciopero della fame. Nel 1998 l’allora Capo dello Stato, Scalfaro, gli ha concesso la grazia. Nel frattempo ha scritto due libri, Il sesso degli angeli e Libero per interposto ergastolo. E’ stato coinvolto nelle indagini per l’omicidio di Massimo D’Antona e per costituzione di banda armata.
Massimo Canfora. Ex Lotta Continua e Prima linea, nel 1983 fu classificato dalle forze dell’ordine come appartenente al gruppo di Sergio Segio, uno degli ultimi e inafferrabili leader del terrorismo, arrestato quello stesso anno. Si disse che poteva contare su “pedine di rilievo nel nuovo gotha del terrorismo”. Collaborò con i Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria e i Nuclei Comunisti, che avevano come scopo principale la liberazione dei compagni imprigionati e l’attacco alle carceri speciali. Ma è sempre riuscito a sfuggire all’arresto. Ufficialmente latitante il 62enne vivrebbe a Parigi dove sarebbe diventato imprenditore, fondando una casa editrice che nel 2016 si dice abbia fatturato oltre un milione e mezzo di euro.
Giuseppe Valerio Fioravanti. Insieme alla moglie, Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) rappresenta l’esponente di maggiore spicco e fama del terrorismo cosiddetto “nero”: ha fondato i Nuclei Armati Rivoluzionari, considerati dei estrema destra. Prima bambino prodigio come attore negli anni ’60 (nel popolare sceneggiato La famiglia Benvenuti), poi militante del Movimento Sociale Italiano, a metà degli ’70 diede vita i NAR. Il Tenente, come era soprannominato, venne arrestato nel 1981 e condannato complessivamente a 8 ergastoli, per un totale di 134 anni e 8 mesi di reclusione. Non ha mai rinnegato le sue responsabilità, tranne che per la strage di Bologna, a cui continua a dirsi estraneo. Dal 2004 ha ottenuto la liberazione condizionale. Cinque anni più tardi, come previsto dalla legge, e dopo 26 anni di detenzione, è tornato un uomo libero ottenendo la patria potestà sulla figlia. Dagli anni ’90 collabora con l’associazione Nessuno tocchi Caino, contro la pena di morte e in favore dei reinserimento sociale dei detenuti. Una decina i libri sulla sua storia, tra i quali quello firmato in prima persona, Questi benedetti genitori… Un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, pubblicato nel 1969 dalle Edizioni Paoline. Sull’ex NAR e la moglie è stato realizzato anche un film nel 2014, Bologna 2 agosto... i giorni della collera firmato dai due registi i due registi Giorgio Molteni e Daniele Santamaria Maurizio. Nel 2004 Francesco Patierno aveva progettato un film sui due terroristi “neri” (Banda armata), ma le proteste dei familiari delle vittime e un esposto di Mambro e Fioravanti fermarono i lavori in fase di pre-produzione. Nel 2011 lo stesso Patierno ha firmato un docufilm su Fioravanti.
Pochi in carcere. E gli altri? Dei protagonisti degli “anni di piombo” sono in pochi ad essere ancora in carcere. Dei 6.000 che vennero arrestati nel corso degli anni perché coinvolti a vario titolo nelle stragi terroristiche, oggi sono in carcere in poco più di una cinquantina, meno dell’1%. Tra questi ci sono personaggi protagonisti di episodi più recenti, come Nadia Desdemona Lioce, appartenente alle Nuove Brigate Rosse, condannata per aver partecipato agli omicidi Biagi e D’Antona. Molti degli ex terroristi degli “anni di piombo”, invece, sono ancora latitanti, per lo più fuggiti all’estero. L’elenco ufficiale ne conta 36. Tra c’è Paolo Ceriano Sebregondi, nobile poi diventato brigatista, condannato all’ergastolo per omicidio, ma che da tempo vivrebbe in Francia. Maurizio Baldesseroni, invece, era tra i componenti di Prima Linea e fu protagonista della strage di Via Adige a Milano, dove con altri terroristi fece irruzione in un locale nel 1978 aprendo il fuoco con pistole e fucili a pallettoni per la caccia al cinghiale. Per quel gesto non ci fu ufficialmente alcun “movente politico”. Non è chiaro se sia ancora vivo: le ultime notizie lo davano attivo nel traffico di droga in Perù. Incerto anche il destino di Sergio Tornaghi, ex BR condannato all’ergastolo, e di Oscar Tagliaferri, coinvolto anch’egli nella strage di Via Adige. Vivrebbe, invece, in Francia Ermenegildo Marinelli, ex membro del Movimento Comunista Rivoluzionario, che sarebbe diventato imprenditore nel settore del commercio all’ingrosso nella cittadina di Vincennes.
«Quando nascono i tribunali muoiono le rivoluzioni». A cinquant’anni dal Sessantotto un viaggio nella memoria con il leader del movimento studentesco. Intervista di Daniele Zaccaria del 26 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco (lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria». Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».
Cosa ricordi di quella mattina?
«Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando potevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbieco una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno».
Cosa intendi?
«Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?»
Pasolini si sbagliava dunque?
«Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare».
Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita.
«Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte».
Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
«Mi vengono in mente (oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabili nel combattimento e misericordiosi nella vittoria»».
Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto.
«Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social- confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal- liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno».
L’antisemitismo era connaturato al regime?
«No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘ 32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto».
Prego.
«I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime».
Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
«Prendiamo il caso Traini, lo psicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci psicopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne-mi-ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”».
Qual è il più grande nemico della sinistra?
«È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula (di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere».
Il destino degli esseri umani è la ribellione?
«Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.
E il futuro?
«Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti».
Buttiglione: “Il ’68? Aveva bisogno di Gesù invece ha scelto Marx…”. Rocco Buttiglione, filosofo allora ventenne, parla del Sessantotto. Intervista di Giulia Merlo del 25 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Lo racconta col sorriso di chi parla di una stagione felice e ingenua, com’è quella parte della giovinezza che forma il carattere e la visione del mondo. Per Rocco Buttiglione, nato a Gallipoli nel 1948, il Sessantotto è stato l’anno di una rivoluzione fatta di fede più che di lotta di classe e sfociato poi in un’organizzazione – Comunione e Liberazione – che rispondeva alle domande di una generazione con le parole del Vangelo di Giovanni. Eppure, da cattolico, si è sentito parte di quel grande movimento studentesco, ricorda le stesse piazze e, in fin dei conti, ne ha condiviso la stessa esigenza di cambiamento.
Lei a vent’anni che ragazzo era?
«Dov’ero, prima di tutto. Nel 1967 mi ero appena immatricolato alla facoltà di giurisprudenza a Torino e nel novembre di quell’anno iniziò l’occupazione studentesca di Palazzo Campana, che era la sede delle facoltà umanistiche. A Torino, però, arrivai prima, durante l’adolescenza. La mia famiglia si spostava molto e, seguendo il lavoro di mio padre, a Torino arrivai da Catania e mi volli iscrivere al liceo Massimo D’Azeglio, tempio della cultura torinese e dell’anticlericalismo. Mi consigliarono subito di ripensarci ma io mi intestardii: mi presentai in classe molto fiero del mio perfetto accento siciliano e scoprii che lì essere meridionale e cattolico non era un vanto. I torinesi erano imbevuti di cultura azionista e dunque fortemente anticattolica, mentre antimeridionali lo erano senza saperlo, gli veniva naturale».
Come stava un meridionale cattolico a Torino?
«Innanzitutto persi l’accento catanese, poi scoprii che anche i torinesi avevano i loro complessi di inferiorità. Verso l’estero, però, e in particolare nei confronti degli Stati Uniti e della scienza tedesca. Ironicamente, il fatto che parlassi correntemente inglese e tedesco riscattò il fatto che fossi meridionale e cattolico. Poi all’università trovai un porto franco: l’istituto di scienze politiche era presieduto da Alessandro Passerin d’Entrèves, professore cattolico, ma anche ex capo della resistenza e insegnante ad Oxford. Per questo suo profilo esterofilo e partigiano godeva di una sorta di immunità e aveva creato uno spazio in ateneo in cui i cattolici erano tollerati. Nel Sessantotto l’idea era che l’Università fosse nostra, un luogo in cui non eravamo ospiti e dove si imparava non un mestiere, ma un sapere critico che indagava la verità dell’uomo».
Come si spiegava questo antagonismo nei confronti dei cattolici?
«A Torino interagivano tradizioni diverse: io venivo da una famiglia che aveva combattuto la guerra contro i tedeschi e per i miei genitori la resistenza era stata la lotta per la liberazione dell’Italia. A Torino, invece, per molti la resistenza era una cosa diversa: era stata una lotta per il comunismo, interrotta dall’intervento degli americani, che sconfissero i tedeschi e occuparono il Nord, e del Vaticano, che mobilitò il popolo per votare contro un governo comunista. Ecco, per chi era cresciuto in quella prospettiva, il Sessantotto era la grande occasione per portare a termine la rivoluzione incompiuta che era stata la resistenza».
Si avvicinò allora alla politica?
«Nel 1967 fondai con un gruppo di amici Gioventù Studentesca, un movimento cattolico da cui poi nacque Comunione e Liberazione e che fu parte del movimento studentesco».
Partecipavate alle manifestazioni di piazza coi vostri colleghi dei gruppi di sinistra?
«Sì certo. Uno dei punti caratteristici del movimento era la scelta della non violenza e l’idea del sit-in. Ci siedevamo tutti, poi arrivava la polizia che ci prendeva di peso e ci portava via. Ricordo che i poliziotti ci alzavano quasi con garbo e anche con una certa simpatia nei nostri confronti. Era il novembre del 1967. Poi, l’anno dopo, mi trasferii a Roma e anche qui fondai Gioventù studentesca».
Voi cattolici vi sentivate parte del movimento giovanile?
«Nel ‘ 67 moltissimo. Non eravamo discriminati, organizzavamo i nostri controseminari ed eravamo parte di quel grande movimento generazionale. Perchè questo è stato: un enorme movimento di massa, centrato sul bruciante desiderio di rompere con l’ipocrisia della società che ci circondava e di creare rapporti nuovi, fondati sulle relazioni interpersonali. In una parola, volevamo liberarci dall’egoismo individualistico per creare una nuova comunità. La nostra era una domanda di autenticità».
E avete trovato una risposta?
«Noi pensavamo che la fede cristiana fosse la risposta. Ancora oggi, sono convinto che la grande domanda generazionale del Sessantotto fosse prima di tutto una domanda religiosa, non una domanda politica. Il terrorismo successivo, che cominciò nel 1969, nasce proprio da questo errore: l’idea di dare una risposta tutta politica a una domanda religiosa».
Quanto ha litigato coi militanti della sinistra?
«Moltissimo. Ricordo una discussione con Mario Capanna, qualche anno dopo il 1968, a Milano. Comunione e Liberazione cresceva e noi ci consideravamo parte del movimento studentesco, ma Capanna voleva spiegarci che non era vero. Io obiettai che anche noi eravamo pronti a condividere la lotta di classe come lotta per la giustizia, ma lui mi rispose che non era sufficiente. Mi disse: «Anche se dite co- sì, per voi al primo posto non ci sarà mai la lotta di classe ma Gesù Cristo. Quindi siete dei reazionari, in questa università non avete diritto di parola e non ci metterete mai piede». Sei mesi dopo, Cl vinse le elezioni alla Statale».
Il Sessantotto è stato anche il momento della rottura con un certo modello di famiglia. Lo fu anche per i cattolici?
«Anche noi, solidarmente con la nostra generazione, eravamo in rivolta contro le nostre famiglie. La differenza, però, stava nel fatto che a questa rivolta offrivamo un’altra prospettiva educativa, in chiave critica ma non di rottura. Noi pensavamo che il conflitto è un elemento necessario ma positivo, poi si deve riconciliare: contestare significa non prendere alla lettera gli insegnamenti ma verificarne la veridicità nella propria vita, mettendo alla prova i valori proposti. Contestavamo piuttosto un certo modo di essere famiglia e ci siamo riconciliati con essa cambiando profondamente i modelli di interazione familiare».
E’ stata la declinazione cattolica di quello che fu la cosiddetta “liberazione sessuale”?
«Noi l’abbiamo vissuta come l’acquisizione di libertà rispetto alla coazione familiare, ma anche l’acquisizione di una responsabilità. Una delle cose di cui sono più grato a Cl e a Don Giussani è che ci ha insegnato a innamorarci, ad avere fiducia nel nostro innamoramento, a sposarci, avere figli, fare famiglie e a vivere il sesso come forza che salda due destini individuali creando una comunità. Ecco, questo pensiero non è stato molto diffuso ed è stata una grave perdita, sia per gli uomini che per le donne».
A proposito di donne, il Sessantotto ha visto fiorire i movimenti femministi.
«Io considero il Sessantotto come un movimento largamente maschile e anche con tratti maschilisti: la liberazione sessuale è stata vissuta in modo prevaricante nei confronti delle donne. Il femminismo è emerso dopo, ma nel Sessantotto l’immagine della donna era ancora quella della segretaria, con in più la libertà di usarla sessualmente».
Quanto c’è, allora, di mitico in quella stagione vista a cinquant’anni di distanza?
«Il Sessantotto è stato una grande occasione perduta. E’ stato una speranza: per un attimo c’è stata la sensazione che un’altra vita fosse possibile, ma le mani in cui questa sensazione è stata posta erano fragili. Subito si è perduta ed è poi degenerata. In un’immagine, penso al Giudizio universale: Dio tende la mano verso l’uomo, ma questa volta l’uomo non l’ha afferrata».
In questa degenerazione c’è il lato oscuro di un movimento che oggi viene celebrato?
«Io credo che si sia vissuta una riedizione in commedia del grande dramma del Novecento, con le sue religioni secolari. In termini teologici si potrebbe dire: si mette qualcosa al posto di Dio. Quando anche l’ideale più alto viene messo al posto di Dio, questo diventa demoniaco: la giustizia sociale diventa comunismo, la nazione diventa fascismo. La politica si presentò come risposta a una domanda religiosa e si trattò di una risposta inadeguata e di per sè, dunque, rovinosa».
Perchè dice che fu l’eccesso di politica a generare il terrorismo?
«La prima esigenza dell’uomo non è la politica, ma la religione. Dal modo in cui io definisco il mio rapporto con Dio deriva anche il modo in cui definisco il mio rapporto con gli uomini e dunque la mia capacità di avere misericordia per le loro imperfezioni. I terroristi travisarono l’intuizione di portare il regno di Dio su questa terra, identificandolo con il comunismo. In quegli anni veniva citato spesso Engels, in un passo di un libretto su Ludwig Feuerbach: «L’essenza della dialettica è che tutto ciò che è merita di morire». Per loro, davanti al bene assoluto che coincideva con la rivoluzione, tutto ciò che c’era perdeva valore e meritava disprezzo».
E dunque legittimava sparare?
«Alcuni anni dopo, nel 1977, le Brigate Rosse uccisero Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa. Il figlio Andrea era militante di Lotta Continua e ricordo che scrisse un bellissimo articolo: «Anche io ho sempre detto che la lotta di classe è al primo posto, ma non immaginavo che potesse venire anche prima della dignità e del rispetto dell’uomo»».
Quando avvertì la rottura con lo spirito del Sessantotto e l’inizio della stagione successiva?
«Per me fu nel marzo del 1969. A Roma c’era una grande manifestazione di studenti delle medie, che venivano in corteo alla città universitaria. I fascisti erano asserragliati dentro a Giurisprudenza, i gruppuscoli dell’ultrasinistra stavano dentro Lettere e la grande maggioranza del movimento era fuori, perchè era una bella giornata di sole. D’un tratto, capimmo che i fascisti volevano uscire per aggredire i ragazzi, così organizzammo un cordone non violento per impedirglielo. Loro ci vennero incontro agitando le bandiere e, quando arrivarono vicini, smontarono le bandiere e tirarono fuori le mazze ferrate. Ci diedero un sacco di botte e ci sbaragliarono, fino a quando i gruppi della sinistra uscirono da Lettere e li ricacciarono dentro Giurisprudenza. Io rimediai una lesione al ginocchio, quel giorno per me è finito il Sessantotto ed è iniziata un’altra storia».
Con il 1969 cominciò un’altra storia.
«Anche nel movimento del Sessantotto c’erano i gruppi dell’ultrasinistra, ma erano fondati su un’idea di comunismo comunitario, che i marxisti definirebbero di socialismo utopistico. I gruppi armati di scienza marxista- leninista e mazze ferrate vennero dopo, e occuparono il campo. Da allora il movimento di massa finì, chi parlava a nome degli studenti non era più uno studente, la partecipazione crollò drammaticamente. Iconograficamente, il passaggio si compì quando, in manifestazione, smettemmo di chiedere “Vietnam libero” e si iniziò a urlare “Vietnam rosso”».
Cosa ha spinto quegli stessi giovani a prendere le armi?
«Le cito un capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che si intitola “La libertà assoluta e il terrore”. Ecco, il tentativo di realizzare la libertà assoluta in chiave politica induce a rivolgersi con spietata violenza contro tutto ciò che c’è, perchè nulla è adeguato all’ideale. L’uomo di ieri va spazzato via perchè totalmente corrotto e i riformisti, quelli che identificano il cambiamento come un percorso a tappe, sono dei traditori. I gruppi che imbracciarono le armi si consideravano gli unici depositari della giusta visione, mentre tutti gli altri erano massa dannata. Nel loro calvinismo rivoluzionario furono indotti a svalutare ogni limite, soprattutto quello della legge, pur di mettere la lotta di classe al primo posto».
In che modo, invece, Cl ha guidato quella stessa generazione?
«Cl era un fenomeno di massa e col tempo divenne largamente maggioritario tra gli studenti attivi, vincendo tutte le elezioni universitarie. Il legante che ci cementava come gruppo sta nel nome stesso: la risposta alla domanda di liberazione dei giovani è la comunione cristiana. Questo ha significato amicizie che duravano una vita, sostegno nelle necessità materiali, creazione di una comunità che nasceva dall’incontro con Cristo come rottura dell’individualismo edonistico. Leggevamo spesso il Vangelo di Giovanni, capitolo XV e seguenti, in cui è contenuta la metafora della vite e dei tralci: chi riconosce Cristo come sua identità vera diventa più che un fratello e nasce un legame che è più forte di quella della carne. Io sono convinto che la fede fosse la risposta alla crisi di quella generazione».
Eppure verrebbe da obiettarle che, per soddisfare la richiesta di cambiamento di cui lei diceva all’inizio, la politica fosse la strada obbligata.
«Io amo la politica e l’ho fatta per 24 anni, ma per fare una politica realistica bisogna fare i conti con gli uomini per come sono e avere la capacità di perdonare al finito il fatto di non essere infinito. Questo si può fare solo capendo che la società è imperfetta: si può provare a renderla meno imperfetta, ma essa non sarà mai il regno di Dio. In altre parole, la domanda di regno di Dio deve trovare una risposta in qualcosa di diverso dalla società stessa, perchè altrimenti si tenta di imporre al terreno una perfezione che non è in grado di raggiungere. Ecco, solo sapendo che il regno di Dio non è di questo mondo ma che è il modello dal quale partire per migliorarlo, si può fare bene politica».
Dunque è stato sbagliato mitizzare quella stagione, che tanto ha inciso su quella successiva, caratterizzata dal terrorismo?
«Quando tenti di spiccare il volo ma non ce la fai, cadi e ti fai male. Non per questo, però, era sbagliato provare a volare».
Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti. Membro del commando che rapì Moro: ora fa lo chef in Nicaragua. Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti: membro del commando che rapì Moro, ora fa lo chef in Nicaragua protetto dal regime sandinista, scrive Silvana Palazzo su "Il Sussidiario" il 2 gennaio 2019. Cesare Battisti è ancora latitante: la caccia in Brasile prosegue con la promessa del presidente Jair Bolsonaro di consegnare all’Italia il terrorista dei Pac. Ma non è l’unico fuggitivo: l’altro è Alessio Casimirri, che fece parte del commando delle Br che freddò in via Fani i cinque uomini della scorta di Aldo Moro. Personalmente uccise il giudice Girolamo Tartaglione. Prima di essere condannato ad ergastoli plurimi, scappò in Africa e poi in Nicaragua, dove approdò con l’alias Guido Di Giambattista. A parlarne oggi è La Verità, spiegando che Casimirri nella notte di San Silvestro ha offerto le sue specialità di pesce nel suo rinomato ristorante alla periferia di Managua, la capitale appunto del Nicaragua. Qui ha anche combattuto contro il tentativo dei Contras, paramilitari sostenuti dagli Usa, di rovesciare il governo rivoluzionario, quindi nel 1988, dopo la vittoria, ottenne la cittadinanza, anche perché aveva sposato una donna del posto da cui ha avuto due figli. Dopo aver fatto l’istruttore dei sub per le truppe speciali nicaraguensi, ha costruito una villa e aperto due ristoranti. Estradizione? Niente da fare: nel 2004 la Corte costituzionale nicaraguense ha negato la richiesta italiana. Nel 2015 il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciò l’intenzione di riportare Alessio Casimirri in Italia. Da allora però la vicenda è tornata nel silenzio totale. Nel 2017 c’è stato un piccolo “ritorno di fiamma” sui media grazie al lavoro svolto dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, ma tutto cadde di nuovo nell’oblio. Così Casimirri ha continuato a lavorare ai fornelli. Nel suo locale stupisce per il suo estro e la freschezza delle sue materie prime. Come riportato da La Verità, cattura anche personalmente il pesce a San Juan e coltiva vicino al ristorante le verdure. C’è anche chi apprezza la locanda proprio per i precedenti penali del proprietario: «Piatti stupendi preparati da un ex brigatista italiano mai passato dalle carceri grazie a protezioni in alto loco. Una esperienza unica! L’ex brigatista, ora cuoco, ci ha accolto con “quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che hanno i reduci dagli Anni di piombo. Niente da dire», recita una recensione su TripAdvisor. Nel menù c’è anche un omaggio ad un brigatista recentemente scomparso, Prospero Gallinari, da cui prende il nome un piatto di spaghetti. E non si fa neppure pagare poco Alessio Casimirri, visto che c’è chi definisce «scandalosi» i suoi prezzi. A Managua lo chiamano “don Alessio”, che non ha mai fatto un giorno di carcere per aver ucciso Girolamo Tartaglione, allora direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è scappato dall'Italia 36 anni fa. Ora è stato ordinato il suo arresto in Brasile, primo passo per l'estradizione promessa dal nuovo presidente Bolsonaro. Ecco chi è il terrorista pluri-omicida, scrive Paolo Biondani il 14 dicembre 2018 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, poi rilasciato, e adesso ne è stato ordinato un nuovo arresto. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico dal nuovo presidente Bolsonaro, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica.La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi mesi fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrava aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Un'evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta. Poi un nuovo stop fino alla decisione del giudice supremo di ordinare l'arresto che potrebbe portare all'estradizione del terrorista in Italia, come promesso in campagna elettorale dal nuovo presidente verdeoro Bolsonaro.
Cesare Battisti, la storia della fuga del terrorista. Dal 2004 ad oggi le tappe della latitanza, tra fughe, arresti e scarcerazioni, del terrorista di estrema sinistra che si trova in Brasile, scrive Maurizio Tortorella il 29 ottobre 2017 su Panorama. Cesare Battisti va arrestato perché sussite il pericolo di fuga. E' la decisione, non troppo clamorosa, presa dai giudici brasiliani e che avvicina il momento dell'estradizione del latitante in Italia. Una mossa, la prima, che segue le dichiarazioni del neo Presidente del Brasile, Bolsonaro, da sempre favorevole all'estradizione del terrorista.
La fuga in Brasile. Approdato in Brasile nel 2004, il terrorista italiano è stato protetto per tutto questo tempo da una lobby condotta a livello internazionale da esponenti della cultura di sinistra. Quella stessa "gauche caviar" che a Parigi nel 1990 lo aveva accolto a braccia aperte grazie alla "dottrina" ispirata dal presidente Francois Mitterrand, il presidente che fu il teorico della difesa dei nostri terroristi rossi perché a suo dire inseguiti dalla brutalità giudiziaria italiana.
Le tappe della latitanza. In Brasile, quattro anni dopo il suo arrivo, nel 2009 Battisti era stato però “tradito” proprio dal Supremo tribunal federal, che in quel caso aveva autorizzato la sua estradizione. Otto anni fa la decisione dei giudici brasiliani era stata comunque pilatesca: la corte aveva infatti lasciato l'ultima parola all'allora presidente Luiz Inacio Lula da Silva. E il 31 dicembre 2010, proprio nel suo ultimo giorno di mandato, Lula aveva concesso a Battisti lo status di rifugiato politico, bloccando l'estradizione. Il ministro della Giustizia di Lula, Tarso Genro, un esponente trotzkista del Partito dei lavoratori, aveva giustificato quel passo clamoroso con "il fondato timore" che l’Italia avesse ordito "una vera persecuzione" nei suoi confronti. A nulla era servita, allora, l’indignata protesta esercitata dal governo di centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi: Lula era stato irremovibile. La situazione non era cambiata nemmeno sotto la nuova presidente del Brasile, Dilma Rousseff, che l'8 giugno 2011 (in questo caso in pieno accordo con i magistrati) aveva negato una seconda volta l'estradizione, sostenendo che in Italia Battisti avrebbe potuto "subire persecuzioni a cause delle sue idee". Poi le cose sono molto cambiate dal punto di vista politico. L'ex presidente brasiliano, il centrista Miguel Temer che nell’agosto 2016 ha preso il posto della Roussef dopo la sua rovinosa caduta per via giudiziaria, il 12 ottobre scorso aveva annunciato la revoca dello status di rifugiato concesso a Battisti da Lula, e poi aveva pubblicamente dichiarato che dovrebbe essere estradato al più presto in Italia. Alla causa politica del terrorista non ha giovato la crisi del Partito dei lavoratori, la sinistra di governo la cui credibilità negli ultimi anni è stata fiaccata dalle ripetute Tangentopoli brasiliane. E ad alienargli le simpatie della politica brasiliana hanno contribuito probabilmente anche i suoi atteggiamenti polemici: le interviste, irritanti e spavalde, e soprattutto il tentativo di fuga in Bolivia del 4 ottobre (anche se Battisti nega di aver mai voluto espatriare di nascosto), che ha portato a un suo breve arresto. Ma una cosa è la politica, un'altra è la giustizia: c'è anche un altro elemento che potrebbe giocare a favore del latitante, ed è la lettera indirizzata dalla sua compagna al Supremo tribunal federal, nella quale la donna ha ricordato che l'estradizione priverebbe del padre il figlio, di soli 4 anni.
La fine di Lula, arriva Bolsonaro. La svolta arriva con le elezioni presidenziali del 2018. Il candidato della destra, Bolsonaro, fin da subito promette al Governo italiano che in caso di successo alle elezioni uno dei primi provvedimenti sarà proprio l'estradizione del terrorista in Italia. 14 dicembre 2018. Parte l'ordine di arresto per Cesare Battisti dato l'esistente "pericolo di fuga".
Quando gli intellettuali firmavano per Battisti. La storia dell'appello per il terrorista, sottoscritto nel 2004 da Pennac a Vauro, da Scarpa a Saviano, il solo che nel 2009 ritirò la firma, scrive Maurizio Tortorella il 16 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 1993 è stato condannato definitivamente all’ergastolo per due omicidi volontari e per il concorso morale in altri due. Insomma, è un criminale acclarato. Eppure Cesare Battisti è stato il terrorista più difeso e protetto nella storia italiana. Ancora nel 2004, quando fu arrestato in quella Francia che lo aveva protetto per lunghi anni grazie alla "dottrina Mitterrand" (che in nome della grandeur e di un malconcepito disprezzo della giustizia italiana dava asilo ai peggiori terroristi rossi italiani) di qua e di là dalle Alpi decine di intellettuali veri e sedicenti firmarono in massa un appello per la sua scarcerazione. Un movimento simile si mise in moto anche nel 2007, quando il terrorista dei Proletari armati combattenti riparò nel Brasile governato autoritariamente dal presidente Inacio Lula da Silva (il quale gli garantì un diritto d’asilo politico che finalmente è stato appena revocato dal nuovo presidente): in quell'occasione si schierarono a suo favore nientemeno che Bernard Henry-Levy e Gabriel Garcia Marquez. È stato merito di un abile marketing politico. Battisti, che nella sua prima vita delinquenziale è stato soltanto un criminale ordinario e che soltanto a un certo punto si è trasformato in terrorista rivoluzionario, è riuscito proprio con questo abile paso doble a ingraziarsi buona arte della cultura radical chic italiana e della gauche caviar d’Oltralpe. Gli esempi si sprecano. Una nota scrittrice francese, Fred Vargas, si è trasformata nella pasionaria di Battisti, nemmeno il terrorista potesse essere equivocato per un eroe romantico. Un suo pamphlet, La vérité sur Cesare Battisti, uscito nel 2004, descriveva l’Italia degli anni di piombo come un Paese decisamente più illiberale e autoritario del Cile di Augusto Pinochet, e dipingeva i "poveri" terroristi rossi come eroi di una guerra civile persa dalla parte giusta soltanto grazie agli arresti di massa: con decina di migliaia di quei “democratici oppositori” sbattuti in carcere fra torture, tribunali speciali peggiori di quelli del fascismo, e migliaia di arbitrarie sentenze sommarie. Ma gli appelli, si sa, spesso si trasformano in una trappola. Perché chi firma resta ingabbiato per sempre in una posizione che viene incisa nella pietra, e anni dopo viene estremamente difficile negare. Ecco, se oggi fossero intervistati, chissà che cosa direbbero di Battisti quanti avevano firmato l’appello mistificatorio del 2004. Nell'appello si leggevano queste enfatiche affermazioni: "Dal momento della sua fuga dall’Italia, prima in Messico e poi in Francia, Cesare Battisti si è dedicato a un’intensa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’esperienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centinaia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta, quale nessuna forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo a oggi ha osato tentare". Insomma: secondo i firmatari del 2004, dal 1972 al 1989 Battisti aveva sì rapinato, sparato e ucciso, ma poiché nella latitanza parigina aveva scritto qualche libro (in realtà rinnegando poco o nulla della sua tragica esperienza criminale) solo per questo non meritava di andare in galera. Stupiti di tanta arroganza? L’appello mica si fermava lì. Continuava così: “Nulla lega Battisti a terrorismi di sorta, se non la capacità di meditare su un passato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto". Oltraggio alla verità, certo. E infatti i firmatari, da buoni sacerdoti e depositari della "verità vera", insistevano nel denunciare che contro il povero Battisti era stata ordita una squallida congiura: "C’è chi ha interesse a che una voce come quella di Cesare Battisti venga tacitata per sempre. Chi, per esempio, contribuì alle tragedie degli anni Settanta, militando nelle file neofasciste o in quelle di organizzazioni clandestine quanto i Proletari armati per il comunismo, chiamate Gladio o Loggia P2, e sospettate di un numero impressionante di crimini. Chi fa oggi della xenofobia la propria bandiera. In una parola, una gran parte del governo italiano attuale”. Il farneticante appello del 2004, che metteva sullo stesso piano Gladio, Ps, terroristi di ogni colore e ovviamente il centrodestra che in quel momento era al governo con Silvio Berlusconi, si concludeva così: "La vita di Cesare Battisti in Francia è stata modesta, piena di difficoltà e di sacrifici, retta da una eccezionale forza intellettuale. È riuscito ad attirarsi la stima del mondo della cultura e l’amore di una schiera enorme di lettori (…). È un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in gioco fino in fondo se stesso e la storia che ha vissuto. In una parola, un intellettuale vero". Tra i firmatari che 13 anni fa si schierarono a favore dell’intellettuale, l’uomo “arguto e profondo” che oggi sostiene nelle sue interviste brasiliane che l’Italia chiede la sua estradizione “perché è un Paese arrogante”, c'erano scrittori e artisti di rilievo come il collettivo Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, il vignettista Vauro, Lello Voce, Pino Cacucci, Christian Raimo, Sandrone Dazieri, Loredana Lipperini, Marco Philopat, Gianfranco Manfredi, Laura Grimaldi, Antonio Moresco, Carla Benedetti, Stefano Tassinari... Tra i firmatari del 2004 figurava anche uno sconosciuto ventiquattrenne napoletano, Roberto Saviano. Due anni dopo, però, quel Saviano raggiunge però la fama con un romanzo, Gomorra, e nel 2009, quando la sua fama esplode, corre a ritirare la firma dall'appello motivando la sua decisione con queste imbarazzate parole: “Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti (...) finita lì per chissà quali strade del web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo. Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e dico: non so abbastanza di questa vicenda (...) Chiedo quindi di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime”. Chissà perché. Forse il Saviano autore di best-seller contro la camorra, diventato punta di lancia dell’Italia antimafia e legalitaria, non poteva più essere confuso con l’altro Saviano, il firmatario di appelli che chiedevano la libertà di un rapinatore e pluri-omicida, condannato in via definitiva all’ergastolo.
Perché Francia e Brasile hanno protetto Battisti (finora). A Parigi la propaganda della "gauche caviar". A Brasilia interessi politici e strumentalizzazioni. Oggi molto è cambiato, e forse verrà estradato, scrive Maurizio Tortorella il 6 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 2009 il ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro, esponente trotzkista del Partito dei lavoratori che partecipava al governo di Luiz Inácio Lula, aveva negato l’estradizione e gli aveva concesso lo status di rifugiato “per il fondato timore di una persecuzione politica”. In quell'epoca, scrittori e intellettuali di mezzo mondo come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy facevano ancora appelli per lui. Persino Carla Bruni, all’epoca première dame di Francia, protestava la sua innocenza.
La protezione francese. Di certo nessuno di loro aveva nemmeno sfogliato le infinite carte processuali o le tante sentenze che condannano all’ergastolo per quattro omicidi Cesare Battisti, oggi 63 anni, definito dalle cronache come “ex terrorista”, un passato da criminale comune, ma anche giallista di fama, e assurdamente trasformatosi in icona della "gauche caviar" parigina. È stato anche per colpa di intellettuali, scrittori e della sinistra al caviale francese, se i governi di Parigi dal 1991 al 2004 hanno negato l’estradizione del quattro volte omicida. E ancora oggi nessuno riesce bene a comprendere perché la Francia sia stata tanto affettuosa con Battisti, che un pubblico ministero serio come Armando Spataro, proprio parlando con Panorama, una volta aveva definito “un assassino puro”. Gli ambienti parigini erano stati convinti, da una propaganda battente, che l’Italia degli anni Settanta fosse simile a una cajenna giudiziaria, dove una serie di leggi autoritarie e una magistratura da ghigliottina avevano fatto scempio dello Stato di diritto per combattere e sconfiggere il terrorismo, rosso e nero.
La conversione politica. Anche se qualche eccesso, effettivamente, in quegli anni c’era stato, questa caricatura del reale era più che evidente per quanto riguardava proprio Battisti. Di certo, non c’era stato alcun eccesso giudiziario su di lui, condannato quattro volte per omicidi volontari, violenti e spietati, e la cui intera storia esistenziale pare intrisa di cinismo opportunista, trasformismo e violenza spesso gratuita. La stessa aura ideologica di Battisti pare usurpata. Perché in effetti l'uomo si rivela alle cronache e ai tribunali, banalmente, come ladro nel 1972 (data del suo primo arresto) e poi come rapinatore nel 1974. È un criminale comune, che subisce denunce anche per atti di libidine violenta e per violenza privata. La sua “conversione politica” avviene in carcere, a Udine, grazie all’incontro con un terrorista vero: Arrigo Cavallina. Ma l’impressione che gli inquirenti e i giudici hanno sempre avuto e trasmesso, negli atti giudiziari, è che l’attività eversiva condotta da Battisti all’interno dei Pac,i Proletari armati per il comunismo, fosse almeno in parte strumentale: "ufficialmente" l’uomo rapinava e uccideva in nome di un ideale politico, per quanto farneticante, ma quasi sempre nelle sue azioni traspariva lo sfogo di una violenza repressa e perfino la ricerca - molto più terrena e razionale - di un arricchimento personale.
L'asilo politico del Brasile. Più facile da capire è perché per otto anni il Brasile di Lula e poi di Dilma Roussef abbia dato un vergognoso asilo politico, legale o di fatto, a Battisti: le mosse dei governi demagogici sono state dettate da questioni politiche, forse anche dall’idea di poterlo usare come strumento di pressione economica nei confronti dell'Italia. Oggi invece, tanti anni dopo, il Brasile potrebbe finalmente estradare Battisti. Perché? Perché dall’agosto 2016 è mutato profondamente l’atteggiamento politico del Paese, con il nuovo presidente Michel Temer. Tant’è vero che Battisti, con la solita capacità di interpretare opportunisticamente l'ambiente, e annusata l’aria negativa, stava già per prendere la via della fuga in Bolivia. Dovesse essere finalmente estradato in Italia, una volta tanto, sarebbe stata fatta davvero giustizia.
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”. Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.
«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».
Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.
Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?
«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»
Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?
«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»
Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.
«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»
Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?
«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»
Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?
«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»
E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?
«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»
Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?
«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»
E le prove documentali?
«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»
E perché ti avrebbero coinvolto?
«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»
Hai mai sparato?
«Contro persone no.»
E a chi sparavi? Agli uccelletti?
«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»
In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?
«Non facevo più parte dell’organizzazione.»
Ma c’eri o no?
«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»
Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?
«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»
Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.
«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»
Cosa è successo con Alberto Torregiani?
«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»
Da chi?
«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»
Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?
«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»
Francesi o italiane?
«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»
E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?
«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»
E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?
«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»
Ti eri accorto di essere seguito?
«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»
Allora perché ti nascondevi tu?
«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»
In carcere in Brasile come sei stato trattato?
«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»
Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?
«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»
Parli di Lula?
«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»
Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?
«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»
Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?
«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»
Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?
«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»
Compresi gli amici tuoi francesi…
«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»
Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?
Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»
A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?
«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»
Contrordine compagni: Battisti resta in Brasile (e può fuggire altrove). Il giudice Fux, fautore dell'asilo, congela con un cavillo l'estradizione: si decide il 24. Forse, scrive Paolo Manzo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Rappresenta una boccata d'ossigeno per Cesare Battisti la decisione di Luiz Fux, il giudice della Corte Suprema brasiliana relatore del suo caso, di sospendere ogni azione per estradare, espellere o arrestare nei prossimi giorni il latitante più famoso d'Italia. Almeno un paio le anomalie della decisione di Fux che - è bene ricordarlo - aveva già votato a favore della decisione di Lula di concedere asilo a Battisti l'ultimo giorno del suo secondo mandato, il 31 dicembre del 2010, e deve la sua nomina a giudice della Corte Suprema all'ex guerrigliera Dilma Vana Rousseff. La prima stranezza è che ci si attendeva che Fux decidesse solo dopodomani e, invece, ha fatto gli straordinari sino a tardi un venerdì 13 nel bel mezzo di un ponte festivo (il 12 ottobre il Brasile si ferma per celebrare la sua santa patrona, la Nostra Signora di Aparecida). La seconda anomalia è che, invece di chiudere subito la vicenda, Fux ha trasmesso tutta l'analisi dell'habeas corpus preventivo presentato lo scorso 27 di settembre dai difensori dell'ex terrorista - una misura cautelare che garantisce a chi teme il carcere di assicurarsi comunque la libertà ancor prima dell'arresto - al plenario della Corte Suprema, che si riunirà tra 9 giorni. Non è però affatto detto che il prossimo 24 ottobre la massima istituzione giuridica verde-oro decida qualcosa di definitivo e - come già accaduto tra 2007 e 2011 - gli undici togati verde-oro che compongono il plenario potrebbero andare avanti per mesi e/o anni discutendo di cavilli degni dell'Azzecca-garbugli manzoniano. In teoria la Corte Suprema dovrebbe solo decidere se accogliere o meno la richiesta di habeas corpus preventivo e, su questo, Fux ha sollecitato «tempi brevi». Peccato solo che, nel motivare la sua decisione, abbia altresì machiavellicamente chiarito che «bisogna verificare se esista la possibilità per l'attuale Presidente della Repubblica di annullare una decisione presidenziale anteriore». E proprio qui sta il busillis perché tutto lascia intendere che se l'ultima volta, con Lula alla presidenza, la Giustizia verde-oro che pur aveva concesso l'estradizione si sottomise alla volontà del massimo potere politico, oggi ci si trovi invece di fronte ad una situazione diametralmente opposta. Ovvero con un presidente come Michel Temer che vorrebbe sì estradare Battisti ma che - indebolito dai sondaggi e soprattutto da un paio di inchieste sulla corruzione che lo chiamano direttamente in causa - potrebbe doversi piegare davanti ad una Corte Suprema stavolta contraria tanto a sottomettersi al potere politico di turno quanto all'estradizione dell'ex terrorista. Non a caso ieri il ministro della Giustizia del Brasile, Torquato Jardim, intervistato dal quotidiano Estado de Sao Paulo ha sì ribadito quanto già detto il giorno prima a BBC Brasil - ovvero che «Battisti ha rotto il rapporto di fiducia che aveva per rimanere in Brasile», ma ha tenuto a sottolineare che «la decisione è sub judice» e che «si deve attendere la decisione della Corte Suprema». Al di là delle modalità e dei tempi con cui potere politico e giudiziario brasiliano affronteranno la «patata bollente» Battisti in ballo ci sono anche le relazioni con l'Unione europea che dopo oltre 25 anni di negoziati starebbe finalmente per chiudere l'accordo commerciale con il Mercosur di cui il Brasile è il paese più potente - da ieri l'ex terrorista dorme sicuramente sonni più tranquilli. Con la possibilità, se mai la sua estradizione verrà concessa da Brasilia, di fuggire in un altro paese disposto a dargli rifugio come, ad esempio, la Bolivia o il Venezuela.
"Anarchici irriducibili" Ecco chi sono i fan di Battisti. Gli investigatori: «Gli autori delle scritte a favore del terrorista? Animati dal voler essere sempre contro», scrive Paola Fucilieri, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". Per gli investigatori milanesi si tratta di «groppuscoli isolati», animati non da veri e propri ideali quanto dal desiderio di «avere un pretesto» per essere sempre e solo «contro il sistema, lo status quo». Sarebbero comunque e senza dubbio anarchici milanesi, attraverso una serie di scritte apparse sui muri del quartiere di Affori nei giorni scorsi, a inneggiare alla libertà del 62enne Cesare Battisti, il terrorista dal 31 dicembre 2010 formalmente asilante con visto permanente in Brasile e arrestato qualche giorno fa proprio dalle autorità brasiliane ai confini con la Bolivia mentre tentava di fuggire in quel paese. Un fatto, quest'ultimo, che - anche dopo le sue dichiarazioni provocatorie, nelle quali Battisti sostiene di non temere alcunché perché «protetto dall'asilo e da un visto permanente» - ha riportato prepotentemente a galla tutte le polemiche legate alla sua mancata estradizione, richiesta quindi di nuovo e con forza, dai ministeri della Giustizia e degli Esteri attraverso un mandato all'ambasciatore italiano in Brasile. Alle spalle di Battisti quattro omicidi - due commessi da sé, due con altri - oltre a vari reati legati nientemeno che alla lotta armata. Una vita e un bilancio da brividi - senza il beneficio del minimo dubbio - «suggellati» da una condanna a ben quattro ergastoli, sentenza emessa in contumacia e diventata definitiva nel 1993. Eppure, come testimoniano proprio quelle scritte tra via Litta Modignani e via Ippocrate - «Battisti libero», «No all'estradizione», «Assalto al potere», accompagnate da simboli anarchici - c'è ancora chi a Milano, «tifa» per il terrorista, seppure lontanissimo dalle posizioni, ad esempio, degli occupanti del centro sociale «Villa Litta», perché dichiaratosi sempre di area marxista leninista. Una realtà, quella dei suoi «supporter» milanesi, che stride ancora di più se si pensa che, già militante del gruppo «Proletari Armati per il Comunismo», Battisti è accusato di essere il co-autore del delitto di Pierluigi Torreggiani, avvenuto il 16 febbraio 1979 in via Malpighi, in zona Buenos Aires. Un agguato nel quale il figlio del gioielliere, Alberto, allora 15enne, dopo un colpo di pistola alla colonna vertebrale, rimase tetraplegico. E da sempre chiede che il terrorista venga consegnato alla giustizia italiana. Battisti, fuggito prima in Francia, si trova in Brasile dal 2004: qui fu arrestato nel 2007 e l'Italia ne chiese l'estradizione. Nel 2009 la Corte suprema brasiliana aveva autorizzato il provvedimento, ma si trattava di una decisione non vincolante, che lasciava l'ultima parola al capo dello Stato. L'allora presidente brasiliano Lula negò quindi l'estradizione concedendo a Battisti lo status di rifugiato politico. Una decisione che pare non possa essere annullata nemmeno da Miguel Elias Temer, presidente del paese sudamericano dall'agosto dell'anno scorso.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è stato arrestato e poi scarcerato mentre cercava di andare in Bolivia. Ma ora il presidente brasiliano potrebbe revocarne lo status di rifugiato. Un passo importante per l'estradizione in Italia, da cui è scappato 36 anni fa, scrive Paolo Biondani il 12 ottobre 2017 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, e poi rilasciato, nei giorni scorsi mentre cercava di fuggire dal Brasile alla Bolivia. Una "gita per pescare", secondo lui; molto più credibilmente un tentativo di fuga per evitare di essere rimandato in Italia. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica. La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi giorni fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrerebbe aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Una evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta.
Intervista a Cesare Battisti: “Ho pietà per tutte le vittime del terrorismo, ma io non c’entro: i pm hanno torturato il mio accusatore”, scrive Angela Nocioni il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Parla l’ex militante dei Pac: “Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi”. No. Non è un fuggitivo di lusso che aspetta in un rifugio tropicale dorato di riuscire a bloccare la sua estradizione. E’ un sessantatreenne in canottiera, controllato a vista dalla Policia federal, barricato in un appartamentino prestatogli fuori San Paolo. E’ circondato dai fantasmi anni Settanta di un militante dei Proletari armati per il comunismo, vecchi poster di Carlo Marx e amici devoti del giro degli esiliati per ragioni politiche in Brasile che, come satelliti amorevoli, ruotano da anni attorno a lui. Che di loro è il più famoso, il più esposto, l’unico sull’orlo di una detenzione con fine pena mai. Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi dei quali si dice innocente, dichiara che la testimonianza di Pietro Mutti, l’elemento con cui è stato condannato, è una testimonianza falsa “ottenuta con la tortura”. Perché Mutti accusò lui e non un altro? “Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me e non un altro”. Dice di avere pietà per le vittime della lotta armata. “Ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani”. Sulle vicende di questi giorni: “L’ambasciata italiana voleva che rimanesse segreto l’accordo col Brasile per mettermi di corsa su un aereo per l’Italia. Non volevano darmi la possibilità di difendermi. Doveva essere una estradizione express per impedirmi di difendermi. Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi. Nel giugno del 2011 il plenum del Tribunale supremo ha approvato per 6 voti contro 3 il decreto di Lula che negava l’estradizione. Solo dopo quel voto io sono uscito di prigione. Si tratta di una decisione dell’esecutivo, giudicata e approvata dal massimo organo giudiziario del Brasile. Estradarmi significherebbe violare un diritto acquisito e violare la decisione presa dal plenum del Tribunale supremo, violare una decisione giudiziaria che prevale su qualsiasi decisione politica”.
Ha detto che teme di essere ucciso in Italia. Per volere o su mandato di chi dovrebbe essere ucciso e perché?
«Sono più di dieci anni che diversi politici, poliziotti, membri dei sindacati delle guardie carcerarie e altri mi fanno arrivare minacce. D’altra parte, se l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa ha detto che mi avrebbe voluto torturare personalmente… L’ha detto ai giornalisti. Ma non è nessuna gran notizia. Molti detenuti politici sono morti nelle prigioni italiane. Molti si sono suicidati, sono caduti dalle scale, questo è noto. Le autorità italiane che negano queste morti cercano di nascondere un’informazione già nota. Organizzazioni i diritti umani hanno denunciato per decenni questi strani decessi».
Pietro Mutti è il suo unico accusatore, lei hai sempre detto che Mutti avrebbe dichiarato il falso. Chi non le crede dice: “Ammettiamo pure che Mutti abbia mentito per ottenere dei benefici personali, ma perché ha accusato Cesare Battisti? Perché non un altro?”. Perché l’ha fatto? Si può sapere perché Mutti ce l’avrebbe dovuta avere con lei?
«Mutti era mio amico, ma nessuno può resistere alla tortura compiuta con ferocia. E’ una questione fisica, biologica, non è necessariamente qualcosa che riguarda la morale. Perché denunciò me e non un altro? Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me, non di denunciare un altro! La persona torturata deve obbedire a chi ordina la tortura. Può rimanere il dubbio sul motivo per il quale i procuratori scelsero me. Io ero, di tutto questo gruppo, l’unico che scriveva cose che venivano lette in diversi paesi. Io per molto tempo ho fatto dettagliate denunce riguardo la scomparsa di detenuti politici, le torture e gli abusi. E guardate, dopo quarant’anni la persecuzione continua».
Ha sempre denunciato di essere stato condannato all’ergastolo senza prove. Anzi, “nonostante l’esistenza di prove documentali che mi scagionano e solo attraverso una testimonianza falsa” m’ha detto in passato. Perché allora non chiede la revisione del processo?
«L’Italia ha sempre detto che il mio processo non sarà rivisto».
Il governo italiano dice che vuole la sua estradizione “anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo”. Vorrei la sua opinione.
«Beh, dovrei sapere intanto se parlano del terrorismo fatto dai fascisti, la Banca dell’agricoltura, l’Italicus, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Quelle stragi fecero centinaia di vittime. Senza contare gli studenti uccisi, gli operai, le femministe, i militanti di alcuni partiti politici. Se si riferiscono a questo terrorismo, la miglior informazione la potrebbero ottenere dalle forze fasciste e mafiose che sostennero quei governi».
In Italia l’accusano, tra l’altro, di non aver mai pronunciato una parola di pietà per le vittime del terrorismo. Non parlo delle persone morte nei quattro omicidi per i quali è stato condannato, ma delle vittime della lotta armata degli anni Settanta.
«Io ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani».
Se arriva il via libera del giudice del Tribunale supremo, cosa faranno i suoi avvocati? I reati per i quali è stato condannato sono prescritti in Brasile. Il decreto presidenziale di rifiuto dell’estradizione sarebbe immodificabile per legge dopo cinque anni dalla firma e ne sono passati quasi sette. Lei è padre di un minore, cittadino brasiliano, e non potrebbe per questo per legge essere estradato. Cosa pensa di fare la sua difesa?
«Mio figlio ha quattro anni. I miei avvocati stanno usando tutti gli elementi legali contro l’estradizione, che sono molti. Lo continueranno a fare sempre. Già hanno denunciato che il decreto di Lula non può essere modificato. Sono protetto dallo statuto dello straniero. I miei avvocati denunciano di non aver ricevuto informazioni che avrebbero dovuto ricevere e chiedono d’essere ascoltati».
Cosa farà se verranno a prenderla?
«Confido nella giustizia brasiliana. Il Brasile non ordinerà l’arresto di una persona che è stata liberata da una decisione della giustizia brasiliana. Una nuova detenzione illegale, come quella che m’è toccata finora, penso che sia quasi impossibile. La trappola degli arresti montati, costruiti a tavolino, è diventata pubblica».
Può descrivere cosa è esattamente avvenuto durante il primo controllo di polizia il 4 ottobre, prima che la fermassero una seconda volta nello stesso giorno alla frontiera brasiliana con la Bolivia per poi arrestarla?
«Hanno fermato l’auto in cui viaggiavo due volte. Duecento chilometri prima della frontiera ci ha fermato la Policia Federal Rodoviária. Hanno guardato dentro ogni angolo dell’auto. Sembrava la volessero smontare. E non hanno trovato nulla. Poi ci ha fermato di nuovo, molto prima della frontiera con la Bolivia, un gruppo speciale della polizia federale. Non era polizia di frontiera! Non hanno fermato nessun’altra macchina, solo noi! Ero con due amici. Ci hanno chiesto di mostrare il denaro che avevamo con noi. Ciascuno di noi ha dato il suo, 25 mila reais in tutto. Abbiamo spiegato che volevamo comprare vino, aricoli in cuoio e per la pesca, lì costano meno. A Cananeia, dove vivo, pescatori amici ci avevano chiesto di fare acquisti per loro. Ci hanno portato al commissariato. Un poliziotto ha messo tutti i soldi in una scatola, fotografandola come si fa quando si sequestra una grande quantità di denaro. Diceva che era illegale perché il massimo che ciascuno può portarsi dietro è 10 mila reais (quasi tremila dollari n.d.r.). Tutti e tre gli abbiamo detto che era il denaro di tutti e tre, lui diceva di no. I miei amici hanno protestato, hanno spiegato che loro hanno soldi loro, propri redditi. Li ha zittiti. Poi li ha liberati. Mi ha trattenuto due giorni in cella, ho dormito per terra. Mi hanno accusato di esportazione di valuta e riciclaggio di denaro. Mi ha giudicato un giudice per videoconferenza. Mi ha accusato di violare le leggi sui rifugiati. Io non sono un rifugiato. Dal 2011 sono un residente permanente, un immigrato con documenti regolari di permesso di residenza, documenti che il giudice conosceva perché fanno parte del dossier. Un immigrato può entrare e uscire dal Brasile, deve chiedere il permesso solo se vuol restare fuori più di due anni. Il giudice mi ha strappato in faccia, davanti al monitor della videoconferenza, la richiesta di scarcerazione che gli era arrivata dal mio avvocato e l’ha buttata nella spazzatura. Solo dopo, leggendo i giornali di San Paolo, ho saputo che c’era un aereo della polizia federale pronto là per portarmi dalla cella di Curumbà direttamente a Roma. I soldi sono rimasti a Curumbà».
Cosa ha pensato quando ha saputo che “O Globo” dava per fatto l’accordo tra l’ambasciata d’Italia e il governo brasiliano per cancellare il decreto presidenziale con cui l’ex presidente Lula da Silva il 31 dicembre del 2010 respinse la richiesta della sua estradizione chiesta dall’Italia? Crede sia stata una trappola?
«Fino a che la notizia non è uscita su “O Globo” non si sapeva nulla dell’accordo. Tutto stava avvenendo segretamente, senza informazioni alla stampa, ancora meno agli avvocati. L’Italia voleva impedire la possibilità della mia difesa legale. Nel marzo del 2015, quando mi sequestrarono di fatto ad Embù das Artes, la polizia mi stava portando direttamente in aeroporto. Solo che il mio avvocato arrivò prima. Per questo motivo, questa volta avevano chiesto il silenzio assoluto. La divulgazione del piano poteva pregiudicare la estradizione express. Senza dubbio è stato un piano preparato nel dettaglio».
Ha avuto l’impressione di essere sorvegliato nei giorni precedenti al viaggio? E lungo la strada? Prima che fermassero l’auto in cui stava viaggiando?
«Nei giorni prima del viaggio non ho notato niente. Non ho l’abitudine di vivere pensando tutto il tempo che c’è qualcuno che mi perseguita. Ma quando ci siamo messi in viaggio era molto evidente che ci stavano seguendo. Era una trappola preparata. La polizia non ha fermato nessun’altra auto, non ha controllato a nessun altro i documenti. Vorrei chiarire che non siamo mai arrivati alla frontiera con la Bolivia. Non c’era motivo per fermarci prima del posto di controllo».
IL '68 ED IL SINDACATO.
'68, poco formidabili quegli anni, scrive Tito Giraudo Mercoledì 4 Maggio 2016 su Lo Spiffero. Al di là del mito, l'incontro tra sindacato e movimento studentesco non segnò affatto un passo in avanti per il mondo del lavoro. Anzi, quegli eccessi hanno marcato negativamente la sinistra per oltre un decennio, portandola alla sconfitta - di Tito GIRAUDO. Il prof. Quaglieni, in un interessante articolo sullo Spiffero, ha scritto della deriva sessantottina in base alle sue esperienze, di assistente prima, poi di docente. Avevo dubbi che il movimento studentesco, nato dalla contestazione del sistema scolastico del tempo, avesse portato un qualche beneficio agli innumerevoli problemi di quel mondo che ancora oggi si dibatte tra riforme di scarsa efficacia. Quaglieni, me li ha fugati. Il movimento studentesco dell’epoca, tuttavia, ha invaso altri campi: il giornalismo, la magistratura e il sindacato. Di quest’ultimo aspetto voglio parlare. Quel giorno che gli studenti universitari torinesi occuparono Palazzo Campana, facevo il sindacalista alla Fiom di Torino. L’attenzione che prestai a quegli avvenimenti fu scarsa, anche i miei colleghi parlavano della cosa più per l’aspetto trasgressivo della presenza femminile notturna che non di quello politico. Come sindacato dei metalmeccanici torinesi, vivevamo anni di profonde trasformazioni. Le macerie della sconfitta quarantottina della sinistra, avevano lasciato profonde ferite nel sindacalismo torinese, il quale aveva subito una controffensiva padronale che ebbe il suo epicentro in Fiat con la liquidazione pressoché totale della Fiom. Pur non essendo questo il contesto per raccontare gli avvenimenti sindacali dell’immediato dopoguerra, occorre tenerne conto, perché, quando dalla Olivetti, dove ero membro della Commissione interna, giunsi a Torino, il clima sindacale risentiva ancora delle conseguenze della débacle provocata dagli eccessi del sindacalismo di sinistra, causata dalla politicizzazione esasperata che aveva provocato la divisione sindacale e consentito alla Fiat vallettiana di prendersi una dura rivincita, liquidando la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Era il 1964, c’era stata la scissione dello Psiupperché una parte dei socialisti era contraria alla rottura del fronte con il Pci. Il partito era impegnato nel primo Governo di Centrosinistra e quell’ennesima scissione, aveva sguarnito i quadri sindacali socialisti alla Camera del Lavoro, per questo motivo fui catapultato da Ivrea a Torino. La situazione organizzativa del sindacato metalmeccanico torinese, in quell’anno, risentiva ancora fortemente del passato, vivacchiava nelle piccole e medie industrie ma era totalmente assente nella più grande azienda metalmeccanica del Paese: la Fiat. Tuttavia, profondi cambiamenti si erano verificati. La Fiat si era messa a costruire auto per tutti, aumentando a dismisura la sua produzione, innescando quell’immigrazione che avrebbe cambiato il volto di Torino. Masse contadine meridionali, diventarono massa operaia, cambiando profondamente il contesto di una città che da sempre gravitava intorno alla Fiat. Noi socialisti impegnati nel sindacato non avemmo vita facile, accusati di tradimento dai sindacalisti comunisti, ci arrabattavamo nella trappola ideologica dell’appartenenza (allora obbligatoria, oltre che ideologica) dei socialisti nella Cgil. Era tale il nostro complesso di inferiorità che non avevamo nemmeno il coraggio di marcare i successi del primo Centrosinistra: le nazionalizzazioni, ma soprattutto lo Statuto del Lavoratori. Avevamo pertanto la necessità di provocare un qualche cambiamento anche nel Sindacato. Così, la componente socialista nella Fiom, pose sul tappeto due grandi obbiettivi: la partecipazione del sindacato alla politica di piano e il ritorno all’unità sindacale. Il congresso della Fiom che si svolse a Rimini, vide un’aspra battaglia tra la componente socialista guidata da Piero Boni, vicesegretario aggiunto della Fiom, e la componente comunista guidata dall’allora segretario generale dei metalmeccanici, il comunista Bruno Trentin. Va detto che i comunisti, in quegli anni immediatamente successivi alla morte di Togliatti, iniziarono a superare il “Centralismo Democratico” che faceva, di quel partito, un monolite di staliniana memoria. L’ingraiano Trentin, uomo peraltro colto e intelligente, non colse, e con lui il resto dei suoi uomini, la necessità per il sindacato di ammorbidire il ruolo di “cinghia di trasmissione” con il partito, su temi come la programmazione e l’unità sindacale, centrali per il movimento dei lavoratori. Sta di fatto che per due giorni ci fu il muro contro muro tra le correnti sindacali, da una parte noi socialisti, dall’altra i comunisti e gli psiuppini. Dal momento che come rapporto di forza, noi socialisti, ad una conta congressuale, non avevamo alcuna speranza di far passare le nostre impostazioni, per noi quel Congresso si avviava verso un’irrimediabile sconfitta. Ma poi ci fu l’intervento di Luciano Lama. Lama, allora vicesegretario della Cgil, era con Giorgio Napolitano un migliorista amendoliano. Con un intervento magistrale, fece sue le nostre tesi. Naturalmente l’iniziativa non fu solo personale, ma del suo gruppo, e certamente avallata dalla segreteria del partito. Da quel momento nulla fu più come prima. C’erano certamente resistenza all’unità anche nella Cisl e nella Uil, ma furono proprio i metalmeccanici di quei sindacati (soprattutto i cattolici di sinistra) a rispondere al dialogo, creando nei fatti le condizioni per un nuovo rivendicazionismo unitario. Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici vide, grazie alla ritrovata unità sindacale, la partecipazione agli scioperi anche dei lavoratori della Fiat e quindi un nuovo ruolo del sindacato nel Paese. Questa lunga premessa è propedeutica per dimostrare che la ripresa sindacale venne prima del Sessantotto e quindi è opinabile la tesi che i sessantottini portarono una ventata innovativa anche nel sindacato. Cercherò di dimostrarlo. Noi sindacalisti scoprimmo il “68” dall’improvvisa presenza fuori dai cancelli delle fabbriche di ragazzotti e ragazzotte di chiara estrazione borghese, omologati dall’indossare tutti la stessa divisa, quell’eschimo che segnerà almeno un decennio. Come mai il movimento studentesco spostò dalla scuola alla fabbrica i propri obbiettivi? Credo, le problematiche universitarie fossero meno romantiche, rispetto la contestazione globale della società borghese (che tra l’altro manteneva nella bambagia buona parte dei contestatori). Fu ripescato di conseguenza il mito della “resistenza tradita”. Qui vale la pena di aprire un piccolo inciso. I quadri resistenziali del Pci, pur probabilmente non credendoci, avevano indottrinato i partigiani delle brigate Garibaldi che, cacciati fascisti e nazisti, avrebbero fatto la rivoluzione proletaria. Il tutto, mentre il loro capo Togliatti collaborava con il Governo Badoglio. Mi rimane difficile pensare che i Longo e i Secchia, non fossero perfettamente al corrente di quanto sarebbe stato difficile, con gli angloamericani in casa, fare ciò che fu possibile ai comunisti dei Paesi occupati dai russi. La tattica del Pci in quegli anni fu “double face”: a livello di vertice, si mostravano concilianti tanto da approvare il concordato con la Chiesa ma diventavano truculenti a livello di base e purtroppo anche nelle fabbriche. Cercarono di sostituire Valletta con uno dei loro, ma ottennero unicamente una dura repressione sindacale. Nel 68, le delusioni politiche erano appannaggio unicamente di vecchi partigiani delusi e alle volte “trombati” dal partito. Lasciarono un’eredità, perché Il movimento studentesco fece proprie queste frustrazioni che via, via, saranno amplificate fino ad arrivare alle teorizzazioni brigatiste. Gramsci, la resistenza tradita, la Cina di Mao in sostituzione dell’ormai impresentabile Urss, furono una miscela ideologica che entrò nelle fabbriche, influenzando, non i vecchi quadri operai del Pci, ma i nuovi attivisti delle linee di montaggio provenienti dal Sud, magari arrivati esprimendo idee fascistoidi, poi trascinati dagli studenti che se li coccolavano nelle loro assemblee infuocate e anche nei ricchi salotti dei borghesissimi genitori. Con le mie orecchie sentii una suffragetta in eschimo rivolgendosi a un lavoratore della Fiat Lingotto che la frequentava con il termine: “il mio operaio!”. Quale fu la posizione sindacale nei confronti dell’attivismo verso i lavoratori dei sessantottini? Prima di sottovalutazione della portata del fenomeno, poi di fastidio; in seguito, e questa fu la posizione peggiore, di acquiescenza rispetto agli eccessi di fabbrica: le mense proletarie, i cortei dove si esibivano i capi reparto sbeffeggiati. Tutti eccessi che il sindacato fingeva di non vedere. Fino alla marcia dei quarantamila. Quando le organizzazioni sindacali compresero che in quel corteo non c’erano solo i quadri ma tantissimi operai, ci fu la Caporetto del sindacato. Dopo qualche anno faranno la solita autocritica. Oggi, se esaminiamo lo stato del sindacato, non possiamo dire abbiano fatto tesoro di quelle esperienze: vero che le Camusso e i Landini, all’epoca, erano dei pargoli: possibile che nessuno abbia insegnato loro un po’ di storia sindacale? Che dire, poi, degli ancora toppi reduci del 68, protesi nel dimostrare di aver fatto un’utile rivoluzione?
Tito Giraudo, classe 1941, dopo un breve periodo di lavoro in Olivetti a Ivrea, aderisce al Partito Socialista. Nel 1964 è membro della Commissione Interna di Fabbrica per la Fiom Cgil. Su posizioni autonomiste, alla scissione socialista del Psiup diventa funzionario della Fiom provinciale e dopo il congresso nazionale entra in segreteria provinciale e negli organismi nazionali. Nel Psi torinese è prima il segretario provinciale delle Federazione Giovanile, poi tra i principali dirigenti degli anni Sessanta e per un breve periodo corrispondente per l’Avanti da Torino. Negli anni Settanta lascia l’attività sindacale e, subito dopo, anche l’impegno politico. Si occuperà fino agli anni ’90 di tecnologie edili innovative anche con un’attività imprenditoriale per approdare, fino ad oggi, nella ricerca di metodi, sistemi e tecnologie applicate alla progettazione turistico-ricettiva.
1968 ED IL GIORNALISMO PEDAGOGICO.
Giornali, cinegiornali e tazebao. Il '68 tra informazione e controinformazione. Il '68 fu anche il confronto, serrato, a tratti spietato, tra la narrazione che davano di quei fatti i giornali tradizionali e la versione dei fogli della controinformazione, i giornali identitari della sinistra extraparlamentare che nacquerò di lì a poco. Una mostra a Roma dal 5 maggio, scrive Marco Pratellesi il 22 aprile 2018 su Agi. In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Marco Pratellesi, giornalista e condirettore di Agi. Megafoni, volantini e tazebao: furono questi i primi strumenti di “condivisione” che dettero voce alla contestazione del Sessantotto. Davanti alle università e alle fabbriche, nelle affollate e fumose assemblee, si consumò un’esperienza individuale e collettiva: per la prima volta tutti potevano prendere la parola; i più non l’avevano mai fatto prima. Fu anche grazie all’opera di “controinformazione” che una generazione si riconobbe come tale: la generazione del ’68 che negli anni successivi avrebbe dato il proprio contributo alla nascita dei giornali “identitari” della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”: dal Manifesto (1969 mensile, quotidiano dal 1971) a Lotta continua (1969 settimanale, quotidiano dal 1972); da Potere operaio (1969) al Quotidiano dei lavoratori (1974). Anche perché il rapporto del movimento con la “stampa borghese” fu tutt’altro che pacifico. Salvo rare eccezioni – l’Espresso, Paese Sera, l’Unità e i cinegiornali di Silvano Agosti girati “all’interno del movimento” – i quotidiani davano ampio spazio agli scontri, ma poco o nessuno alle ragioni che animavano le proteste degli studenti che, anzi, venivano definiti come teppisti, provocatori, criminali, “rivoluzionari da operetta”. Parte della stampa era compatta nel difendere lo status quo, contro il vento del cambiamento, con neanche tanto velati inviti alla “repressione indiscriminata e violenta”, “ad agire contro questi delinquenti”. Incitamenti che in molti casi, come a Valle Giulia, vennero presi alla lettera dalle forze dell’ordine. Gli studenti risposero anche attaccando i santuari dell’informazione. La guerriglia che il 7 giugno si scatenò intorno a via Solferino aveva un obiettivo preciso: bloccare il Corriere della Sera. Le ragioni della protesta erano scritte su un volantino: “1. Il Corriere della Sera è per eccellenza il giornale dei padroni; 2. Centinaia di migliaia di persone che ogni giorno lo leggono sono informatissime su Beatrice di Savoia e su Johnson, ma sulle lotte operaie, sullo sfruttamento nelle fabbriche non leggono quasi nulla o solo delle notizie false”. Le ragioni delle proteste a favore dei diritti civili, contro il consumismo, la disuguaglianza, l’autoritarismo, l’università, l’imperialismo – portato in primo piano dal Vietnam e dalla guerriglia latinoamericana di Castro e Guevara – difficilmente trovavano spazio nei giornali. Altri erano i testi di formazione della “nuova sinistra”: Quaderni rossi (‘61), Classe operaia (‘64), Quaderni piacentini (‘62), Nuovo impegno (‘65), Giovane critica (‘64), Classe e Stato e Lavoro politico (‘67). Altri i “capi spirituali”, soprattutto la Scuola di Francoforte: Adorno, Horkheimer, Marcuse. Eppure, il movimento del Sessantotto, che accusava l’informazione di essere al servizio “dei padroni”, non avrebbe mai raggiunto una dimensione planetaria senza i denigrati media. Perché quella generazione – come ha scritto uno dei suoi protagonisti, Daniel Cohn-Bendit – è “la prima a vivere, attraverso il flusso di immagini e suoni, la presenza fisica e quotidiana della totalità del mondo”. Immagini portate nelle case dalla tv, grazie alla possibilità tecnica della mondovisione (’62). Non era ancora la rete globale, il world wide web, come la conosciamo oggi. Ma il cambiamento radicale del linguaggio, della comunicazione e del modo di condividerla realizzò un salto d’epoca. Non è un caso che molti dei giornalisti di oggi si siano formati in quella, per molti aspetti irripetibile, stagione.
"I giornalisti sono di sinistra". Vero, scrive Stefano Magni il 27-10-2016 su La Nuova Bussola Quotidiana. La condanna dei media è unanime: i cittadini di Gorino sono "razzisti". Poco importa che siano elettori di centro-sinistra e che abbiano reagito così per i metodi adottati dal prefetto. Ma allora vuol dire che i giornalisti son tutti di sinistra? Sì. E uno studio lo dimostra. Ed è l'ideologizzazione la causa prima della crisi di fiducia di cui soffrono i media. Dire che “la stampa è di sinistra” pare un luogo comune. Se lo dice un giornalista non di sinistra, pare solo un pregiudizio. Eppure, uno studio ora inizia a far luce e svela che: i giornalisti sono effettivamente quasi tutti di sinistra. “Lettera agli abitanti di Gorino, con mia profonda vergogna”, leggiamo sul Fatto Quotidiano. “Barricate a Gorino contro dodici donne e otto bambini”, titola La Repubblica, senza pronunciare la parola “vergogna” ma praticamente sottintendendola. “I respingimenti di Gorino e il male radicale che abbiamo nel cuore”, titola l’Huffington Post. Tutti o quasi mettono ben in evidenza, nel titolo, le parole del ministro Angelino Alfano: “Quella non è l’Italia”. I cittadini di Goro e Gorino, che hanno rieletto un sindaco di centro-sinistra (dunque non sono certo fascisti), hanno fatto le barricate per non far entrare immigrati segnalati all’ultimo, imposti in un ostello requisito per l’occasione con poco o nullo preavviso, rovinando un’attività turistica che iniziava a ingranare (tutte le cinque stanze del piccolo alloggio erano prenotate). I giornalisti dei Tg hanno intervistato i “barricadieri” e non hanno ottenuto alcuna risposta razzista, ma solo preoccupazione sull’ordine pubblico, sui metodi arbitrari con cui sono stati assegnati gli immigrati. Ma per le firme della stampa italiana, tutti sono razzisti, egoisti, provinciali. E ci sono tanti altri temi su cui le grandi testate giornalistiche hanno raggiunto la pressoché completa unanimità. Limitandoci solo ai temi di quest'anno: Trump e, in generale, il partito Repubblicano è “populista”; i partiti di destra (tutti, indistintamente, dall’Ukip britannico all’AfD tedesca, passando per la Lega Nord) sono “xenofobi”; la Brexit è un segno di “chiusura” ed è “suicida”; al referendum sull'accordo con le Farc, i colombiani hanno detto "no alla pace"; le maggiori minacce all’Europa sono “i muri” e “il populismo”. L’Ungheria è “razzista” e Orban è “quasi un dittatore”. Per risolvere i problemi economici "ci vuole più Europa"; per ogni problema, anche individuale, "ci vuole una legge"; se persiste un problema sociale, nazionale o internazionale, "è colpa del neoliberismo". Se c'è una strage "è colpa del Far West delle pistole libere". Se un fatto di sangue coinvolge afro-americani "è colpa del razzismo". Il riscaldamento globale “è certificato dalla totalità degli scienziati” e ad esso viene attribuita la causa di tutti i problemi, dalla guerra in Siria all’emigrazione di massa. Unioni civili e nozze gay, che riguardano, in realtà, una minoranza veramente esigua di persone, sono tanto sovraesposti da apparire come l’equivalente nel XXI Secolo dell’emancipazione razziale nel XX, anche se la “razza” non c’entra nulla. Insomma, ad ascoltare, vedere e leggere i media, tutti i giorni, pare di consultare un unico grande giornale di partito, con la sua agenda politica, battaglie, priorità, strategie e tattiche. E’ così? A quanto pare: sì, o quasi. Numeri alla mano, due docenti dell’Università degli Studi di Milano, Luigi Curini (professore di Scienza Politica) e Sergio Splendore (ricercatore e docente di Comunicazione Pubblica e Communication Research), hanno dimostrato che la media dei giornalisti italiani è spostata marcatamente più a sinistra rispetto alla media della popolazione. L’articolo, con relativi grafici, che hanno pubblicato sul sito Lavoce.info, è eloquente. Già i loro grafici parlano da soli. La curva gaussiana che rappresenta la tendenza politica dei giornalisti raggiunge il suo picco nell’area fra l’estrema sinistra e la sinistra moderata. Quella che rappresenta la tendenza politica degli italiani è invece una “montagna” spostata molto più a destra, il cui picco è nell'area centrista. I dati sulle idee dei giornalisti sono attinti dalla ricerca demoscopica The Worlds of Journalism Study, quelle sulle preferenze ideologiche degli italiani dall’ultimo Eurobarometro disponibile. La sovrapposizione fra le due, dà l’idea di quanta distanza ci sia fra i giornalisti e i loro potenziali lettori. La crisi di fiducia di cui soffre la stampa italiana è motivata soprattutto da questa distanza ideologica. E stiamo parlando di una crisi di fiducia grave, che riguarda, ormai, più di un italiano su due. Se i lettori del nostro paese non credono più a quel che leggono e preferiscono rivolgersi a blogger e social network, non è dunque per “analfabetismo funzionale”, ma perché ritengono che i media facciano più propaganda (progressista) che vera informazione. All’analisi di Curini e Splendore, sarebbe da aggiungere anche un’altra considerazione: un giornalista ideologico tende più a commentare che a informare, evita di approfondire la notizia anche per timore di scoprire pezzi di realtà che possano contraddire la sua tesi pre-confezionata e per lo stesso motivo tende ad accontentarsi della prima notizia senza aspettare troppe conferme. Superficialità, eccesso di commenti rispetto alla cronaca e fretta nel dare le notizie, sono i principali difetti individuati nel giornalismo italiano quali cause maggiori della disaffezione del lettorato. Alla domanda su come mai gli editori non correggano la rotta, se non altro per tornare a vendere più copie o ottenere maggiori ascolti, i due autori dello studio rispondono con la teoria della nicchia: ogni giornale si crea il suo “popolo” di riferimento ed è difficile che lo abbandoni per lanciarsi nella colonizzazione di terreni inesplorati. Ma, aggiungiamo noi, anche qui l’ideologia gioca la sua parte. Un editore politicizzato (e i maggiori editori italiani, finora, lo sono) non intende ascoltare il popolo dei lettori. Semmai lo vuole educare. Il compito dei giornalisti, almeno dal ’68 in poi, è più pedagogico che informativo. E non è un fenomeno inedito, perché è l’equivalente moderno del dovere di “fare gli italiani” dopo che il Risorgimento aveva “fatto l’Italia”. I cittadini di Gorino, insomma, “non devono” essere ascoltati. Devono essere educati all’accoglienza, secondo testate che hanno sempre meno lettori. Perché pochi, dopo la scuola, hanno ancora voglia di farsi educare da un giornalista.
«I giornalisti? Sono più disonesti dei politici», scrive Andrea Coccia su L’Inkiesta il 15 giugno 2014. Quando sei convinto di avere un appuntamento a casa di Massimo Fini alle 6 di sera e alle 4, mentre stai riguardando le domande che ti sei preparato, il telefono squilla con il suo nome sullo schermo, sei portato a pensare che l’intervista che stavi aspettando da settimane non sia esattamente partita con il piede migliore. Prima di rispondere ti schiarisci la voce, poi scorri il tuo ditone sullo schermo e rispondi: «Sì, pronto, buonasera... sì... effettivamente... alle 6... non c’è problema... in un quarto d’ora sono lì...». La prima volta che vidi Massimo Fini fu un pomeriggio di settembre della prima metà degli anni Duemila, mi sembra il 2004. Eravamo a Mantova, lui in una delle sue rare apparizioni festivaliere — a presentare Sudditi. Manifesto contro la democrazia, che era uscito da poco per Marsilio — io nelle vesti di un giovane volontario del Festivaletteratura, di quelli con la maglietta blu. Non avevo idea di chi fosse, non lo avevo mai sentito nominare e men che meno l’avevo sentito parlare o avevo letto qualche suo articolo. Era un perfetto sconosciuto, ma mi capitò di prestare servizio proprio al suo evento, e lo ascoltai, seduto per terra, con le gambe formicolanti, per una bella oretta e mezza. Alla fine, quando mi alzai, ebbi la netta sensazione di non essere esattamente la stessa persona di quando mi ero seduto. E non soltanto perché non sentivo più la gamba destra. Nei dieci anni che separano quella gamba formicolante da quel telefono che vibra sono successe un sacco di cose: Fini ha scritto altri libri — ma non è più tornato a Mantova — ha cominciato a scrivere sul Fatto Quotidiano (che all’epoca ancora non esisteva) e ha fondato un movimento. Io, invece, che intanto sono decisamente meno giovane e non metto più magliette blu nemmeno durante il Festival, di Massimo Fini mi sono letto un sacco di libri: cominciando da Sudditi, che lessi d’un fiato proprio quella sera, passando poi per Il vizio oscuro dell’Occidente, il Di[zion]ario erotico, La Ragione aveva torto?, il Mullah Omar e Ragazzo, fino a Il Conformista, piccola bibbia del giornalismo sulle cui pagine torno spesso, soprattutto nei momenti di difficoltà. Insomma, Massimo Fini è per me un personaggio dannatamente affascinante. E lo è per un motivo che insieme è molto semplice e molto raro: è uno dei pochissimi giornalisti che oggi, in Italia, è dotato di una straordinaria onestà intellettuale, di un’irriducibile coerenza con se stesso che viene sempre prima di ogni altra cosa e che lo ha portato spesso a giocarsi tutto — visibilità, carriera, fama — pur di non sacrificarla. È per tutte queste cose che il 3 giugno, alle 5 del pomeriggio, accompagnato dall’immancabile ansia tipica di questi incontri, mi sono ritrovato nel salotto di Massimo Fini, un salotto stracolmo di libri, impilati sul tavolo, appoggiati disordinatamente su sedie e tavolini, pigiati nella libreria-muraglia, su scaffali dalla tassonomia diligentemente etichettata. «Sono figlio di un giornalista», attacca lui, alla mia domanda su come ha iniziato a scrivere per i giornali, «ma per ribellismo non ho voluto fare il lavoro di mio padre, almeno all’inizio. È per questo che da giovane ho fatto un sacco di lavori diversi. Ho lavorato alla Pirelli — un lavoro straziante — ho fondato un’agenzia pubblicitaria e molte altre cose». Uhm, tanti lavori diversi. Mi ricorda qualcosa.
E poi che è successo?
«Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre — a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato. Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio padre, in realtà mi piaceva. Bussare alle porte dei giornali per riuscire a cominciare, scontrarsi con la fila di persone che per diritti di nascita o di censo ti precedono, fare esperienza senza essere pagato. Non avrei mai pensato che la vita di un aspirante giornalista negli anni Sessanta fosse così simile alla nostra...»
L’Avanti! era organo del partito socialista, o sbaglio? Come ti sei trovato in un contesto del genere?
«Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario, interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano intellettuali strani, persone decisamente interessanti».
Perché te ne sei andato?
«Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale».
Come cambiò la tua vita all’Europeo?
«Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo, il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane, mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto, però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976, quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e dilettantesca».
In che senso comica?
«Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti: ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso».
Cambiò qualcosa solo all’Europeo o fu un cambiamento più generale?
«Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato tutto».
Tu come hai vissuto questo cambiamento?
«Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma. Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina, un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.
Si accende una sigaretta, io intanto ne rollo una di tabacco e l’accendo anch’io. Lasciamo cadere la cenere in un piccolo posacenere pieno di sigarette spezzate, appoggiato su un libro dalla copertina blu, sporco di cenere: una vecchia e splendida edizione del Viaggio al termine della notte di Céline».
Che genere di colpe?
«Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi, che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un organo del partito socialista».
E poi?
«Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina, perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto — leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature, un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa, della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro, io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni, quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale, mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre carte noi alla fine avevamo la nostra libertà».
Hai avuto buoni rapporti con i tuoi direttori?
«Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro, che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava, certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi lasciavano lavorare».
E invece con chi hai avuto problemi?
«Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979 non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime che ti tolgono energia me le sono potute evitare».
Mi racconti della tua esperienza all’Indipendente?
«Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è andato a lavorare per Berlusconi».
Che tipo di giornale era?
«Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da 20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno, quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui, bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato».
È curioso, per un trentenne come me, sentir parlare in questo modo di Feltri, per noi nati negli anni Ottanta lui è solo quello che è ora. Che cosa è successo?
«Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si dovrebbe mai nascere poveri — alGiornale gli offrivano un miliardo, da noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto, anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra, libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni, però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari, emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle».
Eccoci arrivati alla politica, a Grillo — «siamo amici da trent’anni» — al Movimento 5 Stelle, ovvero a un potenziale pantano. Per un attimo mi spaventa l’idea di vedere la conversazione prendere quella strada, che poco c’entra, anzi quasi per niente, con quello a cui volevo arrivare.
Tornando al giornalismo, che è quello che mi interessa, che cosa significa essere intellettualmente onesti?
«L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano, sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti»».
Che cosa intendeva?
«È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato».
E cosa è cambiato?
«Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista».
Quale è stato il punto di rottura?
«Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità.
Che responsabilità hanno avuto i giornalisti?
«Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola — hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica».
Dici che intellettuale è una brutta parola. Perché il termine “intellettuale” è diventato un insulto in questo paese?
«Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito».
E in Italia?
«In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere».
Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale?
«Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione, l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come pretendevano quelli del '68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne il prezzo e il prezzo è quello. Ma c’è anche da dire che non è quasi mai una scelta, nel mio caso sta scritto nel Dna, non avrei mai potuto fare altrimenti».
Credi che una nuova generazione di giornalisti possa cambiare le cose?
«È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico, ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più fatica. Ritornando alla mia storia, io ho avuto la fortuna di essermi affermato un po’ prima di quando cambiarono le cose. Oggi un ragazzo non so come potrebbe fare. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è sempre più un’impresa eccezionale».
Cosa ne pensi del finanziamento pubblico ai giornali?
«La legge che era nata per finanziare i giornali che erano organi di partito qualcosa di giusto ce l’aveva. Nell’ingenuità dei nostri padri costituenti, questa legge permetteva di fare un giornale anche a chi non aveva per forza un potere economico alle spalle. Poi invece è andata a finire come vediamo oggi: basta un sotterfugio e due parlamentari per aggirare la legge. È la solita storia italiana, insomma, non è che non ci sono buone leggi, è che le buone leggi vengono continuamente bypassate e diventano un’altra cosa».
Il problema è sempre la disonestà?
«Sì, ma anche se forse tanto seri non lo siamo mai stati, una volta, almeno a livello popolare, un senso di onestà di fondo lo avevamo, io un po’ l’ho vissuto. C’era un rispetto delle regole che iniziava addirittura dalla strada. Per dire, quando eravamo piccoli, nel dopoguerra, noi abbiamo vissuto per strada e c’erano piccole faide di continuo tra gruppi diversi. Però anche lì, anche nelle risse tra ragazzini, c’erano delle regole: se uno cadeva per terra non lo potevi più toccare, non si potevano dare calci, ma solo pugni, se qualcuno si faceva male sul serio gli si dava una mano. Cominciava da lì, dalla strada. C’era tutto un mondo di regole, che poi erano le stesse della vecchia malavita milanese che, fino a Vallanzasca compreso, queste regole le rispettava: sarà stato pure un codice malavitoso, ma almeno era un codice. Quella che è sparita è proprio un’etica pubblica condivisa».
Sono anni che ti batti contro il conformismo, in particolare contro quella specie di professionismo dell’anticonformismo che, facendo un giro completo, diventa il peggior conformismo. Com’è la situazione ora?
«Non è cambiato poi molto. Ci sono tantissimi finti anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene che cos’è».
Qual è il pensiero unico?
«È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente. Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà...»
Ti sembra di vedere oggi qualcuno che sfugge da questa dinamica?
«No. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi eterodossi. Certo li usava come foglia di fico, ma almeno li faceva scrivere. Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del Corriere della Sera, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale. Faccio fatica, non me ne vengono in mente, e questo probabilmente perché o non riescono ad accedere alla professione oppure, se ce la fanno, pagano un prezzo altissimo, ovvero la quasi completa emarginazione. In ogni caso l’effetto è lo stesso: non si vedono».
Chi sono i conformisti dell’anticonformismo oggi?
«Sono ancora e sempre i finti anticonformisti, sono una classe di miracolati, è sempre la solita compagnia, il solito giro. E infatti non sentirai o non leggerai mai nelle loro trasmissioni o nei loro articoli, qualcosa di diverso dal solito, di eterodosso. Ti faccio un esempio che mi riguarda: una volta — una sola — sono stato invitato da Ballarò. Era una puntata con D’Alema e si parlava della guerra in Serbia, che io ho sempre giudicato inutile e cogliona. Ho spiegato il perché di questa mia convinzione, ovvero che, al di là del fatto che non avevamo nessun contenzioso con la Serbia e che, anzi, avevamo sempre avuto rapporti discreti, Milosevic in quel momento era una specie di gendarme dei Balcani e, proprio grazie all’intervento della Nato, è stato sostituito da una organizzazione di criminali enormi. E dove fanno i migliori affari questi gruppi criminali? Ovviamente nel paese ricco più vicino, ovvero l’Italia. Bene, io a Ballarò non ci sono più tornato. Magari sbaglio, dicendo queste cose, ma se non mi invitano non è per quello, è perché queste cose non le vogliono sentire. Insomma, o fai parte della compagnia del giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per avere spazio devi essere cooptato da qualcuno. Prendiamo l’esempio di Luttazzi, così non parliamo solo di me, Luttazzi è uno che riempie i palazzetti dello sport con i suoi spettacoli, e forse interesserebbe a qualcuno se lo facessero passare in televisione, ma Luttazzi in televisione non ci rientrerà mai più, perché non fa parte di nessun gruppo, non fa parte della compagnia del giro».
Cosa ne pensi delle scuole di giornalismo?
«Secondo me le scuole non servono a niente, semplicemente perché il giornalismo non è una cosa che si può insegnare. Quando mi chiamano nei licei o, ma molto più raramente nelle università, a tenere delle lezioni di giornalismo io non so che dire. Penso che il giornalismo lo si impari facendolo. Una volta il sistema per entrare nella professione era avere molta tenacia, bussare a tutte le porte, ma erano tempi diversi, i giornali assumevano ancora, era più facile. Ora invece è tutto molto più complicato e mi sembra che le scuole di giornalismo siano lì per cooptare gente cooptabile, ma non hanno quasi nulla a che fare con l’insegnamento della professione. Il problema è che molti ragazzi non hanno alternative, perché oggi quasi non ce ne sono. Un tempo era diverso. Feltri in questo era molto bravo per esempio. Quando eravamo all’Indipendente, visto che eravamo un piccolo giornale e non potevamo assicurarci i ragazzi che uscivano dalle scuole, noi leggevamo sempre i quotidiani locali per trovare firme che ci piacessero, poi li mettevamo alla prova e se ci piacevano li tenevamo. È un po’ quello che è successo a me, ma non mi pare che questa strada oggi sia praticabile. Un altro aspetto preoccupante e molto pericoloso per chi inizia a fare questo lavoro è il pagamento, che ormai è sceso a quote veramente ridicole, mi pare che si arrivi addirittura a meno di cinque euro al pezzo. Utilizzano questi ragazzi, fanno fare loro lavori molto importanti, inchieste o altro, e poi, quando hanno 30-32 anni, che poi è il momento in cui vorresti anche poter decidere qualcosa della tua vita, ti scaricano e ne prendono altri, tanto ormai alla qualità non bada più nessuno. È una specie di selezione al contrario, assolutamente pazzesca, perché chi ha qualche talento a un certo punto se lo va a giocare da qualche altra parte, e quindi restano quelli che di talento non ne hanno, oppure quelli che hanno una vocazione e una tenacia talmente forte che resiste a tutto questo. Ripeto, è estremamente pericoloso mettersi a lavorare in questo settore, magari lavorarci per cinque o dieci anni pagato pochissimo e, dopo un po’, ritrovarsi con niente in mano».
Quando hai iniziato era molto diverso?
«Anche una volta la gavetta la facevi pagato pochissimo, ma avevi la certezza, se lavoravi bene, che dopo due o tre anni di gavetta poi il giornale ti assumeva, quindi poteva veramente considerarsi un investimento. Ora non è più così».
Credi che l’informazione sia vicina a una fine o a un nuovo inizio?
«Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. Questo naturalmente è un ragionamento di un vecchio, quindi magari è da prendere con le pinze, però io ne sono abbastanza persuaso: l’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso».
E come si fa a cambiare senza far esplodere i server?
«Eh eh eh... l’altro giorno mi hanno intervistato per una piccola televisione e mi hanno fatto una domanda simile. Io ho risposto che preferivo stare zitto, non volevo essere arrestato. Sai — e qui superiamo i confini del giornalismo — i veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un campo strano: se leggi soltanto quella main stream sai che al 90 per cento è taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di informazioni che non sai più nemmeno come gestirla».
Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista?
«Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa, senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve fare il giornalista. Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon. Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è diversa. Esiste l’obiettività relativa, non quella assoluta. Se tu dici che nel 2000 il Mullah Omar ha proibito la coltivazione dell’oppio in Afghanistan e che nel 2001 la produzione di stupefacenti in Afghanistan è crollata a quasi zero, dici una verità oggettiva, basata sui dati. Anche se dici che ora la produzione di oppio dell’Afghanistan è pari al 93% della produzione mondiale e che i talebani la usano per finanziarsi dici la verità. Ma se non hai detto la prima parte, non stai facendo buona informazione, la stai appiattendo. La verità che emerge da una realtà appiattita è una mezza verità. E le mezze verità sono peggiori delle menzogne».
Si può cambiare il conformismo della maggioranza?
«Ora che sono arrivato alla venerabile età di 70 anni posso dirti che sono molto deluso, e anche molto pessimista. Certo che quando ho iniziato anch’io pensavo che nel mio piccolo avrei contribuito a cambiare le cose, ma con il tempo mi sono reso conto che non è così, o almeno non è stato così. Anzi, le cose sono andate di male in peggio. È anche vero però che la delusione è responsabilità di chi si illude. Io ho sempre inseguito, non solo nel giornalismo, ma anche nella vita, cose di questo genere. L’utopia di certo non paga, ma nemmeno cose meno ambiziose dell’utopia».
Che rapporto c’è tra l’idea che hai di una storia prima di incontrarla sul posto e quello che poi ti trovi di fronte?
«Quando vai sul posto e la realtà che incontri corrisponde esattamente alla realtà che ti sei immaginato, allora stai sbagliando qualcosa. Perché la realtà non è mai quella che tu stando a casa tua e leggendo quello che ti pare ti puoi immaginare. Una cosa del genere mi è capitato in Sudafrica, c’erano decine di articoli sulla situazione, ma erano tutti uguali, potevano essere scritti da dovunque, da Washington o da Roma. La realtà che mi trovai di fronte quando arrivai sul posto era un po’ diversa da quella che si raccontava, era più complessa del quadretto che vedeva i bianchi come dei mascalzoni e i neri come delle vittime. Era anche così, certamente, ma non era solo così. Vale il principio fondamentale del nostro mestiere, quello che disse una volta Nino Nutrizio, direttore de La Notte: «il giornalismo si fa prima coi piedi, poi con la testa». Prima devi andare sul posto, osservare, parlare, ascoltare eccetera. È solo dopo che viene la testa».
Se dovessi indicare i tuoi maestri, che nomi faresti?
«Prima di tutto Curzio Malaparte, poi, come personaggio più abbordabile e più vicino direi Giorgio Bocca. Poi ce ne sono altri, sotto traccia, come Buzzati, Flaiano, Prezzolini, se dovessi far vedere a un ragazzo come si scrive su un giornale farei leggere loro, e poi Montanelli, se non altro per l’eleganza e la chiarezza dell’esposizione».
Un'ultima domanda, forse la più difficile: qual è il peggior errore che può fare un uomo?
«Non essere coerente con se stesso. Ora mi spiego con un esempio estremamente crudo. Io sono convinto che si debba essere all’altezza delle proprie cattive azioni, anche delle peggiori. Voglio dire, ciò che per me è intollerabile è il mafioso che scioglie un bambino nell’acido e poi, la sera, va a un club e si commuove sentendo My Way di Frank Sinatra. Preferisco, a questo tipo di personaggio, un nazista che è crudele, ma è crudele coerentemente, fino in fondo. È il tradimento che tu fai a te stesso la cosa peggiore che puoi fare come uomo: tradire se stessi vuol dire non essere uomini, e non ne vale la pena. Ho avuto recentemente una polemica con il solito Feltri, che mi ha fatto un ritratto in cui mi ha definito un grande giornalista mancato. «Sì», gli ho risposto io, «può essere, però ho preferito essere un giornalista mancato che un uomo mancato». Una scelta difficile, è vero, infatti come vedi non vivo in una reggia. E mi fanno ridere quelli che mi dicono che è facile parlare dal mio salotto, che vengano a vederlo, il mio salotto... eh eh eh...»
Sono passate quasi tre ore da quando sono entrato in quella casa piena di libri, mi sono già fumato tre sigarette e bevuto due bicchieri di vino — un buon rosso — insieme a Fini. Spengo il registratore, mi alzo e faccio per dirigermi alla porta. Ma prima mi fermo, tiro fuori dallo zaino una copia usurata e pesante de Il Conformista e gliela porgo. Slegando la bicicletta, proprio davanti al portone di Fini, mi è venuto in mente che non la facevo mai da ragazzo, questa cosa del chiedere gli autografi. Poi ho pensato una cosa stupida, che forse si iniziano a chiedere gli autografi quando si passa i trent’anni perché è l’esatto momento in cui si capisce sul serio quanta fretta abbia il tempo.
QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.
Anni di piombo: i giornalisti e le Brigate Rosse, scrive "Cultura.biografieonline.it".
I giornalisti nel mirino delle Br. A partire dal 1977 anche i giornalisti entrano nel mirino dei terroristi rossi (Brigate Rosse). Tra il primo e il 3 giugno, tre direttori vengono gambizzati a Genova, Milano e Roma. Si tratta di Vittorio Bruno de “Il Secolo XIX”, Indro Montanelli de “Il Giornale” e Emilio Rossi del “Tg1”. Lo scopo è quello di intimorire il mondo giornalistico. Nei mesi di luglio e settembre vengono feriti altri giornalisti e a novembre i brigatisti alzano il tiro sparando a Carlo Casalegno, vice direttore de “La Stampa”, che muore dopo tredici giorni.
L’agguato di Carlo Casalegno. È il 16 novembre del 1977 quando Carlo Casalegno viene ferito dalle Brigate Rosse a Torino. Colpito con quattro pallottole alla testa, rimane vivo per 13 giorni ricoverato in terapia intensiva presso l’ospedale Le Molinette. Muore il 29 novembre, dopo vari giorni di agonia. Casalegno Aveva ricevuto minacce, una bomba era arrivata al giornale, da alcuni giorni era scortato. Quel giorno un improvviso mal di denti lo costringe ad andare dal dentista: è senza scorta. Quando arriva a casa, ad attenderlo nell’androne trova gli assassini, che gli sparano a bruciapelo.
1980, la Brigata 28 marzo: ancora attentati. Il terrorismo si scatena di nuovo contro i giornalisti nel 1980. La Brigata 28 marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra, ferisce a Milano Guido Passalacqua inviato di “Repubblica”. A maggio uccide Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera”. È un delitto feroce e assurdo che desta sospetti perché il volantino di rivendicazione appare scritto da persone che hanno una buona conoscenza del mondo del giornalismo milanese. Per i socialisti i mandanti vanno cercati in via Solferino, sede del Corriere. I processi contro Marco Barbone e i suoi compagni dimostrano l’infondatezza di questi sospetti.
Il delitto di Walter Tobagi. È il 28 maggio 1980 quando, poco prima delle 11, il giornalista esce di casa e si reca verso via Salaino, dove ha lasciato l’auto in un garage. Viene affiancato da due giovani armati: sparano, Tobagi cade a terra, vicino al marciapiede. Si saprà poi che all’agguato partecipano sei giovani: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. A sparare il colpo mortale è Marco Barbone.
Chi è Marco Barbone. All’epoca dei fatti Barbone ha 22 anni. E’ esponente della Milano “bene”, leader dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra, chiamata “Brigata 28 marzo”. Nata a Milano nel maggio del 1980 con lo scopo di lottare e contrastare il mondo dei media, in particolare i giornalisti della carta stampata.
Il sequestro Aldo Moro. I problemi più complessi sorgono dall’evento cruciale: il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La notizia del sequestro e del massacro della scorta viene diffusa la mattina del 16 marzo 1978 dalla radio, dalla televisione e dalle edizioni straordinarie di molti quotidiani. Nel corso della prigionia, i servizi segreti non riescono a trovare Moro. Nasce il dibattito, in Italia, tra chi sostiene la necessità di trattare con le Brigate Rosse e chi, al contrario, rifiuta ogni compromesso. Così lo Stato non tratta: il 9 maggio del 1978 il cadavere del presidente della Dc viene ritrovato all’interno di una Renault 4, a Roma, in via Michelangelo Caetani.
1980: Le Br sfidano i giornali. Alla fine del 1980 le Br sfidano direttamente i giornali. Per rilasciare il magistrato Giovanni D’Urso chiedono che vengano pubblicati i proclami dei loro compagni incarcerati a Trani e a decidere se accettare o meno devono essere i giornali. La maggior parte delle testate respinge il ricatto, mentre pubblicano i proclami “Il Messaggero”, “Il Secolo XIX”, “L’Avanti!”, “Il Manifesto” e “Lotta continua”. Il “Corriere della Sera” decide di adottare il “completo silenzio stampa” e quindi di non dare neppure notizie riguardanti il terrorismo. Gli altri quotidiani del gruppo devono adottare la stessa linea. Nel 1982, subito dopo la pubblicazione dei documenti brigatisti e la chiusura del supercarcere dell’Asinara, i terroristi rilasciano il magistrato.
Così i giornalisti chiusero gli occhi sulle Brigate rosse. Negli anni '70 i quotidiani ignorarono i terroristi. Per preconcetto ideologico, scrive Michele Brambilla, Martedì 17/07/2018, su "Il Giornale". Il Giorno, quotidiano di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentì il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante: le Brigate Rosse. Per farlo, impegnò una delle sue firme più prestigiose: quella di Giorgio Bocca. L'articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio a equivoci: «L'eterna favola delle Brigate Rosse». «A me queste Brigate Rosse», scriveva Bocca, «fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Purtroppo, quella delle Br non era una favola. Non interessava solo i bambini scemi o insonnoliti. Non faceva per nulla tenerezza e, soprattutto, non era una storia «vecchia, sgangherata, puerile». Nel momento in cui Bocca scriveva quel pezzo, le Br avevano già compiuto una serie di azioni delle quali gli italiani erano venuti a conoscenza non leggendo libri di fiabe, ma la cronaca nera dei giornali. La prima impresa brigatista risaliva addirittura a cinque anni prima: il 17 settembre 1970 era stato incendiato il garage di un dirigente della Sit Siemens di Milano. Una cosa da ridere, in confronto alla vera guerriglia rivoluzionaria. Ma da quel momento era cominciata una paurosa escalation. Il 3 marzo del 1972, sempre a Milano, era stato rapito il dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini; il 12 febbraio del '73 altro sequestro: a Torino, del sindacalista della Cisnal Bruno Labate; il 10 dicembre 1973 ancora un rapimento, quello a Torino di Ettore Amerio, capo del personale del settore auto della Fiat. A conferma che di un'escalation si trattava, e quindi che i bersagli delle Br erano sempre più importanti e difficili da colpire, il 18 aprile del 1974 era stato sequestrato a Genova, e poi a lungo tenuto prigioniero e «processato», il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, un magistrato cattolico osservante, considerato dalla sinistra un duro, un intransigente, un conservatore. Insomma, un reazionario. E a conferma che, nel momento in cui veniva pubblicato il pezzo di Bocca, le Brigate Rosse avevano già fatto capire di non scherzare, il 17 giugno '74 c'era stato il duplice omicidio, a Padova, di due aderenti al Movimento Sociale Italiano: Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. E il 16 ottobre dello stesso anno 1974, a Robbiano di Mediglia, il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con dei brigatisti. Nel frattempo (9 settembre '74) erano stati arrestati a Pinerolo due capi storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il 20 febbraio '75, cioè tre giorni prima dell'apparizione sul Giorno dell'«eterna favola delle Brigate Rosse», un commando di questa formazione che secondo alcuni non esisteva neppure era riuscito a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Com'era dunque possibile che, nonostante tre omicidi, quattro sequestri e un'evasione, Giorgio Bocca scrivesse in quei termini delle Brigate Rosse? C'erano fatti che non potevano essere ignorati. Ma la risposta è contenuta nello stesso articolo «L'eterna favola delle Brigate Rosse». Giorgio Bocca spiegava che le prove raccolte su questi tupamaros italiani erano talmente ridicole da non poter essere prese sul serio: «Questi brigatisti rossi», si legge in quell'articolo, «hanno un loro cupio dissolvi, vogliono essere incriminati a ogni costo, conservano i loro covi, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull'auto di Curcio, al momento dell'arresto, vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c'è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi... E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari». (...)
Giorgio Bocca faceva notare, sempre in quell'articolo, che ai magistrati e alla polizia aveva «fatto parecchie pubbliche domande sulle incongruenze, quasi divertenti, di questi guerriglieri, senza ricevere né sdegnate smentite né spiegazioni convincenti». E allora, che cos'erano queste Br? «Una cosa è certa», scriveva Bocca, «le vigilie elettorali hanno per queste Brigate Rosse un effetto da flauto magico, due o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse». Il pezzo, come un processo, finiva con un verdetto: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Questo si leggeva, nel 1975, su un giornale considerato «borghese». Anni dopo, Giorgio Bocca fece pubblica autocritica, ammettendo di «non aver capito niente» del terrorismo rosso. Ma va detto che sia lui personalmente, sia Il Giorno non erano certo eccezioni nel panorama della stampa italiana. Erano anzi la regola. Da quando le bombe, gli omicidi, gli attentati, gli scontri di piazza avevano avvelenato la politica e non solo la politica del Paese, i mass media erano entrati in un tunnel.
Giugno 1977: la campagna Br contro i giornalisti e il black out su Montanelli, scrive il 2 giugno 2018 Ugo Maria Tassinari.
1 giugno 1977 Genova. Vittorio Bruno, vice direttore del Secolo XIX di Genova viene ferito alle gambe da un giovane armato di pistola. L’attentato avviene vicino all’ingresso della tipografia. Le Br rivendicano l’attentato con un volantino in cui dichiarano guerra a tutta la stampa.
2 giugno 1977 Milano. Indro Montanelli, direttore del Giornale Nuovo, viene colpito alle gambe da un uomo armato di pistola con silenziatore. L ‘attentatore e un suo complice raggiungono una macchina che li attendeva e fuggono. L’attentato è rivendicato con una telefonata al Corriere d’Informazione dal “gruppo Walter Alasia” delle Br.
3 giugno 1977 Roma. Emilio Rossi, direttore del TG l, viene colpito da due giovani, un uomo ed una donna armati di pistola. L ‘attentato avviene in via Teulada a pochi metri dalla sede Rai di Roma. I due giovani dopo aver sparato si allontanano a piedi con un terzo complice. L’attentato è rivendicato con un volantino fatto pervenire all’ANSA e al Messaggero dalle Br. Nel volantino Rossi viene definito “direttore del più grande giornale di regime”. Così, in rapida successione, si dispiega la campagna brigatista contro la “stampa di regime”, con gli attacchi eseguite da tre delle principali colonne della Br. Mancano soltanto i torinesi. A perenne vergogna, invece, della stessa stampa la vergognosa scelta di “oscurare” il fatto che una delle vittime era il più noto e prestigioso giornalista italiano, Indro Montanelli, all’epoca protagonista di una “scissione da destra” del Corriere della Sera per fondare il Giornale, organo di battaglia anticomunista ben prima che divenisse proprietà di Berlusconi. Non solo il Corriere della Sera (in basso), che aveva dirette ragioni di bottega, ma anche numerosi altri quotidiani. Tra questi la Stampa (a sinistra) che il 3 giugno fa (del tutto volontariamente) un clamoroso “errore”, titolando in prima pagina sul ferimento di due direttori (Bruno e Montanelli) sull’articolo da Milano sulla gambizzazione del secondo, mentre il primo è stato ferito l’1 e in pagina c’è un altro articolo sugli sviluppi delle indagini. Viola così una regola ferrea: non si titola su elementi che non sono presenti nell’articolo. Fedele al suo personaggio di feroce anticomunista (all’epoca) non farà la mattina per poi avviare un dialogo umano con il leader delle Br che gli aveva sparato alle gambe, Franco Bonisoli.
Ugo Tognazzi è il Capo delle BR, scrive il 13 maggio 2011 Pier Luca Santoro su mediahub.it. "Il Male" è stata una rivista satirica di grande successo in Italia. Edita tra il 1978 ed il 1982 con cadenza settimanale è stata diretta anche da Vincenzo Sparagna poi co-fondatore di Frigidaire. Uno dei motivi di successo della pubblicazione si legava al filone di falsificare le prime pagine dei principali quotidiani italiani. Il paginone centrale, mascherato da un qualsiasi quotidiano nazionale, diventava la prima pagina del Male, dalla finta prima di Repubblica che annunciava a caratteri cubitali "Lo stato si è estinto" al Corriere dello Sport" che riportava l'annullamento dei mondiali del '78, passando per l'annuncio dell'avvenuta invasione aliena del Corsera. E' ancora molto vivo nella mia mente il ricordo di come mi divertissi all'epoca, mentre andavo al liceo in autobus, ad esibire le diverse versioni per poi spiare di nascosto le facce, le reazioni degli altri passeggeri. Come noto, erano quelli, anche, "anni bui", un periodo difficile della storia della nostra nazione caratterizzato dal fenomeno del terrorismo. Una delle versioni che ebbe maggior successo fu l'annuncio, in tre versioni diverse che riproducevano la prima pagina del Giorno, della Stampa e di Paese Sera, dell'arresto di Ugo Tognazzi identificato come il capo delle Brigate Rosse.
Dall'eskimo al burqa (in redazione). Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura, scrive Nicola Porro Domenica 27/03/2016, su "Il Giornale". C'è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni '70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel '91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L'eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c'è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D'altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l'orrore per cui nei giornalisti degli anni '70 l'ideologia veniva prima della cronaca. L'orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L'orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L'orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po', ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L'orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata...), la quale nel '72 aveva il coraggio di scrivere sull'Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell'epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d'onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.
L’eskimo in redazione, i bei giornali di una volta, scrive il 6 marzo 2016 Stefano Olivari su "L'Indiscreto.info". La fusione Repubblica-Stampa-Secolo-eccetera già definita e quella Corriere della Sera-Sole 24 Ore scenario credibile hanno già scatenato i rimpianti per il presunto bel giornalismo di una volta, quello che mai si sarebbe conformato al pensiero unico. Leggendo a distanza di oltre quarto di secolo L’Eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ viene qualche dubbio, perché Michele Brambilla già nel 1990 ebbe il merito di analizzare gli anni di piombo, non ancora storicizzati perché molti dei suoi protagonisti erano ancora in pista, dal punto di vista di chi li avrebbe dovuti raccontare ai lettori. I giornalisti, insomma. Un libro che suo tempo generò fortissime polemiche, dovute alla cattiva coscienza di una stampa che aveva sottovalutato i pericoli del terrorismo rosso continuando a sostenere la tesi che si trattasse di operazioni portate avanti da fascisti mascherati, al soldo della CIA o di indefinibili poteri forti. Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, si muove su più fronti. Il primo è proprio quello della paternità dei crimini, anche quando chi li aveva commessi li rivendicava con orgoglio e la sua storia politica era evidente. Così per anni, fino a quasi il sequestro Moro, le Brigate Rosse quando venivano nominate erano accompagnate nell’articolo dall’aggettivo ‘sedicenti’. Le sedicenti Brigate Rosse, così come sedicenti erano altri gruppi della stessa area, altro non sarebbero stati che gruppi di destra diretti astutamente dalle forze della reazione: questo si leggeva sul Corriere della Sera e su altri grandi giornali nazionali, con la ovvia eccezione del Giornale che nel 1974 Indro Montanelli fondò proprio per sfuggire al pensiero unico e perché non si riconosceva più nel Corriere di Piero Ottone. Il secondo fronte su cui si muove Brambilla è quello del doppiopesismo. L’attentato rivendicato dal neofascista è indubbiamente opera sua, quello del brigatista una manovra per influire sul voto popolare ed impedire l’arrivo del PCI al governo. Questi della maggioranza silenziosa e della CIA però avevano sbagliato i calcoli, visto che alle Politiche del 1976 il partito allora guidato da Enrico Berlinguer toccò il suo massimo storico superando il 34% dei voti. Il doppiopesismo si applica anche alle vittime: quella di destra è uno che in qualche modo se l’è cercata (esempio classico Sergio Ramelli, iscritto al Fronte della Gioventù ma non certo un attivista) mentre quello di sinistra è la vittima di uno Stato reazionario. E qui si arriva ai tanti uomini dello Stato maltrattati anche dai giornali cosiddetti borghesi, quelli con lettori che istintivamente avevano più fiducia nel prefetto Mazza che in Sofri. Il caso Calabresi è da manuale, con una campagna di odio senza precedenti che non fu soltanto di Lotta Continua (tra i tanti firmatari del documento dell’Espresso in cui veniva definito ‘commissario torturatore’ svettavano Eco, Fellini, Bobbio, Guttuso, Scalfari, Bocca, Moravia…) e che terminò con l’assassinio di Calabresi, ma anche i magistrati capaci di mantenere equilibrio (fra questi Gerardo D’Ambrosio) venivano giudicati con sospetto perché facevano il gioco del ‘nemico’. Brambilla mette insieme verità giudiziarie, semplice logica e articoli dell’epoca, in un affresco che sarebbe esilarante se non fosse popolato di morti e di violenza ideologica. Non classificabile il Corriere della Sera che non comprò la foto più famosa degli anni di piombo (quella scattata in via De Amicis, a Milano, durante gli scontri in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra) e che non mise il nome di Montanelli (non ancora icona anti-berlusconiana) nel titolo dell’articolo sulla sua gambizzazione, imbarazzanti le tante ipotesi fatte sulle morti di Pasolini e Feltrinelli (con la scomparsa del ‘Se la sono cercata’), di assoluto culto gli articoli che mettevano in relazione la strage dei Graneris (storia con cui Vespa oggi farebbe 1.200 puntate di Porta a Porta), assimilabile per certi versi alla vicenda di Pietro Maso, con una vendetta contro partigiani comunisti. Solo in pochi, non a caso i più grandi (su tutti Bocca), seppero poi fare autocritica, ma in generale davanti all’evidenza dei fatti si preferì la notizia asettica o il silenzio. Insomma, nemmeno editori diversi possono fare più di tanto contro il pensiero unico, che a prescindere dalla realtà ha già i suoi buoni e i suoi cattivi. La forza di questo libro, per niente datato nonostante abbia ormai più di 25 anni, è proprio questa: il pensiero unico non è una tavola di leggi imposte da un grande vecchio, ma un conformismo a cui quasi tutti si adeguano per pigrizia e soprattutto convenienza. L’abbiamo visto applicato al terrorismo di sinistra come all’europeismo, al liberismo come all’immigrazione, a seconda dei periodi, con una ‘linea’ a cui la maggioranza si adegua perdendo ogni capacità critica e svegliandosi troppo tardi. Ma qui già stiamo andando sui massimi sistemi, dimenticando una questione mai davvero analizzata: l’intolleranza quasi genetica della sinistra (e non parliamo di terrorismo o violenza fisica) nei confronti di chi la pensa diversamente, che non si esprime con la spranga ma in maniere molto più sottili e durature.
Quell’eskimo in redazione che fa ancora vergognare. Esclusiva intervista a Michele Brambilla: il mea culpa mancato dei giornalisti italiani sugli anni di piombo, scrive il 13 giugno 2018 Frediano Finucci su "Informazionesenzafiltro.it". Il mea culpa è una pratica a cui i giornalisti italiani sono da sempre poco avvezzi. Non tiriamo in ballo la legge sulla Stampa e l’obbligo della rettifica per chi è oggetto di notizie false o imprecise: chi l’ha vissuto sulla propria pelle sa quanto sia difficile – se non impossibile – ottenere la pubblicazione di una rettifica, su di un giornale o un notiziario, con la stessa evidenza della notizia da rettificare. Figuriamoci poi sul Web. Sull’argomento “mea culpa e stampa” esiste però un caso editoriale sul quale da decenni, nel mondo del giornalismo italiano, si discute di malavoglia e sottovoce, come si fa nelle famiglie per il caso di un parente che ha dato scandalo e delle cui malefatte tutti sono al corrente. Protagonista è il giornalista Michele Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, per decenni inviato del Corriere della Sera e de La Stampa, già vicedirettore de Il Giornale e di Libero. Brambilla nel 1990 ha scritto un libro molto documentato, L’eskimo in redazione, nel quale dimostra come la quasi la totalità della stampa italiana negli anni ’70 abbia fatto di tutto per negare l’esistenza delle Brigate Rosse e per dare la colpa a elementi neofascisti di gravissimi fatti di cronaca nera che in realtà non avevano alcuna connotazione politica. Una tesi semplice ma dirompente che torna d’attualità oggi, nel quarantennale dall’assassinio di Aldo Moro.
Dopo l’uscita del tuo libro quanti giornalisti hanno fatto mea culpa per avere negato l’esistenza delle BR?
«Alcuni, anche se non subito. Giorgio Bocca fu uno dei primi a farlo, e in tempi non sospetti, quando scusarsi non era di moda. Nel corso degli anni Paolo Mieli ed Eugenio Scalfari hanno riconosciuto di avere sbagliato: qua mi riferisco a una delle nefandezze legate a quegli anni, vale a dire l’incitamento della stampa all’odio verso il commissario di polizia Luigi Calabresi con il famoso documento pubblicato sull’Espresso nel giugno 1971, dove più di 800 esponenti del mondo culturale e giornalistico accusavano il commissario della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel complesso però sono stati pochi quelli che hanno fatto pubblica ammenda. Uno dei primi fu certamente Giampaolo Pansa che, pur essendo di sinistra, tra l’altro non aveva di che pentirsi avendo sempre fatto un tipo di giornalismo corretto. Il mondo che non si è mai pentito è quello che ad esempio gravitava intorno a Dario Fo, che continuava a sostenere che Calabresi era un poco di buono».
Chi non ha fatto mea culpa, secondo te, non l’ha fatto per quale motivo?
«Direi essenzialmente per orgoglio e ideologia. Nel primo caso perché se per un essere umano è difficile dire “ho sbagliato”, lo è di più per un giornalista. Nel secondo caso, ovvero l’ideologia, perché negare l’esistenza di un terrorismo rosso ancora oggi vuol dire affermare che la Sinistra era (ed è) esente dal peccato originale della violenza, perché sta sempre dalla parte degli ultimi e dei poveri. Non si vuole ammettere insomma la possibilità che anche da sinistra possa venire violenza, il che storicamente è successo – e non solo in Italia, intendiamoci. Per questo ancora oggi quando si parla delle BR c’è sempre dietro un complotto, delle macchinazioni del potere: si sostiene che le bombe furono solo fasciste, che non furono i brigatisti a rapire Moro, anzi: furono manovrati. Ma per queste affermazioni non ci sono prove».
Qual è stato il mea culpa più sincero da parte di un collega?
«Difficile dirlo ma per farti capire il clima – e non solo di allora – che persiste nella categoria, ti racconto un episodio. Nel 2012 scrivevo per La Stampa e fui inviato in un cinema romano a vedere l’anteprima per i giornalisti del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, sulla bomba di piazza Fontana e i fatti che ne seguirono. Valerio Mastandrea interpretava il commissario Calabresi, dipinto come una figura positiva, un giovane poliziotto schiacciato da vicende più grandi di lui, rispettoso degli indagati durante gli interrogatori; soprattutto – come emerge dalla verità storica – si precisava che il commissario non si trovava nella stanza della Questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pinelli volò giù, morendo. Al termine della proiezione, quando si riaccesero le luci, in sala calò il gelo: nessuno dei giornalisti applaudì e dai commenti si capiva che i presenti si aspettavano da un regista apertamente di sinistra come Giordana tutto meno che la riabilitazione di Calabresi. Andai subito a parlare con Giordana riferendogli delle perplessità dei colleghi e lui rispose: “quando ero militante di sinistra fui arrestato e interrogato da Calabresi il quale fu di una correttezza esemplare, un poliziotto che si sforzava di capire le rimostranze di una generazione”. Morale: Per i giornalisti italiani a partire dagli anni ’70 Calabresi fu un capro espiatorio, e quando una categoria fa una scelta del genere poi è difficile tornare indietro».
C’è stato qualche collega che dopo aver letto il libro ti ha detto in privato che avevi ragione, ma poi non ha fatto scuse pubbliche?
«Ti rispondo ancora una volta con un episodio. Il mio libro è stato pubblicato da quattro editori e ha avuto una quindicina di ristampe. Quando uscì, nel 1990, lavoravo al Corriere della Sera, e con l’eccezione de La Repubblica L’eskimo in redazione fu recensito da tutti i giornali italiani. Allora al Corriere il direttore era Ugo Stille e tra i vicedirettori c’era un gentiluomo piemontese che si chiamava Tino Neirotti, che mi disse: “hai fatto un libro bellissimo, ora dico ai colleghi della Cultura di scrivere una recensione”. Nessun giornalista però si dichiarò disposto a farlo: nessuno voleva “sporcarsi le mani”. Allora Neirotti mi disse: “Michele, scrivi tu una scheda di sessanta righe sul tuo libro, non firmarla e a lato mettiamo un pezzo di Giuliano Zincone che secondo me qualche riflessione sul tema la fa volentieri”. Ebbene, una volta scritta la scheda, da sessanta righe previste diventò una segnalazione di una riga e mezzo con accanto il pezzo di Zincone che mi stroncava. Questo per dirti che persino un vicedirettore non era riuscito non dico a far pubblicare un’autocritica, ma nemmeno a garantire una parità di dibattito. E questo, credimi, lo dico con dolore profondo, perché il Corriere è un pezzo della mia vita».
In occasione del quarantennale della morte di Moro la stampa italiana ha affrontato anche il tema della negazione delle BR da parte dei giornali di cui parli nel libro?
«Alcuni l’hanno fatto: Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, demolendo la riproposizione del cosiddetto “mistero del caso Moro”, e anche sul Post di Luca Sofri sono apparsi articoli che smontavano le tesi complottistiche sull’eccidio di via Fani. Nonostante questo ancora oggi si vuol far credere che non ci sia stato un terrorismo di sinistra. Proviamo a riflettere: i “bombaroli” neri degli anni ’70, quelli davvero coperti da alcuni elementi dei Servizi segreti italiani, sono stati fatti scappare all’estero o messi in condizione di essere assolti nei processi. I rapitori di Moro hanno passato 20/30 anni in galera: se davvero fossero stati collaboratori di Servizi italiani o esteri questi li avrebbero fatti scappare, assolti o al limite uccisi. Che interesse avrebbero i brigatisti a negare ancora oggi di essere stati manovrati?»
Dopo gli anni del terrorismo, a tuo parere, ci sono stati nella stampa italiana episodi di conformismo estremo, di miopia giornalistica analoghi a quelli che racconti nel libro?
«Si. Uno è stato la prima fase di Mani Pulite che ho seguito sin dall’arresto di Mario Chiesa. Di nuovo: non credo che dietro lo scoppio di Tangentopoli ci sia stato un complotto di chissà chi. Tutto nacque dalla grande abilità di Antonio di Pietro – forse più bravo come poliziotto che come magistrato – a trovare le prove della corruzione dei politici. Allora montò un’indignazione popolare verso i politici corrotti, e all’inizio fu giusto per la stampa italiana appoggiare le inchieste; dopodiché la cosa sfuggì di mano ai giornalisti. Subito le procure di tutt’Italia cominciarono ad arrestare politici e imprenditori senza avere però le competenze di Di Pietro, e la grande stampa peccò di conformismo appoggiando sempre e comunque i magistrati. Fu allora che nacque l’idea generale che i politici sono tutti corrotti e nel nostro Paese lo sono più che in altri. Il “fa tutto schifo” e il “tutti sono colpevoli” non li ha inventati Beppe Grillo, ma proprio i “giornaloni” verso i quali il comico si accanisce. I pochi che non si accodavano al conformismo verso i magistrati – ad esempio Giuliano Ferrara o Filippo Facci – venivano accusati di essere complici dei ladri. C’è però una grande differenza tra il conformismo totale della stampa negli anni di piombo e quello di Mani Pulite. Nel primo caso – con l’eccezione de Il Giornale di Montanelli – tutti i quotidiani erano concordi nell’esprimere dei dubbi sulla reale esistenza delle Brigate Rosse, che non a caso definivano “sedicenti”; nel caso di Tangentopoli il conformismo si spezzò dopo un paio d’anni quando venne indagato Silvio Berlusconi: allora i giornali e l’opinione pubblica si divisero tra chi lo difendeva a spada tratta e chi invece appoggiava i giudici di Milano. Ora, Berlusconi ha avuto sicuramente dalla sua buona parte dei media di cui è proprietario, ma anche i cronisti di Mani Pulite di allora (molti dei quali hanno fatto autocritica) riconoscono che fu eccessivamente demonizzato, tant’è che oggi nei suoi confronti è in corso, come dire, una sorta di riabilitazione».
L’ESKIMO IN REDAZIONE DI BRAMBILLA. UN IMPORTANTE LIBRO SUL CONFORMISMO. Scrive il 20/11/2015 Stefania Miccolis su "Lamescolanza.com". È difficile essere obiettivi con il libro “L’Eskimo in redazione” di Michele Brambilla. È difficile tenere un distacco adeguato per dare una valutazione a favore o contro, drugstore there soprattutto se si è affetti da una sorta di pregiudizio dovuto a una formazione culturale ben precisa. Ma il libro è certamente di alto interesse e porta a una riflessione profonda, e senza dubbio fa comprendere meglio il clima di quegli anni di piombo, capitolo buio della storia italiana. All’epoca della sua uscita nel 1990 (ristampato varie volte e nel 2010 da ed. Ares), fu recensito da molti quotidiani tranne che dal Corriere della Sera dove Brambilla lavorava, luogo in cui i tanti giornalisti indossavano un Eskimo per coprire i loro cachemire. Fu oggetto di discussione, un testo scomodo per tutta una élite culturale di sinistra. Il titolo del libro che fa riferimento a una canzone di Francesco Guccini diviene un nuovo modo di dire per indicare i “tempi in cui il giornalismo era allineato su posizioni più gruppettare che di sinistra”. Il lavoro di Brambilla si basa su una ricerca accurata, fatta in particolare negli archivi del Corriere della Sera, una carrellata o miscellanea di articoli di giornalisti di prestigio dell’epoca, quelli che Indro Montanelli indica come “l’intellighenzia (inutile aggiungere “di sinistra”: quella di destra non è riconosciuta come intellighenzia)”. Ma questo, tiene a sottolineare lo stesso autore, “lungi dall’essere un libro contro la sinistra, è un libro di denuncia di uno dei vizi mai morti della nostra categoria: il conformismo”: la sinistra negli anni ’70 è la vincente di turno, e sua è l’egemonia culturale. È un “libro-documento” come scrive Indro Montanelli nella prefazione, dove “c’è tutto quello che bisogna sapere” ed è “scritto a futura memoria, nella speranza che la memoria serva a qualcosa”. Vengono raccontati gli anni di piombo, e analizzati alcuni dei casi importanti delle Brigate Rosse. Ne esce un quadro ideologizzato e fazioso: le Brigate Rosse erano le “sedicenti Brigate Rosse”, a detta dei molti giornali borghesi che “per anni hanno fatto intendere agli italiani che quelle formazioni non erano rosse, e quindi erano nere, o peggio ancora al servizio delle istituzioni. Ma il loro programma era quello di aumentare la tensione al punto di scatenare una reazione dei conservatori che avrebbe convinto tutta la sinistra a scendere nelle strade e nelle piazze per dar vita alla guerra civile e instaurare un nuovo regime, marxista”. “Le Brigate Rosse hanno sempre rivendicato le proprie azioni e la propria appartenenza alla sinistra rivoluzionaria”. Si diceva fossero “fascisti mascherati”, e che “di rosso avessero solo il nome” (Sandro Pertini); Biagi, Bocca e molti altri avevano sottovalutato la gravità del loro potere rivoluzionario. Si prendeva in considerazione la “strategia della tensione” che serviva a spostare a destra l’equilibrio politico italiano, mentre “la teoria degli opposti estremismi”, ovvero l’esistenza di due terrorismi, uno rosso e uno nero, era solo un alibi per le forze conservatrici. Un vero coro conformista, solo pochi si distinguevano fra cui Pansa, Tobagi e Montanelli, che si attenevano ai fatti e senza incriminare nessuno aspettavano le sentenze, e comunque condannavano qualsiasi tipo di terrorismo, a destra e a sinistra. Brambilla fa coincidere l’inizio della violenza politica in Italia con la morte, rimasta impunita, il 19 novembre 1969 dell’agente di polizia Annarumma, (questo fu “l’esordio degli scontri di piazza e della guerriglia”), nello scontro a Milano fra estremisti di sinistra e forza pubblica. Nessuno voleva dare la colpa agli estremisti. Poi venne il 12 dicembre del 1970 e il prefetto di Milano Mazza scrisse un rapporto al Ministero degli Interni in cui segnalò la violenza rossa e la violenza nera e per questo non fu mai perdonato dalla sinistra e da allora Mazza venne considerato un ottuso conservatore reazionario. Ecco poi dunque il caso di Giangiacomo Feltrinelli morto perché gli era scoppiata in mano una carica di dinamite per fare saltare un traliccio e provocare il black-out in una zona di Milano. Ma tutti scrissero che Feltrinelli “Il guerrigliero dei Navigli” o “il rivoluzionario dorato” era stato ucciso, che vi era “Il sospetto di una spaventosa messa in scena” che fosse “un delitto”. Solo Montanelli e pochi altri ebbero il coraggio di andare contro a una stampa preconcetta, quella della “verità in tasca” che ingannava i lettori. Montanelli nel 1972 diceva che non c’era nulla da obiettare se fossero ipotesi di una messa in scena e di un delitto, ma “ciò che rifiutiamo è il tentativo di spacciarla come una certezza già acquisita”; “in questa orgia di bombe e incalzare di attentati, in questo macabro carnevale di cadaveri e nella irresponsabile speculazione che si cerca di farne strumentalizzandoli a scopi di parte, l’unica speranza riposa proprio nella pubblica opinione, nella saldezza dei suoi nervi, nell’equilibrio del suo giudizio […] la esortiamo a non credere, per ora, a nessuno”. Altro caso analizzato, il delitto Calabresi, ucciso nel 1972 da due colpi di pistola, “e, ancor prima, da una campagna diffamatoria forse senza precedenti in Italia” dopo la morte nel 1969 di Giuseppe Pinelli. E così venne chiamato il “commissario finestra”. Accusato della morte di Pinelli, diversi furono gli appelli e le lettere aperte, e le adesioni degli uomini di cultura “una delle prove più evidenti del conformismo di allora”. L’autore espone un documento firmato da filosofi, intellettuali, registi cinematografici, storici, giornalisti e pubblicato sull’Espresso il 13 giugno del 1971, in cui Calabresi veniva definito un “commissario torturatore” e il “responsabile della fine di Pinelli”. Questo fa comprendere quanto la cultura italiana, scrive Brambilla, fosse monopolizzata. E neanche dopo la sua morte Calabresi fu lasciato in pace. Sofri riconobbe durante il processo che vi fu una campagna diffamatoria sul giornale di lotta continua sul commissario: “una specie di gusto inerte, diciamo, dell’insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi, e non solo di noi”. Indro Montanelli fu “fra i giornalisti che non seguirono l’onda” e lo difese: “Calabresi pagò con la vita la campagna di opinione che lo dipingeva come un brutale torturatore al servizio dei golpisti. Ma nemmeno il suo assassinio turbò i sonni dei suoi accusatori. L’unica loro preoccupazione fu di risolvere in chiave nera anche quel delitto”. Una forte disputa la ebbe con Camilla Cederna; fra i due botta e risposta sui giornali, per Montanelli la Cederna era colpevole di prendere sempre “posizioni preconcette”. Poi ancora si parla dell’attentato a Indro Montanelli “Uno dei clamorosi casi di censura politica attuata dai giornali italiani. “Quando le Br mi spararono alle gambe – dice Montanelli -, i grandi quotidiani non misero neppure il mio nome nel titolo” (tranne Scalfari e Bocca). Infine Brambilla non lascia in disparte neanche il caso di Pier Paolo Pasolini, nulla a che vedere con terrorismo o estremismo, ma “l’appiccicare un’etichetta politica, ovviamente di stampo reazionario, anche a ciò che di politico non aveva alcunché, rientrava nella logica di quegli anni, la logica delle sedicenti Brigate Rosse e delle provocazioni del potere”. Un delitto che poi con l’intervento di Oriana Fallaci, che mai rivelò le sue fonti, diventò delitto politico, addirittura paragonabile al caso di Feltrinelli. Solo la morte di Moro scosse le coscienze, anche se non tutti furono capaci di autocritica. Certo è che alcuni giornalisti riconobbero di avere sottovalutato la violenza delle Brigate Rosse. Per Bocca – La Repubblica, febbraio 1979 – “in quegli anni dal 69 al 72 l’informazione fu travolta da uno spirito fazioso e dalla rivelazione, per molti di noi traumatizzante del “terrorismo di Stato”. “In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata”, “perché non si volle dire e capire sin dagli inizi che le Brigate Rosse erano una cosa seria? Noi conosciamo i nostri errori.” E così Walter Tobagi nel 1979 sul Corriere della Sera “…i germi del partito armato c’erano, ed erano espliciti. Solo i pregiudizi ideologici impedivano di rendersene conto”. Montanelli, nella sua acuta, concisa prefazione, ritiene che Brambilla abbia compilato una preziosa “comparsa per il cosiddetto Tribunale della storia”, tribunale del quale non ha molta fiducia, ma certamente chi vorrà ricostruire gli anni di piombo non potrà fare a meno di questo libro.
Ne ammazza più la penna che le BR. «Io non credo che le Brigate Rosse fossero molto lusingate dalla partecipazione, dalla loro parte, degli intellettuali - non credo. Erano gli intellettuali che volevano mettersi – casomai - al sicuro. Gli intellettuali italiani, si ricordi, per nove decimi stanno dalla parte di chi picchia. Mai dalla parte di chi le busca! È sempre stato così» (Indro Montanelli ad Alain Elkann), scrive Valerio Alberto Menga il 26 novembre 2015 su "L'Intellettualedissidente.it". La Repubblica ha dato notizia dell’avvenuto passaggio di direzione del quotidiano da Ezio Mauro a Mario Calabresi. È però noto che tra le firme illustri del sopracitato giornale vi era quella di Adriano Sofri, ritenuto il mandante dell’omicidio del Commissario Luigi Calabresi, padre del neodirettore di Rep. Le due firme avrebbero potuto convivere con ovvie difficoltà. Così Adriano Sofri si è dovuto ritirare. E la cosa ha suscitato molto scalpore. Spieghiamo il perché, ripercorrendo la Storia recente. Milano, 12 dicembre 1969. Ore 16:37. Sette chili di tritolo esplodono all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana. 16 morti e 87 feriti. La polizia imbocca subito la pista anarchica. Dopo alcune indagini e interrogazioni ai tassisti che quel giorno hanno portato sul luogo dell’attentato, spunta fuori il nome dell’anarchico Pietro Valpreda, noto per essere un ballerino con inclinazioni “bombarole”, ma solo a parole. Poi, la notte successiva alla strage, si interroga Giuseppe Pinelli, anarchico anche lui. Verrà portato in questura per una serie di lunghi ed estenuanti interrogatori. Tre giorni dopo l’attentato, il 15 dicembre del 1969, Pinelli precipita dal quarto piano dell’aula dell’interrogatorio e si schianta al suolo. Arriverà già morto all’ospedale Fatebenefratelli. Questa è una vicenda a tinte fosche, dai mille risvolti. Sono gli anni della Guerra Fredda. L’Italia ha paura di divenire una repubblica sovietica da una parte, e dall’altra di ritornare alla dittatura nera. Con Piazza Fontana ebbero inizio i tristemente noti “Anni di piombo” e con essi la teoria della “Strategia della tensione”. Una teoria secondo cui uomini di stato, servizi segreti, terroristi rossi e neri avrebbero stretto un patto scellerato, portando la Repubblica Italiana alla sua ora più buia. L’obiettivo supposto? Condizionare l’opinione pubblica italiana, spaventata da una serie di attentati ben orchestrati, affinché la colpa ricadesse sugli “opposti estremi” e i voti confluissero verso il più rassicurante centro democristiano. In seguito alla strana morte dell’anarchico Pinelli il movimento extraparlamentare Lotta Continua indicava il commissario Luigi Calabresi come il responsabile, oltre che esecutore materiale, della morte di Pinelli, avvenuta probabilmente (sempre secondo LC) per un colpo di karate ben assestato. Il 10 giugno 1971 il settimanale L’Espresso pubblicò una lettera aperta sul caso in questione. In questa lettera si formulavano una serie di accuse a persone che avrebbero condizionato il processo in favore del commissario Calabresi, avvalendosi della “indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica”, dando per scontata l’uccisione di Pinelli per mano o responsabilità diretta del commissario Calabresi. La lettera era “rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni” e si chiedeva (leggesi pretendeva) l’allontanamento di costoro dai loro uffici, in quanto si rifiutava di “riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”. La lettera, partendo da 10 firme iniziali, arrivò, al momento della pubblicazione, al numero di ben 757 personalità di spicco della società italiana, comprendendo la quasi totalità dell’intellighenzia della Sinistra di allora e di oggi, ma non solo. Tra questi nomi si ricordano, in ordine sparso, quelli di: Norberto Bobbio, Umberto Eco, Dario Fo, Franca Rame, Margherita Hack, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Inge Feltrinelli, gli Editori Laterza, Giulio Einaudi, Federico Fellini, Paolo Mieli, Tinto Brass, Luigi Comencini, i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Folco Quilici, Carlo Levi, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Primo Levi, Giancarlo Pajetta, Furio Colombo, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Toni Negri e i fratelli Carlo e Vittorio Ripa di Meana. (Qui l’elenco completo dei firmatari. Vedere per credere). Il Premio Nobel Dario Fo, in seguito alla firma, ebbe pure la brillante idea di portare in scena lo spettacolo Morte accidentale di un anarchico. In tale spettacolo Calabresi era soprannominato “il Commissario Cavalcioni” a causa della strana usanza da lui praticata nei confronti degli interrogati, messi, appunto, a cavalcioni di una finestra, per poi, ovviamente, farli cadere giù. Nella lunga video-intervista che tenne Alain Elkann con Indro Montanelli negli anni Novanta per la Storia d’Italia, il buon vecchio Indro, ebbe a dire di Calabresi quanto segue: “Se c’era un funzionario corretto e che veniva portato ad esempio da tutti i suoi colleghi questi era Calabresi”. E poi ricordò un piccolo dettaglio: “Calabresi non era in questura nel momento in cui avvenne il fattaccio”. Ma erano anni in cui il vento del conformismo tirava a sinistra e la verità veniva dettata dagli dei del proletariato armato. Quella lettera risuonò come una vera e propria condanna a morte. Tant’è che un anno dopo la sua pubblicazione, Luigi Calabresi verrà freddato dai sicari di Lotta Continua. Giustizia proletaria fu fatta. Era il 17 maggio del 1972. Solo pochi giornalisti italiani non si unirono al coro. Tra loro Giampaolo Pansa (unitosi oggi ad un altro coro), Massimo Fini e il già citato Indro Montanelli. Il caro Indro, a causa della sua dissidenza nei confronti della linea editoriale filobrigatista che il Corriere della Sera pareva aver assunto in quegli anni, lasciò, nauseato, la redazione del giornale ritirando la sua penna. Il 2 giugno 1977, Montanelli fu “gambizzato” da parte delle Brigate Rosse. Ne uscì vivo, con qualche ferita alle gambe. Non si saprà mai chi fu il mandante. Si mormorò però che, come in altri casi analoghi, in qualche salotto-bene della sinistra di allora si brindò all’evento. Sofri, ha ricordato Montanelli, scrisse una lettera alla vedova Calabresi in cui negava di esser stato il mandante dei sicari di suo marito. Si assumeva però, in quell’occasione, la responsabilità per aver contribuito a creare l’atmosfera che condusse all’assassinio del marito. E di ciò le chiese perdono. Venti anni dopo l’omicidio Calabresi, L’Europeo mandò un redattore ad intervistare i firmatari dell’appello di Lotta Continua per rendergliene conto: dissero di non ricordarsene più. Montanelli, nell’intervista con Elkann, ebbe a dire: «Nessuno di loro ha fatto atto di contrizione. Gli unici che lo hanno fatto sono stati quelli che si trovano in galera». Quando si dice: “ne ammazza più la penna”… Oggi, Giampiero Muhgini, insieme a Fulvio Abbate, ha ricordato i fatti narrati alla telecamera di Teledurriti. E bisogna rendergliene atto, dato che Mughini stesso fu uno dei giovani esaltati di Lotta Continua. Ma la sua firma, a quella dannata lettera, non comparve. Per chi avesse l’interesse e il coraggio di ripercorrere quegli anni e quelle vicende, può trovare tutto nel saggio di Michele Brambilla L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”.
Quei giornali che negavano le Br. ll nuovo libro del conduttore di Matrix, giornalista liberale, contro i concreti pericoli del pensiero unico, scrive Nicola Porro il 9 Ottobre 2016 su "La Gazzettadiparma.it". C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni settanta, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo in Italia nei loro primi anni di vita. Scritto nel 1991 da Michele Brambilla, si intitola «L’eskimo in redazione». Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Il primo è contingente: anche oggi siamo in una situazione paragonabile, immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due etichette vuote, chi ritiene che il fenomeno non derivi da presunte colpe dell’Occidente, chi denuncia la violenza fondamentale di certe interpretazioni, molto diffuse, del Corano, viene trattato come un paria. C’è poi una ragione più storica: occorre conoscere bene il livello di cialtroneria che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Uno dei più delicati della nostra breve stagione repubblicana. Che poi sono gli stessi intellettuali che si sono «fatti» establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi un’infinità. Criticavano il presunto «regime» di allora per trovare un posto al sole e, quando ci sono riusciti, hanno messo in opera esattamente il medesimo modello di controllo degli spazi culturali che criticavano negli anni settanta. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico, alla luce di ciò che avvenne, più ridicolo del secolo: «i fatti separati dalle opinioni». Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Sentite cosa scriveva l’inventore del fortunato slogan, Lamberto Sechi, del «Giornale» di Montanelli: «Quando ‘il Giornale’ finanziato da Cefis commemora, nel settimo anniversario della morte di Giovanni Guareschi, un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua vita alla denigrazione dell’antifascismo e della repubblica, qualsiasi fascista ha diritto di sentirsi, nonché giustificato, riverito, degno di un medaglione su uno di molti (ormai quasi tutti) giornali di regime». Insomma «il Giornale» non poteva e non doveva, secondo l’autorevole opinione dell’inventore dei fatti separati dalle opinioni (regola a cui si sarebbero dovuti attenere tutti i giornalisti a eccezione dell’inventore della stessa), commemorare nell’anniversario della morte il padre di Don Camillo e Peppone, uno degli autori più amati dagli italiani. Come scrive il Nostro, bastava questa commemorazione «per essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura dei complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni». Il racconto di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore, come detto, per il quale nei giornalisti degli anni settanta l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per il quale le campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. Camilla Cederna (bisognerà dire una volta che non merita neanche un centesimo della correttezza e della fama di cui ancora gode) disse che Calabresi aveva interrogato l’anarchico Pinelli «per 77 ore ininterrotte». Totalmente falso. «Lotta continua» e «l’Unità» si inventarono che Calabresi era un agente della Cia. Totalmente falso. Fu «Lotta continua» a scrivere: «Luigi Calabresi deve rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». E ancora: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati, ma è questo sicuramente un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato allo stato assassino». E quando Calabresi sporse querela 44 redazioni di riviste politiche e culturali (tra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a «Lotta continua». Brambilla racconta l’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. Manifesti in cui si scriveva: «Combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». E pensare che tanti di quelli che all’epoca firmarono oggi sono i padroni. L’orrore per il quale, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata) che nel 1972 aveva il coraggio di scrivere sull’«Espresso»: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». Poco più giù diceva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti sapevano anche allora), per un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era, piuttosto, la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore in questa nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura. Il fenomeno non era confinato certamente alla sola Italia. I paesi anglosassoni hanno però poi saputo combattere contro questo piatto e ormai canuto conformismo culturale. Oggi la cultura del dubbio, il punto di vista dell’individuo contro quello della massa, il privilegio del pensiero contro il gusto della moda restano merce rara. Negli anni settanta gli intellettuali, che bene descrive Brambilla, erano affascinati dalla rivoluzione e disgustati dalla cosiddetta maggioranza silenziosa. Avevano clamorosamente ingannato e oggi le giovani generazioni e quelle di mezzo pendono dalle labbra di questi vecchi tromboni che hanno sbagliato tutto e dai quali si attendono uno strapuntino o almeno un decente assegno consegnato a margine di uno dei tanti ridicoli premi giornalistici da strapaese che i vecchi arnesi controllano con efficacia.
Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro, scrive Eleonora Marzi.
Riassunto. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha creato una frattura nella società italiana e nel mondo politico degli anni Settanta. Il presente articolo si propone di analizzare le pubblicazioni che il quotidiano Le Monde diede del fenomeno in due momenti cruciali: la nascita delle Brigate Rosse come soggetto mediatico con il rapimento del giudice Mario Sossi nel 1974, e il suo gesto più eclatante, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Così, attraverso un’analisi dei pezzi di giornalismo di quel periodo è possibile prefigurare lo scenario di comprensione e il messaggio che conseguentemente venne trasmesso al paese.
Indice
1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole»
1.1 Il dato storico: il sequestro
1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR
2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica
2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati»
3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse
3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani
3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse?
Testo integrale. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha spaccato la società italiana e il mondo politico degli anni Settanta. Ancora oggi è un caso che continua a dividere il mondo degli studiosi, anche a causa delle discordanti testimonianze dei protagonisti: si tratta infatti di un soggetto scivoloso, la cui ricostruzione storica presenta numerose zone d’ombra. Uno dei principali ostacoli alla carenza di esattezza storica consiste nella mancata metabolizzazione del fenomeno da parte degli italiani. É perciò interessante fornire un punto di vista altro, esterno, alla cui prospettiva storica si unisce l’analisi testuale dei pezzi di giornalismo in un epoca nella quale i fatti quotidiani erano la principale fonte di informazione – internet non esisteva – e la neo-arrivata televisione si posizionava ancora in una zona di consumo di nicchia. Si è scelto dunque di analizzare, attraverso le pagine del quotidiano Le Monde, due momenti storici precisi, la nascita “mediatica” delle Brigate Rosse – resa possibile dal rapimento del magistrato Mario Sossi, e il loro atto più eclatante, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. La metodologia impiegata per condurre questo lavoro unisce in un discorso che si vuole pluridisciplinare la storia e la cultura italiana ad una forma di critica giornalistica che si concentra sia sui contenuti che sulla loro presentazione formale. Prima di affrontare il discorso sulla comunicazione si rende necessario compiere un breve excursus al fine di presentare utili elementi storici per una migliore comprensione.
1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole».
1.1 Il dato storico: il sequestro. Il 18 aprile 1974, il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, il dottor Mario Sossi viene rapito da un commando armato, facente parte del gruppo di lotta marxista-leninista delle Brigate Rosse. La condizione per la liberazione del rapito è la scarcerazione e il successivo espatrio dei componenti della «XXII Ottobre», un gruppo di attivisti di sinistra i cui membri sono stati precedentemente condannati per diversi atti criminosi1. In realtà la tattica del sequestro si inscrive in una più ampia strategia volta ad indebolire lo Stato: le BR sono infatti convinte che in Italia vi siano le condizioni per una rivoluzione che però non si concretizzano per la mancanza di una guida rivoluzionaria e per il “tradimento” del Partito Comunista Italiano, oramai integrato nelle istituzioni. I brigatisti intendono perciò colpire con la lotta armata “l’ordine borghese”, così da mostrarne la debolezza, risvegliare la coscienza rivoluzionaria delle masse e porre le basi di una sollevazione. Le BR con il sequestro Sossi, anche detta «l’operazione girasole» decidono e attuano ciò che verrà descritto come «l’attacco al cuore dello Stato»; se precedentemente infatti si erano limitate ad azioni di propaganda “pacifica” con quest’azione compiono un passaggio ulteriore iniziando un percorso che sfocerà, come vedremo, nel drammatico epilogo del rapimento e della morte di Aldo Moro. Intendono dunque compiere un salto di qualità, adeguandosi al corso degli eventi che, a loro giudizio, costringe ad alzare il tiro rispetto alla precedente fase della propaganda armata. Da un opuscolo interno al movimento risalente al 1974 si legge: […] Perché se è vero che la crisi di regime e la nascita di una controrivoluzione agguerrita e organizzata sono il prodotto di anni di dure lotte operaie e popolari, è ancora più vero che per vincere il movimento di massa deve oggi superare la fase spontanea e organizzarsi sul terreno strategico della lotta contro il potere. E la Classe Operaia si conquisterà il potere solo con la lotta armata. Il procuratore Mario Sossi sarà detenuto per la durata di 35 giorni. Lungo questo arco di tempo l’opinione pubblica e le istituzioni, si divideranno su due linee contrapposte: l’una di intransigenza, la «linea della fermezza» (incarnata dal governo, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano) l’altra d’apertura alla trattativa da parte di associazioni come «magistratura democratica». Le trattative per la scarcerazione sembrano concretizzarsi, ma il procuratore della Repubblica Francesco Coco si oppone al provvedimento; sebbene le richieste non vengano esaudite le BR rilasciano comunque Sossi in buone condizioni di salute. Il loro scopo, ovvero mostrare come lo Stato non sia in grado di proteggere i cittadini, è stato raggiunto. Hanno rapito e detenuto per 35 giorni un sostituto procuratore della repubblica, lo hanno interrogato, ed hanno confermato la loro analisi dello e sullo stato “borghese-canaglia”: nutrito da politiche farraginose, dedito alla pratica del sotterfugio e succube del capitalismo. Inoltre l’opinione pubblica, tacitamente e velatamente, le percepisce come un gruppo criminale “cavalleresco” per aver rilasciato il detenuto nonostante il mancato accordo.
1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR. L’importanza del caso Sossi, nella logica delle BR, è specialmente di natura propagandistica. Innanzitutto le BR si presentano all’opinione pubblica in modo organizzato, introducono il proprio programma, la propria ideologia e iniziano massicciamente quell’azione di chiamata alla lotta armata indirizzata alla classe proletaria. I terroristi sanno perfettamente che la loro richiesta è troppo alta per essere soddisfatta. Ciò che davvero gli interessa è la presentazione di loro stessi al paese, l’accertamento della veridicità delle loro tesi riguardo il tessuto politico, la risposta sociale alle loro azioni e la verifica della strategia mediatica che rappresenterà un punto cardine dei loro futuri attacchi. Il mezzo del “comunicato”, che troverà larghissimo impiego durante il sequestro Moro, inizia qui il suo percorso come strumento informativo e propagandistico per eccellenza, in grado di unire con un comune filo la stampa, il potere istituzionale e l’opinione pubblica in un gioco di specchi estremamente complesso. Il governo, il popolo e la comunicazione: il triangolo perfetto lungo il quale le BR giocheranno la loro partita al fine di istaurare ciò che definiscono lo «Stato proletario».
2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica. 8Come per un meccanismo di specchi riflessi, all’esordio delle BR sulla scena mediatica, lo sforzo maggiore dei quotidiani è diretto ad inquadrare e comprendere questo “nuovo” soggetto. Il tempo impiegato dai giornali a focalizzare il fenomeno, a definirne le dimensioni e a comprenderne le conseguenze fu determinante per il tipo di informazione che venne veicolata. Sulla scena nazionale ed internazionale si affaccia un nuovo protagonista: presenta tratti clandestini, usa le armi per portare a termine azioni criminali a fini politici e informa delle proprie rivendicazioni e dei propri programmi ideologici sia la classe governativa che l’opinione pubblica utilizzando dei “comunicati”. Non si tratta dunque di comuni malavitosi, ma di un gruppo che ha fini e scopi ben precisi che per i contemporanei risulta estremamente difficile chiarire. Al momento della loro comparsa sulle pagine dei quotidiani riguardo le BR si ipotizza tutto l’ipotizzabile. Il nome del gruppo armato è sistematicamente riportato tra virgolette, ad indicare un dubbio generico rispetto le reali origini e le motivazioni che muovono i combattenti. Ed è proprio questo clima di smarrimento a dare adito alle più fantasiose ipotesi con interrogativi che sui giornali francesi si accavallano in merito al colore politico dell’organizzazione, alla composizione e alla strutturazione del gruppo stesso. Come si vedrà nel corso dell’articolo il tema della reale identità delle Brigate Rosse sarà ampiamente indagato dai quotidiani, rappresentando in questo modo uno dei fulcri d’interesse del discorso mediatico e inoltre il punto d’incontro delle differenti interpretazioni provenienti dai vari Stati d’Europa.
2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati». Le Monde informa del sequestro Sossi nell’edizione del 20 aprile con un pezzo di Jacques Nobécourt in terzo taglio dal titolo: «Il sostituto procuratore di Genova è stato rapito da sconosciuti armati». La notizia è pubblicata due giorni dopo del fatto, elemento normale in epoca non ancora digitale, sebbene dia anche la misura di una attenzione di grado medio verso la notizia. É significativo come essi vengano definiti come degli “sconosciuti” anche se l’articolo si interroga sulla natura dell’organizzazione, pur non inoltrandosi in supposizioni caotiche; si limita a riportare il fatto certo. Nell’introduzione del pezzo la notizia è riportata con stupore: L’evento più spettacolare è il rapimento a Genova, giovedì alle nove, del sostituto procuratore della Repubblica, Mario Sossi, un uomo di quarant’anni che è uno dei giovani magistrati italiani più controversi degli ultimi anni. Il cronista, proseguendo il racconto del sequestro, riferisce: Mario Sossi rientrava a casa in autobus e davanti il suo domicilio alcuni uomini tra i venticinque e i trent’anni, secondo i testimoni, vestiti elegantemente e senza alcuna maschera, lo hanno costretto, minacciandolo con un’arma, a salire su un furgone. Il particolare dell’aspetto dei rapitori, eleganti e a viso aperto, deve aver colpito gli osservatori dell’epoca, ed è un elemento che colora di mistero l’identità del gruppo. Le Monde mostra cautela quando nell’individuazione del gruppo terrorista modifica lo status di «sconosciuti» precedentemente attribuito alle BR: «In alcuni comunicati trovati in una cabina telefonica, le “brigate rosse” rivendicano la responsabilità dell’operazione». L’atteggiamento è cauto, ben riscontrabile attraverso l’utilizzo delle virgolette che mantengono il soggetto terrorista in un campo di indefinitezza. Tuttavia il comunicato viene preso in considerazione, seppure non assunto a prova di certezza: Il ritrovamento dei comunicati non prova assolutamente che le «brigate rosse» esistano realmente, né che si tratti di un’organizzazione di estrema sinistra. Tuttavia, la personalità del magistrato tende a far credere che l’operazione è stata condotta da estremisti di sinistra. L’atteggiamento cauto porta Le Monde a non assumere posizioni nette in mancanza di dettagli. Gli unici elementi che potrebbero concorrere all’individuazione dell’identità sono di natura storica: Lo stesso modus operandi era stato utilizzato in dicembre in occasione del rapimento di uno dei capi del personale della Fiat a Torino. Questi era stato rilasciato dopo qualche giorno e i suoi rapitori, che si dichiaravano ugualmente appartenenti alle «brigate rosse», facevano apparentemente parte di un gruppo isolato, senza alcun legame con altre organizzazioni politiche. Le Monde si posiziona su una linea corretta nel non attribuire legami con altre organizzazioni politiche: in termini generali, alla data del rapimento, ogni interrogativo è aperto, l’orientamento politico del gruppo armato resta non definito così come la loro ideologia, e gli scopi che si prefiggono attraverso le loro azioni. Nel corso del sequestro l’attenzione del quotidiano sarà fortemente polarizzata sul comportamento tenuto dalla magistratura e sugli effetti che il ricatto delle Brigate rosse ha sulle relazioni tra questa e il governo. Il tema dell’identità delle BR non viene affrontato nella sua totalità, contentandosi di qualche definizione qua e là e più spesso di citazioni provenienti dalla stampa italiana. É questo il caso dell’edizione del 25 aprile, quando a seguito di un messaggio dell’ostaggio, viene sospesa dalla procura di Genova l’indagine su quest’ultimo. Il quotidiano riporta la reazione de La Stampa: La Stampa esprime un sentimento generalmente diffuso affermando che «il blocco dell’inchiesta non può non apparire come un gesto di abdicazione dello Stato». […] Ciò suscita sgomento, provoca un sentimento di sfiducia nei confronti del potere e della capacità di resistenza delle istituzioni davanti a tali fenomeni. Era permesso ai magistrati genovesi, direttamente implicati, di inclinarsi davanti alla sfida terrorista?. Il quotidiano si ferma alla definizione di “sfida terrorista” ma i moventi e le ideologie che vi si celano restano ignoti, come viene sottolineato in seguito: «Gli inquirenti sembrano convinti che il giudice sia detenuto a Genova, ma la natura delle “brigate rosse” resta misteriosa». Nell’articolo del 22 maggio «La sorte del giudice Mario Sossi non è stata svelata dai suoi rapitori» è riportato il punto di vista de l’Unità «L’Unità, organo del P.C.I. denuncia il fallimento di tutte le inchieste fatte per «smascherare e punire» le Brigate rosse e richiede che la «democrazia italiana si difenda da tutti gli attacchi e, in primo luogo, contro dei tali gesti criminali». Le linee utilizzate per definire i brigatisti si orientano intorno ad una definizione di criminalità, a volte di terrorismo, ma senza alcun riferimento al quadro ideologico che muove le loro azioni. Sulle reazioni provocate all’interno del potere giudiziario di cui tratta l’articolo del 14 maggio «Il caso Sossi accentua i dissensi all’interno della magistratura» il quotidiano tuttavia definisce una caratteristica brigatista quando scrive: […] si tratta della credibilità de la magistratura, e in particolar modo del ministero pubblico. Su questo punto, le Brigate rosse – qualunque sia il loro orientamento politico – hanno ottenuto una vittoria portando Mario Sossi, nelle sue lettere successive, a rinnegare il rigore delle sue proprie requisitorie e gettando dunque il dubbio su ciò che ispirava la sua interpretazione della legge. Si noti come l’orientamento politico delle Brigate Rosse resti incerto e come ingenerale si proceda a stenti e per piccoli passi alla definizione della loro identità. Un momento di sblocco può considerarsi postumo alla liberazione di Sossi in cui Le Monde giunge alle seguenti conclusioni: «Sossi è in buona salute; è dimagrito di cinque chili, ma la sua detenzione sembra essersi svolta in discrete condizioni. Poteva leggere i giornali e non ha mai avuto la sensazione che la sua vita potesse essere in pericolo». Si tratta di criminali cortesi, elemento ugualmente rintracciabile quando in cronista riporta le condizioni della liberazione del giudice: […] dopo aver fatto un viaggio in un furgoncino ed essersi svegliato dopo un lungo sonno provocato da una bevanda che gli era stata somministrata, Sossi si trovava in un luogo sconosciuto. Degli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi bendati e aveva su di se un biglietto di prima classe per il tragitto Milano-Genova. […] Senza difficoltà il magistrato ha preso un taxi, si è recato alla stazione, è salito su treno ed è rientrato nella propria città. Il quotidiano scrive che i suoi rapitori hanno provveduto a fornirgli un biglietto di prima classe per il treno che gli avrebbe permesso di rientrare a casa: non si tratta di riflessioni esplicite, ma esse lasciano comunque trasparire un atteggiamento di stupore riguardo la condotta cavalleresca delle Brigate Rosse. Si consideri a questo proposito che le richieste del gruppo armato non erano state soddisfatte, o almeno lo erano state per una minima parte. É seguendo questo ragionamento che Le Monde si pone un interrogativo che trascende la mera cronaca: Per quale ragione le Brigate Rosse lo hanno liberato? Negli ultimi giorni, la situazione era sfociata in un’impasse totale, e ugualmente l’esecuzione del magistrato avrebbe avuto come solo effetto quello di provocare una reazione molto forte, che i rapitori certamente non si augurano. Si noti come vi sia la certezza che essi non siano sanguinari né crudeli. Le Monde prosegue nella sua ricerca: Durante la notte, l’ottavo comunicato delle Brigate rosse è stato trasmesso al Corriere della Sera per spiegare le ragioni della liberazione di Mario Sossi. La prima riguarda la decisione della corte d’appello di Genova che ha deciso di accordare la libertà provvisoria all’ottavo condannato del processo del 22 ottobre. La seconda motivazione apportata dalle Brigate rosse riguarda la volontà di «combattere fino alla fine». La conclusione del comunicato è la seguente: «Il significato strategico della nostra scelta è più chiaro che mai: la classe operaria prende il potere unicamente attraverso la lotta armata». Le Monde – a differenza di altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro – non riporta la totalità del comunicato ma si limita a pubblicare singole frasi direttamente provenienti dal documento brigatista, commentando e deducendo. Lo scopo dei brigatisti, secondo Le Monde, è la strategia di lotta armata per il proletariato. Si tratta comunque di una consapevolezza ancora embrionale, con le zone d’ombra che prevalgono sulle conoscenze acquisite. Il ritratto dei terroristi è dunque qualcosa che resta nel vago, si comprende che la loro matrice è politica, si immagina un’appartenenza allo schieramento di sinistra ma molti sono i punti che rimangono in sospeso. In generale l’informazione è ben coperta con una presenza di 35 articoli su venti giorni; non vi sono mai prime pagine e gli articoli vengono presentati interamente nella sezione della cronaca internazionale. Questo elemento relativo alla posizione della notizia – che in analisi giornalistica risulta particolarmente indicativo dell’importanza che essa ha per l’opinione pubblica – sembra abbastanza naturale trattandosi effettivamente di cronaca estera: essa cambierà radicalmente durante il caso Moro – 55 giorni di detenzione – durante il quale la prima pagina sarà appannaggio della cronaca italiana. Siamo nel 1974, le BR si affacciano sul panorama politico italiano, gruppo terroristico che in quanto tale si serve della comunicazione in modo massiccio e importante. L’estremo della loro attività culminerà quattro anni dopo, nel 1978, allorché l’inasprirsi della lotta politica e sociale e più in generale un cambiamento del livello di tensione nella lotta armata porterà il gruppo a compiere un atto estremo: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’allora presidente della Democrazia Cristiana. Anche in questo caso sarà necessario partire dal dato storico al fine di comprendere al meglio il trattamento che la stampa diede del caso.
3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse.
3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani. La mattina del 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro, presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, si sta recando in Parlamento per assistere al voto di fiducia del IV governo Andreotti, formatosi l’11 marzo 1978. L’esecutivo – risultato di una tela tessuta congiuntamente da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito Comunista Italiano – è la sublime espressione delle convergenze parallele, e consiste in un governo monocolore con l’appoggio esterno dei comunisti, oltre che dei socialisti, dei repubblicani e dei socialdemocratici, entrato nella storia della Repubblica come compromesso storico25. Il ragionamento che porta alla necessità di creare un governo di solidarietà nazionale deriva dall’analisi dello stato di salute della società italiana, solcata dal disagio economico e dalla recrudescenza sociale. Quella stessa mattina del 16 marzo tra le 9.00 e le 9.15 in via Mario Fani a Roma un commando delle Brigate Rosse rapisce l’onorevole Aldo Moro e a colpi di mitragliatrice fa strage della sua scorta, composta da cinque uomini; l’azione è rapida e precisa, l’ostaggio non viene ferito ma caricato di una FIAT 125 e fatto sparire nel nulla. Ha inizio ciò che i terroristi preparavano da mesi: l’operazione Fritz. Il paese è sotto shock e la mobilitazione militare immediata con il dispiegamento di 6000 uomini delle forze dell’ordine lanciate in una massiccia caccia all’uomo. Perché le BR compiono un tale gesto? Moro appare ai loro occhi uno dei massimi responsabili delle ingiustizie e dei crimini commessi da quello che chiamano lo Stato Imperialista delle multinazionali, in qualità di protagonista della politica italiana da circa un ventennio. Per accertare le sue colpe nei confronti della classe proletaria, come capo e come rappresentante della DC, lo rinchiuderanno in una “prigione del popolo” sottoponendolo ad un processo ad opera del “tribunale del popolo”. Attraverso un’approfondita analisi dei loro documenti si possono rintracciare due tipologie di conseguenze che essi auspicavano; la prima era di natura strategica e in linea con l’attività propugnata fino a quel momento: la destabilizzazione dello Stato. La seconda era di natura ideologica: essi volevano ricevere lo status di interlocutori, anche se loro malgrado. Dichiara Moretti: Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità. Per avere un quadro generale del caso Moro occorre inoltre analizzare brevemente quali furono le posizioni incarnate ufficialmente dalle istituzioni. Fin dal principio infatti erano emersi due fronti: quello della fermezza, che niente avrebbe concesso ai terroristi, di cui facevano parte il PCI e la Democrazia Cristiana, e quello della trattativa, disposto a scendere a compromessi per il costo di una vita umana che comprendeva il Partito Socialista Italiano e il Vaticano. Ma quali furono le reazioni del fulcro di tale vicenda, del prigioniero Moro? Egli scrisse una grande quantità di materiale tra cui lettere, testamenti, promemoria e biglietti. Redasse 87 lettere, 27 furono recapitate di cui 16 destinate ad alte personalità politiche ed istituzionali. In questi scritti – mappatura della distribuzione del potere all’epoca – si trova tutto il tentativo di Moro di portare il suo partito ed il paese verso il fronte della trattativa. Salvarsi così la vita, «impedendo non in ultima analisi una frattura irreparabile nell’ethos della democrazia italiana». Purtroppo queste dichiarazioni scatenarono delle reazioni degli uomini di partito, i quali negarono alle parole di Moro prigioniero ogni validità etica e morale, ipotizzando uno stato psichico non attendibile. Le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati nei quali informano dello stato di salute di Moro e delle loro richieste. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro; si è arrivati al n° 6 quando il 15 aprile giunge una risoluzione che appare irremovibile «Aldo Moro è colpevole e viene perciò condannato a morte». Il subbuglio negli ambienti politici è massimo, l’opinione pubblica è sconcertata; il quotidiano italiano Il Messaggero riceve una telefonata che annuncia il luogo per il ritrovamento del comunicato n° 7. Secondo quest’ultimo, Moro sarebbe stato ucciso e il suo cadavere si troverebbe nei fondali del lago Duchessa, nella regione limitrofa a Roma. Vengono dispiegate migliaia di forze dell’ordine e sommozzatori ma dopo ore di ricerche del cadavere non v’è nessuna traccia. Si tratta di un comunicato falso, opera del magistrato Claudio Vitalone, scritto al fine di informare i terroristi che i servizi segreti erano in grado non solo di controllare le loro mosse, ma anche di occupare e manipolare i loro stessi canali mediatici. Il 20 aprile le BR fanno pervenire alla redazione di La Repubblica il vero comunicato n° 7 a cui è allegata una foto di Moro con in mano il quotidiano, ad indicare che egli è vivo, e all’interno del quale i brigatisti esplicitano il vero oggetto per salvare la vita di Moro: i tredici brigatisti detenuti e sotto processo nel tribunale di Torino. Va aggiunto al dato storico che contemporaneamente al periodo di detenzione dell’onorevole Moro, si sta svolgendo a Torino il processo contro i capi storici delle BR, tra cui vi sono Renato Curcio e Alberto Franceschini. I fili che da qui si dipanano sono incrociati, perché i brigatisti incarcerati rivendicano la responsabilità del rapimento Moro, creando notevoli problemi giuridici, e simmetricamente nella seconda parte del sequestro la richiesta dei brigatisti in libertà sarà di scarcerare quelli in prigione. La risposta ufficiale del governo è del 28 aprile, quando Andreotti in televisione comunica con fermezza il rifiuto delle istituzioni democratiche alla trattativa con i terroristi. Nonostante un ultimo appello della famiglia Moro il Governo mantiene la propria linea. Arriva il 5 maggio l’ultimo comunicato n° 9 dove si legge «Concludiamo […] la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Il 9 maggio 1978 sarà un giorno che cambierà per sempre il corso della storia italiana: in via Mario Caetani, a Roma vicino alle sedi della DC in Piazza del Gesù e del PCI in via delle Botteghe Oscure, viene ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, crivellato da undici colpi di mitragliatore nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Il paese sprofonda all’istante in uno stato di shock, le reazioni internazionali irradiano stupore misto ad orrore. La democrazia italiana non ha ceduto ai terroristi, ma lo ha fatto sacrificando la vita di un uomo30. Si svolgono dunque il 10 maggio i funerali privati a Torrita Tiberina; tre giorni più tardi piazza di San Giovanni in Laterano sarà invasa da una folla di comuni cittadini e presieduta da tutti gli uomini di potere per il rito funebre di Aldo Moro, senza salma e senza la presenza della famiglia.
3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse? La distribuzione della notizia sulle pagine di Le Monde risulta di primo impatto: su 55 giorni di sequestro 45 sono coperti dalla notizia sull’Italia, di cui 17 prime pagine. Rispetto alla copertura del caso Sossi la percentuale aumenta notevolmente, indice questo di un maggiore interesse verso la vicenda ma anche di una diversa portata del suo significato, non perché diverso il valore della vita dell’uomo in questione, ma perché con Moro entrano in gioco una serie di elementi che investono la totalità delle istituzioni del Paese e inoltre l’identità delle BR è, ad oggi, abbastanza chiara da poter far temere il peggio. La notizia del rapimento di Moro viene data in prima pagina, come articolo di testa in primo taglio. Le Monde rispetto ad altri quotidiani è piuttosto avaro di immagini; Le Figaro e Libération ad esempio pubblicheranno la foto che fece il giro dei quotidiani di tutto il mondo, quella del cadavere di Moro crivellato di colpi nel bagagliaio della Renault 4 in Via Fani mentre Le Monde si “limiterà” in questo caso a pubblicare un pezzo di solo testo, occupando però la quasi-totalità della prima pagina dell’edizione del 10 maggio 1978. Durante tutto il sequestro Moro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, le Brigate rosse stabilirono un contatto con il mondo attraverso i comunicati. In questo tipo di azioni il mezzo risulta fondamentale: il terrorismo si alimenta del rimbalzo dell’informazione spesso trattata in modo iperbolico e finzionale. Negli anni Settanta, in un’epoca non ancora multimediale, lo strumento cartaceo assume tutta la sua importanza e il mezzo attraverso il quale esso viene diffuso – la redazione giornalistica – si trova nell’occhio del ciclone della nostra analisi. I comunicati delle Brigate rosse seguivano un preciso iter: venivano nascosti dai “postini” Valerio Morucci e Adriana Faranda in luoghi pubblici, come cabine del telefono o cassonetti dell’immondizia, successivamente una telefonata informava uno o più redazioni di quotidiani sul luogo del ritrovamento. I comunicati, che spesso allegavano le lettere dello stesso Moro, in sostanza informavano governo e opinione pubblica sul corso del processo da parte del tribunale del popolo a cui il prigioniero era sottoposto e illustravano attraverso le analisi brigatiste quali fossero gli obiettivi che le stesse si propugnavano nell’ambito del loro progetto rivoluzionario. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro e di conseguenza tutta la produzione giornalistica che ad ogni ritrovamento, oltre a darne il fatto di cronaca forniva anche una serie di approfondimenti e riflessioni sulla vicenda e sui suoi protagonisti. Per seguire la linea che avevamo tracciato all’inizio dell’articolo ci concentreremo sulla questione dell’identità delle BR, elemento che, accanto ovviamente alla cronaca dei fatti, richiama l’attenzione ei giornalisti e degli osservatori. Due sono i fattori che concorrono alla discussione sulla loro identità quale si possono rintracciare le sfumature sfogliando le pagine dei quotidiani. Uno è il lungo calvario dei 55 giorni di sequestro che porta ad un progressivo aumento della percezione della crudeltà dei brigatisti, il secondo è l’apparente sdoppiamento dei terroristi presenti come carcerieri di Moro e contemporaneamente come “incarcerati” a Torino durante il processo al loro «primo gruppo». Questo apparente sdoppiamento dei terroristi crea una sorta di illusione ottica che spinge ad interrogarsi tra l’eventualità dell’esistenza di diverse brigate rosse o piuttosto un’evoluzione in corso all’interno dei quadri del movimento terrorista. Nel 1978 la stampa francese ha le idee abbastanza chiare su chi siano i brigatisti. Si conoscono il loro orientamento politico, la loro modalità d’azione, si conoscono i loro fini e scopi. Ma con il rapimento Moro, le BR realizzano un’azione spettacolare, di cui nessuno le avrebbe mai ritenute capaci. Vi sono dunque dei nuovi elementi che la stampa, l’opinione pubblica e la classe politica non hanno l’abitudine ad affiancare alle BR: ad esempio la scoperta di un’impressionante competenza nelle armi, elemento risultato dalla perfezione criminale dell’attentato, che farà nascere l’ipotesi di trovarsi di fronte a dei killer professionisti. Immediatamente Le Monde mostra un’approfondita conoscenza delle Brigate Rosse. All’indomani del rapimento di Moro, il quotidiano dà alle stampe un articolo monografico sulle BR altamente informativo: vi sono riferimenti ai processi in corso e l’individuazione di Curcio come capo dell’organizzazione è immediata. Le BR sono « un mouvement d’extrême gauche, partisan de l’action violente »31. Esse sono precisamente inquadrate e rapidamente viene compresa la loro pericolosità, più velocemente rispetto ad altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro o Libération. Dalla penna di Robert Solé, alla data del 1 aprile scaturisce un’efficacie riassunto della situazione in Italia: Gli italiani sono alle prese con un nemico imprendibile in tutti i sensi. È riuscito a scappare alla più formidabile caccia all’uomo che questo paese – così poco poliziesco – ha mai conosciuto dopo la fine della guerra. D’altra parte, i suoi reali obiettivi sfuggono a tutti colo che vi riflettono con attenzione. Le brigate rosse sono, effettivamente, completamente scollegate dalla realtà. Esse invocano un «popolo» che le ignora, si identificano con un «proletariato» che le rigetta. Ma si mostrano anche estremamente efficaci sia nella strategia delle armi che in quella della tensione…una «follia lucida» si dice a Roma. Il riconoscimento della pericolosità delle BR è un tema al quale Le Monde dedica parecchio spazio, ovviamente specificando che ammettere la loro forza non significa né legittimarle tantomeno assolverle. Se Le Figaro ha in un primo momento definito la loro sceneggiatura come «banale», Le Monde non sottovaluta mai il loro potere, fino ad interrogarsi se esse siano «Les maîtres du jeu»: Nelle incertezze e nella confusione italiana si impone un dato evidente: le Brigate rosse stanno riuscendo, ben oltre le loro aspettative, nella loro impresa. Di fronte allo Stato, questo «contro-Stato selvaggio» di qualche fuorilegge ha raggiunto i propri obiettivi. Il suo nemico si discredita e si sgretola ogni giorno di più. Il dibattito di ordine «umanitario» per salvare la vita di Aldo Moro […] è in fondo un notevole successo del terrorismo. I ritratti delle BR forniti da Solé e Franceschini con i loro articoli hanno la precisione e l’esattezza di una biografia storica. Viene ripercorsa più volte nei particolari la storia del gruppo terrorista, si informa sul loro scopo iniziale di «costruire un’avanguardia proletaria armata per favorire il potere rivoluzionario delle classi oppresse che lottano contro il sistema»34. Indicativo è il titolo dell’articolo: «Delle brigate d’un rosso sospetto». I particolari seguono, viene ripercorsa la loro “carriera” riportando la svolta del ’74 con il relativo rapimento del giudice Sossi e la scalata verso l’attacco al cuore dello Stato. Rispetto ad altri quotidiani Le Monde cerca di scendere in profondità lasciandosi prendere dalla tesi, molto inflazionata in quel periodo, di una possibile influenza sul gruppo terroristico delle azioni di CIA o del KGB; nell’articolo dall’indicativo titolo «Manipolati? E da chi?» Le Monde porta un’ipotesi, palesa un’esitazione alla quale Solé adduce due argomentazioni: esse compiono delle azioni per la cui riuscita si necessita di precise informazioni, e spesso le loro azioni sortiscono l’effetto contrario a quello desiderato. Le BR mostrano certo le contraddizioni del regime ma «[…] le masse non seguono affatto la loro “avanguardia”». Le Monde prosegue: Molti uomini politici ne deducono che queste Brigate di un rosso sospetto sono contemporaneamente supportate e manipolate. E aggiungono: da servizi segreti stranieri […] Nelle conversazioni, oltre all’inevitabile CIA, si citano volentieri alcuni paesi dell’Est, come la Cecoslovacchia...Si tratta di un dubbio legittimo che Le Monde lascia in sospeso, siglando l’articolo con un sibillino «[…] resta ancora da provarlo». L’analisi scende nel particolare delle reazioni dell’opinione pubblica, dove, il ricorso alla violenza riduce gli spazi di simpatia diffusi soprattutto negli ambienti di estrema sinistra. Il quotidiano scrive: Invece di minare l’ultra-revisionismo di Berlinguer, le loro azioni spingono senza sosta il partito comunista verso il potere. Le istituzioni sono senza dubbio screditate, appaiono certamente alcune contraddizioni dello Stato, ma le masse non seguono affatto la loro [delle Brigate Rosse] «avanguardia»: al contrario si mobilitano contro la violenza […]. Le Brigate Rosse sperano forse di attaccare il forte potere di Roma provocando delle reazioni a catena fino al sollevamento popolare? Nulla di tutto ciò si è ancora verificato […] ogni volta che un corpo è crivellato da pallottole, i terroristi si allontanano un po’ di più dalla popolazione. Le Monde coglie il moto di base della reazione dell’opinione pubblica, che a prescindere dall’oggetto della contestazione reagisce togliendo supporto alla causa perché perpetrata con la violenza. Il 24 marzo l’ex sindaco della città di Torino, democristiano, Domenico Piantone subisce un attentato. L’evento conduce Le Monde verso un disarmante interrogativo: «Esistono diverse Brigate rosse?». La vittima viene ferita, non si comprende se lo scopo degli attentatori è stato raggiunto o se essi avrebbero voluto ucciderlo. Ciò porta Robert Solé a scrivere: «Questa nuova sparatoria pone varie questioni. Si tratta di un ritorno alla strategia precedente che puntava delle personalità d’importanza secondaria e consisteva, una volta su due, a intimidire senza uccidere?». Secondo i responsabili della DC, il fine degli attentatori era però quello di uccidere. Le Monde conclude dunque: Sono dunque di un tutt’altro livello «tecnico» rispetto a chi ha massacrato la scorta armata di Aldo Moro senza ferire, apparentemente, il presidente della DC. Anche se i due attentati rientrano all’interno della medesima strategia della «guerra civile anti-imperialista», nella quale si arrivare a domandarsi se non esistano diverse «Brigate rosse». La rabbia con la quale i dirigenti «storici» dell’organizzazione, sotto processo a Torino, rivendicano ogni attentato, la loro caparbia nel dimostrare ad ogni costo l’unità delle Brigate rosse, sono sospette. L’interrogativo che si pone Le Monde è analogo a quello di Le Figaro, le spiegazioni offerte però, differiscono. Per Le Monde l’ipotesi di una doppia esistenza potrebbe essere legata ad una differente competenza e padronanza della tattica criminale, da un lato killer professionisti che polverizzano una scorta, dall’altro goffi tiratori che gambizzano piuttosto che uccidere. Giungiamo all’epilogo del sequestro e Le Monde annuncia la notizia contenendo il suo stupore e spiazzamento rispetto all’atroce gesto compiuto dalle BR. Questo è ovviamente condannato, ma avendo il quotidiano inquadrato con più precisione la pericolosità dell’argomentazione non mostra eccessivo stupore davanti il crimine. Le Monde a mezzo di un editoriale del direttore Jacques Fauvet dal titolo particolarmente emblematico «Illegittima demenza »44 si indigna addirittura verso coloro che sono stati presi alla sprovvista dal crimine. «L’assassinio di Aldo Moro ha sorpreso soltanto gli ingenui e gli ottimisti impenitenti: l’Italia non ha vissuto per cinquantaquattro giorni un qualunque scherzo di studenti, ma un dramma sanguinario proveniente dal fanatismo più assoluto »45. Il direttore del giornale sottolinea l’evidenza dell’agguato di via Fani, che a suo avviso avrebbe mostrato sufficientemente la pericolosità del gruppo armato. L’epilogo del caso non deve far dimenticare che i commandos delle Brigate rosse avevano ucciso a sangue freddo le cinque guardie del corpo del presidente della Democrazia Cristiana per impossessarsi dell’ostaggio: fin dall’inizio avevano palesato il loro istinto di morte: lo hanno confermato anche durante la detenzione di Aldo Moro aggiungendo altre vittime al loro sinistro quadro di caccia. La loro crudeltà era dunque qualcosa di chiaro fin dall’inizio. Quando Fauvet parla nel suo articolo di illegittima demenza si riferisce ad uno stato che, seppure fuori dalle forme di pensiero delle persone “usuali”, non può essere scusato neanche attraverso la disperazione. Si riferisce alla diabolica sceneggiatura montata dalle BR che mostra «[...] non il prodotto dell’immaginazione di qualche giovane perduto, deluso, alla ricerca di un ideale, ma delle menti profondamente perversi, dei maniaci della politica allo stato peggiore »47. Anche Le Monde, rintraccia i segni di una logica altra, una logica sanguinaria. In un articolo di Robert Escarpit, egli individua il loro modus operandi ispirato in «Un culto perverso della personalità »48. Il cronista motiva: «Rapendo, torturando, massacrando degli individui o giocandoci come degli ostaggi, hanno rivelato la loro vera natura nella misura in cui pensavano influenzare in questo modo il destino dei popoli». Le Monde cerca di scendere nei meandri della buia e oscura logica che spinge i terroristi a compiere crimini efferati, e se durante il caso Moro, articoli sullo stesso tema presentavano un tono meno drammatico, ora a disastro avvenuto prendono tinte più fosche, più accese. L’importante, per Le Monde è scongiurare quella tendenza a considerare i brigatisti come degli ingenui, degli insoddisfatti, dei disperati: questo atteggiamento equivarrebbe a sottovalutare la loro vera forza, ossia non solo quella di essere gente senza scrupoli, ma di avere un piano ben preciso e soprattutto motivato anche se la legittimazione gli viene da loro stessi. Escarpit prosegue nella sua analisi: «Tutte le azioni, anche le più orribili, mostrano una profonda coerenza che esclude le improvvisazioni del cieco fanatismo». Giunge per Le Monde la condanna circa gli effetti nulli della campagna delle Brigate Rosse. Con il loro operato, afferma Escarpit, esse non giungeranno ai cambiamenti da loro auspicati: «[…] nessuno è indispensabile, e qualunque sia l’importanza politica della loro vittima, questi assassini che non rischiano neanche la pena di morte vogliono ignorare ciò che ogni terrorista sa: quando un uomo cade, un altro uomo esce dall’ombra e lo rimpiazza».
Per citare l'articolo. Eleonora Marzi, «Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro», 3/05/2017, su “Revues.univ-tlse2.fr”
LA MORALIZZAZIONE DEL '68: POTERE AI COMPAGNI MAGISTRATI.
La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
Io, ex toga Md vi racconto come i giudici di sinistra sono diventati un partito. Negli anni Settanta i movimenti eversivi rossi trovarono un appoggio nella magistratura. Così i pm avrebbero fatto la guerra alla borghesia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. La magistratura non è più un ordine costituzionalmente riconosciuto, bensì un disordine legato soltanto dalla velleitaria individuazione di quello che appare di volta in volta il nemico comune da combattere. Magistratura democratica nacque nel 1964, coagulando intorno a sé magistrati genericamente «di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti erano particolarmente motivati dall'affermazione della piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico ed alla struttura gerarchica dei giudici. Il 30 novembre 1969, tuttavia, la formazione si spaccò: ne uscirono tutte le componenti moderate, accusando la frazione di sinistra di essere troppo sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e studenteschi sorti nel '68. L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin». Francesco Tolin era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre 69 pubblicò un articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò successivamente alla condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza condizionale. Una parte di Md si schierò in difesa dell'articolo contro i reati di opinione, e successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di condanna: atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel raggruppamento, che diede successivamente vita alla corrente «Impegno Costituzionale». Questi ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle regole dello Stato di diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di applicare integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico, senza mai uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto, generalità ed astrattezza della norma da applicare al caso concreto. Solo in Italia i movimenti eversivi di estrema sinistra trovarono un appoggio nella più conservatrice delle corporazioni: la magistratura. Fu un caso? Certamente no, e in seguito se ne spiegheranno le ragioni. Alla neonata Md era necessario fornire un background politico che le garantisse una forte connotazione di sinistra (anzi, di estrema sinistra): per questo non c'erano eccessivi problemi, in quanto la maggior parte delle teste pensanti di quel gruppo si erano formate - negli anni '67/74 - nei grandi calderoni politico-ideologici che erano in quel periodo le Università, e trovavano un forte supporto nei movimenti antagonisti emergenti. Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista eccellente, poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera accademica) il cuore pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che vedeva nei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol dell'avvenire», i quali avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e le sue disuguaglianze di classe. Con il documento Per una strategia politica di Magistratura Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò una relazione al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971, in cui la piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia borghese come giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del movimento di classe», che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni interne dell'ordinamento: la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo borghese». Il giurista Tarello, nella sua relazione, concludeva l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che «...questo tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza ma piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura». Nessuno, allora e per molti anni a venire, colse appieno il pericolo (e il segnale) che poteva derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e del gruppo toscano, e dalla critica aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri di Md più vicini al Pci e - molto tempo dopo - i massimi dirigenti di questo partito. Una risposta alla strategia politica messa in campo dai giudici di estrema sinistra fu data da Domenico Pulitanò - giudice di Milano notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi dei magistrati democratici si pone e vuole porsi come alternativa non già ai valori democratico-borghesi (il che rischierebbe di portarci oltre la legalità) ma alle loro deformazioni autoritarie nella giurisprudenza corrente. Si può definire un uso alternativo del diritto? Il problema è solo terminologico... L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per noi un problema politico prima che teorico, e la discussione metodologica non deve far perdere di vista il fine politico». Non servono parole ulteriori per chiarire quale differenza abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la sinistra moderata di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per nulla un «problema terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di campo di dimensioni storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte consistente (e soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia statale si schierava nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe. Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta di entrismo: né aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio principio leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella sua accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove pure la frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si adeguò pienamente a questa tattica.
Da sito web di MD Magistratura Democratica. Magistratura democratica nasce nel 1964. All'inizio di quel decennio - caratterizzato da tanti fermenti di rinnovamento - inizia l'esperienza politica del centro-sinistra, con il suo carico di speranze: per quanto riguarda la giustizia è certamente md che si fa interprete dell'esigenza di un suo radicale cambiamento. La prospettiva è quella dell'attuazione della Costituzione, uno slogan intorno al quale progressivamente si vanno aggregando aree culturali sempre più consistenti e alcuni settori politici, non solo dell'opposizione: dopo un lungo periodo di "congelamento" della legge fondamentale della Repubblica, forze sempre più consistenti ne reclamano la concreta applicazione. Intorno alla metà degli anni Sessanta si determina una crisi profonda della cultura giuridica, fino a quel momento omogenea, che vede messi in discussione i suoi valori tradizionali: di tale crisi md è espressione e meccanismo propulsivo. La certezza del diritto, la neutralità dell'interpretazione, il ruolo solo tecnico del giudice, tutto ciò viene contestato e ripensato. Nasce un nuovo ceto di giuristi - da Rodotà a Bricola, da Cordero a Ghezzi - che si affianca a md nell'analisi e nell'elaborazione di nuove proposte. Il triennio 1968-1970 vede contemporaneamente lo sviluppo della più forte spinta sociale al cambiamento che il nostro paese abbia conosciuto dall'unità ad oggi, la mancanza di una sua interpretazione politica a livello generale (di qui i primi germi del successivo sviluppo del terrorismo di sinistra), la crisi del centro-sinistra e il sorgere della strategia della tensione. Tutto ciò pone rilevanti problemi anche a livello di giurisdizione e md ne è investita. Si pone concretamente anche per l'interprete il problema delle garanzie e dei diritti delle classi lavoratrici e dei ceti sottoposti. Nella magistratura si accentuano progressivamente le divisioni interne: da parte della nuova organizzazione dei magistrati viene definita una linea politico-culturale che privilegia il cosiddetto "intervento esterno", cioè il rapporto e la collaborazione con le forze politiche e sociali che operano per il cambiamento. Per md , nonostante l'aumento dei consensi, le difficoltà non mancano. Da un lato avviene una scissione che dimezza le forze dell'organizzazione, d'altro lato md (mentre si moltiplicano i procedimenti disciplinari a carico dei suoi aderenti) viene emarginata dall'Anm. La prima parte del decennio successivo vede il forte impegno di md sul fronte dell'effettività della tutela dei diritti sociali (in particolare tramite l'applicazione dello statuto dei lavoratori) e delle garanzie. Il capoverso dell'articolo 3 della Costituzione, che impegna la Repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, viene indicato come il criterio fondamentale dell'interpretazione delle leggi. Nella seconda parte degli anni Settanta md è investita dai problemi posti anche alla giurisdizione dallo sviluppo del terrorismo: l'impegno nei processi dei suoi aderenti e la difesa delle regole anche in questo tipo di processi. Le complessive vicende del paese, tuttavia, non inducono md a rinunciare alla sua idea di una istituzione magistratura svincolata dallo Stato-apparato, collocata a metà strada tra questo e la società civile, con un forte ruolo autonomo a difesa dei diritti e delle garanzie fondamentali delle persone. Fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta si pone in misura progressivamente crescente la questione dell'indipendenza della magistratura. I primi intendimenti concernenti la collocazione istituzionale del Pm e il ritorno alla discrezionalità dell'azione penale, propri di significative forze di governo, vedono md impegnata in un'intensa opera di sensibilizzazione all'interno e all'esterno della magistratura. Il progressivo disvelamento del fenomeno della corruzione e il crescere degli attacchi all'indipendenza, che vedono come protagonisti anche soggetti con responsabilità istituzionali, pongono con intensità sempre più forte la questione del rapporto politica/giurisdizione: il ruolo di md è, in questa fase, fondamentale nel mantenimento di un rapporto della magistratura associata con le forze sociali (ad esempio nella vicenda del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati). La crescita del ruolo del Csm quale organo di autogoverno e, al contempo, di garanzia dell'indipendenza e della credibilità della magistratura è in notevole misura il prodotto delle proposte e delle iniziative di md , che verrà vista dal presidente della Repubblica del tempo come l'ostacolo principale a ogni disegno di normalizzazione. Permangono costanti, anche in questo periodo, l'impegno garantista e quello per l'effettività della tutela dei diritti. md è, nella magistratura, la componente che sostiene con maggiore forza l'esigenza della riforma del processo penale, con il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio. Gli anni Novanta. L'esplosione della crisi del rapporto politica/ giurisdizione, i disegni di riforma costituzionale anche sul versante Pm-Csm, impongono a md l'adozione di una linea culturale e istituzionale che viene definita di resistenza costituzionale. Contemporaneamente i maxiprocessi di criminalità organizzata e di corruzione ripropongono, con il problema dell'efficienza, quello delle garanzie. E l'arretramento delle garanzie nei rapporti di lavoro e l'esplodere del fenomeno dell'immigrazione rendono di nuovo attuale la questione della tutela dei diritti fondamentali. Nei fatti md continua ad essere un attivo protagonista del dibattito sul diritto e sulle istituzioni.
Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica, scrive Annalisa Chirico il 17 Aprile 2016 su "Il Foglio". Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica.
Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. “Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorno posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”.
A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione. La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”. La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia. Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti.
C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”. Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”. A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”. La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d’accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai’.
Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.
Come nasce la strategia politica dei compagni magistrati. Il terrorismo, le divisioni, la Costituzione come schermo per incalzare i governi. L’attivismo del partito delle procure spiegato con la storia a puntate di Md (e il suo primo processo interno). "La missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione", scrive Annalisa Chirico il 21 Aprile 2016 su "Il Foglio". A partire dalla fine degli anni Settanta, l’alleanza tra magistratura di sinistra e politica di sinistra si trasforma in autentica osmosi con frequenti cambi di ruolo. Il primo riguarda Luciano Violante. Membro della giunta nazionale di Md con Generoso Petrella segretario, nel ’76 Violante abbandona la corrente in segno di protesta contro l’“insopportabile ambiguità” nei confronti del fenomeno terroristico, e comincia a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Nel ‘79 prende la tessera del Pci ed è eletto alla Camera dei deputati. Petrella, a sua volta, sarà senatore comunista per due legislature. “Md era spaccata al suo interno – commenta Violante – e c’era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista. Poi ce n’era invece un’altra che simpatizzava per il partito di Botteghe oscure”. La figlia di Saraceni è Federica, brigatista condannata in via definitiva per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona. Saraceni senior sarà deputato per due legislature nelle file dei Ds e dei Verdi. In un certo senso, per una lunga stagione Md e Pci si muovono lungo un percorso parallelo: da una parte e dall’altra, ci sono “comunisti ortodossi” e quelli affascinati dalle sirene della sinistra extraparlamentare. “Io direi piuttosto che Pci e Md –puntualizza Violante – si muovono lungo la medesima corsia ideale. Almeno all’inizio il giudice è un nemico agli occhi dell’elettorato di base. Il Pci rivendica il monopolio esclusivo della politica. Soltanto in seguito all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il rapporto del giudice con la base comincia a mutare”. A quel punto il giudice si trasforma nel supremo vendicatore della classe operaia contro la giustizia borghese. A un convegno di corrente Antonio Bevere, all’epoca sostituto procuratore del tribunale di Milano, detta la linea: “Il capitalismo è il vero nemico della democrazia”. 1969: l’ordine del giorno Tolin provoca una scissione interna. Il 30 ottobre di quell’anno il professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere operaio, pubblica un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”. Il 24 novembre viene arrestato e processato per direttissima: l’accusa è istigazione continuata a delinquere. Siamo nell’Autunno caldo, a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni sindacali e politiche. L’arresto immediato di Tolin e la condanna a diciassette mesi di carcere senza condizionale suscitano aspre reazioni. Sessanta giornalisti Rai firmano un appello per la sua scarcerazione. Il 30 novembre l’assemblea nazionale di Md, riunita in via Galliera a Bologna, approva un ordine del giorno, frutto di una travagliata discussione interna, in cui si esprime preoccupazione per “un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione”. La scissione è datata 20 dicembre: presso l’albergo Minerva di Roma i moderati, bollati spregiativamente come “socialdemocratici”, esigono una retromarcia rispetto al controverso odg Tolin e accusano i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina”. Ma che cos’è accaduto nella parentesi temporale intercorsa tra l’approvazione dell’odg e la richiesta di dietrofront? 12 dicembre, strage di Piazza Fontana. La madre di tutte le stragi. Diciassette morti e quasi novanta feriti. “Resto convinto che senza quell’evento traumatico la scissione non ci sarebbe stata, o forse sarebbe stata rinviata. La bomba ebbe un effetto lacerante, suscitò reazioni umane impreviste. La posta in gioco era altissima. Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco”. Parla così Giuseppe Pulitanò, iscritto Md sin dal suo ingresso in magistratura nel 1968. Abbandona la toga dodici anni dopo quando ottiene l’agognata cattedra universitaria di diritto penale. Pulitanò, come Violante e Gian Carlo Caselli, è fautore della linea dura contro l’estremismo violento. “L’odg Tolin non era nel mio stile, era nel clima del tempo”. Quando il processo per la strage di Piazza Fontana viene trasferito a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giunta milanese di Md approva un documento critico. Passano pochi giorni e il Csm apre un procedimento disciplinare nei confronti dei promotori Pulitanò, Greco e Guido Galli (che sarà ammazzato nel 1980 da un nucleo di Prima linea). “Nel ’74 fummo completamente assolti – ricorda Pulitanò, esponente della destra Md – Il clima era talmente esasperato che ogni accenno critico era visto con sospetto. E’ innegabile che tra noi ci furono degli eccessi, alcuni colleghi del gruppo romano erano letteralmente innamorati della Rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung. Tuttavia l’ambiguità di chi diceva né con lo stato né con le Brigate rosse non ebbe mai echi nella corrente. La diversità di approccio era piuttosto tra chi protestava le ragioni del garantismo in senso assoluto, e chi invece, come me e Violante, riteneva che la priorità fosse una soltanto, contrastare il terrorismo senza se e senza ma”. Così sul finire del ’69 i moderati guidati da Beria d’Argentine danno vita a una nuova corrente, Giustizia e Costituzione (dopo qualche tempo, questa prenderà il nome di Impegno Costituzionale da cui nascerà poi Unità per la Costituzione). “Andammo a cena in una trattoria dietro il Pantheon. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra, quando intorno a un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava”, così Marco Ramat, strenuo difensore dell’odg Tolin, ricorda i minuti successivi alla rottura quando insieme a Petrella e a Luigi De Marco prendono atto della impossibilità di ricomporre la frattura. “Il nostro piccolo Vietnam”, commenta Petrella. In Md rimangono i duri e puri, quelli che non hanno paura di intervenire su un processo in corso perché nessuno deve finire dietro le sbarre per un reato di opinione. Eppure le contraddizioni interne a Md si manifestano sin dalla metà degli Anni Sessanta con le cosiddette “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario. Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, è l’ispiratore della contromanifestazione a opera di magistrati che contestano la tradizionale e pomposa inaugurazione istituzionale. Pesce è lo stesso che muore d’infarto nel gennaio 1970, e ai funerali è presente il capo della Resistenza Ferruccio Parri. La commemorazione si tiene fuori dal palazzo di giustizia, quando la bara si allontana da piazza Cavour sventolano decine di bandiere rosse e tutti, compresi i magistrati presenti, la salutano con il pugno alzato. L’ultima pagina de L’Unità è invasa dai necrologi in suo onore, uno di essi recita testualmente: “E’ morto Ottorino Pesce, magistrato, militante della classe operaia. Lo ricordano i compagni…”, e via un profluvio di nomi illustri, tutte toghe rosse. “Io non ero d’accordo con le contro inaugurazioni, e non ero il solo”, precisa Violante. Nel ’69 le contro inaugurazioni si tengono a Roma, Milano, Bari e Bologna. Il 9 gennaio 1969 Pietro Nenni appunta sul diario personale: “Cenato da Saragat. Stamattina inaugurando l’anno giudiziario al Palazzaccio s’è trovato coinvolto anche lui in un episodio della contestazione. Avvocati, magistrati che accusano parlamento e governo per disfunzioni giudiziarie e fanno a botte tra loro sui rimedi da apportare”. Vittorio Borraccetti, già segretario di Md e membro del Csm tra il 2010 e il 2014, ha vivida memoria dell’anno 1969. “Ero appena entrato in magistratura e m’iscrissi a Md. La battaglia sull’odg Tolin era una battaglia squisitamente liberale. Volevamo non solo opporci all’arresto di una persona per un reato d’opinione ma contestavamo inoltre una norma che prevedeva l’autorizzazione della questura per la stampa di manifesti. Quel giorno a Bologna non ero presente ma ero ugualmente favorevole”. Era presente invece Violante che difende tuttora lo spirito dell’iniziativa. “Nessuna interferenza col processo in corso. Era un’autonoma presa di posizione del tutto legittima”. A Bologna c’era Libero Mancuso: “Sono tuttora iscritto alla corrente seppure in pensione dal 2006. Con l’odg Tolin rivendicavamo il diritto di critica, e prendevamo le distanze da quei giudici che lo avevano negato in un clima di intimidazione che rappresenta, scrivemmo, un grave sintomo di arretramento della società civile”. In altre parole, Md rivendica in quegli anni il diritto di contestare apertamente l’operato di alcuni magistrati in procedimenti specifici. Si celebra il processo al processo. “Sempre al fine di difendere i valori della Carta costituzionale, beninteso – rincara Mancuso – Senza partigianerie al di fuori di quella militanza”. Eccovi servita la parola chiave: militanza. Di sinistra. “Md delle origini è cosa diversa da quella attuale. Oggi assistiamo a un declino dovuto alla presenza più invasiva del correntismo quale strumento di affermazione carrieristica. Il che è avvenuto a causa della crisi delle idee, della politica e del prevalere delle correnti latrici di derive clientelari”. Mancuso, che da toga eretica di sinistra indaga sugli intrecci tra coop rosse e mafie, voterà al prossimo referendum costituzionale? “La riforma Renzi è persino più aggressiva e pericolosa della vecchia riforma Berlusconi. Non mi tirerò indietro neanche questa volta”. Di parere opposto Pulitanò che come Mancuso ha abbracciato l’attività forense: “Voterò a favore della riforma. E ritengo ragionevole non coinvolgere in questa diatriba un gruppo di magistrati associati, Md dovrebbe starne fuori. Non ne faccio un discorso di legittimità ma di opportunità, un elemento che per un magistrato conta”. O almeno dovrebbe contare. Tirarsi indietro, mai. E’ un motivo ricorrente. Chi lotta non si tira indietro. Chi è investito di una missione non si tira indietro. La svolta, come si diceva, avviene attorno all’odg Tolin: la “scissione socialdemocratica” va di pari passo con la radicalizzazione interna a Md. “Il punto è che noi siamo figli del Sessantotto ma la nostra vita ha avuto un seme radicato nella storia delle lotte del movimento operaio. E se non siamo scomparsi dalla scena politica alla pari di altre espressioni del Sessantotto è perché siamo cresciuti con quelle lotte e a fianco di essere”, scrive Francesco Misiani, storico fondatore di Md. Ma che cosa significa “essere figli del Sessantotto”? Negli stessi mesi del contestato odg Tolin a Roma due giovani del movimento studentesco sono arrestati dalla polizia. Il fascicolo è trasmesso al sostituto di turno, Franco Marrone (lo stesso del viaggio in Cina in compagnia di Misiani). Il giorno dopo il Tempo denuncia l’assegnazione del fascicolo a una toga “maoista”. Prontamente il procuratore capo gli sottrae il fascicolo e lo affida a un più mite collega. Il 12 maggio 1970 durante un convegno a Sarzana Marrone spiega alla platea che secondo un’analisi marxiana del diritto la legge consacra i rapporti di forza esistenti ma non è in grado di modificarli. Perciò, prosegue Marrone, “i magistrati sono servi dei padroni”. L’affermazione ardita gli costa un processo penale per vilipendio all’ordine giudiziario, alla fine ne esce assolto. Negli anni di piombo la corrente, muovendosi lungo la medesima “corsia ideale” del Pci, è chiamata a fare i conti con il terrorismo rosso, non laccato di rosso. Ne sa qualcosa Gian Carlo Caselli, iscritto Md sin dall’ingresso in magistratura nel ’67, tra i primi a comprendere che “non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini”. L’8 settembre 1974 i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo, vicino Torino, i capi delle Br Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini sono coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Caselli. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2014, Caselli rievoca un successivo incontro con Franceschini a Rebibbia: “Era un arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: dottor Caselli, lei non è di Magistratura democratica? Io risposi: sì, perché? Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza”. Ci volle del tempo, evidenzia Caselli, per “rompere il muro di ambiguità dei compagni che sbagliano, i complici silenzi di certi intellettuali”. Si dovette assistere alla “vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne”, fin quando si ottenne “la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi”. Nel ’76 Violante decide di interrompere l’iscrizione alla corrente per via dell’“insopportabile ambiguità” nei confronti della violenza armata. “Ricordo chi, come Giorgio Bocca su L’Espresso, prendeva in giro noi magistrati che istruivamo i processi contro i terroristi. Ai funerali di Casalegno, davanti alla chiesa del quartiere Crocetta, non c’era quasi nessuno”. Nel ’77 Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino, è il primo giornalista a essere ucciso da un commando delle Br. “Berlinguer parlava di fascisti rossi perché in effetti l’unica violenza che l’Italia aveva conosciuto era quella fascista. Per estirpare il fenomeno fu necessaria l’attività repressiva, e poi servirono decine di assemblee nelle sedi di partito, nelle parrocchie, nelle fabbriche per convincere l’opinione pubblica che eravamo alle prese con la violenza eversiva di sinistra”. “Il fatto terroristico – spiega Borraccetti – aiutò tutti noi a fare chiarezza al nostro interno. Ci volle del tempo, è vero, ma alla fine le zone d’ombra scomparvero e Md si schierò compatta contro il terrorismo. Molti di noi imbastirono i processi contro il terrorismo rosso e nero. Tuttavia, domando, che senso ha soffermarsi su qualche frangia facinorosa di quarant’anni fa quando poi, ai giorni nostri, si accolgono con tutti gli onori esimi intellettuali già militanti di Lotta Continua?”. Ecco, che senso ha. Nel 2013 Caselli abbandona Md in seguito alla pubblicazione di un pezzo di Erri de Luca sull’agenda annuale della corrente. “Euridice alla lettera significa trovare giustizia […]. Ho fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”, scrive Erri de Luca. A proposito degli anni di Piombo, “si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. […] Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali”. Caselli, procuratore capo di Torino e oggi, dopo un percorso non sempre lineare, simbolo della lotta alla violenza armata in Val di Susa, sfoglia la rivista della “sua” corrente che ha deciso di accogliere il contributo “culturale” dello scrittore pasdaran no-Tav con un passato da responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. L’iniziativa appare come un duplice affronto verso chi, con indosso la toga, ha rischiato la vita per contrastare la violenza brigatista e, in tempi più recenti, ha accusato di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico i responsabili degli assalti ai cantieri di Chiomonte. E’ come se un’intollerabile ambiguità tornasse a solleticare gli istinti profondi della corrente. E non è un mistero che alcuni autorevoli esponenti, in primis Livio Pepino, contestino radicalmente l’imputazione per terrorismo. Pepino, classe 1944, ex presidente Md e membro del Csm, già direttore di Questione giustizia e co-direttore di Narcomafie (“mensile redatto in stretta collaborazione con Libera”), bolla pubblicamente l’imputazione terroristica come un “fatto di inaudita gravità”. Quando la corte d’assise di Torino condanna i quattro militanti no-Tav a tre anni e sei mesi per porto d’armi da guerra, danneggiamento seguìto da incendio e violenza a pubblico ufficiale, Pepino esulta perché i quattro sono assolti dall’accusa di terrorismo: “C’è un giudice a Torino!”. Questa volta la misura è colma. Dopo la pubblicazione dell’articolo deluchiano, Caselli non proferisce verbo, non si ferma a spiegare, non gli interessa più persuadere i colleghi che con la violenza non si scherza. Per lui la stagione Md è definitivamente chiusa. Caselli si dimette. A un anno di distanza rompe il silenzio: “Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora”. Gli anni di piombo. Le fratture dentro Md. Il no alle leggi emergenziali, al decreto Cossiga, all’allungamento dei termini di carcerazione preventiva. Il ’78 e l’assassinio di Aldo Moro. Il ’79 e il “processo 7 aprile” con decine di imputati per associazione sovversiva e banda armata (tra questi Antonio Negri e Giuseppe Nicotri). Il pm che coordina l’inchiesta padovana, Pietro Calogero, afferma: “Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alle basi dello Stato”. All’interno di Md si fronteggiano due anime: i “garantisti ortodossi” e quanti invece intendono farsi carico delle esigenze della lotta al terrorismo, anche a costo di attenuare lo zelo garantista. Borré, presidente Md dal ‘78 all’‘86 e fondatore della rivista Questione giustizia (di cui resterà direttore per quindici anni), tenta insieme al segretario nazionale Salvatore Senese -– tre legislature targate Ulivo – un delicato esercizio di equilibrio tra le divergenti spinte interne. La destra Md, capitanata da Pulitanò e Greco, aderisce alla linea dell’intransigenza. “La verità – chiosa Violante – è che, una volta che Md fece finalmente chiarezza al suo interno e ruppe ogni contiguità, diversi magistrati iscritti alla corrente diventarono bersaglio dei brigatisti”. Nel libro “Le catene della sinistra” Claudio Cerasa riporta un elenco delle vittime togate del fuoco estremista. Tra il 1976 e il 1990 ben undici pm muoiono assassinati da Br, Prima Linea e Ordine Nuovo. Tra i caduti per mano dei terroristi di estrema sinistra ci sono Emilio Alessandrini, Francesco Coco, Guido Galli e Girolamo Tartaglione. “Ripercorrendo quella sequela di morti – prosegue Violante – capisci come tra noi sopravvissuti sia nata un’amicizia speciale, un legame simile a quello che si salda tra chi combatte in trincea e riesce a tornare a casa sano e salvo. E’ questa la natura del mio rapporto con Gian Carlo”, un nome che fa il paio con Caselli.
Anni Ottanta. Craxi e il craxismo. La strategia del “pentapartito”. Tutto ha inizio nel 1981 con il “patto del camper” quando, a margine di un congresso del Partito socialista italiano, il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi siglano un patto di governo, con la benedizione di Giulio Andreotti. Craxi è leader di minoranza estraneo alle due chiese, Dc e Pci, e determinato a conquistare palazzo Chigi. Nel volume “La costituzione e i diritti. Una storia italiana”, scritto a quattro mani con il collega di corrente Gianfranco Viglietta, Palombarini liquida il “decennio da bere” come contraddistinto da “un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, disinvolto e spavaldo”. La stagione dei diritti civili degli anni Settanta – statuto dei lavoratori, divorzio, diritto di famiglia, aborto, referendum – ha comportato una mutazione sociale. “Abbiamo modernizzato il paese”, rivendica Violante. “Il paese si è modernizzato da solo – replica Pulitanò – Tra noi di Md alcuni hanno fatto bene, altri no. La storia non dovrebbero scriverla mai i protagonisti”. Quel che è certo è che l’Italia degli anni Ottanta è molto diversa da quella in cui Md ha visto la luce nel ‘64. Il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. 14 ottobre 1980, la “marcia dei quarantamila”: a Torino impiegati e quadri Fiat sfilano a sostegno dell’azienda contro i picchettaggi che da oltre un mese impediscono l’accesso in fabbrica. La retorica del capitale contro il lavoro subisce un duro smacco. Nel 1981 dinanzi al comitato centrale del partito Craxi espone un programma “riformista” (bestemmia) che comprende, accanto al rafforzamento dell’esecutivo (seconda bestemmia), la “politicizzazione” della magistratura (e allora ditelo). Nel 1984 il governo Craxi taglia di quattro punti percentuali la scala mobile contro l’aumento galoppante dei prezzi. Berlinguer lancia il referendum abrogativo, numerosi esponenti di Md si schierano pubblicamente per il sì. Si desume che l’adeguamento dei salari all’inflazione e il potere d’acquisto dei consumatori rientrino nella missione di un vero “magistrato democratico”. I cittadini votano e la maggioranza dice no, il taglio rimane. Per giunta, Craxi è amico del “diabolico imprenditore televisivo”, Silvio Berlusconi. I pretori di Torino, Pescara e Roma ordinano la sospensione dei programmi delle tre reti Fininvest – mediante il famigerato sistema delle videocassette – perché in violazione del monopolio pubblico Rai su scala nazionale. Il governo Craxi interviene per decreto. Md protesta con toni accesi. Si materializza, per la prima volta in assoluto, la triangolazione Md-Craxi-Berlusconi. Siamo ai prodromi della guerra. Nel frattempo la vita interna della corrente è tutt’altro che tranquilla. I punti di disaccordo si moltiplicano. Alle elezioni del Csm nel 1981 il candidato Md Marrone, esponente dell’esagitato gruppo romano (“magistrati servi dei padroni”, ricordate?), è apertamente osteggiato dalla destra interna al punto da non essere eletto. Sul Manifesto le toghe Romano Canosa e Amedeo Santosuosso affermano che Md non deve più difendersi dalle accuse di politicizzazione ma da un “serpentello” interno: “Proprio gli iscritti di Md con maggiore furore e entusiasmo si sono buttati a costruire processi di terrorismo fondati prevalentemente sulla parola dei pentiti”. L’accusa per niente velata nei confronti dei colleghi inquirenti è di aver condotto trattative sottobanco con gli indagati; i due fanno esplicito riferimento al processo a carico di Marco Barbone, assassino di Walter Tobagi, e del gruppo denominato “Brigata XXVIII marzo”. Il giudice istruttore dell’inchiesta è Elena Paciotti, storica toga Md, in magistratura dal 1967, prima donna a ricoprire l’incarico di componente del Csm. Paciotti è per due volte presidente dell’Anm, nel ’99 è eletta eurodeputata nelle liste dei Democratici di sinistra. Canosa e Santosuosso subiscono un procedimento disciplinare che si conclude con un ammonimento per entrambi. Al congresso di Sorrento nel 1984 Caselli contesta pubblicamente il segretario nazionale Palombarini che nella sua relazione mette in evidenza le “smagliature sostanzialiste” ravvisabili, a suo dire, nei processi a carico dei presunti terroristi. Per Caselli invece non c’è stato alcun “coinvolgimento emergenziale”: i magistrati hanno svolto soltanto il proprio dovere. Ora che il disgelo della Costituzione è compiuto, ogni tentativo di modificare la legge fondamentale va scongiurato. I princìpi costituzionali finalmente vivono nell’ordinamento, la missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione. Il magistrato democratico è il guardiano della sua impermeabilità a qualunque cambiamento. Che il premier si chiami Craxi, Berlusconi o Renzi, la parola d’ordine è una soltanto, anzi due, “resistenza costituzionale”, vale a dire strenua difesa del progetto del costituente repubblicano. “Un progetto che implica il conflitto verso l’esistente e nel quale l’uguaglianza sostanziale è presupposto di una reale democrazia politica”, recita così la mozione conclusiva del congresso di Palermo, ottobre 1988. Già nel 1982, anno di nascita della rivista Questione giustizia, il neodirettore Borré mette in guardia da “emergenti prospettive di riforma istituzionale”, e nel primissimo editoriale elenca i tre punti caratterizzanti la “scelta di fondo” della corrente: in primis vi è l’affermazione dell’articolo 3, emancipazione ed eguaglianza, come “parametro di riferimento per gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali”; segue l’affermazione dell’indipendenza della magistratura come “insostituibile strumento di controllo diffuso della legalità”; in ultimo, l’esigenza di un processo garantito che assicuri il rispetto dei valori della persona. Dunque l’articolo 3 deve servire da bussola non soltanto per il magistrato ma anche per il legislatore. Quanto al controllo di legalità Claudio Martelli, già ministro della Giustizia e artefice della nomina di Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali, osserva: “Siamo sicuri che al magistrato spetti il cosiddetto controllo di legalità? O forse compito della magistratura è piuttosto quello di esercitare la repressione dell’illegalità? Non è soltanto un banale equivoco semantico in cui molti continuamente incorrono. Arrogandosi il compito non di reprimere le violazioni di legge di chi delinque ma di controllare la legalità dei comportamenti di tutti, questa parte della magistratura non solo dilata abusivamente le proprie competenze e il proprio potere, ma finisce con il sindacare e minacciare le libertà di tutti e l’equilibrio dei poteri costituzionali”. A metà degli anni Ottanta Md ricerca nuove frontiere. La vocazione alla lotta politica trova sfogo solo se c’è un nemico da fronteggiare. Il vecchio apparato fascista è ormai un arnese della storia. Nel 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale ispirato a una riforma in senso liberale: si passa dal rito inquisitorio – d’impronta fascista, con l’istruttoria segreta dominata dalle figure del giudice istruttore e del pubblico ministero, con scarsa o quasi nulla presenza della difesa – al rito accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento attraverso il contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo. “Nel mondo che cambia Md deve individuare nuovi terreni di lotta. Li identifica in Tangentopoli e nell’antimafia’, Violante la mette così, difficile dargli torto. Che cos’è d’altronde la mafia se non uno dei volti demoniaci del potere costituito? Che cos’è la corruzione politica se non la prova regina di un sistema di potere da abbattere? Legalitarismo e antimafia sono la bussola ideologica che traghetta Md negli anni Novanta. Su ciascuno di questi fronti la corrente si scontra con un implacabile picconatore, il capo dello stato (e supremo vertice del Csm) Francesco Cossiga.
Facciamo un passetto indietro. 1987, referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “referendum Tortora”. L’opinione pubblica è scossa dal caso nazionale di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo ingiustamente accusato, detenuto in carcere, processato e infine assolto. “Dunque, dove eravamo rimasti?”, con queste parole il 20 febbraio 1987 Tortora torna a condurre il suo Portobello, accolto dal pubblico con una lunga e commossa standing ovation. In vista del referendum radical-socialista nel novembre dello stesso anno, che cosa fa Md? Decide di condurre una battaglia solitaria e corporativa contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. L’appello della corrente è pubblicato dapprima in sordina, con cautela, su quotidiani minori; il giorno dopo, Franco Ippolito, all’epoca segretario nazionale, riceve una telefonata del venerato maestro Norberto Bobbio che gli chiede di poter apporre la propria firma in calce al manifesto. Come prevedibile, l’adesione di Bobbio suscita una pioggia di consensi: si uniscono intellettuali doc come Massimo Cacciari, Natalia Ginzburg, Pietro Scoppola. La tesi, ben nota anche ai lettori contemporanei perché puntualmente riproposta a ogni cenno di riforma, è che il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una seria minaccia all’indipendenza e un inaccettabile strumento di delegittimazione della funzione giudiziaria. I cittadini italiani però la pensano diversamente: l’ottanta percento dei votanti si esprime per il sì. Il comitato del no, da Bobbio in giù, esce sconfitto. L’anno seguente il Parlamento approva la legge Vassalli, modesto tentativo di introdurre un meccanismo che consenta alla persona danneggiata di rivalersi, seppur indirettamente e attraverso numerosi filtri di ammissibilità, nei confronti del magistrato reo di aver agito con dolo o colpa grave. Le cinque condanne emesse dal 1989 al 2012 valgono più di mille parole. Al congresso di Sorrento, 1984, Md approva una mozione che istituisce un gruppo di studio con l’incarico di occuparsi, sentite bene, di pace e relazioni internazionali. S’inaugura il cosiddetto “fronte straniero”. Per Md è venuto il tempo di affermare make peace not war. La svolta irenista sopravvive fino ai giorni nostri come una vena pulsante nel corpaccione invecchiato di Md. Nel 1985 una truppa di magistrati multinazionali fonda a Strasburgo l’Associazione dei magistrati europei per la libertà e la democrazia, sigla Medel. Md ne è la costola italiana. La missione internazionalista-pacifista-terzomondista non conosce tregua: si rincorrono gli appelli e le manifestazioni contro gli Stati Uniti complici delle dittature sudamericane e contro i missili F16 – pure questi a stelle e strisce – sul suolo italiano. E se certe pattuglie di magistrati conducono “spedizioni esplorative” in Cile per verificare “lo stato delle garanzie” nei processi agli ex ministri del governo Allende, altre volano a Gerusalemme per una ‘ricognizione delle violenze e dei rastrellamenti’ nei territori arabi occupati. A Roma nell’89 la corrente organizza un convegno per perorare la causa del riconoscimento della Palestina. Non è Amnesty International, è Md. L’acme si raggiunge nel gennaio ’91 quando la corrente approva un documento che condanna aspramente da una parte l’annessione irachena del Kuwait, dall’altra la guerra del Golfo in quanto “rottura sia dell’ordine internazionale sia dell’assetto costituzionale italiano”. Peccato che l’Italia, con un atto formale del suo Parlamento, abbia aderito allo schieramento guidato dagli Stati Uniti, la flotta nazionale è schierata nel golfo persico, il paese partecipa ai bombardamenti. La reprimenda più indignata contro l’intollerabile invasione di campo proviene del capo dello stato che invia al vicepresidente del Csm Giovanni Galloni una lettera sferzante: oltre alla viva preoccupazione “al pensiero che a siffatti pubblici dipendenti è commessa la funzione di promuovere l’azione penale e di giudicare”, Cossiga comunica di aver prontamente segnalato la vicenda ai titolari della funzione disciplinare. L’invito presidenziale non ha alcun séguito. 11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle. L’una implode, inghiotte se stessa. L’altra si fonde come un panetto di burro sul fuoco. Si levano venti di guerra, il governo Berlusconi non farà mancare il suo apporto alla coalition of the willing guidata da Bush jr. Nel gennaio 2003 a Roma Md approva una mozione congressuale tematica: “Gli incombenti pericoli di guerra e l’inconciliabilità dell’uso brutale della forza con la legalità e la democrazia, nella sua dimensione sostanziale di garanzia e promozione dei diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla pace, impongono ai giuristi e ai giudici di ricordare che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Toh, l’articolo 11 della Costituzione viene in soccorso. L’inchiostro Md percorre decine di articoli e appelli contro la guerra preventiva, la prigione di Guantanamo, le pratiche di waterboarding e alimentazione forzata…Pace e diritti umani. Ai girotondi degli indignados nostrani fanno capolino noti esponenti della corrente, mischiati nella folla, qualche volta sul palco ad aizzare le folle. Del pool di Mani pulite fanno parte due pesi massimi della corrente, Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio. A distanza di cinque mesi dall’arresto di Mario Chiesa, il primo confida: ‘Prima arriviamo a voltare pagina, a dichiarare defunto questo sistema e a instaurarne un altro, e meglio è’. Sotto il palazzo di giustizia si levano le grida: “Borrelli, facci sognare’. Come riporta Mattia Feltri nel libro ‘Novantatré L’anno del terrore di Mani pulite’”, il 3 giugno 1993 a Saint Vincent nel corso del convegno “Il pubblico ministero oggi” Francesco Saverio Borrelli spiega alla platea: “Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”. Borrelli, mai iscritto a Md, dirige il pool di Milano. Dopo l’uscita del libro di Feltri jr. lo scorso gennaio, il magistrato smentisce di aver mai pronunciato la frase incriminata che l’Ansa e il Giornale riportano testualmente il 4 giugno successivo. Tangentopoli fa emergere un singolare paradosso tutto interno a Md. La corrente che è super garantista verso i brigatisti negli anni di piombo tace sugli eccessi processuali e giustizialisti nei confronti degli inquisiti di Tangentopoli. Le cautele agitate da autorevoli esponenti contro la “deriva sostanzialista” negli anni della lotta al terrorismo, anche a costo di emarginare i colleghi personalmente esposti nell’attività repressiva, scompaiono. Verso i politici e gli imprenditori accusati a vario titolo di mazzette e corruzione, l’ortodossia garantista non emette un fiato. Sembra che anche per Md il richiamo alle garanzie, tanto in voga nei confronti dei terroristi, vent’anni dopo sia diventato di colpo obsoleto, per niente in sintonia con lo spirito del tempo. Eccessi investigativi, manette preventive, confessioni estorte, suicidi eccellenti, interrogatori senza avvocato, circo mediatico-giudiziario: il tutto rientrerebbe in un rito encomiabile per i nuovi canoni Md. Il rito ambrosiano. Il 3 agosto 1993 sulle colonne de L’Unità Violante, nelle vesti di deputato e presidente della Commissione antimafia, evidenzia l’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra i poteri: è doveroso “vietare ai magistrati, con adeguate sanzioni disciplinari, di dare interviste o rilasciare dichiarazioni sui procedimenti che essi stanno conducendo; il magistrato ha gli stessi diritti di qualsiasi cittadino tranne che in relazione agli specifici processi che sta conducendo: in quella materia deve parlare soltanto con i propri atti, non attraverso i telegiornali”. “Il magistrato – prosegue l’ex Md – non persegue finalità politiche come l’abbattimento del sistema politico. Questo può diventare un effetto della sua azione ma non può costituirne il motivo ispiratore”. Il monito di Violante sembra confermato nella sua funesta previsione a distanza di nove anni, nel 2002, dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che per Violante conia il soprannome di “piccolo Vishinsky”, il grande accusatore staliniano (pur intrattenendosi spesso con lui a colazione alle sei e trenta del mattino). In un’intervista al Giornale Cossiga dichiara: “Se Tangentopoli fosse una ordinaria storia di ladri comuni sarebbe grave ma non gravissima. Tangentopoli invece è gravissima perché è stata costitutiva di un regime politico”. L’inchiesta, secondo il ruvido picconatore, ha agito come una “valanga che ha sconvolto gli equilibri politici trasformando tra l’altro gli sconfitti della storia in vincitori e spingendo nel girone infernale dei criminali coloro che come Craxi avevano visto giusto e si erano collocati da tempo dalla parte della ragione”. Agli occhi di Md Cossiga è il diavolo, l’anti-Pertini, l’alleato di Craxi nel progetto di smantellamento delle prerogative giurisdizionali. Con Cossiga capo dello Stato e vertice del Csm, dal 1985 al 1992, il conflitto istituzionale raggiunge l’apice. Le avvisaglie di un’incompatibilità insanabile sono chiare sin dal principio. Pochi mesi dopo l’elezione quirinalizia, i membri del Csm chiedono di incardinare in plenum un dibattito sulle dichiarazioni di Craxi reo di aver difeso gli esponenti dello Psi e il direttore de L’Avanti Ugo Intini condannati per diffamazione a mezzo stampa ai danni del sostituto milanese Armando Spataro. “E’ stato scritto un capitolo oscuro della vita della democrazia italiana. Noi confermiamo, uno per uno, i giudizi che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura”, asserisce il premier Craxi riferendosi alle critiche mosse a Spataro e alla procura per la condotta processuale nel caso dell’omicidio di Walter Tobagi. I magistrati non gradiscono, i componenti del Csm vogliono intavolare un dibattito sulle ardite affermazioni del presidente del Consiglio. Cossiga si oppone e, senza giri di parole, lo vieta. “Decido e dispongo”, è la formula che usa in questo e in molti altri frangenti. E’ il suo stile. Md denuncia immediatamente la lesione dell’onore giudiziario e la deriva autoritaria del Capo dello stato. 1990, il giudice istruttore di Venezia Felice Casson bussa alla porta del Quirinale perché, nell’ambito dell’inchiesta Gladio, tra eversione nera e servizi deviati, desidera interrogare il presidente della Repubblica in qualità di testimone. La richiesta perviene alla segreteria della presidenza. L’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani ha rivelato al giudice che sarebbe stato proprio Cossiga, nella veste di sottosegretario alla Difesa, a disporre nel 1969 gli omissis sul piano Solo e sulla rete Stay behind. Come riporta Gianni Barbacetto nel libro “Il Grande Vecchio”, Cossiga è furibondo: “Quel giovane ha in mente più le fumoserie del ’68 che la Costituzione e i codici”. “Nel ‘68 avevo 14 anni ed ero in collegio dai salesiani”, replica a distanza Casson. Dopo il rifiuto di Cossiga, il magistrato intervistato da Repubblica commenta: “Non so cosa farò in futuro”. Intende dire che dopo aver sondato la disponibilità del capo dello Stato potrebbe convocarlo formalmente?, incalza il cronista. “Non ho affatto detto questo – precisa lui – Ho voluto dire soltanto che, siccome la mia inchiesta va avanti, non posso anticipare i passi che farò”. In realtà la tensione con Cossiga cova da lungo tempo. Nel giugno dello stesso anno sulla Nuova Venezia Casson scrive: “Mi chiedo come mai l’onorevole Cossiga non abbia mai risposto nulla a coloro che, pubblicamente, hanno parlato dei suoi rapporti con Licio Gelli”, tanto basta per chiedere al ministro Vassalli un procedimento disciplinare per vilipendio del Capo dello stato. Intanto la bufera politica divampa, da più parti si denuncia l’inopportunità dell’iniziativa. Il ministro della giustizia Vassalli, ravvisando diverse anomalie processuali, avvia accertamenti preliminari nei confronti del magistrato che ha preteso il coinvolgimento della più alta carica dello stato. Md prende le difese del giudice (che pure non è un suo iscritto). L’Anm si schiera compatta con lui. Dopo il trambusto mediatico e istituzionale, il filone Gladio passa ai giudici romani e Casson torna a occuparsi di tangenti. Nel 2005 si candida sindaco di Venezia ma è sconfitto da Cacciari. Dal 2006 siede ininterrottamente in Parlamento nelle file del Partito democratico. Torniamo all’interrogatorio del capo dello stato. Cossiga rispedisce l’invito al mittente (“E’ una vergogna per lo stato di diritto che Casson rimanga ancora giudice. E’ un ragazzaccio al quale bisognerebbe togliere la marmellata”). Anno 2014, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, anima dell’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia con un passato in Md, plaude al “momento di democrazia” celebratosi con la deposizione di Giorgio Napolitano al cospetto degli inquirenti palermitani. Che democrazia coi fiocchi. L’udienza, in una sala del Quirinale, dura oltre tre ore. “Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?”, Napolitano sdrammatizza e risponde a ogni domanda, anche a quelle poste dall’avvocato di Totò Riina e giudicate inammissibili dalla Corte. Il braccio di ferro con la procura palermitana è cominciato oltre due anni prima quando la procura, nell’ambito della stessa inchiesta, ha intercettato alcune conversazioni telefoniche intercorse tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il Quirinale chiede la distruzione dei nastri. La procura si oppone. Ne scaturisce un conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta che nel dicembre 2012, accogliendo il principio dell’assoluta inviolabilità della riservatezza quirinalizia, ordina la distruzione delle conversazioni illegalmente captate. 28 luglio 2012. Napolitano al funerale del suo consigliere Loris D’Ambrosio. Due giorni fa, l’ex capo dello stato ha ricordato le particolari circostanze che portarono a quella morte. “Spesso vengono pubblicate intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”. “Siamo cornuti e mazziati, le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”, reagisce così Ingroia in spedizione guatemalteca per conto dell’Onu, di lì a poco scenderà in campo (alle politiche dell’anno seguente si candida premier con Rivoluzione civile). In una recente intervista a Libero, novembre 2015, lo stesso Ingroia, ora dedito all’attività forense, a proposito del misterioso contenuto di quelle telefonate fa un mezzo annuncio: “Probabilmente un giorno lo racconterò: credo che tutte le verità di uno stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’intervista. Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione”. Ha in mente un titolo?, gli domanda il cronista. “Potrebbe essere: Caro Giorgio, come stai?”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordina un’ispezione presso la procura palermitana per la verifica della “effettiva documentazione e corretta custodia delle intercettazioni”. Ingroia è costretto a ridimensionare: ‘Al romanzo ci sto lavorando. Il libro parlerà della storia di una trattativa tra la mafia e lo stato di un paese immaginario e recherà la classica dicitura ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Io non ho mai detto e non volevo dire che avrei tirato fuori copia delle intercettazioni”.
IL FEMMINISMO E LE RAGAZZE DEL '68.
Femminismo e celibato. Da Wikipedia. Il gruppo femminista statunitense "Cell 16", fondato nel 1968 dalla storica Roxanne Dunbar-Ortiz, era noto per il suo programma di celibato e separazione dagli uomini; tra l'altro, considerato come troppo estremo da molte femministe mainstream, l'organizzazione ha agito come una sorta di avanguardia delle sinistra politica. È stata citata come la prima organizzazione ad aver promosso il concetto di separatismo femminista. In "No More Fun and Games", il periodico femminista dell'organizzazione, i membri Dunbar e Lisa Leghorn hanno consigliato alle donne di "separarsi da uomini che non stanno lavorando consapevolmente per la liberazione femminile", consigliando altresì periodi di celibato piuttosto che rapporti di sessualità lesbica con la considerazione che "non è nient'altro che una soluzione personale". Il periodico ha pubblicato anche nell'ottobre del 1968 l'articolo di Dana Densmore intitolato "On Celibacy", che ha dichiarato in parte: «"un appendice alla liberazione è un presunto 'bisogno' per il sesso. È qualcosa che deve essere confutato, affrontato, demistificato o la causa della liberazione femminile è condannata. Già vediamo le ragazze, completamente liberate nelle loro teste, capire la loro oppressione con terribile chiarezza cercando, intenzionalmente e con una certa traccia isterica, impegnarsi per fare se stesse il più attraenti possibile per gli uomini, gli uomini per i quali non hanno rispetto, gli uomini che possono persino odiare, a causa di 'una necessità sessuale-emotiva fondamentale'. Il sesso non è essenziale per la vita, come lo è invece il cibo. Alcune persone passano tutta la loro vita senza impegnarsi in esso, comprese gente bella, sensibile e felice. È un mito che questo fatto renda amaro un aspetto della vita, schiacciato, contorto. La stigmatizzazione (scienze sociali) della verginità permanente è comunque appartenente alle donne, creato dagli uomini perché lo scopo della donna nella vita è biologico e se non lo soddisfa è deformata e innaturale e 'deve essere tutta piena di ragnatele all'interno'".» Il gruppo del femminismo radicale "Feminists—A Political Organization to Annihilate Sex Roles", un'organizzazione politica creata per annientare i ruoli sessuali, è stato un gruppo attivo a New York dal 1968 al 1973; in un primo momento sostenne le donne che praticavano il celibato, successivamente sono passate a sostenere il movimento lesbico. Il lesbismo politico abbraccia la teoria che vuole l'orientamento sessuale essere una scelta, promuovendo il lesbismo come alternativa positiva all'eterosessualità delle donne. Sheila Jeffreys ha contribuito a sviluppare il concetto scrivendo con altri membri del "Leeds Revolutionary Feminist Group" un opuscolo intitolato Love Your Enemy?: The Debate Between Heterosexual Feminism and Political Lesbianism (Love Your Enemy ?: Il dibattito tra femminismo eterosessuale e lesbismo politico) il quale ha dichiarato: "noi pensiamo ... che tutte le femministe possono e debbano anche essere lesbiche, la nostra definizione di una lesbica politica è quella di una donna che si auto-identifichi nel fatto di non essere fottuta dagli uomini, ma ciò non significa un'attività sessuale obbligatoria con le donne"[66]. Alcune lesbiche politiche infine hanno scelto di essere celibi o si identificano come asessuali. Nell'aprile del 1987 a New York durante una manifestazione del "Southern Women's Writing Collective" è stata compilato un documento intitolato Sex resistance in heterosexual arrangements: Manifesto of the Southern Women's Writing Collective, e organizzata una conferenza intitolata "The Sexual Liberals and the Attack on Feminism". Questo manifesto (programma) ha dichiarato in parte che: « "contrariamente al movimento pro-sesso, noi ci chiamiamo le donne contro il sesso (WAS) ... la resistenza al sesso comprende anche il suo comportamento politico: il suo obiettivo non è solo l'integrità personale per se stessa ma la libertà politica per tutte le donne, ed esso resiste a tre fronti: resiste a tutte le necessità sessuali costruite dai maschi, resiste a ciò che viene chiamato impropriamente un 'atto nella prudenza' e si oppone in modo particolare al tentativo del patriarcato (antropologia)di rendere più facile il suo lavoro di subordinare le donne consensualmente costruendo il suo desiderio nella propria immagine oppressiva".» Nel 1991 l'attivista femminista Sonia Johnson ha scritto nel suo libro The Ship That Sailed into the Living Room: Sex and Intimacy Reconsidered: "quasi quattro anni dopo ho iniziato la mia ribellione contro la relazione/sesso/schiavitù, l'esperienza e la mia vecchia saggezza mi dicono che quel sesso come lo conosciamo è un costrutto patriarcale e non ha luogo legittimo e naturale nella nostra vita, nessuna funzione o modi autentici. Esso è soltanto un sinonimo di gerarchia/controllo, il sesso viene costruito come parte dell'assedio contro la nostra totalità e potenza".
“Le ragazze del ’68”. Inizia stasera su Rai 3 la prima di sei puntate dedicate alle donne che il Sessantotto l'hanno fatto o vissuto: chi in una comune, chi in giro per il mondo, chi nelle piazze e chi lavorando nei campi, scrive l'8 ottobre 2017 Il Post. Su Rai3 da stasera e poi ogni domenica andranno in onda sei puntate di un programma che racconta la storia di dodici donne che hanno vissuto il ’68 e che a quel tempo avevano più o meno vent’anni: sono donne non famose, che studiavano o che lavoravano nei campi, che erano ragazze madri, artiste, hippie, borghesi, proletarie, femministe o lesbiche. Donne che hanno partecipato (ciascuna a modo suo) alla rivoluzione collettiva che anche l’Italia stava vivendo quell’anno. Il “Sessantotto” in Italia non cominciò nel 1968, convenzionalmente, ma il 24 gennaio del 1966, quando a Trento gli studenti e le studentesse occuparono la facoltà di Sociologia. Quello stesso anno il giornale studentesco del Liceo Parini di Milano pubblicò un’inchiesta intitolata “Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso”. Seguirono altri sgomberi e occupazioni. Nel 1969 gli operai delle fabbriche cominciarono a scioperare e le loro contestazioni si saldarono con quelle degli studenti. Il movimento delle donne si formò non come conseguenza, ma sullo stesso slancio di questi movimenti e in modo originale: distaccandosi dalle loro ideologie, da quel linguaggio e anche da quelle pratiche. Il Sessantotto e i movimenti femministi di quegli anni furono comunque per le donne un nuovo inizio: cinque anni prima negli Stati Uniti era stato pubblicato “La mistica della femminilità” di Betty Friedan, che da cronista raccontò «il problema che non aveva nome» delle donne americane degli anni Cinquanta. La conclusione fu genuina ed esplosiva: «Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa”». In quegli stessi anni negli Stati Uniti venne approvata la pillola anticoncezionale, si cominciò a discutere di aborto, sesso, maternità, matrimonio, ruoli, e tutto cominciò a cambiare. Alla fine degli anni Sessanta il femminismo si espanse per contatto e per contagio: le notizie e le idee circolarono da un posto all’altro, furono copiate, tradotte, inventate di nuovo. Alla fine degli anni Sessanta il femminismo mise definitivamente al centro del proprio pensiero e dei propri obiettivi la sfera della riproduzione e della sessualità. Una volta abolita l’esclusione dal diritto di voto e, almeno in parte, lo sfruttamento economico, restava per le donne una grande ingiustizia sociale e familiare. Le risposte delle femministe liberali sulla produzione e il lavoro e di quelle socialiste sui diritti giuridici e civili non erano più sufficienti: era necessario andare alle radici del problema. E alla radice c’era la supremazia maschile nella sfera della sessualità e della riproduzione: una differenza biologica, anatomica, fisiologica, “sessuale”, che era stata trasformata in una differenza di ruoli sociali e familiari, in un destino. Le conseguenze degli slanci femministi e delle contestazioni del Sessantotto furono concretissime, per tutte le donne: portarono al pensiero differente del proprio corpo, al piacere slegato dalla riproduzione, alla liberazione dalla funzione materna come destino. La liberazione non fu indolore, ma fu sovversiva: «Ognuno di noi aveva trovato il modo di partorire un altro se stesso». Sono anni di grandi conquiste in ambiti molto diversi: lavoro, famiglia, maternità. Ma sono soprattutto la battaglia per il divorzio e l'aborto a catalizzare gli interessi dei movimenti femminili organizzati
Il disastroso fallimento del ’68 e della rivoluzione sessuale, scrive il 10 febbraio 2013 "L'Unione Cristiani Cattolici Razionali". A posteriori possiamo tranquillamente dire che le rivoluzioni sessantottine sono chiaramente fallite: non in quanto non si sono realizzate, ma proprio perché hanno acquisito il loro posto centrale nella mentalità degli europei. La colpa più grave delle sciocche ribellioni dei sessantottini è certamente quella di aver creato degli eterni bambini, incapaci di educare e di essere testimoni credibili per le generazioni future (compresa la nostra). Ribellione all’autorità, libertinismo, laicismo, antiproibizionismo ecc. non hanno liberato l’uomo, lo hanno reso solo più solo, più schiavo dei suoi vizi e più impaurito della realtà. Antonio Polito, editorialista de Il Corriere della Sera, nel suo ultimo libro Contro i papà (Rizzoli 2012) ha proprio spiegato come la generazione che è passata dal ’68 abbia rovinato i giovani di oggi: «i nostri figli non hanno più trovato in noi qualcuno cui opporsi, uno stimolo a crescere, a rendersi indipendenti. Dal 6 politico all’università facile, fino al lavoro come diritto. Siamo la prima generazione che ha disobbedito ai nostri padri per obbedire ai nostri figli. Ci siamo liberati al padre, abbiamo fatto la rivoluzione contro la sua autorità, e ora coi nostri figli facciamo appello al negoziato. Abbiamo trasmesso loro il diritto al benessere, senza nessun dovere connesso». Così, spiega Polito, il problema dei figli bamboccioni (niente studio né lavoro) è «un problema culturale», per questo invita i genitori di oggi a comportarsi all’opposto dei loro padri rivoluzionari: «sfidate i figli, opponetevi se necessario, ma non fare il muro di gomma. Con i figli occorre starci, starci e ancora starci». Antonio Scurati si concentra sulla rivoluzione sessuale anche se non vuole nemmeno definirla “rivoluzione”, ha spiegato su La Stampa: «Di tutte le rivoluzioni mancate – o fallite – dalla sinistra sedicente rivoluzionaria, la rivoluzione sessuale è stata la più fallimentare. Sul terreno ha lasciato quasi solo rovine: tra le più ingombranti, e irremovibili, spiccano la crisi della famiglia (non il suo superamento, si badi bene) e la mastodontica mole sociale della frustrazione sessuale». Il dilagare della pornografia, al maschile e al femminile lo dimostra (il 30% del traffico in rete è destinato al porno). Continua lo scrittore: «Siamo tutti, personaggi di finzione e persone reali, parimenti prigionieri dell’ideologia del sesso. In un pomeriggio di noia abbiamo spostato sul sesso l’intera posta metafisica che il secolo precedente, quello romantico, aveva giocato sull’amore, ultima religione dell’Occidente». Antonio Socci ha ripreso questo articolo, affermando a sua volta: «Il sesso parlato, immaginato, guardato, venduto, comprato, praticato, modulato in mille varianti – diventato ossessione di massa e, con la rete, prodotto di vasto consumo – sembra sia l’unica rivoluzione vera scaturita dal ’68 “desiderante”». E ancora: «la marxistissima generazione del ’68 ha dato un decisivo contributo alla più capitalistica e borghese delle rivoluzioni, erigendo il desiderio a pretesa assoluta e così spianando la strada a un’industria della sessualità e del suo immaginario che rende merce i rapporti affettivi e pure i corpi. La famosa e celebrata liberazione sessuale del Novecento si è risolta in realtà in una nuova alienazione, in una servitù volontaria di massa e in una pratica di controllo dei corpi e delle menti fra le più pervasive». Gli ideatori della rivoluzione sessuale del ’68 avevano un chiaro intento di sopprimere la vecchia morale sessuale giudaico-cristiana, considerata repressiva, sessuofoba e arretrata. Tuttavia Socci, conclude la sua riflessione con una bella apertura: «Io che professo tutti gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, che li ritengo anzi liberanti e pieni di sapienza, e che sento come una violenza psicologica e spirituale, soprattutto per i più giovani, questa sessuomania dilagante, questa aggressione pornografica onnipresente, voglio dire che anche la cosiddetta rivoluzione sessuale ci parla dell’inestirpabile desiderio di Dio. E della sua mancanza. Del doloroso vuoto di Lui che ci risucchia nel suo gorgo, anche attraverso la carne».
IL FEMMINISMO NEGLI ANNI '70, su Storia in rete di Maria Lombardi. La "seconda ondata" del femminismo si diffonde in Italia a partire dal 1968 e soprattutto durante gli anni '70. Si parla di "seconda ondata" perché l'attenzione non viene posta più sulla richiesta di uguaglianza e assimilazione al mondo maschile, come avveniva per le prime rivendicazioni femministe durante l'Ottocento, ma proprio sulle differenze. Si vuole costruire una società che tenga conto delle peculiarità femminili garantendo allo stesso tempo l'uguaglianza dei diritti. Il nuovo pensiero femminista identifica le differenze sessuali e biologiche come base della discriminazione, peculiarità che si traducono poi in differenze sociali e culturali, relegando la donna a un ruolo subalterno. Per porre fine a queste discriminazioni vengono quindi rifiutate le teorie di Freud secondo le quali le caratteristiche anatomiche femminili definiscono e determinano la psiche, i sogni e l'intero futuro della donna. Si vuole rompere il binomio anatomia-ruolo della persona. Non si tratta di un movimento unico e organizzato a livello centrale, nascono molti gruppi, spesso differenti tra loro. Elda Guerra, in un volume dedicato all'argomento parla infatti di femminismi, al plurale appunto, «per tentare di dare conto della pluralità delle forme, della molteplicità delle voci e dei gesti in cui si è incarnata l'espressione della soggettività femminile, in termini di soggettività politica». La studiosa Anna Rossi-Doria periodizza il femminismo italiano degli anni Settanta in quattro fasi: la nascita dei primi gruppi (1968-1972), la formazione dei collettivi (1972-1974), il movimento di massa (1975-1976) e infine la crisi (1977-1979). Durante il '68 le idee di uguaglianza che pervadono la lotta e l'impegno degli studenti e dei partiti di sinistra, non trovano poi un riscontro reale nel rapporto tra uomo e donna. Le ragazze si rendono conto di essere relegate ai margini e a ruoli subalterni all'interno stesso dei movimenti (vengono spesso definite "gli angeli del ciclostile") e, presa coscienza di questa discriminazione, creano spazi solo femminili in cui incontrarsi e discutere. Optano quindi per una politica separatista. Il taglio netto è nella presa di coscienza femminile che "il personale è politico". È nel privato di ciascuna donna, nella relazione di coppia, nel rapporto sessuale, nella famiglia che si esercita e si perpetua il dominio e il controllo sessuale e sociale sul sesso femminile. La critica politica delle donne parte quindi da un ambito quotidiano ed extra-pubblico per eccellenza, come la sfera della domesticità, per mostrarne gli effetti pubblici e oppressivi. Attraverso la pratica dell'autocoscienza la casa si trasforma da simbolo dell'isolamento delle donne a spazio politico. La cellula-base del femminismo della seconda ondata è proprio il piccolo gruppo di sole donne in cui si discutono argomenti estranei alla concezione tradizionale della politica, le esperienze di vita quotidiana, le relazioni, i sentimenti. Si inizia a porre l'attenzione su temi assolutamente nuovi, come ad esempio il proprio corpo e la propria sessualità. Donne d'ogni età e di ogni condizioni sociale, si raccolgono in "collettivi", uscendo così dall'isolamento familiare. Come si legge in uno dei molti giornali che vedono la luce in questi anni ad opera delle donne (il mensile toscano Rosa): «è un fenomeno tipico dei nostri giorni l'aggregazione di gruppi di donne mosse non solo da intenti direttamente politici, ma anche dalla volontà di discutere secondo un diverso taglio e altrettante diverse discipline, il vero significato politico, economico, sociale della vita delle donne di ieri e di oggi, e soprattutto di interrogarsi sulle prospettive dell'emancipazione della donna». I gruppi nati in Italia sono tantissimi e diversi tra loro. Il primo movimento femminile organizzato nel nostro paese è il Movimento di liberazione della donna, nato nel 1969. I suoi obiettivi primari sono la legalizzazione dell'aborto e la creazione di asili-nido. È aperto sia alle donne sia agli uomini. Nel 1970 è la volta di Rivolta femminile (primo gruppo separatista) che esordisce con il manifesto intitolato "Sputiamo su Hegel". Viene rifiutato l'uomo come portatore di un ruolo predominante. «Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione dell'umanità [.]. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna». Quasi nello stesso periodo appaiono sulla scena i collettivi femminili del Movimento studentesco romano che combattono contro il ruolo secondario della donna nel processo produttivo. Oltre ai gruppi separatisti si sviluppa anche una presa di coscienza da parte delle stesse donne impegnate nella politica ufficiale. Esse si rendono conto delle regole gerarchiche inesorabilmente maschili vigenti nei partiti. Nell'ambito della nuova sinistra nasce il Collettivo Femminista comunista, che per prima cosa rivendica l'autonomia. Esistono poi organizzazioni particolari, come il Cisa (Centro italiano sterilizzazione e aborto) che mette in piedi a Firenze, grazie all'opera di Emma Bonino e Adele Faccio, una clinica per aborti. In tutte le città principali, ma anche in provincia, troviamo i collettivi, gruppi nei quali non esistono regole gerarchiche di organizzazione. I collettivi crescono e da gruppi ristretti si passa a un fenomeno sociale e diffuso. Ci sono numerose manifestazioni, incontri, nascono radio libere, giornali, case editrici, gruppi teatrali e consultori autogestiti. Dall'interno all'esterno, alla vita pubblica. Grazie al vigoroso impegno, questi movimenti risvegliano l'attenzione sia dell'opinione pubblica sia del mondo politico, a cui vengono proposte temi di discussione e progetti di legge. Ne è un esempio l'impegno portato avanti nel sostenere le battaglie referendarie, raccogliendo le firme per la depenalizzazione dell'aborto e per la legge di iniziativa popolare sulla violenza sessuale (introdotta solo nel 1996), da configurarsi come reato contro la persona (della donna: e non contro la "moralità pubblica ed il buon costume", come nel codice civile fascista). Gli anni settanta sono gli anni delle grandi conquiste femminili in diversi ambiti. In campo lavorativo già il decennio precedente aveva visto l'approvazione di alcune importanti leggi. Nel 1961, ad esempio, veniva sancito il diritto alla parità di stipendio nel settore industriale: fino ad allora l'essere uomo garantiva la percezione di una busta paga più generosa. L'ingiusta sperequazione salariale su base sessuale viene vietata anche nel campo commerciale e in agricoltura. Il 1963 è un anno importante: abbiamo l'istituzione della pensione alle casalinghe, il divieto di licenziamento per matrimonio e il riconoscimento del diritto della donna ad accedere a tutte le cariche, compresa la Magistratura. Leggi come quella che tutela le lavoratrici madri o quella che prevede l'istituzione degli asili nido, entrambe del 1971, sono modifiche concrete apportate dal neofemminismo per il progresso sociale e civile. Oltre ai benefici pratici derivanti da questi due provvedimenti legislativi, vengono in tal modo riconosciuti il valore sociale della maternità e l'importanza del lavoro extradomestico della donna, il cui posto era tradizionalmente tra le mura di casa. La maternità e la cura dei figli restano però una prerogativa femminile, per il padre non viene infatti prevista la possibilità di assentarsi e usufruire dei permessi in caso di malattia del bambino. Tale diritto sarà esteso anche all'uomo solo dopo l'approvazione della legge dal titolo "Parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro". Si tratta della legge presentata dal ministro del lavoro Tina Anselmi (la prima donna a essere nominato ministro in Italia, nel 1976), approvata dal Senato nel dicembre del 1977. La legge n. 903 vieta le discriminazioni su base sessuale per quanto riguarda l'accesso al lavoro, l'avanzamento di carriera e il trattamento economico. Fino ad allora le donne dovevano andare in pensione a 55 anni, cioè prima di aver raggiunto il massimo pensionabile, mentre gli uomini a 60. La nuova legge offre invece la possibilità di scegliere. È prevista la reversibilità della pensione della moglie al marito, anche se non invalido. Importante è anche la fiscalizzazione del periodo di allattamento, non più a carico della singola azienda ma delle mutue. L'affermazione dell'uguaglianza è accompagnata da una notevole limitazione della tutela del lavoro femminile, cadono i divieti riguardanti i lavori ritenuti insani e pericolosi o moralmente nocivi (come la vendita di alcolici). Il divieto di lavoro notturno resta in vigore ma a partire dalle 24 e non dalle 22 e può inoltre essere rimosso dalla contrattazione collettiva. Altro argomento molto dibattuto è l'aborto: i gruppi femministi rivendicano la libertà di scelta. Nonostante il codice in vigore dai tempi del fascismo lo punisse come "delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe", gli aborti clandestini esistevano. Si era creato un enorme giro di affari e purtroppo anche di vite. Sono soprattutto le donne dei ceti più umili ad essere maggiormente esposte a rischi non avendo la possibilità di sostenere spese troppo elevate. Nel 1973 il deputato socialista Loris Fortuna presenta un progetto per l'abrogazione della legislazione fascista. Un primo risultato si ha nel luglio del 1975 con l'istituzione dei consultori di maternità. Il servizio ha più che altro la funzione di prevenire l'aborto, diffondendo la conoscenza dei metodi contraccettivi (fino al 1971 ne era vietata persino la propaganda) e aiutando a programmare la maternità. È soprattutto l'Udi (Unione donne italiane) ad impegnarsi in questa battaglia. Viene proposto un referendum nazionale per la depenalizzazione dell'aborto. Nel frattempo la Corte costituzionale dichiara parzialmente illegittime le norme del codice civile. Ha inizio quindi un confronto tra le diverse forze politiche del paese. Dopo un primo dibattito con relativa elaborazione di un testo unico (comunque contestato in alcuni punti dalle femministe), nell'aprile 1976 ha inizio la discussione vera e propria. A sorpresa però la Dc presenta un emendamento per riconoscere di nuovo l'aborto come reato punibile. Grazie anche al voto del movimento neofascista la legge sull'aborto non passa. La crisi del governo Moro e le elezioni anticipate bloccano qualsiasi iniziativa e discussione. La legge viene approvata solo nel 1978. Il divorzio è invece precedente, viene infatti approvato nel 1970, con la legge Fortuna-Baslini e resiste a un referendum abrogativo nel 1974 voluto dalla Dc. Nonostante le forti pressioni, esercitate soprattutto sulle donne dalla propaganda democristiana, il NO vince col 59% e la legge resta in vigore. Un altro problema che interessa le donne è la violenza, di cui purtroppo spesso sono vittime. La legislazione anche in questo caso non è d'aiuto. Infatti fino al 1981 è ancora in vigore nel codice il diritto d'onore che permette all'uomo, padre, marito, fratello, di uccidere per difendere la propria dignità. In molte cause per omicidio gli uomini vengono assolti proprio in base a questa assurda legge. Il marito aveva anche il potere di "azioni correttive" tramite l'esercizio della potestà maritale. Numerosi sono i casi di donne picchiate semplicemente per non aver lavato i piatti. Solo con il diritto di famiglia del 1975 la situazione cambia, per legge infatti viene riconosciuta la parità dei coniugi all'interno del matrimonio. Termina così il ruolo subalterno della donna che fino ad allora era costretta a sottostare alla potestà maritale, totalmente sottomessa e dipendente dalle scelte del capofamiglia.
L'emancipazione delle donne tra il '68 e il femminismo, (iN) Europa Luglio 2010 Libreria delle donne. I ricordi di Laura Minguzzi, presidente del Circolo della Rosa di Milano. Il '68 è stato l'inizio, le donne hanno fatto il resto. Quando scoppia la contestazione nelle piazze, il femminismo comincia quel lungo processo di autocoscienza che si afferma, come movimento autonomo, durante tutto il decennio successivo. "Ricordo quando, nel 1969, occupammo la Cà Foscari a Venezia - ci racconta Laura Minguzzi, presidente del Circolo della Rosa di Milano - in quel periodo il movimento di contestazione vedeva un vasto appoggio femminile. Poi qualcosa cambiò, noi ragazze sentivamo il bisogno di trovare una nostra strada, di ripensare a una nostra identità. Ricordo che lottavamo per uscire la sera, per stare in gruppo solo tra donne, per ricavare un posto tutto nostro in cui parlare e capire chi eravamo davvero. Questo fu l'inizio di un percorso lungo e per certi versi doloroso che vide l'allontanamento di molte di noi da fidanzati, padri e fratelli, che provocò rotture profonde". Era l'inizio di quel percorso di autocoscienza femminista che avrebbe traghettato il movimento alle manifestazioni di piazza, alla legge sull'aborto e all'affermazione dei diritti delle donne. "Io stessa per molto tempo sono stata da sola, non ho avuto un fidanzato, né rapporti sessuali - prosegue Minguzzi - E' stato come un momento di separazione totale, di pulizia da quello che era "il dover essere": dover essere figlia, poi moglie, poi madre in un percorso già segnato dalla società, con un destino già previsto. Partimmo dal concetto di sé, ascoltando i desideri e le aspettative della propria interiorità, della propria vita". Una separazione trasversale da tutto ciò che rappresentava la tradizione, da quel che era stato imposto. "Nessuna voleva più fare figli, né pensare al matrimonio; tanto che numerosi negozi di abiti da sposa fallirono in pochi anni". Una discussione a tutto tondo sulla società patriarcale, sino alla coscienza del desiderio femminile. "Si analizzò per la prima volta il piacere sessuale anche grazie a testi come "La donna clitoridea e la donna vaginale" di Carla Lonzi. Questo tema in particolare mandò in crisi l'uomo che non riusciva a concepire che anche la donna fosse protagonista del sesso". Un tema delicato su cui le femministe giunsero a una vittoria a metà fu la legge sull'aborto per la quale chiesero la depenalizzazione del reato. In Italia, infatti, il Codice penale di origine fascista vietava l'aborto come "delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe". "La posizione femminista è stata a volte confusa con quella radicale - spiega Laura Minguzzi - La nostra idea partiva proprio dal concetto che la donna e la sua sessualità andavano oltre ciò che la legge poteva regolamentare. Approvare una legge sull'aborto voleva dire ammettere che la procreazione era ancora sottoposta allo Stato e non alla donna". Proprio per questo alcune femministe definirono la legge sull'aborto "il più violento mezzo di controllo delle nascite".
CHI E' (tgr) Laura Minguzzi nasce a Ravenna nel 1949. Studia a Venezia, a Mosca e a Varsavia. Si laurea alla Cà Foscari con una tesi sui Movimenti femminili e femministi nella Russia della seconda metà dell'800. Dal 1977 insegna Lingua e letteratura russa in varie città italiane, tra cui Bologna, Parma e Milano. Oggi insegna Lingua e letteratura francese, come passione seconda, dopo il crollo del sogno comunista. A Milano, al liceo Virgilio ha organizzato nel 1999-2000 un Seminario di autoaggiornamento sulla "Sapienza femminile e la didattica della relazione autoriale: una pratica e i suoi testi". Collabora con la Libreria delle donne di Milano e dal 1991 è presidente del Circolo della Rosa. Collabora alla rivista della Libreria delle donne, Via Dogana, che ha inizio nel 1996.
Le donne e il ’68: una rivolta nella rivolta. Home La Rivista Numeri '68: "Siamo realisti, chiediamo l'impossibile" Le donne e il ’68: una rivolta nella rivolta, scrive Maria Grazia Fasoli il 28 giugno 2018 su Bene comune. La libera espressione della differenza femminile evoca la possibilità che gli oppressi (le oppresse) liberandosi possano liberare anche gli oppressori. Infatti, la promessa più vera del Sessantotto delle donne può riguardare la possibilità di aprire gli spazi ad una libertà maschile finalmente estranea alle logiche del potere e della violenza. Quanto ce ne sia bisogno, ce lo dice la triste e drammatica cronaca di ogni giorno. Una rivolta nella rivolta. Anticipiamo con questa sintetica formula il nucleo dell’analisi (sia pure, per limiti di spazio, non approfondita) che vogliamo condurre in questo intervento a proposito del rapporto tra le donne e il Sessantotto. Occorre infatti riconoscere che la rivoluzione di quell’anno – o meglio degli anni che lo precedono e lo seguono – ha con il contemporaneo processo di liberazione femminile un legame complesso. In parte di filiazione, in parte di oltrepassamento. Se la nota dominante di questi intrecciati, e solo parzialmente sovrapponibili, processi (quello dei giovani e quello delle donne, per semplificare e ridurre ai “generi” e alle “generazioni” le soggettività che irruppero sulla scena pubblica) è certamente un moto antiautoritario che “uccise i padri”, non c’è dubbio che le donne complicarono il conflitto, modificando radicalmente la rappresentazione e l’autorappresentazione dei soggetti della relazione sessuale (cfr. Elda Guerra e Elena Musiani, I movimenti delle donne dopo il 68: eredità o rottura in Storiaefuturo.it). Fu in quel giro di anni – tra i Sessanta e i Settanta – che maturò un neofemminismo, distinto nei riferimenti teorici e nelle pratiche discorsive da un femminismo dell’emancipazione che sostanzialmente aveva segnato l’intera modernità, dagli albori illuministici (O. De Gouges) al suffragismo ottocentesco e novecentesco. Era stato quello un movimento teso anzitutto alla conquista dei diritti civili e politici (di cui quello del voto fu simbolo) che aveva come retroterra il paradigma dell’uguaglianza, ovvero il raggiungimento della parità uomo-donna nella sfera economica, sociale, politica. La dimensione emancipazionistica non si esaurì, anzi diede luogo ad una serie di conquiste normative e giuridiche che, per restare al solo ambito italiano, misero capo ad una nuova legislazione destinata a modificare profondamente la vita sociale e democratica del nostro paese. Dalla promulgazione della legge sul divorzio (1970) al nuovo diritto di famiglia (1975), dalla istituzione dei consultori familiari (1975), alla legge di regolamentazione dell’aborto del 1978, confermata con referendum nel 1981, alla legge del 1977 sulla parità nel lavoro. Basta una superficiale lettura dei “titoli” di questa normativa per rendersi conto che essa riguardava temi e problemi della condizione femminile e in generale della società, di diverso tenore, spessore, rilievo problematico. Certamente il legislatore seguì in qualche misura l’onda potente della rivolta e della discontinuità sessantottina, così come le diverse espressioni della società e le stesse formazioni politiche risposero con affanno alla pressione di questi “soggetti imprevisti” (i giovani e le donne) sulle strutture tradizionali che – dalla scuola alla famiglia – avevano retto e in qualche modo resistito alla turbolenta modernizzazione italiana del lungo dopoguerra. Tuttavia, riteniamo che non è solo e tanto a questo orizzonte della democrazia formale e della codificazione legislativa che occorre guardare per comprendere il “Sessantotto delle donne”. Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale, di lungo periodo e di profonda incidenza sulla vita e sul suo significato, della quale osserviamo ancora le conseguenze e, diciamolo subito, le inadempienze. Proviamo ad indicarne i tratti salienti. Le donne si organizzarono dando vita a gruppi di piccole dimensioni che ben presto ritennero necessario il metodo separatista. Nato negli USA ed esportato in Francia (dove la non-mixité ebbe nella rivista Partisans il suo organo di diffusione) il separatismo dei gruppi femministi riconosceva che l’appartenenza alla soggettività femminile implicava un radicale ripensamento dell’identità delle donne costruita dal “discorso maschile”, nell’immaginario e (si badi bene) nella scienza. La pratica separatista individuava la genesi della libertà femminile nel partire da sé – altra espressione forte di questa contro-cultura – che istituiva nuovi linguaggi, nuovi rapporti tra corpo e parola, nuova indipendenza simbolica delle donne. E’ opportuno sottolineare il carattere collettivo, o meglio associativo di questa esperienza delle donne: il soggetto femminile si affaccia sul proscenio della storia come un noi, che trae da questa relazionalità la sua forza e la sua capacità di “mettere al mondo il mondo” (come si disse con efficace espressione). Il neofemminismo, superando il paradigma egualitario e la direttrice emancipazionistica, era dunque figlio del moto contestativo del Sessantotto e della sue istanze libertarie ma veniva scoprendo un più radicale senso della libertà femminile e della liberazione delle donne che metteva in discussione l’intero assetto delle relazioni sociali, a partire da quella esistente tra uomini e donne. Tra gli “oppressi” c’erano, più ancora da liberare, le oppresse, e questo scoperchiava letteralmente la sfera della domesticità, di cui si veniva svelando la struttura patriarcale dei rapporti, della divisione dei ruoli, delle dinamiche relazionali. Fu allora che si proclamò che “il personale è politico”, abbattendo una dicotomia – quella tra sfera pubblica e sfera privata – su cui si era costruito l’intero sistema della cittadinanza moderna. E lo stesso mondo politico-partitico, lo stesso sistema di distribuzione del potere, che sulla differenza sessuale aveva edificato la supremazia maschile e le regole stesse del funzionamento della vita pubblica. Riteniamo tuttavia che il tratto più innovativo di questo neofemminismo (post)sessantottino fu l’irruzione della categoria della differenza come valore. Scriveva Carla Lonzi nel Manifesto del gruppo “Rivolta femminile” da lei fondato, nel 1970 (il vero anno-zero del movimento delle donne di questa svolta epocale): “La donna non va definita in rapporto all’uomo…L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna (corsivo nostro)”. Per questa via, le donne si inserirono nel Sessantotto dapprima come un soggetto complementare (i famosi “angeli del ciclostile”) e poi con una postura sempre più autonoma, indipendente, riconoscibile. Forse fu quella loro, la rivoluzione culturale più profonda e più gravida di futuro. E forse anche per questo, quanto di quella rivoluzione attende ancora il compimento o, peggio, rischia l’arretramento, è il capo d’accusa più grave che si possa muovere a quell’anno “formidabile” circa la sua concreta capacità di mantenere le promesse di cambiare il mondo. Ci preme infine sottolineare una fondamentale diversità tra il 68 maschile e il post-68 femminile. Se il primo fu essenzialmente una “rivolta contro i padri” (dalla quale secondo alcuni studiosi discende l’attuale evaporazione della figura paterna) e un moto antiautoriatario che prendeva le mosse dal pensiero critico francofortese, il femminismo della differenza produceva negli anni un esito in qualche misura opposto. E’ nel suo solco che nasce la rivalutazione della madre (L. Muraro) come figura fondamentale, che insieme alla vita ci dà anche la lingua materna, ovvero un diverso e originario ordine simbolico che ci garantisce che il mondo ha un senso, che esiste un rapporto tra le parole e l’esperienza. Questa lingua materna è relazionale e affettiva, nasce all’interno di una disparità non gerarchica, che rende possibile un’autorità generativa, non opprimente e, per dire così, transitiva. Ci pare che questa scoperta della madre come origine della nostra possibilità di gettare ponti tra la nostra esperienza del mondo e il linguaggio, questa autorità materna che, attraverso il confine labile ma tracciabile con il potere, si rivela come una forza generativa, sia il guadagno più interessante della rivoluzione femminile di questi ultimi decenni. Un contro-potere e un contro-discorso che sembra avere cura della vita, mortificata in senso mercantile e individualistico in questa tarda modernità. Infine, la libera espressione della differenza femminile pare evocare la possibilità che gli oppressi (le oppresse) liberandosi possano liberare anche gli oppressori. In altri termini la promessa più vera del Sessantotto delle donne può riguardare la possibilità di aprire gli spazi ad una libertà maschile finalmente estranea alle logiche del potere e della violenza. Quanto ce ne sia bisogno, ce lo dice la triste e drammatica cronaca di ogni giorno.
Maria Latella racconta il ’68 dal punto di vista delle donne, scrive Maria Latella su Formiche il 02/01/2018. L'articolo di Maria Latella, giornalista e autrice di Fatti privati e pubbliche tribù. Articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista Formiche. Il femminismo del ‘68 poteva essere la chiave per creare una società più giusta, paritaria e, probabilmente, felice. È stata la vera, unica rivoluzione ancora viva, anzi più che mai al centro dell’attenzione. E degli attacchi. Quella rivoluzione femminista ha cambiato molto, è stata a sua volta bloccata e al centro della controriforma degli anni 80 e 90. Ora sembra riprendere slancio. Ma, come si dice nei romanzi, facciamo un passo indietro e torniamo a quella data: 1968. Parte di quel che il Sessantotto ha rappresentato, nel bene e nel male, è stato rimesso in discussione nei decenni successivi. A cominciare dalla critica al capitalismo, sepolta negli anni 80 dalla sfrontata sicurezza del Gordon Gekko di Wall Street: “Greed is good” , essere avidi è una buona cosa, e confermata poco dopo da un ancor più potente messaggio: “Arricchirsi è glorioso”, col quale Deng Xiaoping traghettò la Cina dal comunismo alla globalizzazione. Molto di quel che il ’68 aveva demonizzato, per esempio l’autorità dei padri, viene oggi rimpianto. Molto di quel che si è smontato in un paio d’anni, non può essere rimontato allo stesso modo: il sistema scolastico, per esempio. Soltanto da una di quelle rivoluzioni sessantottine non è stato possibile tornare indietro: la rivoluzione femminile. Scrivo femminile e non femminista perché dal femminismo del ’68 il processo è andato avanti, espandendosi. Oggi non tutte le trentenni nate negli anni 80 si definirebbero “femministe”, anche se una di loro, Beyoncé, ha voluto che sullo schermo dello show per gli Mtv awards comparisse la scritta “Feminist”, a caratteri cubitali. Certo, in occidente e sempre più in oriente, anche le trentenni sono più consapevoli dei loro diritti e della loro forza. Il caso Harvey Weinstein, con tutti gli strascichi che stanno squassando il mondo dei media (ultimo lo scandalo Vice) e dello spettacolo, la politica e, sia pur più timidamente, tutte le aziende, altro non è che la conferma di questa consapevolezza. Dopo essere tornate indietro per vent’anni, tra la metà degli Ottanta e l’inizio del Duemila, dopo aver re-introiettato un modello femminile dettato da una controriforma maschilista (“sii bella e cerca di piacere a un uomo ricco e potente”), oggi col caso Weinstein e con la copertina di Time che celebra l’hashtag “Me too”, si segna un punto sostanziale nella marcia verso l’essere coscienti della forza e del ruolo delle donne. Una marcia avviata, appunto, negli anni 60. Con la diffusione della pillola, quel controllo della fertilità che ha dato agli umani di sesso femminile un potere dal quale prima erano escluse. Il mondo occidentale è stato rivoluzionato da uno slogan “l’utero è mio e lo gestisco io”. Entrare in controllo della maternità, in molti casi rinunciandovi del tutto, è stato il più profondo dei cambiamenti innescato dal ‘68. È vero, a cinquant’anni di distanza, si constatano i danni, si fa il bilancio dei prezzi pagati. Società invecchiate senza ricambio, la maternità negata, spesso con rimpianto, da molte generazioni di donne e oggi inseguita un po’ ossessivamente anche a 50 anni. Le donne hanno scelto di non riprodursi più, o di riprodursi molto meno, soprattutto nei Paesi nei quali la politica è rimasta gestita da uomini incapaci di una visione. Si poteva prevedere che l’uragano femminista del ‘68 non si sarebbe fermato. Si poteva prevedere che le donne non sarebbero tornate tanto facilmente in cucina. Si è scelto invece di ignorare la realtà, di fare come se niente fosse. Ma la realtà si prende le sue rivincite, indifferente ai danni che l’assenza di realismo procura. Così oggi, a distanza di cinquant’anni, siamo qui a rimpiangere quel che poteva essere e non è stato. Partendo dallo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” si poteva costruire una società più libera e più uguale, più serena e felice. Abbiamo invece una società di donne sole e di uomini narcisi che scappano dalle responsabilità e dalla famiglia. Il ‘68 ha dato certo più consapevolezza alle donne. Ha creato percorsi grazie ai quali oggi sono più forti e più libere. Ma la libertà ha un prezzo, le donne l’hanno pagato e lo stanno pagando ancora più di tanti altri che, dopo il ‘68, sono tornati comodi sotto le ali della controriforma.