Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
I TREVIGIANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
VENETI DIVERSI DAGLI ALTRI?
In Veneto si fa, ma non si dice. Lo rivela “Il Corriere della Sera”. Scoperti dalla Guardia di finanza in Veneto oltre 2.300 falsi poveri che usufruivano dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario. Il controllo è stato svolto, per ora, in cinque Ussl sulle 22 esistenti nella regione, con un bacino d'utenza di circa 1.200.000 assistiti residenti in 183 comuni delle province di Venezia, Belluno, Padova, Treviso e Vicenza. I finanzieri proseguiranno gli accertamenti per verificare altre 8 mila posizioni di persone fisiche dichiaratesi «disoccupate». Il report di analisi, condotto su 30 mila prestazioni in esenzione per «disoccupazione e reddito» nel biennio 2009-2010, ha evidenziato appunto 2.300 prestazioni elargite nei confronti di cittadini con redditi superiori alla soglia prevista per godere del beneficio e 10 mila prestazioni rese nei confronti di assistiti rivelatisi non disoccupati, nei confronti dei quali le fiamme gialle compiranno ulteriori accertamenti per escludere ulteriori condotte fraudolente.
Ma di non solo truffe si ciba il ricco nord-est. Vi è anche l’evasione fiscale. In Veneto sparisce il 22,4% del reddito. E lo racconta “La Repubblica”. Un Paese unito nel nome dell'evasione fiscale: nascondere una parte o la totalità del reddito agli occhi dello Stato è un' attività diffusa su tutto il territorio italiano. Ma gli evasori non sono tutti uguali: c' è chi si accontenta di truffare il fisco solo in parte, e chi mette via ogni remora pur di accumulare entrate senza versare le tasse. Al Nord come al Sud, anzi al Nord un po' di più. Contrariamente a quanto si pensa per via della maggiore diffusione dell'economia sommersa, il picco dell'evasione si raggiunge nel Settentrione. La regione che sottrae più ricchezza ai fini dell'Irpef è il Veneto, che nasconde in media il 22,4 per cento dei suoi redditi, la più virtuosa è la Sardegna dove l'evasione si contiene al 13,7%. Fra i due estremi, c'è il ritratto di un Paese che si attrezza in mille modi per ingannare il fisco quando il contribuente non versa la ritenuta alla fonte: dalle prestazioni professionali in nero agli scontrini mai emessi. A differenziare il fenomeno in base al territorio ci ha pensato lo Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, in uno studio che calcola le percentuali del reddito dichiarato rispetto a quello disponibile nel 2008 (al netto delle prestazioni sociali e delle quote esenti, più diffuse al Sud). Il Paese in complesso ne esce male anche se, contrariamente ai luoghi comuni, la quota di reddito nascosto è più alta al Centro-Nord, con il 19,3 per cento, che al Sud (il 18). Al Veneto (22,4), nella classifica dei meno virtuosi, seguono le Marche (22 per cento di ricchezza evasa). Ma a parte un intermezzo fra il terzo e quarto posto - Basilicata (21%) e Calabria (20,6 per cento, pari merito con l'Emilia Romagna) - è l'Italia del Centro Nord a dominare la parte alta della graduatoria. Lombardia e Sicilia, regioni con notevoli differenze nel livello di vita, evadono quote simili (17,6 per cento la prima, 17,2 la seconda). Quanto a virtuosismo, alza la media settentrionale solo la Liguria (14,7 per cento di reddito evaso). L'andamento non cambia di molto se si considerano le percentuali di reddito dichiarato rispetto al Pil: il Mezzogiorno dichiara il 51,2 per cento rispetto al 49,5 del Centro-Nord. E non sembra che nel breve periodo le posizioni possano invertirsi visto che - secondo una indagine di Contribuenti. it - nei primi mesi del 2010 l'evasione era data in aumento soprattutto in Lombardia e in Veneto. Commenta lo Svimez: «Non cadiamo nella tentazione di etichettare il Centro Nord come terra di evasori fiscali - si legge nello studio -. Ma questi dati mostrano comunque che non si può attribuire questa stessa etichetta al Mezzogiorno: la realtà è che l'Italia non ha raggiunto l'unità economica, ma è unificata dall'evasione». Secondo i ricercatori dell'associazione una precisazione però va fatta: «Le informazioni della Guardia di Finanza - che non riguardano tutti i contribuenti, ma solo quelli sottoposti a controllo fiscale - indicano che nel Mezzogiorno ci sono più evasori che nascondono importi modesti». Al Centro Nord si verifica il caso opposto: «Al limitato numero di evasori corrisponde una massa imponibile non dichiarata rilevante». In sostanza, conclude lo studio Svimez «si può figurare un'evasione per sopravvivenza al Sud ed una evasione per accumulazione di ricchezza al Nord».
A tal rigurdo Antonio Melli dice la sua Su “La Vera Cronaca”: Il Veneto leghista campione di evasione fiscale. Se li sentite parlare con quelle voci stridule ed inequivocabili, non pensereste mai che dietro quelle urla folkloristiche si nasconde una realtà completamente opposta al senso politico ingabbiato in esse. Parlano soprattutto della Padania, antica terra laboriosa dove il senso civico bene si amalgama con l'onestà sociale. Salvo poi a scoprire che in questo territorio si annida un'evasione fiscale che non conosce vergogna e che fa del Veneto una regione dove la pratica dell'illegalità fa quasi parte del Dna di molti dei suoi abitanti. Parlano i numeri. É Venezia la culla dell’evasione in Veneto dall’alto dei suoi 384 milioni maturati nei primi quattro mesi dell’anno. La provincia veneziana è seguita a distanza da Vicenza, con 250 milioni, Verona con 222 e Padova con 59. Fanalino di coda Belluno con 13. Città che risulta essere "virtuosa" anche per quanto riguarda l’Iva, il lavoro nero e i lavoratori irregolari. Il quadro del resto del Veneto è invece alquanto pesante: complessivamente da gennaio ad aprile l’ammontare dell’evasione è stato di 1 miliardo e 34 milioni di euro. Pesante anche "l’ammanco" dell’Iva: 242 milioni e mezzo di euro in quattro mesi, sempre con Venezia in vetta alla classifica con quasi 93 milioni, seguita da Vicenza con 51 e Padova con 49. Anche in questo caso Belluno ha fatto registrare la cifra più bassa, 1 milione e mezzo di euro. Ma non c’è solo l’ evasione. La Guardia di finanza ha anche scoperto 975 lavoratori in "nero" o irregolari, sempre nel periodo che va da gennaio ad aprile 2010. Quello del lavoro nero è un fenomeno che presenta caratteri diversi e differenze numeriche macroscopiche da provincia a provincia. La provincia con più violazioni è quella di Treviso, dove sono stati scoperti 352 lavoratori del tutto "in nero" o irregolari; poi seguono Verona (149), Venezia (130), Vicenza (119) e Rovigo (115). Ma c’è anche chi è virtuoso, come Belluno dove le posizioni irregolari sono risultate essere appena 16. Sul fronte imprese e professionisti, quelli risultati completamente sconosciuti al Fisco sono stati 288; il maggior numero è stato scoperto a Venezia (83), Verona (57) e Vicenza (47). Detto questo, non vediamo proprio quali basi etiche la Lega Nord ed i suoi adepti vogliono suggerirci per adempiere alle loro richieste di federalismo fiscale, senza attendere i giusti tempi per un'approfondita analisi dei processi che esso andrebbe ad innescare. Forse sarebbe meglio che continuassero a preoccuparsi di combattere gli immigrati clandestini che, seppur a costo di lacerazioni culturali senza precedenti nella storia del nostro Paese, rappresentano per loro il terreno ideale su cui continuare a consolidare il loro potere politico. Perchè è solo a quello che essi mirano.
E poi per ripicca contro il Sud c’è chi diventa leghista. Interessante, però è il pensiero di Emanuele Bellato su “Il Popolo Veneto”. Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38) Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41) Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20) Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71)
Appare strano che si diventi leghisti per differenziarsi dai meridionali, pur avendo se non di più, almeno gli stessi difetti. A parlare di mafia nel Nord Est italiano si fa peccato, però…..ne parla Lorenzo Frigerio ed “Il Fatto Quotidiano”. La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.
Anni Sessanta-Settanta: l'apprendistato criminale con la mafia siciliana. Così come è accaduto per Lombardia e Toscana, la diffusione del modello criminale mafioso fu dovuto essenzialmente alla presenza, anche se non particolarmente nutrita rispetto ad altre regioni, dei membri delle cosche, in esecuzione di un provvedimento di soggiorno obbligato. La maggior parte dei mafiosi che soggiornarono in Veneto proveniva dalle fila di Cosa Nostra: tra i nomi più noti, Salvatore Contorno, Gaetano Fidanzati, Antonino Duca e Gaetano Badalamenti. Cresciuti alla scuola criminale dei siciliani nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i malavitosi veneti, nei due decenni successivi, s'imposero autonomamente e si distinsero per la ferocia e l'abilità nel controllare i traffici criminali transitanti nella regione. Sempre negli stessi anni, fu convogliata verso il Veneto un'ingente quantità di denaro sporco, proveniente dai numerosi traffici illegali delle mafie e destinato a costruire ed alimentare un sofisticato circuito di riciclaggio, che s'innestò in modo parassitario sul sistema economico legale di una regione tra le più produttive e all'avanguardia dell'intero paese.
Anni Ottanta: esordio con rapine e sequestri per Maniero. Il più clamoroso esempio della capacità di assimilare il modello mafioso e di calarlo nella realtà veneta fu costituito dalla cosiddetta "mala" o "mafia del Brenta". Rapine, sequestri di persona, traffici di droga ed armi, estorsioni: furono queste le principali attività dell'organizzazione guidata dal veneziano Felice Maniero e con basi logistiche nella Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova. Nei primi anni di attività, gli uomini di Maniero misero a segno gli spettacolari colpi all'Hotel "Des Bains" al Lido di Venezia (1982) e alla stazione ferroviaria di Mestre (1982) e furono i protagonisti del celebre assalto all'aeroporto di Venezia (1983): i 170 chili di oro rubato presso il caveau della dogana aeroportuale sancirono, infatti, la definitiva consacrazione della banda veneta nel panorama criminale. La mala del Brenta dimostrò la sua potenza, portando a termine contemporaneamente i sequestri Rosso Monti, Andreatta e Bonzado. La terribile fama guadagnata sul campo dal sodalizio criminale veneto si alimentò ulteriormente negli anni successivi: sfruttando abilmente una serie di accordi stipulati con le cosche mafiose per la gestione dei proventi criminali nel nord est, oltre alle rapine, gli uomini di Maniero si dedicarono con profitto al traffico di droga, al controllo del gioco d'azzardo clandestino e al rafforzamento delle pratiche dell'estorsione e dell'usura.
Anni Ottanta-Novanta: la Mala del Brenta, una organizzazione mafiosa. In diverse circostanze, la mala del Brenta diede prova di sapere esercitare un efficace controllo del territorio, imponendo la propria legge. Nel periodo di massima potenza, l'organizzazione, composta inizialmente da una quarantina di elementi, arrivò a contarne quasi quattrocento, tra effettivi e fiancheggiatori a vario titolo. I successi criminali della mafia del Brenta furono possibili grazie alla riuscita integrazione al proprio interno di elementi locali e di esponenti delle tradizionali cosche e grazie anche all'adozione di un modello organizzativo e comportamentale tipicamente mafioso, compresa l'eliminazione di testimoni scomodi e di membri della banda divenuti inaffidabili. Nonostante i numerosi arresti, compreso quello dello stesso Maniero, e una feroce faida interna per la supremazia, scoppiata durante la sua carcerazione, gli affari per la mala del Brenta non subirono flessioni. Dalle carceri di massima sicurezza e dai suoi nascondigli di latitante, "Faccia d'Angelo" continuò a dirigere le operazioni e le attività dei suoi uomini. Sul finire degli anni Ottanta, alle molte attività della banda si aggiunse anche il contrabbando di armi con la ex Iugoslavia, grazie al rapporto di amicizia stretto tra Maniero e il figlio di Franjo Tudjman, destinato poi a diventare il presidente della repubblica croata. Durante il processo, che si aprì il 27 novembre 1993 nell'aula bunker di Mestre e che vide alla sbarra Maniero insieme ad altri 109 imputati, fu ricostruito l'intero percorso criminale della mala del Brenta e furono circostanziate accuse pesantissime: dagli omicidi alle rapine, dalle estorsioni e l'usura al riciclaggio, dal traffico di eroina ai sequestri di persona, per finire con l'accusa più grave, e per certi versi esaustiva, di associazione mafiosa. Le condanne nei confronti dei membri della mafia del Brenta furono esemplari e l'organizzazione fu spazzata via, grazie soprattutto alle rivelazioni di Maniero che fece arrestare più di trecento persone.
Anni Ottanta - Novanta: Verona, la "Bangkok italiana". Dagli inizi degli anni Ottanta oggetto di attenzioni criminali mafiose, nel giro di una quindicina di anni, Verona diventò un punto di snodo dei traffici di droga così cruciale da conquistarsi il triste soprannome di "Bangkok d'Italia". A rendere la città scaligera una piazza strategica per il circuito del narcotraffico europeo contribuì in primo luogo la sua posizione geografica nevralgica, perché centrale lungo le rotte dell'est, del Mediterraneo e del nord Europa; in secondo luogo furono rilevanti gli accordi stipulati tra le mafie italiane e le associazioni criminali mediorientali, su tutte la mafia turca, per il passaggio attraverso gli stessi canali, oltre che della droga, anche di armi leggere e pesanti, di componenti per la fabbricazione di ordigni nucleari e di segreti dell'industria bellica. All'interno di questo patto trovarono spazio numerosi soggetti, in gran numero incensurati e insospettabili, che, singoli o associati con altri criminali, si dedicarono allo spaccio al minuto dell'eroina turca, dell'hascisc e della cocaina colombiana che le organizzazioni siciliane, campane e calabresi fornivano loro, disinteressandosi completamente delle modalità di organizzazione del traffico e ritagliandosi invece ampi margini di utili. Questo scenario davvero inquietante venne alla luce quando, dopo molti mesi di minuziose indagini, in data 14 giugno 1994, scattò a Verona, e contemporaneamente negli altri capoluoghi veneti e in tutta Italia, una vasta operazione delle forze dell'ordine che portò all'esecuzione di 183 mandati di cattura, di cui 66 in carcere. L'operazione "Arena", che scompaginò le fila di questa rete di narcotrafficanti, fu possibile grazie allo sviluppo delle intuizioni investigative che furono alla base della famosa indagine avviata un decennio prima da Carlo Palermo, giudice istruttore di Trento, il quale, nello svelare i meccanismi e i retroscena degli scambi tra droga ed armi, individuò Verona tra le città coinvolte nel traffico.
Anni duemila fino a tutt’oggi. Dalla mafia autoctona al gemellaggio con quella d'importazione. La criminalità organizzata in Veneto sta diventando la nuova Banca di riferimento. “Per gli imprenditori in crisi di liquidità chiunque porti soldi è ben accetto, anche il camorrista o l’affiliato alla ‘ndrangheta, che diventa l’ultima speranza prima del suicidio”. E di suicidi per crisi il Veneto se ne intende, vista la decina di casi degli ultimi sei mesi. Le parole sono di Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia chiusa a Venezia. E stando alle relazioni presentate dai prefetti, che riportano indagini svolte dai carabinieri dei comandi provinciali, Ros e Dia, emerge uno ‘spaccato’ in cui lentamente sembra farsi largo sempre più la ‘ndrangheta a ovest e la Camorra ad est della regione. La criminalità calabrese “striscia silente e senza far rumore – dice il colonnello Sergio Raffa, comandante regionale della Direzione investigativa antimafia – è difficile scoprirla perché allaccia rapporti con le imprese locali e molto lentamente le svuota, se ne appropria”. La mappa segnata dalle relazioni è quello di un “quadrilatero” che collega Verona, Vicenza, Modena e Reggio Emilia. Stando alle elaborazioni delle forze dell’ordine presentate in commissione emerge a Verona un gran numero di pregiudicati calabresi affiliati alle cosche. Una presenza che ‘interagisce’ marcando a fondo la società e l’economia. Un dato rilevante è stato portato a conoscenza della commissione: le cosche che si fanno la guerra al sud, in Veneto creano una sorta di alleanza. La ‘ndrangheta è particolarmente attiva nel settore del ciclo del cemento, e, stando alle relazioni, le varie aziende ‘contigue’ alle famiglie calabresi che in terra d’origine si combattono a suon di spari, nel veronese e nel vicentino cooperano insieme, perchè l’obiettivo è far girare i soldi. E così l’ovest del Veneto appare come una piccola Calabria in miniatura, in cui c’è spazio per tutti e dove si pulisce il denaro che viene dalla droga. Si ripropongono così i Dragone e i Grande Aracri di Cutro, gli Anello-Fiumana di Filadelfia, i Vrenna-Ciampà Bonaventura di Crotone, i Papalia-Italiano di Delianuova, i Morabito-Pangallo-Marte di Africo Nuovo, i Bellocco di Rosarno i Piromalli-Molè di Gioia Tauro. E proprio a quest’ultima cosca la Guardia di Finanza Calabrese ha inferto un duro colpo. Nel giugno del 2011 si è chiusa l’indagine ‘Panama’ contro il narcotraffico, la procura antimafia di Reggio Calabria emette 18 ordinanze di custodia cautelare in carcere: tre di queste persone, calabresi di origine, sono residenti a Sommacampagna, Bussolengo e Peschiera (Verona). Un mese dopo la Dia veneta sequestra 3milioni di euro a Domenico Multari, detto ‘Gheddafi’, originario di Cutro e affiliato ai Dragone. Il calabrese è residente a Zimella, sempre nel veronese, e in sette anni di ‘soggiorno’ al nord aveva dichiarato 40mila euro di reddito, mentre viveva in una villa con un sistema di sorveglianza di ultima generazione. L’allarme sulle infiltrazioni criminali in Veneto lo aveva dato anche il Ministro per il Rapporti con il Parlamento Piero Giarda due giorni fa, rispondendo in aula al question time del parlamentare padovano del pd Alessandro Naccarato. Il caso sollevato è quello del fallimento della società Edilbasso, leader dell’edilizia nel padovano. Naccarato ha espresso “particolari perplessità” riguardo al fatto che nella società Faber, che tiene in piedi il ramo ‘sano’ della Edilbasso al fine di pagare i creditori, sono coinvolte persone che hanno avuto ruoli importanti nell’inchiesta “Tenacia” sulla ditta lombarda Perego Strade srl, e che ha consentito l’arresto di Salvatore Strangio, poi condannato in primo grado a Milano a 12 anni per associazione mafiosa. L’anello di congiunzione tra quell’inchiesta e le vicende della ditta padovana si chiama Giovanni Barone, consulente finanziario di 43 anni, romano di nascita e calabrese di adozione, che della Perego strade fu il liquidatore e che per qualche mese ha avuto il 65% delle quote della Faber. Ora nella compagine societaria della Faber appare con il 10% un’altra persona legata alla Perego, ovvero Adriano Cecchi, che della Perego è stato sindaco della società in liquidazione. Cecchi e Barone non sono indagati, ma di Barone il gip milanese scrisse: “Barone è il soggetto, talvolta discusso e contestato da parte dei calabresi tagliati fuori dalla gestione diretta di Perego, al quale viene affidata la sistemazione delle società decotte”. Il consulente finanziario ha precedenti di polizia per reati contro la pubblica amministrazione, resistenza e violenza, falso in genere, falsa attestazione, omessa custodia di armi. “Il fronte della guerra alla criminalità organizzata si è spostato al Nord – commenta Maino Marchi, membro della commissione parlamentare e presente a Venezia – e il Veneto è un terreno florido per la criminalità che ha soldi da investire, solo adesso il Parlamento sta procedendo al recepimento della normativa europea sui tempi certi di pagamento, il rischio è che questa regione si svegli tra vent’anni e si ritrovi come la Lombardia e la Liguria”. Nel frattempo, assieme alla ‘ndrangheta che si insinua, ci sono inchieste già note alle cronache e che riguardano invece napoletani vicini alla Camorra. Come svela l’inchiesta “Serpe”, un’associazione di stampo mafioso dedita all’usura smantellata dai carabinieri e dalla Dia nel 2011, che faceva capo ad una società padovana del campano Mario Crisci, che avrebbe prestato denaro ad usura, con tassi fino al 180%. Vittime i piccoli imprenditori, albergatori o gestori di chioschi, minacciati anche con armi. Una quota degli utili, come ricostruito dal pm Roberto Terzo, andava a Casal di Principe. 23 gli imputati ammessi al rito abbreviato. E poi ancora l’operazione Manleva dei carabinieri con i fratelli napoletani Catapano a spolpare le aziende in crisi del padovano. Camorra e ‘ndrangheta non sono più un tabù per il Veneto, ora che c’è bisogno di soldi, e ora che le banche chiudono le borse, gli imprenditori del Nordest hanno trovato una pericolosa strada per rimanere in vita. Almeno finchè i boss glielo consentiranno.
MAGISTROPOLI IN VENETO
VIAGGIO TRA I TRIBUNALI PIU’ CORROTTI D’ITALIA
L'impunità, di cui sotto qualsiasi governo continuano a godere i magistrati corrotti e il silenzio di regime che avvolge gli abusi giudiziari, nei confronti dei soggetti più deboli, ci ha portato ad intraprendere questo viaggio attraverso i Tribunali italiani, partendo dalla città di Treviso, punta dello sviluppo economico del ricco nord-est, allo scopo di renderne pubbliche le malefatte e il vuoto di giustizia che incontrano i cittadini inermi che fiduciosamente si rivolgono all'istituzione giudiziaria.
TREVISO 5 MAGGIO 2008 - Treviso è protagonista di una clamorosa censura mediatica. Da oltre un mese una quarantina di inermi cittadini, vittime di abusi giudiziari, manifesta inascoltatamente, tutti i giorni, la propria indignazione, davanti al Tribunale, con cartelli e volantini, senza che nessun giornale o emittente, anche locali, ne abbia dato notizia. Trattandosi di casi, spesso clamorosi, il totale silenzio mediatico che, omertosamente avvolge la tenace protesta di un gruppo di cittadini trevigiani, nei confronti della magistratura locale, ci appare degno di essere denunciato e portato a conoscenza della rete, affinché si vergognino i giudici del loro operato, ma anche i giornalisti del loro silenzio.
Lo scorso aprile, dalle pagine web di questo giornale, avevamo già narrato a sommi capi alcuni casi di estorsioni legalizzate dalla magistratura milanese e trevigiana, con la compiacenza delle Procure di Brescia, Trento, Venezia, Bologna, Trieste, nonché del Ministero di Giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura che, a differenza dei casi Mastella/De Magistris e D'Alema/Forleo, sono rimasti, sinora, del tutto inerti, anche a fronte di macroscopici delitti contro l'Amministrazione della giustizia, commessi nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, da parte dei magistrati denunciati dalle colonne di questa rivista on line ("Da Milano a Brescia Giustizia alla rovescia! Da Brescia a Trento solo una parola al vento" - Cfr. n. 1/07).
Fatti taciuti dalla stampa di regime, in quanto talmente scomodi agli interessi di ogni schieramento politico, da essere sistematicamente censurati, nel timore che i lettori, i quali al tempo stesso sono elettori, comprendano come stiano effettivamente le cose e che nessun partito ha veramente a cuore la giustizia, né di affermare in concreto il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Spiegavamo, infatti, trattarsi di un vasto sistema di malaffare, profondamente radicato nel tessuto istituzionale, e congenito al funzionamento delle istituzioni e dell'economia di mercato, in grado di produrre un vertiginoso flusso di finanziamenti illeciti, clientelismo, voto di scambio e garanzie di impunità, dove gli interessi di politica, imprenditoria, informazione, mafia, criminalità organizzata, giustizia e, financo, di chiese e organizzazioni antimafia, si fondono con gli interessi dei cosiddetti "poteri forti economico-finanziari", dietro cui si cela la lunga manus delle logge massoniche che controllano capillarmente il territorio e i gangli vitali dei centri istituzionali.
In tale contesto, il "principio di intangibilità" degli affiliati alle consorterie affaristico-giudiziarie si contrappone a quello di "uguaglianza di fronte alla legge", per cui accade che alla certezza del diritto si sovrapponga e prevalga la prassi della discrezionalità, tipica delle dittature; prassi da cui genera il fenomeno dell'illegalità giudiziaria e l'insanabile piaga sociale della malagiustizia.
Come potrete leggere dai casi raccolti nel nostro viaggio attraverso i Tribunali italiani, la giustizia funziona alla rovescia in qualsiasi parte d'Italia, dove i rappresentanti dei poteri forti e delle logge massomafiose che controllano il territorio, fanno da padroni nelle aule di giustizia e riescono quasi sempre a farla franca, con il compiacente avvallo degli organi di controllo della magistratura e dei Palazzi romani, come avevano invano denunciato sin dagli anni novanta, ancor prima del Gip Caterina Forleo e del P.M. Luigi De Magistris, alcuni tra i migliori magistrati antimafia, tra cui Salvo Boemi, Roberto Pennisi, Agostino Cordova, Alberto Di Pisa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri, minacciati di morte, messi a tacere e delegittimati dagli stessi rappresentanti di quei poteri occulti che avevano inascoltatamente denunciato...
Primario condannato per morte bimba
Treviso,25 gen. 2008 - scompensi creati da anestesia
E' stato condannato con rito abbreviato a sei mesi di reclusione il primario dell'ospedale di Castelfranco Veneto (Treviso), accusato di omicidio colposo per la morte di una bambina di due anni avvenuta nell'agosto 2006, durante un esame diagnostico. Alla piccola era stata somministrato dell'anestetico in forma gassosa che però avrebbe indotto scompensi così pesanti da non consentire ai medici di rianimarla e di evitarne la morte.
La bambina, sofferente di una malattia scheletrica congenita, stava per essere sottoposta ad una Tac e per questo era stata sedata.
Secondo il pm Iuri De Biasi, che aveva chiesto una condanna a 18 mesi per Giorgio Zanardo, il medico si sarebbe reso responsabile di ''aver programmato l'intervento in un ambiente non sufficientemente garantito in caso di complicanze su un soggetto a rischio'' e di aver sottoposto la piccola paziente ad ''un'anestesia non prevista''.
http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo397803.shtml